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venerdì 31 agosto 2018

La chiesa della Vergine del Faro, Costantinopoli

La chiesa della Vergine del Faro, Costantinopoli

Compare nelle fonti scritte per la prima volta nel 768, in relazione al fidanzamento di Leone IV con Irene l'Ateniese che vi fu celebrato, e fu fatta costruire probabilmente da Costantino V (741-775). Michele III (842-867), dopo la fine dell'Iconoclastia, la fece restaurare e ridecorare in maniera sontuosa. Fu quindi nuovamente consacrata nell'864.
In questa chiesa, la notte di Natale dell'820, mentre cantava gli inni isieme ai monaci, fu assassinato l'imperatore Leone V. Ed è molto probabilmente questa la chiesa molto ricca che si trovava all'interno del Palazzo (Goffredo di Villehardouin, De la Conquête de Constantinople) in cui il 9 maggio del 1204 avvenne l'elezione del primo imperatore latino, Baldovino di Fiandre (1204-1205).
La chiesa fu saccheggiata e devastata durante l'occupazione latina e molto presumibilmente mai più rimessa in funzione giacchè, dopo questa data, scompare completamente dalle fonti. Non sono state trovate le sue rovine e la sua posizione può essere presunta soltanto in base ad indicazioni reperibili nelle fonti scritte.
La chiesa si trovava probabilmente in quella parte del Gran Palazzo a cui i latini fanno riferimento con il nome di Palazzo Bucoleone, su un alto terrazzamento in prossimità del faro. Era fiancheggiata da due cappelle, una dedicata ai santi Elia e Clemente, fatta edificare da Basilio I (867-886), e l'altra a San Demetrio, fatta edificare da Leone VI (886-912) con cui comunicava per mezzo di una porta.

La chiesa della Vergine del Faro è contrassegnata nella pianta dal n.38, al n.37 corrisponde la cappella di San Demetrio ed al n.39 quella dei santi Elia e Clemente. Il faro è contrassegnato dal n.42   

La decima omelia del patriarca Fozio (858-867 e 877-886), tenuta nell'864 in occasione della sua riconsacrazione, contiene una dettagliata descrizione della chiesa.
Aveva una pianta a croce greca inscritta e presentava tre navate sopravanzate da nartece e terminate ad est da tre absidi, con una cupola impostata su quattro colonne. Doveva essere di dimensioni piuttosto ridotte (Antonio di Novgorod, Libro del pellegrino) ed era preceduta da un atrio.
La sua caratteristica principale era la magnificenza delle sue decorazioni.
Era così ricca e nobile che non c'era cardine o modanatura o qualsiasi altro particolare che non fosse di argento massiccio, e non c'era colonna che che non fosse di diaspro o di porfido o di qualche altra smagliante pietra preziosa (Rober de Clari, La Conquête de Constantinople).

Il programma iconografico: si trattava del primo programma iconografico realizzato dopo la fine del periodo iconoclasta. Nella cupola era raffigurato a mosaico il Cristo Pantokrator al di sotto del quale Fozio descrive delle schiere di angeli mentre nel catino absidale si trovava la Vergine in posizione di orante.

Dall'864 fino al 1204 fu il luogo di raccolta delle più importanti reliquie della Cristianità. Al disprezzo per le reliquie che caratterizzò il periodo iconoclasta, fece infatti seguito una intensa opera di recupero delle stesse soprattutto nei territori occupati dai miscredenti. Opera di raccolta che fu sostenuta in particolare dalla dinastia macedone (867-1056) che intraprese numerose e spesso vittoriose guerre ai confini orientali dell'impero.
Nella chiesa della Vergine del Faro furono depositate soprattutto le reliquie legate alla Passione di Cristo. Nel 1200 c.ca Nicola Mesarites (1), all'epoca skeuophylakion (custode degli arredi) della chiesa, poteva compilare un decalogo delle più importanti dieci reliquie della Passione ivi conservate che risultava così composto:
1. La corona di spine
2. Un chiodo della crocefissione
3. Il sudario di Cristo
4. I sandali di Cristo
5. Un frammento della pietra tombale
6. La tovaglia di lino usata dal Cristo per asciugare i piedi degli apostoli dopo la Lavanda
7. La sacra lancia di Longino
8. Il manto di porpora che i soldati romani fecero indossare a Gesù.
9. La canna che posero nella sua mano destra a mò di scettro
10. I ceppi con cui fu incatenato.


Note:

(1) Nato probabilmente nel 1163-1164 da una famiglia dell'aristrocrazia costantinopolitana, Nicola Mesarites compare per la prima volta nel 1200, durante il fallito golpe di Giovanni Auxuch Comneno detto il Grosso ai danni di Alessio III Angelo, di cui ci ha lasciato una testimonianza diretta giacchè il suo ruolo di skeuophylakion della chiesa palatina della Vergine del Faro gli conferiva un punto d'osservazione privilegiato degli eventi. Oltre all'elenco delle reliquie della Passione ivi contenute e alla narrazione del tentato golpe, nel periodo in cui ricoprì questa carica compose anche un'ecfrasi della chiesa dei Santi Apostoli – scritta probabilmente tra il 1198 ed il 1203 su esortazione del patriarca Giovanni X Camatero - che costituisce a tutt'oggi una delle fonti principali per ricostruirne l'aspetto.
Dopo la presa di Costantinopoli ad opera dei crociati(1204), Mesarite rimase inizialmente in città divenendo uno dei portavoce della popolazione greco-ortodossa. In questa veste nel 1206, assieme al fratello Giovanni, partecipò a un incontro tra il clero ortodosso e le nuove autorità latine, rappresentate dal Patriarca Latino di Costantinopoli, il veneziano Tommaso Morosini e dal legato papale, il cardinale di Santa Susanna Benedetto.
Dopo la morte del fratello (1207) lasciò Costantinopoli per raggiungere l'Impero niceno dove intorno al 1213 fu nominato metropolita di Efeso ed esarca della chiesa d'Asia. In virtù della sua carica nel 1214-1215 fu a capo di una delegazione inviata a Costantinopoli per trovare un accordo con il nuovo legato papale, il cardinale Pelagio Galvani.
Nel 1216 officiò le nozze tra la figlia maggiore dell'imperatore niceno Teodoro I Laskaris, Irene, e Andronico Paleologo. Non è nota la sua data di morte.


lunedì 20 agosto 2018

La Chalke, Costantinopoli

La Chalke, Costantinopoli

La Chalke (Χαλκῆ Πύλη= porta di bronzo) costituiva l'accesso monumentale al Gran Palazzo imperiale dallo spiazzo dell'Augusteion (1). Prendeva il nome dagli imponenti battenti bronzei fatti realizzare dall'architetto Eterio per volere dell'imperatore Anastasio I (491-518), sotto il cui regno venne costruita la prima versione della porta (2). Veniva aperta al levar del sole alle persone invitate dall’imperatore e si richiudeva dietro di loro al tramonto.
Prospetto e pianta ipotetici della Chalke

Gravemente danneggiata durante la rivolta di Nika (532), fu fatta restaurare da Giustiniano.
Nella nuova versione – minuziosamente descrittaci da Procopio nel De Aedificiis – la Chalke appariva come un edificio a pianta rettangolare eretto su quattro massicci pilastri e coronato da una cupola impostata su pennacchi che poggiavano su quattro volte a botte poco profonde. Presentava quindi anch'essa quell'impianto a croce greca inscritta caratteristico di tutta l'architettura giustinianea.
L'interno era rivestito da marmi policromi pregiati fino al livello della cornice, al di sopra della quale tutte le superfici curve erano decorate da mosaici che raffiguravano scene dei trionfi ottenuti da Belisario nelle campagne d'Africa e d'Italia. Giustiniano e Teodora, in una posizione centrale, circondati da alti ufficiali dell'esercito, erano rappresentati nell'atto di ricevere dal condottiero vincitore le terre riconquistate ed il bottino di guerra.

Ricostruzione virtuale

E' opinione concorde tra gli studiosi che una riproduzione piuttosto fedele della Chalke si trovi nel cosiddetto avorio di Treviri (vedi scheda), la cui datazione oscilla tra la fine del VII ed il IX secolo.

L'avorio di Treviri, particolare della Chalke

 
Il Cristo Chalkites

All'esterno, nella lunetta sovrastante l'ingresso, venne successivamente collocata una statua bronzea del Cristo a mezzo busto (3). Quest'immagine, che venne riprodotta innumerevoli volte sulle icone, divenne nota con il nome di Cristo Chalkites.
Nel 726, in piena temperie iconoclasta, l'imperatore Leone III ne ordinò la rimozione scatenando la rivolta del popolino della capitale, in cui trovarono la morte sia il funzionario incaricato di rimuovere la statua, sia Santa Teodosia che aveva guidato la protesta popolare. Ripristinata in situ durante il regno di Irene (780-802), la statua venne nuovamente rimossa e sostituita con una croce sotto un'altro imperatore iconoclasta, Leone V (813-820). Dopo il definitivo ripristino del culto delle immagini (843), venne rimpiazzata con un'immagine del Cristo a figura intera e infine - probabilmente durante il regno di Romano I Lecapeno (920-944) - da un'immagine del Cristo realizzata a mosaico (4).

 
Accanto a questa immagine del Cristo, che compare nel mosaico raffigurante una Deesis nell'endonartece della chiesa del Salvatore in chora e che risale al 1316, era un tempo leggibile la didascalia Cristo Chalkites (oggi rimangono tracce soltanto dell'epiteto Chalkites). Dovrebbe quindi trattarsi di una riproduzione dell'mmagine realizzata a mosaico nella lunetta sovrastante l'ingresso della Chalke.
 
Il Trionfo dell'ortodossia (particolare), icona lignea della fine del XIV secolo
British Museum, Londra
 
Nell'icona conservata presso il British Museum, Santa Teodosia tiene in mano un'icona che molto probabilmente riproduce anch'essa l'immagine del Cristo Chalkites alla cui rimozione la Santa cercò di opporsi (vedi scheda La questione iconoclasta).
 
La chiesa del Cristo Chalkites
 
Romano I Lecapeno fece anche costruire accanto alla Chalke una piccola cappella (poteva accogliere appena 15 persone) dedicata al Cristo Chalkites. Nel 972 questa fu completamente ristrutturata ed ampliata da Giovanni I Zimisce (969-976) che vi fece depositare alcune reliquie (tra cui i sandali di Cristo e i capelli di San Giovanni Battista) e costruire la tomba dove venne poi tumulato.
Il nuovo edificio, a pianta centrale, si sviluppava su due piani ed era ricoperto da una cupola centrale. Il piano superiore era fiancheggiato da due semicupole ed era preceduto da una terrazza. L'intero edificio poggiava inoltre su un podio sul modello degli antichi mausolei funebri.
Nel 1183 in questa chiesa fu incoronato coimperatore (associato al giovane Alessio II) Andronico I Comneno.
Dal resoconto di viaggio di un pellegrino russo sembra ancora in uso nella prima metà del XV secolo.
Dopo la conquista il primo piano venne adibito a serraglio per gli animali selvaggi destinati alla corte del Sultano, da cui il nome di Arslan (leoni) hane con cui divenne conosciuto. Al piano superiore, dove furono murate le finestre che vi si aprivano, vennero invece alloggiati i frescanti e i miniaturisti al servizio del Sultano e prese il nome di Nakkaş hane. Gravemente danneggiata da un incendio nel 1741 e successivamente nel 1802, venne definitivamente demolita nel 1804.
 

In questa miniatura - realizzata dal miniaturista ottomano Maktraci Nasuh nel 1536 - la chiesa del Cristo Chalkites (in ocra e rosso) è riprodotta tra l'Ippodromo e Santa Sofia.
 
Nel VII e VIII secolo la Chalke o sue dirette dipendenze vennero utilizzate come prigione. Sotto Basilio I (867-886) fu invece restaurata e adibita a sede di tribunale.
Quando nel 969 Niceforo II Foca fece erigere un muro tra l'Ippodromo ed il mar di Marmara che isolava la parte bassa del Gran Palazzo da quella alta, la Chalke perse la sua funzione di ingresso monumentale. Durante il primo periodo di regno di Isacco II Angelo (1185-1195) furono asportate e fuse le magnifice porte bronzee mentre ogni riferimento alla Chalke scompare dalle fonti scritte dopo il 1200.

Note:

(1) Secondo alcuni studiosi la Chalke prospettava direttamente sul lato meridionale dell'Augusteion, sul cui lato occidentale terminava la mese (Fig. A, contrassegnata dal n.7).


Fig. A
 
Secondo altri invece la mese - che era fiancheggiata da due colonnati lungo tutto il suo percorso - terminava invece dinanzi alla Chalke che collocano immediatamente all'esterno dell'Augusteion e ruotata di 90° rispetto all'ipotesi precedente (Fig. B)
 
Fig. B
 
(2) Secondo altri, il nome deriverebbe invece dalle tegole bronzee che ne costituivano la copertura.
 
(3) Procopio non menziona questa statua. L'ipotesi attualmente ritenuta più probabile è che questa vi sia stata collocata durante il regno di Giustiniano II (685-695 e 704-711).

(4) Alcuni studiosi (cfr. C.Mango, The Brazen House; a study of the vestibule of the imperial palace of Constantinople, Copenhagen, 1959, pp. 125-126) attribuiscono un ruolo nella realizzazzione dell'immagine dell'843 a San Lazzaro Zographos, il monaco pittore, martire della repressione iconoclasta, a cui erano state bruciate le mani.




martedì 14 agosto 2018

L'arco di Gallieno, Roma

L'arco di Gallieno, Roma

Si trova in via di san Vito e si tratta in realtà del fornice centrale della monumentalizzazione, voluta da Augusto, dell'antica Porta Esquilina che si apriva nella cinta muraria serviana. Dal Foro saliva verso la porta il clivus Suburanus (noto anche come via delle prostitute) che attraversava il popoloso quartiere della Subura sviluppatosi proprio sotto Augusto. Dalla Porta Esquilina partiva invece la via Labicana.


La porta a tre fornici – il centrale dei quali più alto e più ampio dei laterali - realizzata in blocchi di tufo, fu interamente ricostruita in travertino sotto Augusto; le facciate erano scandite da paraste corinzie.
Nel 262 la porta fu trasformata in arco trionfale e dedicata dal prefetto dell'Urbe, Marco Aurelio Vittore, all'imperatore Gallieno (253-268) e alla moglie Cornelia Salonina.
Il fregio originario fu abbassato di qualche centimetro, fu modificata la modanatura della cornice superiore e fu inserita una dedica all'imperatore ed alla moglie su entrambe le facciate dell'arco:

GALLIENO CLEMENTISSIMO PRINCIPI CVIVS INVICTA VIRTVS SOLA PIETATE SVPERATA EST ET SALONINAE SANCTISSIMAE AVG
AVRELIVS VICTOR V[IR] E[GREGIUS] DICATISSIMVS NVMINI MAIESTATIQVE EORVM
(A Gallieno, clementissimo principe, il valore invitto del quale fu superato solo dalla sua religiosità, e a Salonina, virtuosissima Augusta Aurelio Vittore, uomo egregio, devotissimo agli dei e alle loro maestà).
 

L'imperatore doveva passare attraverso questa porta per raggiungere la villa di famiglia, gli Horti Liciniani, tale dedica dovette quindi sembrare al devoto prefetto quanto mai opportuna.

I due fornici laterali furono demoliti nel 1447 per far posto alla chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia (una chiesa del IV secolo che papa Sisto IV fece completamente ristrutturare ed ampliare) e che venne addossata al fornice superstite. Sul lato opposto è invece addossato un edificio privato.
Dai rilievi messi in luce dal restauro del 1995 si è potuto stabilire che l'arco era interamente intonacato e dipinto a giustificare la sua denominazione in epoca medioevale di arcus pictus.


Sono emerse anche tracce dell'attico che, all'epoca del rifacimento augusteo, doveva sormontare il fornice centrale e su cui scorreva un'iscrizione oggi completamente perduta. Originariamente, quindi, l'arco non doveva apparire troppo dissimile dall'interpretazione datane da Giuliano da Sangallo in questo disegno.

Antonio da Sangallo, L'Arco di Gallieno, XV sec.

Nel 1200 furono appese alla chiave di volta dell'arco le catene e le chiavi della Porta Salicicchia di Viterbo (oggi Porta di San Pietro) - che compaiono anche nel disegno di Sangallo - che i viterbesi furrono costretti a consegnare in segno di sottomissione dopo la grave sconfitta inflitta loro dalle milizie capitoline. Furono rimosse soltanto nel 1825.

domenica 12 agosto 2018

La piscina di via Cesare Baronio a Roma

La piscina di via Cesare Baronio a Roma


Questa piscina rappresentava un elemento decorativo e monumentale di una villa di età imperiale (I-II secolo) che si estendeva lungo la via Latina all'altezza del II miglio. Resti di una villa corrispondente a queste caratteristiche, dotata di impianti di approvvigionamento idrico e riscaldamento, venne rinvenuta alla fine del XIX secolo nei pressi delle attuali via Omodeo e via Luzio. Da alcune iscrizioni presenti sulle condutture idriche in piombo (fistulae aquariae) si è ipotizzato che la villa sia appartenuta al senatore Quinto Vibio Crispo (1) e successivamente al senatore Tito Avidio Quieto (2).
 
Ipotesi di ricostruzione
 
La vasca, a pianta rettangolare, è conservata per una lunghezza di 26 m. (originariamente misurava 42x18.50) ha in un angolo gli scalini per scendere all'interno, e nell'angolo opposto un pozzo per lo scarico dell'acqua. Le pareti sono in opus signinum, un conglomerato formato da scaglie di selce impastate nella calce magra ben allettata, caratteristico delle cisterne romane. Sono presenti anche tracce dell'intonaco di rivestimento in cocciopesto mentre la superficie di rifinitura è fatta con polvere di marmo.

Resti della fontana centrale

Al centro, quasi intatta, si vede la fontana, l'interno della quale è percorso da una serie di canalette in terracotta e da cunicoli e cavità comunicanti tra loro. Oltre ad una funzione ornamentale – la piscina prospettava sulla via Latina da cui dista solo pochi metri - è stata avanzata l'ipotesi che la piscina svolgesse anche la funzione di allevamento di pesci d'acqua dolce che, nei recessi sopra descritti – protetti dal sole e da sbalzi di temperatura – avrebbero trovato un luogo idoneo dove depositare le uova.

Particolare della muratura

Non è invece ben chiaro da dove provenisse l'acqua per rifornire l'impianto, giacchè l'unico acquedotto che passava da queste parti, l'acquedotto Antoniniano, fu costruito soltanto nel 212-213 (3).


Note:
(1) Quinto Vibio Crispo fu un senatore romano originario di Vercelli, vissuto nel I secolo, celebre per le sue ricchezze e la sua eloquenza. Ricoprì tre volte la carica di console, la prima in un anno imprecisato durante il regno di Nerone (54-68), la seconda nel 74 sotto Vespasiano e la terza nell'82 o 83 sotto Domiziano. Nel 68 fu nominato curator aquarum (supervisore degli acquedotti) a Roma e nel 71-72 Vespasiano, di cui fu buon amico, lo nominò proconsole della provincia d'Africa e in seguito governatore della Hispania Tarraconensis. Morì intorno al 90.
(2) Probabilmente originario di Faventia (l'odierna Faenza), Tito Avidio Quieto ricoprì la carica consolare nel 93 e quella di governatore della Britannia romana nel 98 circa. Morì nel 107.
(3) vedi scheda Porta Appia nota 1.



martedì 7 agosto 2018

San Lazzaro Zographos

San Lazzaro Zographos

San Lazzaro zographos (il pittore) – ma è noto anche come l'iconografo – nacque in Armenia nell'810. Monacatosi in giovane età, apprese l'arte della pittura molto probabilmente nel monastero costantinopolitano di Studion, divenendo rapidamente famoso per la qualità delle sue realizzazioni. Durante il regno di Teofilo (829-842) – un convinto iconoclasta – Lazzaro continuò imperterrito la sua attività pittorica, mettendosi anche a restaurare le icone sfigurate per ordine dell'imperatore. Dopo aver disatteso numerose volte alle ripetute ingiunzioni di interrompere la sua attività, Lazzaro venne infine condotto al cospetto dell'imperatore, alla cui richiesta di distruggere le immagini che aveva dipinto oppose un netto rifiuto. Fu quindi gettato in prigione e sottoposto ad atroci torture. Rilasciato, ricominciò subito a dipingere icone. L'imperatore lo fece nuovamente imprigionare e, considerata la sua notorietà, volle punirlo in maniera esemplare perchè fosse di monito a tutti gli iconoduli: le palme delle mani gli furono bruciate fino all'osso apponendovi due ferri di cavallo arroventati.
 
Domenico Morelli, Gli Iconoclasti, 1855,
 Museo di Capodimonte, Napoli 
Nel dipinto è rappresentato l'arresto di San Lazzaro

 
Quando giaceva ormai in fin di vita nella sua cella, l'imperatrice Teodora, segretamente iconodula, convinse il marito a liberarlo. Lo fece quindi trasferire nell'appartato monastero di San Giovanni Prodromo a Phoberon, sulla riva asiatica del Bosforo, dove fu curato recuperando anche in parte l'uso delle mani. Dopo la morte di Teofilo (842), il culto delle immagini fu ripristinato dal sinodo convocato dal nuovo patriarca Metodio I nell'843 in cui l'iconoclastia venne condannata come eresia e Lazzaro potè tornare alla sua attività di pittore alla luce del sole.
Tra le opere che gli sono attribuite c'è un grande affresco di San Giovanni Prodromo realizzato nel monastero omonimo di Phoberon, il restauro dell'immagine del Cristo Chalkites nella lunetta della Chalke rimossa sotto Leone V (813-820) – su cui non c'è concordia tra gli studiosi - e quello dell'abside di Santa Sofia, dove, secondo quanto riportato dal pellegrino russo Antonio di Novgorod – che però visitò Costantinopoli soltanto nel 1200 - realizzò una Vergine con il Bambino (ancora visibile) fiancheggiata da due angeli.

 
Accanto alla figura del Cristo di questa Deesis che si trova nell'endonartece della chiesa del Salvatore in chora e che risale al 1316, era un tempo leggibile la didascalia Cristo Chalkites (oggi rimangono tracce soltanto dell'epiteto Chalkites). Dovrebbe quindi trattarsi di una riproduzione dell'mmagine realizzata a mosaico da San Lazzaro Zographos nella lunetta sovrastante l'ingresso monumentale al Palazzo imperiale (Chalke) nell'843.

Mosaico nell'abside della chiesa di Santa Sofia
Costantinopoli 

Nell'856 fu inviato da Michele III, figlio di Teodora e Teofilo, come ambasciatore presso papa Benedetto III, per ricomporre la divergenza con la chiesa di Roma apertasi con la questione iconoclasta.
Morì nell'867, forse al rientro di un secondo viaggio a Roma, e fu sepolto a Galata nel monastero di Evandro.


mercoledì 1 agosto 2018

L'avorio di Treviri

L'avorio di Treviri

L'avorio di Treviri
museo del Tesoro del Duomo, Treviri

Si tratta della parete laterale di un reliquiario, probabilmente destinato ad accogliere la reliquia del braccio destro di Santo Stefano protomartire, realizzato a Costantinopoli e proveniente dalla chiesa dedicata al santo che è raffigurata nella composizione.
Nell'avorio è rappresentato il cerimoniale dell'adventus, l'ingresso trionfale in città riservato all'imperatore ma anche ad alti prelati o alle sacre reliquie come sembra questo il caso.
Parte prominente dell'adventus è la synantesis, il gioioso incontro della popolazione salmodiante e acclamante con il corteo trionfale alle porte della città. A questa fase, nel caso delle reliquie, segue la propompe, la processione all'interno della città con cui vengono portate nel luogo dove saranno custodite. La terza e conclusiva fase del cerimoniale (apothesis o katathesis) consiste nella deposizione delle reliquie all'interno della chiesa deputata.
La fase del cerimoniale raffigurata nell'avorio sembra essere quella della propompe. Il corteo si trova infatti all'interno della città e le reliquie, affidate alla custodia di due vescovi (in dalmatica e omophorion) procedono su un carro tirato da una coppia di muli, davanti a cui incedono quattro chlamydati che tengono in mano un cero, nel primo dei quali è riconoscibile un imperatore.
La chiesa che accoglierà le reliquie – a pianta basilicale, con abside aggettante e paraekklesion – appare ancora da ultimare, come si evince dagli operai affaccendati sul tetto. Davanti all'ingresso è in attesa una donna che, a giudicare dall'abbigliamento, è un'imperatrice e tende la destra per ricevere le reliquie mentre nella sinistra tiene una croce, probabilmente un attributo del cerimoniale.
A dispetto delle sue dimensioni ridotte, questa figura è al centro della composizione, catalizzando gli sguardi e l'attenzione degli astanti. Ciò fa pensare che sia stata lei la promotrice della traslazione delle reliquie nonché la fondatrice della chiesa.
Lo sfondo è occupato da una costruzione a tre ordini di arcate (1), al cui interno si dispongono personaggi esclusivamente maschili. I nove che occupano il secondo ordine, che hanno nella destra un incensiere e tengono la sinistra accostata all'orecchio, sembrano cantare o acclamare come un solo uomo, guidati da un invisibile direttore e sono quindi probabilmente degli psaltai (cantori professionisti). Nel terzo e nel primo ordine si dispongono numerosi busti maschili molto simili a quelli del secondo ordine.

Particolare della Chalke

Il tetrapylon che si trova all'estrema sinistra della composizione rappresenta quindi la Chalke, il monumentale ingresso al Palazzo Imperiale, sormontato – come almeno dagli inizi del VIII secolo - da un'immagine del Cristo, riconoscibile per il nimbo crociato. Il corteo, che lo ha appena oltrepassato, si trova quindi all'interno del recinto palaziale.

La Chalke, ricostruzione virtuale

In base al seguente passo della Chronographia di Teofane Confessore – uno storico bizantino che scrive nel IX secolo – relativo ad un traslatio di reliquie avvenuta durante il regno di Teodosio II, Kenneth Holum and Gary Vikan (K.G. Holum and G.Vikan, The Trier Ivory, "Adventus" Ceremonial, and the Relics of St.Stephen, Dumbarton Oaks Papers, vol. 33, 1979, pp. 115-133) hanno avanzato l'ipotesi che l'avorio raffiguri un evento storicamente avvenuto (2):

Su insistenza della benedetta Pulcheria, il pio Teodosio inviò una ricca donazione all'arcivescovo di Gerusalemme perchè la distribuisse ai poveri, nonché una croce d'oro tempestata di pietre preziose da erigere sul Golgota. In cambio di questi doni, l'arcivescovo mandò a Costantinopoli, affidandola alla custodia di San Passarione, la reliquia del braccio destro di Santo Stefano Protomartire. La notte in cui il sant'uomo raggiunse Calcedonia, alla benedetta Pulcheria apparve in sogno Santo Stefano che le diceva: “vedi, le tue preghiere sono state ascoltate ed il tuo desiderio esaudito, sono arrivato a Calcedonia. Ed ella si alzò, chiamò il fratello ed insieme andarono adaccogliere le sante reliquie. Accogliendole a palazzo, (Pulcheria) fece costruire una splendida cappella dedicata al santo protomartire ed in quella le depositò (Teofane Confessore, Cronographia).

Secondo i due studiosi la figura femminile al centro della scena andrebbe quindi identificata con Pulcheria, la sorella dell'imperatore Teodosio II, riconoscibile alla testa del corteo, mentre i due vescovi che portano la reliquia del braccio di Santo Stefano sarebbero rispettivamente San Passarione (3) e Atticus che fu arcivescovo di Costantinopoli dal 406 al 425.
La chiesa ancora in costruzione sarebbe quella fatta costruire ad hoc da Pulcheria nel Palazzo di Dafne (la parte più antica del Palazzo Imperiale) e nota appunto come chiesa di Santo Stefano in Dafne, in seguito spesso utilizzata per celebrare i matrimoni degli imperatori.

Pianta del Palazzo di Dafne (ricostruzione).
La chiesa di Santo Stefano Protomartire è contrassegnata dalla lettera d.

Alla luce di questa chiave interpretativa alcuni particolari assumono una nuova luce. L'incensiere che tengono in mano i nove cantori appare come un ulteriore rimando al santo protomartire, spesso raffigurato in abiti diaconali con il turibolo in mano. La croce che impugna l'Augusta rimanda alla cosiddetta croce di Costantino – probabilmente un frammento della Vera Croce riportato a Costantinopoli dalla Terrasanta dalla madre Sant'Elena (4) – che proprio sotto Teodosio II venne trasferita nel Palazzo imperiale e successivamente compare tra le reliquie conservate nella chiesa di Santo Stefano in Dafne.

Pulcheria (?)

La cassetta che portano i due vescovi, inoltre, appare sicuramente più compatibile per le dimensioni con la reliquia di un braccio anziché dell'intero corpo di un santo.
Correggendo di qualche anno Teofane, infine, i due autori datano l'arrivo delle reliquie di Santo Stefano al 421.

Questa interpretazione, tra le molte che sono state avanzate, è oggi ritenuta la più plausibile. Molto più incerta rimane invece la datazione dell'avorio. Si può infatti escludere che sia coevo all'evento
rappresentato. La prima versione della Chalke – sulla cui identificazione tutti gli studiosi concordano - fu infatti costruita durante il regno di Anastasio (491-518) mentre il busto bronzeo del Cristo nella lunetta al di sopra dell'ingresso vi fu istallato soltanto sotto Giustiniano II (685-695 e 704-711), data che costituisce quindi un indiscutibile termine post quem.
Il busto di Cristo venne fatto rimuovere dall'imperatore iconoclasta Leone III nel 726 e venne quindi ripristinato sotto l'imperatrice Irene (780-802). Nuovamente rimossa e sostituita con una croce sotto un altro imperatore iconoclasta, Leone V (813-820), venne rimpiazzata con un'immagine del Cristo a figura intera dopo il definitivo ripristino del culto delle immagini (843) e infine – durante il regno di Romano I Lecapeno (920-944) - dal mosaico che si vede nella ricostruzione (vedi sopra).
Un'ipotesi suggestiva di datazione, fa risalire il manufatto proprio alla committenza dell'imperatrice Irene che, sfruttando una vicenda storica in cui una donna svolgeva una funzione preminente, avrebbe così inteso celebrare la vittoria sull'iconoclastia ed il restauro da lei promosso della chiesa di Sant'Eufemia all'Ippodromo (796). Sotto Costantino V, questa chiesa, nell'imperversare della furia iconoclasta, era stata trasformata in magazzino militare e la cassa con le reliquie della santa gettata nelle acque del Bosforo. Miracolosamente ritrovate da due pescatori, erano state fatte ricollocare da Irene nella chiesa ad ella dedicata che provvide anche a restaurare. Da sottolineare anche il legame di Irene con la chiesa di Santo Stefano in Dafne, dove nel 769 furono celebrate le sue nozze con Leone IV.

Dal 1844 l'avorio fa parte del tesoro della cattedrale di Trevi nel cui museo è attualmente custodito.


Note:

(1) Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di una facciata del Palazzo imperiale o di arcate che racchiudono una corte interna (una sala ipetrale), secondo altri si tratterebbe invece dell'ultimo tratto della mese che terminava alla Chalke e che era fiancheggiata da un porticato a due ordini.

(2) Teofane Confessore scrive però circa 400 anni dopo l'ipotetico evento per cui non cita alcuna fonte né esso ricorre in altre fonti precedenti la Cronographia. Questo lascia non pochi dubbi sulla sua veridicità storica.

(3) Figura di spicco del monachesimo in Palestina nella prima metà del V secolo. E' noto per mezzo della Vita di Eutimio di Cirillo di Scitopoli (VI secolo) in cui è definito chorepiscopos (vescovo rurale, una sorta di vicario che affiancava il vescovo nelle diocesi più estese) e archimandrita.

(4) vedi scheda La leggenda della Vera Croce nella basilica francescana di Arezzo.