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venerdì 27 gennaio 2017

La contea di Tripoli

La contea di Tripoli (1102-1289)


Raimondo IV di Tolosa (1102-1105)
Nel 1102 Raimondo di Tolosa, che ancora non si era creato un proprio feudo in Terrasanta, conquistò la città di Tortosa (l'attuale Tartus in Siria) e negli ultimi mesi del 1103 iniziò l'assedio di Tripoli, costruendo una enorme fortezza sul Monte Pellegrino a poca distanza dalla città (1). Nel 1105, in conseguenza delle ustioni riportate nel corso di un incendio appiccato dagli assediati durante una sortita, Raimondo morì senza aver preso Tripoli.

Armi di Raimondo di Tolosa
 
 
Guglielmo Giordano di Cerdanya (1105-1110)
Nel 1096 aveva seguiti lo zio Raimondo nella Prima crociata. Giunto in Terrasanta si era fatto battezzare nel fiume Giordano assumendone il nome.
Alla morte dello zio, dato che i cugini Bertrando e Alfonso Giordano, erano rientrati nei loro possedimenti Occitani assunse il titolo di conte di Tripoli – sembra per volere dello stesso Raimondo - continuando l'assedio alla città, che capitolò nel 1109. Nel frattempo era giunto a Tripoli Bertrando di Tolosa, il figlio primogenito di Raimondo (2) e quindi legittimo titolare della contea che fu spartita tra i due cugini. Pochi mesi dopo Guglielmo Giordano fu però assassinato da uno dei suoi soldati e Bertrando potè riunificarla sotto il suo comando.

Bertrando di Tolosa (1109-1112)
Sposatosi nel 1095 con Elena di Borgogna, ebbe un solo figlio, Ponzio, che alla sua morte ereditò la contea.

Ponzio di Tripoli (1112-1137)
Successe al padre quando era appena quindicenne.
Nel 1115 sposò Cecilia di Francia, figlia del re Filippo I e rimasta vedova di Tancredi d'Altavilla (3), da cui ebbe tre figli (Raimondo, Filippo e Agnese).
Nel 1118 si riconobbe vassallo del re di Gerusalemme Baldovino II.
Nel 1125 comandò il centro dell'esercito crociato nella vittoriosa battaglia di Azaz contro le forze dell'atabeg di Mossul, nel territorio della contea di Edessa (cfr. scheda Regno di Gerusalemme).
Nel 1131, dopo la morte di Baldovino II, Ponzio si accordò con la figlia di quest'ultimo, Alice di Antiochia, da poco vedova di Boemondo II d'Antiochia, che anelava alla reggenza del principato per la figlia, ancora minorenne, Costanza e non consentì a Folco d'Angiò, nuovo re di Gerusalemme, che voleva assumere la reggenza del principato, di attraversare la contea di Tripoli, costringendolo a raggiungere Antiochia via mare. Per ritorsione, il re successivamente si diresse contro di lui e lo sconfisse nei pressi di Rugia.
Nei primi mesi del 1137, Mahmud atabeg di Damasco invase la contea. Ponzio lo affrontò di fronte al Monte Pellegrino, dove fu sconfitto e messo in fuga; tradito, venne catturato e ucciso. Il figlio primogenito Raimondo, raccolti i superstiti, si ritirò a Tripoli dove succedette al padre.

Raimondo II di Tripoli (1137-1152)
Poco prima di ereditare la contea aveva sposato Hodierna di Gerusalemme, una delle quattro figlie di Baldovino II, che gli diede due figli, Raimondo e Melisende.
Ritenendo i cristiani siriaci responsabili di aver tradito il padre, avviò delle persecuzioni nei loro confronti.
Più tardi l'atabeg di Aleppo e Mossul Zengi assediò la roccaforte di Barin, nel territorio della contea, e Raimondo fu catturato in uno scontro sotto le mura della fortezza. Zengi, preoccupato che agli assediati potessero giungere rinforzi dagli altri stati crociati, negoziò la resa della fortezza in cambio del rilascio di Raimondo.
Nel 1142 Raimondo donò agli Ospitalieri la fortezza che sarebbe divenuta nota come Krak dei Cavalieri e che controllava il passo di Homs che dall'attuale valle della Bekaa conduceva verso la costa, ed altri castelli minori. Il Krak era quindi la punta più avanzata del sistema difensivo della contea di cui da questo momento gli Ospitalieri divennero parte integrante.
Nel 1152, probabilmente in conseguenza di questa sua decisione, cadde in un'imboscata nei pressi di Tripoli sotto il pugnale della setta degli Assassini.

Raimondo III di Tripoli (1152-1187)
Ereditò la contea quando aveva appena dodici anni e governò fino al compimento dei quindici anni sotto la reggenza della madre Hodierna.
Nel 1164 fu catturato da Norandino durante la disastrosa battaglia di Harim (cfr. scheda Il Principato di Antiochia) e condotto ad Aleppo dove rimase prigioniero fino al 1173 quando fu liberato dietro il pagamento di un forte riscatto. Durante la sua prigionia la reggenza fu assunta dal re di Gerusalemme Amalrico I.
Nel 1174 sposò Eschiva de Bures che gli portò in dote il Principato di Galilea e la Signoria di Tiberiade.
Dopo la morte di Amalrico (1174) fu reggente del Regno di Gerusalemme fino al compimento della maggiore età del giovane Baldovino IV (1176).
Il 4 luglio del 1187 fu tra i pochi comandanti crociati a sottrarsi alla cattura nel disastro di Hattin. Al comando dell'avanguardia dell'esercito crociato riuscì a rompere l'accerchiamento con una carica e a ripiegare su Tiro.
Raimondo III morì di pleurite a Tripoli nel settembre dello stesso anno. In assenza di eredi diretti, prima di morire, lasciò la contea al suo figlioccio Raimondo di Poitiers-Antiochia.

Armi dei Poitiers
 
Raimondo IV di Tripoli (1187-1189)
Figlio primogenito di Boemondo III di Poitiers-Antiochia e della sua prima moglie Orguillese d'Harenc, fu indicato da Raimondo III come suo successore prima di morire. Due anni dopo, contravvenendo a questa volontà, il padre lo richiamò ad Antiochia affidando la contea al figlio minore Boemondo.

Boemondo I di Tripoli (1189-1233)*
Alla morte del padre Boemondo III (1201), nonostante questi avesse indicato come suo successore il nipote Raimondo Rupeno, figlio del suo primogenito Raimondo IV di Tripoli (morto nel 1198) e di Alice di Armenia, riuscì a farsi riconoscere come Principe di Antiochia e a regnare contemporaneamente sulle due città stabilendosi a Tripoli.
S'innescò quindi un lungo conflitto dinastico che coinvolse gli Ordini militari (I Templari si schierarono con Boemondo mentre i cavalieri di san Giovanni appoggiarono Raimondo Rupeno), il Regno d'Armenia, la nobiltà latina d'Outremer, l'imperatore Federico II ed il papato.
Leone II d'Armenia sostenne i diritti del nipote Raimondo Rupeno e nel 1204 appoggiò la ribellione di Renoart di Nephin nella contea di Tripoli.
Alla fine del 1205 Boemondo – che perse un occhio nella campagna guadagnandosi il soprannome di monocolo – riuscì a sedare la ribellione.
Nel 1206 Boemondo rimosse il Patriarca latino di Antiochia, Pietro di Angouleme, che aveva appoggiato Raimondo Rupeno, rimpiazzandolo con quello ortodosso, Simeone II. Pietro di Angouleme reagì scomunicandolo e Boemondo lo fece imprigionare lasciandolo morire di sete (1208) (4). Tra alterne vicende, durante le quali Raimondo Rupeno - con l'appoggio dei giovanniti - riuscì ad insediarsi ad Antiochia come Principe dal 1216 al 1219, il conflitto ebbe termine soltanto nel 1219 quando Raimondo, estromesso da Antiochia da una rivolta dei nobili guidata da Guglielmo Farabel e recatosi in Armenia per rivendicare la corona del regno, morì in battaglia.
Insediatosi nuovamente ad Antiochia, procedette alla confisca di tutte le proprietà dei cavalieri di San Giovanni, provvedimento che gli valse la scomunica da parte di papa Gegorio IX che, sempre su richiesta degli Ospitalieri, la confermò ancora nel 1230. L'anno successivo, grazie alla mediazione del patriarca di Gerusalemme Geraldo da Losanna e della famiglia degli Ibelin, Boemondo firmò un accordo con l'Ordine di San Giovanni che gli fruttò il ritiro della scomunica.
In prime nozze sposò Plaisance di Gibelletto (Gibelet) che gli diede:
1.Raimondo di Poitiers (1195- ucciso dalla setta degli Assassini nella cattedrale di Tortosa nel 1213), Balivo di Antiochia.
2.Boemondo V di Poitiers, suo successore alla guida del principato.
3.Filippo I di Poitiers (morto avvelenato in prigione nel 1226), re consorte del Regno armeno di Cilicia (1222-1224) per le nozze con Isabella d'Armenia.
4.Enrico di Poitiers, sposato a Isabella di Lusignano e padre del re Ugo III di Cipro e I di Gerusalemme.
5.Maria di Poitiers

*I conti di Tripoli Boemondo I, Boemondo II e Boemondo III, pur risiedendo a Tripoli, furono anche principi di Antiochia e quindi noti rispettivamente anche come Boemondo IV, V e VI di Antiochia (cfr. scheda Il Principato di Antiochia).

Boemondo II di Tripoli (1233-1252)
Come il padre continuò a risiedere a Tripoli lasciando il governo del Principato nelle mani dl comune.
Nel 1235 sposò in seconde nozze Luciana, figlia di Paolo dei Conti di Segni, una bis-nipote di Papa Innocenzo III, da cui ebbe due figli: Plaisance (Piacenza) di Antiochia - che fu la terza moglie di re Enrico I di Cipro e madre di Ugo II - e Boemondo VI d'Antiochia.

Armi di Boemondo III di Tipoli
 
Boemondo III di Tripoli (1237-1275)
Nel 1268 il sultano mamelucco Baybars conquistò Antiochia e quanto rimaneva del Principato determinando la fine di questo stato crociato. A Boemondo rimase quindi la sola contea di Tripoli.
Nel 1271 Baybars attaccò nuovamente espugnando i castelli dell'entroterra e mettendo sotto assedio Tripoli ma, avuta notizia dell'arrivo ad Acri di re Edoardo I d'Inghilterra, offrì al conte una tregua e levò l'assedio.
Dalla moglie Sibilla di Armenia ebbe quattro figli:
1. Boemondo IV di Tripoli
2. Isabella di Poitiers
3. Lucia di Poitiers
4. Maria di Poitiers

Lucia di Poitiers (1288-1289)
Figlia di Boemondo III di Tripoli e Sibilla d'Armenia.
Quando suo fratello, Boemondo IV di Tripoli morì nel 1287, Lucia, a cui sarebbe spettata per diritto ereditario la contea, sposata al'ex grande ammiraglio di Carlo d'Angiò Narjot di Toucy, viveva in Puglia. Poco desiderosi di vedere al comando della contea una principessa compromessa con gli angioini, i nobili ed i maggiorenti di Tripoli offrirono la contea alla madre Sibilla che nominò balivo il vescovo Bartolomeo di Tortosa. I nobili, a cui il vescovo era inviso, reagirono proclamando decaduta la dinastia e istituendo il libero comune con a capo Bartolomeo Embriaco.
Agli inizi del 1288 Lucia sbarcò ad Acri per reclamare i suoi diritti sulla contea e, per ragioni diverse, ottenne l'appoggio dei tre Ordini militari e del bailo di Venezia mentre il comune si pose sotto la protezione di Genova che inviò una squadra di cinque galee al comando di Benedetto Zaccaria. Nel frattempo l'opinione pubblica tripolina volse a favore di Lucia, nel timore che la protezione della repubblica ligure sarebbe sfociata nella trasformazione della città in colonia genovese. Si avviarono dunque delle trattative al termine delle quali Lucia accettò di riconoscere ai genovesi ed al comune alcuni privilegi (5) ed in cambio venne da questi riconosciuta contessa di Tripoli.
Questo accomodamento non soddisfece però i veneziani di Acri che inviarono segretamente dei messi al sultano d'Egitto Qalawun (1279-1290) per spingerlo ad intervenire (6).

La caduta di Tripoli: alla notizia che il sultano marciava su Tripoli, cominciarono ad affluire i rinforzi. Il re di Cipro e Gerusalemme, Enrico I, inviò da Cipro una compagnia di cavalieri e quattro galee al comando del fratello Amalrico e da Acri il reggimento francese al comando del siniscalco del Regno Giovanni di Greilly; il Tempio inviò una compagnia al comando del maresciallo Goffredo di Vendac mentre il maresciallo giovannita Matteo di Clermont prendeva il comando degli ospitalieri presenti in città; due galee veneziane si unirono infine a quelle cipriote e genovesi per fare fronte contro il nemico comune.
Alla fine di marzo l'esercito mamelucco si accampò sotto le mura di Tripoli ed iniziò a battere le mura con i mangani (7).
Quando crollarono la torre del Vescovo, all'angolo SE del perimetro difensivo, e quella dell'Ospedale, i veneziani giudicarono la città perduta ed iniziarono ad imbarcarsi presto seguiti dai genovesi. Colto lo scompiglio che si era venuto a creare tra i difensori, il 26 aprile Qalawun lanciò l'attacco generale e la città fu presa d'assalto. La contessa riuscì a porsi in salvo sulle navi insieme ai due marescialli degli Ordini militari ad Amalrico e a Giovanni di Greilly mentre il comandante del Tempio, Pietro di Moncade, e Bartolomeo Embriaco caddero nella carneficina che seguì la presa della città.
Dopo la conquista Qalawun ordinò la completa distruzione della città che fu ricostruita nel'entroterra intorno alla fortezza fatta edificare da Raimondo di Tolosa ai piedi del Monte Pellegrino e che i crociati avevano abbandonato prima dell'assedio senza tentare di difenderla.

Armi degli Embriaco di Gibelletto
 
Signoria di Gibelletto (Gibelet): comprendeva un territorio costiero, nella parte meridionale della contea di Tripoli, che confinava a sud con la Signoria di Beirut nel Regno di Gerusalemme e aveva come capitale l'antica città portuale di Biblo (Gibelletto, Jebail). Conquistata dai crociati nel 1104 fu data in feudo da Raimondo di Tolosa all'ammiraglio genovese Guglielmo Embriaco in ringraziamento dell'aiuto dato nella conquista della contea.
 
Lazzaro Tavarone, Guglielmo Embriaco detto Testa di maglio,
Palazzo di San Giorgio, Genova, 1606-1608
 
Fu tenuta quasi ininterrottamene dai suoi discendenti fino al 1302. Dopo la caduta di Tripoli (1289) l'ultimo discendente Pietro Embriaco si fece infatti vassallo del sultano mamelucco Qalawun e potè conservare i suoi possedimenti fino a questa data.


Note:

(1) La fortezza – i cui resti sono ancora visibili – era nota ai Franchi come castello di Saint Gilles e agli Arabi come Qal'at Sanjil. Il suo aspetto attuale è in gran parte dovuto ai massicci restauri intrapresi agli inizi del XIX secolo dal governatore ottomano di Tripoli Mustafa Agha Barbar.


 (2) Bertrando era figlio di Raimondo e della prima moglie – una sua cugina di cui s'ignora il nome e che era la terzogenita del conte Goffredo I di Provenza – che ripudiò prima del 1080. Giacchè il matrimonio tra cugini non era da ritenersi valido, Bertrando era considerato un bastardo.

(3) Tancredi poco prima di morire aveva fatto promettere a Ponzio di sposare Cecilia assegnandole in dote le fortezze di Arcicanum e Rugia.

(4) Le fonti riportano che il Patriarca poteva bere solo l'olio della sua lampada.

(5) Oltre ad un'estensione del proprio quartiere a Tripoli, Genova ottenne anche il diritto di nominare un podestà che lo governasse. Fu nominato Caccianemico della Volta che però non riuscì a raggiungere la città prima della sua caduta.

(6) Un'altra ipotesi attribuisce la richiesta d'intervento a Bartolomeo Embriaco che aspirava al possesso della contea.

(7) le fonti riportano che Qalawun potè schierare 19 grandi mangani.


martedì 17 gennaio 2017

Chiesa di Sant'Ilario a Porta Aurea, Benevento

Chiesa di Sant'Ilario a Porta Aurea, Benevento


L'ecclesia vocabolo Sancti Ylari presente nelle fonti documentarie a partire dal XII sec., anche se da scavi effettuati se ne può far risalire la costruzione al VII-VIII sec. d.C., è nota con il nome di Sant’Ilario a Port’Aurea perché edificata nei pressi dell’Arco diTraiano, divenuto in epoca longobarda porta "aurea" della città dopo essere stato incorporato nella nuova cinta muraria.
I resti di un ampio complesso edilizio d’età imperiale (II secolo d.C.) sono le testimonianze della principale preesistenza archeologica, i vani finora messi in luce, edificati su un terrapieno artificiale, si articolavano in tre corridoi di comunicazione, probabilmente in origine anche provvisti di scale, disposti attorno ad un ampio vano sostruttivo rettangolare sul quale oggi poggia la chiesa.

Angolo NE
In primo piano si notano i resti del compleso edilizio del II secolo.

In età tardoantica il complesso architettonico d’epoca imperiale fu abbandonato e sepolto sotto uno spesso strato di terreno di riporto. Solo una parte degli antichi ambienti fu recuperata e inglobata in nuove strutture murarie, e la massiccia costruzione posta sotto l’angolo nord-est della chiesa (vicino all’abside) ne suggerisce una sua eventuale funzione di carattere militare o comunque difensiva.

Facciata occidentale

Lo sviluppo architettonico della chiesa segue geometrie essenziali, scandite all'esterno da sei volumi (abside, aula, tiburi sfalsati, tetti a padiglione) e all'interno da pilastri ed archi che partiscono l'aula in due campate leggermente disuguali ed offrono un robusto sostegno a due cupole emisferiche allineate sull'asse longitudinale.

L'ingresso murato lungo la parete sud.
Negli stipiti e sull'angolo SO dell'edificio si nota l'impiego di materiali di recupero con funzioni decorative. Alla base si notano invece le sepolture di epoca altomedioevale.

La muratura dell’edificio è realizzata in opus incertum, con impiego di materiali di risulta sia come rinforzi negli angoli, sia con funzione decorativa com’è possibile osservare sulla parete meridionale - dove si trova anche un ingresso murato -  e nei pressi della porta d'ingresso sulla facciata ovest.

Pianta del complesso monastico
Legenda: cp=cisterne e pozzi; P=portici; in neretto le strutturie murarie più antiche

Alla chiesa fu successivamente aggiunto un convento, il Monasterium Sancti Ylari citato in fonti
documentarie dal 1148 e pur non precisandone l’esatta cronologia di fondazione, le indagini
archeologiche più recenti hanno posto in luce la quasi totalità degli ambienti monastici. Degne di nota sono le numerose cisterne e i pozzi per la captazione dell’acqua, evidentemente connessi agli usi agricoli.
Soprattutto lungo il lato meridionale della chiesa si notano addossate una serie di sepolture che risalgono al XIII-XIV sec.

Fortemente danneggiata dal terremoto del 1688, fu sconsacrata prima del 1712 (come risulta da un documento datato 1713) ed adibita a casa colonica.


venerdì 13 gennaio 2017

L'arco di Traiano, Benevento

L'arco di Traiano, Benevento

Lato dell'arco rivolto verso la città

E' un arco trionfale costruito tra il 114 e il 117 e dedicato all'imperatore Traiano (98-117) in occasione dell'apertura della via Traiana, una variante della via Appia che accorciava il percorso tra Benevento e Brindisi.
Sotto il dominio longobardo, l'arco venne inglobato nella cinta difensiva e prese il nome di Porta Aurea (cfr. scheda La cinta muraria di Benevento). Nel 1850, in occasione di una visita di papa Pio IX, per suo ordine, venne isolato abbattendo le case che vi si erano state addossate.
Si tratta di un arco a un solo fornice, alto 15,60 m e largo 8,60 m, con un’ossatura di blocchi di calcare ed un rivestimento di marmo pario.
Sulle facciate la superficie è articolata da quattro semicolonne, disposte agli angoli dei piloni, le quali sorreggono una trabeazione, che sporge al di sopra del fornice. Al di sopra di questa si trova un attico, anch'esso più sporgente nella parte centrale, sopra il fornice, dove è presente questa iscrizione:

IMP[eratori] CAESARI DIVI NERVAE FILIO
NERVAE TRAIANO OPTIMO AVG[usto]
GERMANICO DACICO PONT[ifici] MAX[imo] TRIB[unicia]
POTEST[ate] XVIII IMP[eratori] VII CO[n]S[uli] VI P[atri] P[atriae]
FORTISSIMO PRINCIPI SENATUS P[opolus]Q[ue] R[omanus]

All'imperatore Cesare, figlio del divo Nerva,
Nerva Traiano Ottimo Augusto
Germanico, Dacico, ponteficie massimo
(rivestito della) potestà tribunicia diciotto (volte), (acclamato) imperatore sette (volte), console sei(volte), padre della patria,
fortissimo principe, il Senato e il Popolo romano (posero).
 
Lato interno (verso l’attuale Via Traiano)
La facciata si presenta composta principalmente da 6 pannelli principali posti verticalmente e divisi
dal fregio continuo di trabeazione e da altri pannelli minori. Da sinistra a destra e dall'alto in basso:
 
1. Gli Dei dell’Olimpo attendono Traiano. Nel tempio di Giove Massimo in Campidoglio in primo piano Giove, tra Minerva e Giunone, porge con la destra il fulmine, ricevendo il quale Traiano diventerà suo rappresentante in terra. In secondo piano da sinistra a destra si dispongono Ercole, il Liber Pater (1) e Cerere.
 
2. Nel campo di Marte, dinanzi al tempio del dio, Traiano, con Adriano al fianco e seguito dai littori, riceve dai due consoli, alla presenza della dea Roma - che poggia una mano sulla spalla di Adriano - e di due altre figure simboliche, il decreto di concessione del trionfo.
 
3. Traiano appare in primo piano a sinistra seguito dai littori. Il tema è forse legato alle provvidenze per i veterani nelle regioni del Reno e del Danubio. Una matrona con la corona turrita, che regge con la sinistra un vessillo sormontato da cinque aquile, raccomanda a Traiano due legionari in congedo.
 
 
4. Questo pannello rappresenta la stabilità e la sicurezza raggiunta dall'Impero sotto Traiano.
Vengono celebrate le provvidenze in favore del commercio. Sullo sfondo le immagini di Portuno (2), di Ercole e di Apollo, le divinità venerate nel Foro Boario, denotano questa zona commerciale della città. Traiano, scortato dai littori, riceve da tre rappresentanti dei commercianti il ringraziamento per quanto ha fatto per loro.


5. Traiano fa il suo ingresso a Roma nell'estate del 99, dopo aver sistemato il confine renano della provincia della Germania superiore di cui era governatore all'atto della sua proclamazione ad imperatore (27 gennaio 98). Davanti ad una delle porte della città il Praefectus Urbis lo invita ad entrare come imperatore e Traiano lo fa con semplicità, senza cavalcatura.

 
6. Forma un'unica scena con quello precedente. Dinanzi ad un edificio esastilo (forse il tempio
di Vespasiano) Traiano è accolto dai Geni del Popolo Romano, del Senato e dell'Ordine Equestre.
 
I quattro pannelli inferiori sono separati da pannelli decorativi più bassi con Vittorie tauroctone (Vittorie nell'atto di sacrificare tori) e sormontati da altri pannelli decorativi con sacerdoti e strumenti del sacrificio.
Nei pennacchi dell'arcata del fornice sono raffigurate personificazioni della Vittoria e della
Fedeltà militare, accompagnate dai geni delle quattro stagioni; sulla chiave dell'arco è raffigurata la personificazione di Roma.
 
 
Il fregio figurato della trabeazione sorretta dalle colonne, raffigura la processione del trionfo celebrato da Traiano sulla Dacia.
 
Lato esterno (verso l’attuale Via S.Pasquale)
La facciata ha la stessa partizione in pannelli principali e secondari come l’altra che guarda verso la città.
 
 
1. Le divinità della Dacia (Cerere, Diana e Silvano) accolgono Traiano (che era raffigurato nella parte mancante del bassorilievo).
 
 
2. L’Imperatore, seguito dai littori, riceve l’omaggio di una provincia inginocchiata, che l’albero di quercia a sinistra e le personificazioni del Tisia e dell’Alutus (i fiumi di confine della regione) mostrano chiaramente essere la Dacia. Questa, nel momento in cui compie l’atto di sottomissione, è raccomandata a Traiano da un corregionale e amico dell’imperatore.

 
3. In questo pannello sono ricordate le iniziative di Traiano per il riordinamento dell'esercito nelle province. All'imperatore, circondato dai littori, Honos (la personificazione dell'Onore militare) presenta una recluta al cui fianco è l'ufficiale addetto alla leva, che tiene in mano la tesa per la verifica delle misure regolamentari. A destra si riconosce la personificazione di Roma con il diadema turrito.

4. In questo pannello appare subito in primo piano l'immagine di Marte con l'elmo sul capo. La scena è dedicata all'Institutio Alimentaria (3). Sulla destra della scena c'è l'imperatore, in compagnia dei littori, ed affiancato da due virtù, Indulgentia e Felicitas.
Traiano presenta alla dea Roma, che è al fianco di Marte, un bimbo e una fanciulla che si levano dalla terra arata. Si riconoscono un semplice aratro, in basso e a sinistra, e la cornucopia, simbolo di abbondanza.
 
 
5. La pacificazione della frontiera germanica da parte di Traiano, raggiunto, mentre colà si trovava, dalla notizia della morte di Nerva e della convalida della sua successione da parte del Senato. Alla
presenza di Giove Feretrio (4), che è al centro della scena, Traiano, in primo piano a sinistra, stipula il patto di pace con il capo dei Germani, che è a destra.


6. Traiano, seguito dai suoi ufficiali, come lui in toga e scortato dai littori, si incontra con Ercole e con due personaggi, uno recante un cavallo per la briglia, l'altro un grosso cane al guinzaglio. Il pannello sembra alludere al consolidamento del possesso delle regioni danubiane, cui Traiano si dedicò dopo la pacificazione della Germania. Traiano è in primo piano a destra.
Nei pennacchi dell'arcata del fornice sono raffigurate le personificazioni del Danubio e della
Mesopotamia accompagnate dai geni delle quattro stagioni. Sulla chiave dell'arco è raffigurata la personificazione della Fortuna.

Interno del fornice
I lati interni del fornice presentano altri due ampi pannelli scolpiti, raffiguranti scene delle attività di Traiano nella città di Benevento.
 
A sinistra, uscendo dalla città, il sacrificio della cerimonia per l'apertura della via Traiana, celebrato da Traiano, nel 109 a Benevento, mentre i camilli gli porgono la cassetta degli aromi, i vittimari stanno abbattendo un giovenco. Traiano è accompagnato dai littori.
 
 
A destra, invece, è raffigurata l'istituzione a Benevento, nel 101 dell'Institutio alimentaria. Alla presenza di quattro matrone con corone turrite, che personificano Benevento, Caudium ed altre due città oggi scomparse dei Liguri Bebiani e Corneliani, si svolge la distribuzione degli alimenti ai fanciulli e ai genitori, cui assiste lo stesso imperatore. Nella scena, molto viva ed espressiva, si riconoscono anche una donna col bimbo in fasce e due uomini coi bambini a cavalcioni sulle spalle.
 
 
Sulla volta decorata a cassettoni, infine, compare al centro una raffigurazione dell'imperatore incoronato da una Vittoria.
 
 
Note:
 
(1) Divinità latina protettrice della fecondità, assimilata a Dioniso.
(2) E' la divinità latina protettrice dei porti.
(3) L' Institutio alimentaria fu un provvedimento preso da Traiano in favore dell'agricoltura e dei bambini poveri. L’istituto finanziario prevedeva un prestito ipotecario (obligatio praedorium) concesso direttamente dal patrimonio personale dell’imperatore (il fiscus). Gli agricoltori ricevevano in prestito capitali a un basso tasso di interesse (secondo alcune fonti storiche, nell’ordine del 2,5% e, secondo altre, del 5%) fornendo, a loro volta, una specifica garanzia ipotecaria. Le rendite erano devolute direttamente all’assistenza dei fanciulli orfani e indigenti assicurando loro il giusto sostentamento.
(4) Romolo aveva dedicato a Giove "Feretrio", garante dei trattati, il primo tempio eretto sul Campidoglio.


lunedì 9 gennaio 2017

L'Arco del Sacramento, Benevento

L'Arco del Sacramento, Benevento

Facciata nord

Databile tra la fine del I sec. e l’inizio del II sec., costituiva l’ingresso all’area del Foro per chi proveniva dal quartiere meridionale o “del teatro”. L’arco è sostenuto da due pilastri in opus latericium poggianti su stilobati in opus quadratum. Il diametro dell’arco è di circa 5 metri ed è sormontato da un arco di scarico in mattoni. E' attualmente privo quasi del tutto del rivestimento marmoreo e mancano le statue che dovevano essere alloggiate nelle nicchie che si aprono nelle due facciate principali.
Nella facciata nord (quella rivolta verso il foro), in opus latericium, sono visibili alcuni elementi del rivestimento che decorava il monumento: una colonna al margine del pilastro sinistro e frammenti di un cornicione di pietra. Sono anche visibili due ordini di archi in opus latericium innestati nel pilastro sinistro.
L'arco sorgeva probabilmente in prossimità della cinta muraria romana, i cui resti sono ancora reperibili al di sotto del cantone sud-ovest del muro del giardino episcopale ove è una struttura muraria tardoromana costituita di grossi blocchi di parallelepipedi calcarei di struttura pseudoisodoma.

Facciata sud
A ds. si notano i due ordini di archi che s'innestano nel pilastro e la struttura muraria tardoromana.

Tra il 1633 e il 1635, nel corso di un restauro voluto dall’Arciv. Agostino Oregio, vi fu aggiunto un coronamento.
Deve probabilmente la particolare denominazione con cui è conosciuto al fatto che in questo periodo costituiva una delle porte di accesso al castellum vescovile.

Resti del complesso termale tardoromano

Nell'area si trovano i resti di un complesso termale che si trovava nell’insula compresa fra i due “cardines” costituiti da via san Gaetano e da via Carlo Torre e dal decumano major e quello inferiore della città romana.


domenica 8 gennaio 2017

Il teatro romano di Benevento

Il teatro romano di Benevento


Iniziato da Adriano e terminato (o ingrandito) durante il regno di Caracalla, sorgeva in prossimità del cardo maximus e poteva ospitare circa 15.000 spettatori.
Realizzato in opus caementicium con paramenti in blocchi di pietra calcarea e laterizio presentava in origine 25 arcate articolate su tre ordini, di cui rimangono quelle del primo, inquadrate da colonne con capitelli tuscanici, e parte di quelle del secondo.
Entrando sulla scena si notano due cippi commemorativi: il primo a destra celebra Adriano e reca incisa la data d'inaugurazione (126), l'altro celebra Caracalla e dovrebbe indicare la loro conclusione (200-210).

Il cippo in onore di Adriano

La cavea – che presenta un diametro di 98 m. - si è conservata in buona parte mentre della scena rimangono tre porte monumentali che davano accesso all'orchestra.


Le arcate della cavea, con ampia cornice rifinita, presentavano come chiavi di volta rilievi figurati, rappresentati da busti nell'ordine inferiore e, molto probabilmente, da maschere (simili a quelle usate dagli attori) negli ordini superiori (1).


Le gradinate e la frons scenae erano rivestite in marmo, così come lastre marmoree e stucchi, ancora parzialmente conservati, decoravano le aulae, i due ampi ambienti (2) che, attraverso corridoi (parodoi), immettono nell'orchestra (3).

I tre ingressi monumentali alla scena
 
Decorazione in marmi policromi e stucchi dell'aula di sinistra
 
Al di sotto della cavea, le scale ed i corridoi di accesso erano collegati da due ambulacri paralleli che fungevano anche da cassa armonica.

L'ambulacro esterno

Alle spalle della scena tre scalinate portavano ad un livello inferiore, forse ad un ingresso monumentale per gli artisti.


Fu abbandonato in epoca longobarda e, parzialmente interrato, fu utilizzato come fondazione di nuove abitazioni. Il su recupero, e lo smantellamento delle costruzioni soprastanti, iniziò a partire dal 1923..

Note:

(1) Uno di questi mascheroni è ancora visibile nel campanile del Duomo, incassato nella muratura a lato di una finestra.
 
(2) L'aula di destra, al di sopra della quale è stata costruita nel XVIII sec. la chiesa di S.Maria della Verità, conserva ancora parte dell'originale pavimento a mosaico.

(3) Nel teatro greco le parodoi erano spazi praticabili posti tra i sedili e la scena che permettevano al coro di raggiungere l'orchestra. Nel teatro romano, venuta meno la funzione del coro, le parodoi (chiamate versurae) fungevano invece da ingressi riservati agli spettatori che occupavano i posti d'onore.

sabato 7 gennaio 2017

Chiesa di Santa Sofia, Benevento

Chiesa di Santa Sofia, Benevento


Iniziata accanto ad un preesistente monastero benedettino dal duca Arechi II poco dopo il suo insediamento (758), fu completata probabilmente nel 762. Era comunque già consacrata il 26 agosto 768, quando vi furono deposti i resti di San Mercurio di Cesarea (1).
Nel 774 la chiesa fu dedicata alla Divina Sapienza pare su suggerimento dello storico Paolo Diacono. Accanto al già esistente cenobio, Arechi fece costruire anche un monastero femminile di cui divenne badessa la sorella Gariperga


La pianta della chiesa - estremamente originale ed innovativa - presenta un nucleo centrale costituito da un esagono ai cui vertici sono collocate sei grandi colonne (provenienti probabilmente dall’antico tempio di Iside), collegate tra loro da archi sui quali si imposta la cupola. Attorno a questo nucleo esagonale si dispone un secondo anello decagonale formato da otto pilastri, in blocchi di pietra calcarea bianca intercalati da strati di mattoni, e da due colonne poste subito dopo l’ingresso e inserite nel XII secolo.
I pilastri sono disposti radialmente, ciascuno con i lati differentemente orientati, così da renderli paralleli ai retrostanti muri del perimetro.
L’andamento di quest’ultimo è sconcertante: dapprima circolare, viene ad un certo punto bruscamente interrotto da pareti a forma stellare per ritornare di nuovo circolare in corrispondenza del portale d’ingresso.


Contrariamente agli edifici a pianta centrale romani o della tarda romanità o, ancora, della prima architettura paleocristiana (cfr. le chiese romane di S.Costanza e S.Stefano Rotondo), la chiesa propone una frammentarietà dello spazio architettonico, capace di dare in ogni punto nuove e possibili prospettive, effetti geometrici ben precisi e basati su rapporti reciproci frutto di una acuta ed originale intelligenza
costruttiva e di un profondo studio geometrico.
L'insolito accoppiamento della corona esagonale con quella decagonale produce una straordinaria varietà delle volte, che si susseguono prima quadrangolari, poi romboidali ed infine triangolari, che è stata interpretata come un richiamo alla forma delle tende usate dal popolo longobardo durante il suo lungo girovagare in Europa.

 
Verso il 1119, quando divenne abate Giovanni IV Grammatico, la chiesa subì le prime modifiche, con l'aggiunta di un campanile (2) sulla sinistra della facciata e di un protiro a quattro colonne.
Nella lunetta centrale, al di sopra del nuovo portale così realizzato, venne anche inserito un bassorilievo che ora si trova sulla porta d’ingresso della chiesa.


Vi è raffigurato Cristo in trono, la Vergine a destra, ed alla sinistra San Mercurio martire con a fianco un monaco inginocchiato, forse l’Abate Giovanni IV, restauratore della chiesa (secondo altra ipotesi si tratterebbe invece dello stesso fondatore, il duca Arechi II il cui ricordo era ancora vivo nel XII sec.).
All'interno si sostituirono i due pilastri all'ingresso con colonne e si sistemò una schola cantorum nell'esagono centrale.

Il violento terremoto del 1688 causò il crollo del campanile che si abbattè sul protiro distruggendolo.
La ricostruzione in forme barocche del 1698 determinò la scomparsa della primitiva configurazione longobarda e la quasi completa distruzione degli affreschi del secolo IX.
Gli interventi consistettero, tra l'altro, nella trasformazione della pianta da stellare a circolare, nell'abbattimento e ricostruzione in nuove forme dell'abside centrale, nella rastremazione degli otto pilastri e nella realizzazione della nuova facciata, tuttora esistente. Si realizzarono inoltre due cappelle laterali e la sacrestia mentre l'interno fu completamente intonacato ed arredato secondo il gusto barocco.
Nel 1951 iniziarono i lavori di restauro che permisero di riportare alla luce l'originale struttura longobarda e di completare poi le parti demolite o manomesse in occasione della trasformazione barocca. In particolare furono eliminate le due cappelle a lato della facciata, l'abside centrale ed il muro circolare che aveva incorporato gli spigoli esterni delle pareti stellari. Queste ultime vennero
ricostruite seguendo le indicazioni fornite dalle ricerche archeologiche. Leggeri furono invece gli interventi sulla facciata barocca: furono obliterati i due finestroni ed il rosone, mentre il portale fu arretrato nella posizione originaria.

Affreschi: originariamente la chiesa doveva essere completamente affrescata. Lo dimostrano i frammenti tuttora visibili, oltre che nelle absidi, anche su un pilastro (il primo a sinistra entrando in chiesa), alla base del tiburio (è il piede di un individuo) e negli spigoli delle pareti a stella.
Nelle due absidi laterali sono presenti elementi superstiti del ciclo pittorico che dedicato alle Storie di Cristo.
L'Annuncio a Zaccaria

In quella di sinistra sono ancora visibili stralci di due scene della Storia di San Giovanni Battista: l’Annuncio a Zaccaria della nascita del Battista e il Silenzio di Zaccaria che indica ai fedeli stupefatti di essere stato privato della parola per l’incredulità all’annuncio dell’Angelo. Tali scene ricalcano il testo del primo capitolo del Vangelo di Luca (3).

Il Silenzio di Zaccaria

Nell’abside destra sono rappresentate le Storie della Vergine. Da sinistra a destra si riconoscono l’Annunciazione a Maria, con l’angelo che si volge benedicente verso il trono della Vergine, e la Visitazione, con l’abbraccio fra Maria ed Elisabetta.


Tali affreschi furono probabilmente voluti dallo stesso Arechi II e realizzati da un anonimo artista siro-palestinese entro il 768, anno della tumulazione delle reliquie di San Mercurio.
Altri affreschi, di epoca posteriore e di scarsa qualità, sono presenti nella sezione inferiore dell’abside destra.

Chiostro: il chiostro originale fu seriamente danneggiato dal terremoto del 986 e ricostruito nel XII secolo – tra il 1142 ed il 1176 - sotto l'abate Giovanni IV mescolando elementi di tradizioni diverse come l'arco islamico a ferro di cavallo e il pulvino bizantino. Ha una pianta quasi quadrata ed è formato da sedici pilastri intervallati da quadrifore e da una trifora, sostenute da archetti a ferro di cavallo.
 
La particolare colonna ofitica inserita nel chiostro
 
Una rara raffigurazione della Lussuria - con un toro ed un serpente che le succhiano i seni - scolpita in uno dei pulvini
 
Fontana antistante alla chiesa: risale all'epoca del principato istituito da Napoleone (1806-1815) ed affidato a Carlo Maurizio di Talleyrand.


Note:
(1) I resti di San Mercurio di Cesarea giunsero in Italia al seguito della spedizione di Costante II (663). Mentre l'imperatore assediava Benevento, per ragioni di sicurezza, le spoglie del santo vennero tumulate a Quintodecimo, dove già si venerava la memoria di un santo omonimo. Il 26 agosto del 768 Arechi II ne ordinò la traslazione in Santa Sofia dove venne tumulato sotto l'altare maggiore. In seguito, per sottrarle al rischio di essere predate, vennero divise e distribuite in varie località. Attualmente alcune parti delle spoglie del santo, le più numerose, si trovano a Montevergine, nella cripta di S. Guglielmo, dove gli è dedicato anche un altare. Altre si trovano nell'abbazia di Montecassino, dove furono trasportate dall’abate Desiderio (1058-1087) - il futuro papa Vittore III (1087), beneventano di nascita - che le depose sotto l’altare di S. Michele Arcangelo. Altre ancora, un braccio ed un pezzo di spalla sono conservate a Serracapriola, in provincia di Foggia.

(2) Questo campanile fu più probabilmente edificato tra il 1038 ed il 1056, quando era abate Gregorio II, come risulta da una lapide in caratteri longobardi attualmente incassata nella parete meridionale del campanile attuale, eretto in una diversa posizione nel 1703.

(3) "Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni" (Luca I, 11-13).

"Zaccaria disse all’angelo: Come potrò mai conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni. L’angelo gli rispose: Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio. Ed ecco, tu sarai muto e non potrai parlare fino al
giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo. Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria e si meravigliava per il suo indugiare nel tempio. Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto" (Luca I, 18-22).