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domenica 24 marzo 2024

Il ritorno a Gerusalemme della vera croce di Miguel Ximenez e Martin Bernat

 Il ritorno a Gerusalemme della vera croce di Miguel Ximenez e Martin Bernat

Eraclio riporta a Gerusalemme la vera croce
olio su tavola, cm.195x115, 1481-1487
Museo di Saragozza, Spagna

Nel 614 i Persiani conquistarono Gerusalemme e la vera croce su cui il Cristo era stato crocefisso, ritrovata da Sant'Elena circa trecento anni prima e custodita nella basilica del Santo Sepolcro, fu trasportata in Persia dal re Cosroe II come bottino di guerra.
Il 12 dicembre 627 l'imperatore Eraclio I(610-641) sconfisse l'esercito di Cosroe nella decisiva battaglia di Ninive. Cosroe venne deposto e ucciso ed il suo successore, Kavadh II, accettò nel 628 la pace proposta da Eraclio e si ritirò dai territori occupati dai Sasanidi nel corso della guerra, restituendo la reliquia della vera croce. Lo stesso anno Eraclio riportò la reliquia nella basilica gerosolimitana da cui era stata predata.
La pala d'altare dipinta tra il 1481 ed il 1487 da Miguel Ximenez e Martin Bernat per la chiesa della Santa Croce del paesino di Blesa – oggi conservata nel Museo di Saragozza – illustra l'episodio del ritorno della vera croce (restitutio Sanctae Crucis) come narrato nella Legenda Aurea.
Eraclio voleva ricondurre la croce in città in pompa magna, passando attraverso la Porta d'oro, la stessa da cui era entrato il Cristo la domenica delle Palme. Quando però il corteo giunse di fronte alla porta le sue pietre crollarono e formarono un muro invalicabile. Un angelo apparve al di sopra della porta e disse: Quando il re dei Cieli passò attraverso questa porta, non lo fece in pompa magna ma a dorso di un misero asino per lasciare ai suoi discepoli un esempio di umiltà.

Udite queste parole, Eraclio scese da cavallo e, spogliatosi dei simboli della dignità imperiale, prese la croce in spalla e si avviò verso la porta. Immediatamente le pietre tornarono nella posizione originaria, liberando il passo all'imperatore.
Nel dipinto accanto ad Eraclio cavalca l'imperatrice Sant'Elena – che tra le mani giunte tiene due chiodi della crocefissione - colei che per prima ritrovò la vera croce ma che, ovviamente, storicamente non potè presenziare fisicamente all'evento della restitutio.

domenica 17 giugno 2018

Il ciclo pittorico della storia della reliquia di Sant'Andrea di Bernard Rantwijck

Il ciclo pittorico della storia della reliquia di Sant'Andrea di Bernard Rantwijck

Un documento del 1538 attesta la donazione alla propria famiglia, da parte di
Francesco Maria Piccolomini, vescovo di Pienza e Montalcino, di una cappella dedicata a Sant’Andrea, da lui costruita e arredata nel palazzo di famiglia in via di Città, a Siena (oggi proprietà del comune di Siena e sede dell’Accademia degli Intronati).
Degli arredi della cappella, facevano parte cinque grandi tele, commissionate al pittore fiammingo Bernard Rantwijck, che illustravano il viaggio della reliquia del cranio di Sant'Andrea da Patrasso alla basilica di San Pietro a Roma.
Queste cinque tele, con modalità ancora non del tutto chiare, furono successivamente trasferite a Pienza dove furono a lungo dimenticate nelle stanze del seminario vescovile. Attualmente sono conservate nel locale Museo Diocesano di Palazzo Borgia.

Nell'estate del 1460 Tommaso Paleologo, ultimo despota di Morea ed erede al trono di Bisanzio, incalzato dai Turchi, riparò nel possedimento veneziano di Navarino dove poco dopo s'imbarcò, assieme alla moglie Caterina Zaccaria ed ai figli Andrea, Manuele e Zoe (Sophia), su una galera veneziana che fece vela verso Patrasso, città ancora sotto il suo controllo. Prima di raggiungere Roma, dove papa Pio II Piccolomini – illustre antenato del vescovo Francesco Maria Piccolomini - che lo aveva riconosciuto legittimo erede al trono di Bisanzio, gli aveva offerto asilo, doveva infatti ottemperare alla richiesta espressagli dal papa di recuperare la reliquia del cranio dell'apostolo Andrea che era appunto colà custodita.

Sant’Andrea Apostolo, inviato a predicare nell’Europa orientale e successivamente spostatosi in Acaia, in tarda età venne consacrato vescovo di Patrasso. Lì il console Aegeates lo condannò al martirio per crocifissione. Dopo la morte, il corpo del Santo ottenne sepoltura a Patrasso per volere della moglie del console, Maximilla.
Nel 357 le sue spoglie sarebbero state trasferite da Patrasso a Costantinopoli, mentre è lo stesso Pio II ad affermare, nell’VIII libro dei Commentari, che la testa dell' apostolo rimase comunque custodita a Patrasso.

Il ciclo pittorico realizzato da Rantwijck narra la storia del viaggio della reliquia verso Roma come descritta da Pio II nei sui Commentari.

Partenza da Patrasso

Attorno alla compostezza di Tommaso Paleologo, consapevole di tenere fra le mani un reperto di grande sacralità, si muove il corteo della sua famiglia messa in fuga dalla minaccia turca incombente sul Peloponneso. Tale pericolo è forse evocato dai due personaggi vestiti con abiti orientali che emergono dall’estremità più bassa del dipinto. Nella parte sinistra del quadro dominano degli edifici classici: in essi troviamo scritto con lettere dorate “Patriae Peloponnesi civitas” e, in primo piano sulla sinistra, si nota un’ara con il nome “Peloponnesus”.
Caterina Zaccaria, la moglie di Tommaso, procede immediatamente dietro di lui mentre il figlio più grande, Andrea, tiene per mano quello più piccolo (Manuele).
...si recò [Tommaso Paleologo] a Patrasso, città ancora in suo possesso, e dal santuario, che era affidato alla sua personale custodia, prese il preziosissimo capo dell’apostolo Sant’Andrea e quindi, con la moglie e i figli e l’accompagnamento di molti nobili greci, si recò presso il despota di Arta, nell’isola di Santa Maura (E.S. Piccolomini, I Commentari).

Arrivo ad Ancona

Approdato ad Ancona nel 1461, Tommaso Paleologo consegna la preziosa reliquia nelle mani del legato pontificio, il cardinale Alessandro Oliva, incaricato dal papa di esaminare la reliquia e portarla nella rocca di Narni giacchè il trasporto fino a Roma era reso insicuro dall'infuriare della guerra che contrapponeva Alessandro Sforza e Federico da Montefeltro a Jacopo Piccinino e Jacopo Savelli.
Alle spalle del despota si erge statuaria la figura della moglie Caterina con il piccolo Manuele (1). In realtà, nel dipinto, la figura che sembra ricevere materialmente la reliquia sembra piuttosto quella di Bessarione, che indossa il saio nero dei monaci basiliani a cui il cardinale orientale non volle mai rinunciare.

Trasporto della reliquia da Narni a Roma

Nell'aprile del 1462, scortata dai cardinali Alessandro Oliva, Bessarione (che anche qui appare vestito di nero) e Francesco Todeschini Piccolomini, il futuro papa Pio III (1503-1503) - che figurano nel dipinto immediatamente alle spalle del cavallo bianco che trasporta la testa dell'apostolo - la reliquia lasciò la rocca di Narni (che torreggia sullo sfondo) per essere trasferita a Roma.
 
Il papa riceve la reliquia a Ponte Milvio

La reliquia giunse a Roma l’11 aprile 1462, Domenica delle Palme, presso Ponte Milvio e venne riposta all’interno della torre del ponte, dove rimase fino al giorno seguente quando sull'altra sponda del Tevere arrivò il papa in pompa magna.
Qui... il pontefice aveva dato ordine che s’innalzasse una tribuna di legno così spaziosa e solida da contenere tutto il clero presente e tanto alta che tutti coloro che si trovavano nei prati potessero
vedere la cerimonia che vi si svolgeva...(E.S.Piccolomini, I Commentari).
Nel dipinto il pontefice riceve sul palco sopra descritto la reliquia dalle mani del cardinale Oliva mentre Bessarione (sempre vestito di nero) ed il cardinal nipote si dispongono alle sue spalle (2).

La reliquia viene portata in processione fino alla basilica di San Pietro
Quindi il pontefice (…) portando nelle sue mani il venerabile pegno entrò nell’Urbe, mentre i cardinali, i vescovi e tutti gli altri prelati tenendo davanti a sé le palme lo seguivano conservando
sempre lo stesso ordine (E.S.Piccolomini, op.cit.).

In San Pietro il pontefice fece successivamente costruire una cappella dedicata a Sant’Andrea (3), in cui la testa dell’apostolo si conservò racchiusa in una nuova teca commissionata appositamente, nel 1463, a Simone di Giovanni Ghini, in sostituzione dell’originale reliquiario bizantino che Pio II volle inviare a Pienza (4) con un frammento della mandibola del Santo.

Simone di Giovanni Ghini, Reliquiario di Sant'Andrea, 1463
Museo Diocesano di Palazzo Borgia, Pienza
 
Nel 1964, papa Paolo VI accolse la richiesta del Metropolita di Patrasso e, onorando così la promessa di Pio II, restituì la testa di Sant’Andrea nell’antica teca da cinque secoli custodita a Pienza. La parte di mandibola ivi presente fu trasferita nel reliquiario di Simone di Giovanni Ghini, donato da Paolo VI alla città di Pio come nuovo busto reliquiario del Santo patrono pientino ed è attualmente conservato nel Museo Diocesano di Palazzo Borgia a Pienza.

Note:
(1) In realtà Tommaso Paleologo affrontò da solo la traversata dell'Adriatico, quell'anno particolarmente pericolosa a causa delle tempeste che v'infuriavano, preferendo lasciare i suoi familiari a Corfù.
(2) A memoria dell'evento, nel punto dove era stato eretto il palco, Pio II fece successivamente costruire un tempietto con al centro la statua dell'apostolo (cfr. scheda).
(3) Questa cappella - in cui venne collocato anche il monumento funebre di Pio II dove, in un bassorilievo attribuito a Paolo Romano, il papa era raffigurato proprio nell'atto di depositare la testa di sant'Andrea nella basilica - si trovava poco dopo l'ingresso nella navata sinistra. Fu smantellata nel 1614 sotto il pontificato di Paolo V Borghese che fece trasferire il monumento funebre di Pio II nella chiesa di Sant'Andrea della Valle dove attualmente si trova.
Successivamente, sotto papa Urbano VIII (1623-1644) la reliquia venne trasferita nella cappella dedicata a Sant'Andrea ricavata all'interno di uno dei quattro pilastri che sorreggono la cupola (le altre tre cappelle ricavate negli altri pilastri sono dedicate a Sant'Elena, San Longino e alla Veronica).
(4) Pio II aveva fatto ricostruire quasi completamente il piccolo borgo dove era nato dal Rossellino - un allievo di Leon Battista Alberti - e lo aveva rinominato Pienza.

Bibliografia:
S. Ronchey, Andrea, il rifondatore di Bisanzio. Implicazioni ideologiche del ricevimento a Roma della testa del patrono della chiesa ortodossa nella settimana santa del 1462, in M. Koumanoudi e C. Maltezou (a cura di), Dopo le due cadute di Costantinopoli (1204, 1453). Eredi ideologici di Bisanzio. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Venezia, 4-5 dicembre 2006), Venezia, Edizioni dell’Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini, 2008, pp. 259-272.




martedì 4 aprile 2017

Il cassone con dipinta la Caduta di Trebisonda

Il cassone con dipinta la Caduta di Trebisonda


E' un cassone nuziale fiorentino del XV secolo – oggi conservato nel Metropolitan Museum di New York - che, nella parte frontale, mostra dipinta la Caduta di Trebisonda.
E' segnalato per la prima volta in un articolo del Weisbach del 1913 come proveniente da casa Strozzi per la presenza delle insegne araldiche della famiglia (1). E' considerata opera della bottega fiorentina di Apollonio di Giovanni e Marco del Buono Giamberti.
In una variopinta scena di battaglia sono raffigurate due città: a sinistra Costantinopoli, identificabile dalla legenda e dall'accurata resa della topografia; in alto a destra Trebisonda, anch'essa identificata dalla legenda e, per la maggiore contiguità alla scena di battaglia, considerata come fulcro dell'azione.
Il tema raffigurato suggerisce quindi un termine post quem per la datazione (1461, caduta di Trebisonda) mentre la morte di Apollonio di Giovanni (1465) ne stabilisce uno ante quem.


Come già osservato la topografia costantinopolitana è molto accurata, sulla sponda opposta di un dilatato Corno d'Oro si distingue il sobborgo di Pera e più a nord, indicata come chastelo novo dalla didascalia, la fortezza di Rumeli Hisari fatta costruire nel 1452 da Maometto II sul versante europeo del Bosforo.
L'accuratezza topografica della ricostruzione della fortezza risulta evidente dal confronto con un suo schizzo realizzato da una spia veneziana all'incirca nel 1453.

Cod.membr.641, 1453 c.ca,
Biblioteca Trivulziana, Milano

Ben riconoscibile, sulla sponda asiatica, è anche il sobborgo di Scutari (l'antica Crisopoli) indicato dalla didascalia come Loscuterio).
 
Particolare della raffigurazione di Costantinopoli

All'interno delle mura di Costantinopoli si distinguono chiaramente la colonna di Giustiniano – priva della statua equestre dell'imperatore, come appariva già poco tempo dopo la conquista ottomana - e l'obelisco di Thutmosi III nella spina dell'Ippodromo. Ancora, in primo piano Santa Sofia, con la cupola e le due semicupole e, davanti ad essa e più bassa, la cupola di Sant'Irene. All'angolo nordoccidentale della città l'edificio a tre piani addossato alle mura è il palazzo delle Blacherne sul cui tetto sembra di veder sventolare il vessillo dei Paleologi,


a sinistra di questo un altro edificio coperto da cupola e a cui è addossato un porticato rappresenta molto probabilmente il katholikon del monastero di San Giovanni Battista nel quartiere di Petrion (2) mentre di più incerta identificazione è la chiesa a pianta basilicale con un tetto a doppio spiovente, eretta su un basamento a cui da accesso una scalinata di tre gradini. La chiesa presenta inoltre una facciata in cui si aprono tre portali, quello centrale dei quali sormontato da rosone e la didascalia la indica chiaramente come dedicata a San Francesco.

Nella rappresentazione di Trebisonda non si riscontra invece una altrettanta accuratezza topografica, sì che essa sembra corrispondere piuttosto ad un modello immaginario.
L'abbigliamento e l'armamento degli eserciti che si scontrano appaiono molto simili, differendo soltanto per la foggia dei copricapo: conici e, in alcuni casi, forniti di una falda ripiegata alla base o ornati da una piuma, per i trapezuntini; bassi ed ornati da una fascia bianca, a ricordare la forma di un turbante, per i turchi.
L'esito della battaglia è evidenziato dai prigionieri tapezuntini inginocchiati con le mani legate dietro la schiena nei pressi del campo nemico.

Andrea Paribeni (2001) ha però rilevato una serie di incongruenze in questa interpretazione:
1. L'ultimo imperatore di Trebisonda, Davide II Comneno, si arrese a Maometto II senza combattere. Non vi fu quindi alcuna battaglia (cfr. scheda L'impero di Trebisonda);
2. Maometto marciò su Trebisonda da Costantinopoli - quindi da ovest - e non da oriente come nel dipinto.
Ma è soprattutto la parola tanburlana che compare, appena sbiadita, nei pressi del carro che trasporta il comandante dell'esercito vincitore, a fargli avanzare l'ipotesi che l'esercito vittorioso proveniente da oriente sia quello dei mongoli di Tamerlano mentre gli sconfitti siano i turchi del sultano Beyazit I nella battaglia di Ankara (1402).
La presenza della città di Trebisonda – che comunque appare nel dipinto estranea alla battaglia (ad esempio non si notano soldati sulle mura) – andrebbe ricercata nella committenza che Paribeni fa risalire a Vanni degli Strozzi come dono nuziale per il matrimonio del fratello Ludovico con la figlia di Bertoldo Corsini e collega ad i suoi recenti interessi economici nella città di Trebisonda.
Il riferimento alla battaglia di Ankara alluderebbe inoltre ad una adesione del committente al progetto politico elaborato da papa Pio II Piccolomini intorno al 1458 di formare un'alleanza antiottomana tra i regni cristiani orientali e Unzun Hasan, il beg dei turcomanni di Ak Koyunlu (il Montone bianco) che aveva sposato Teodora Grande Comnena, figlia dell'imperatore trapezuntino Giovanni IV. Unzun Hasan, tra l'altro, aveva mutuato per sè proprio l'appellativo di nuovo Tamerlano.


In quest'ottica interpretativa, T.Braccini (2024) nella parte destra della scena identifica come Tamerlano la figura seduta nella tenda che colloquia con l'imperatore Davide II in sella al cavallo nero mentre sul carro trionfale siederebbero di nuovo Tamerlano e Unzun Hasan. La scena raffigurerebbe quindi uno scontro, auspicato ma storicamente mai avvenuto, tra la lega antiottomana guidata da Unzun Hasan e l'esercito ottomano di Maometto II per sottrarre alla conquista Trebisonda. La figura di anacronistica di Tamerlano sarebbe presente come auspicio di vittoria in memoria della battaglia di Ankara (3).


Note:

(1) Quando, circa un anno dopo l'articolo del Weisbach, il cassone venne acquistato dal Metropolitan Museum era però già privo di queste insegne. La provenienza da casa Strozzi sembra però confermata dall'impresa dipinta sulle fiancate laterali, un falcone ad ali spiegate appollaiato su un trespolo. Strozziere significa infatti falconiere.
 
 
(2) Sul monastero di San Giovanni Battista in Petra vedi scheda la chiesa di San Nicola al Bogdan saray, nota 2.

(3) Paribeni osserva che se da un lato un oggetto destinato ad un uso privato come un cassone può apparire poco adatto a veicolare un messaggio politico, dall'altro questo durante l'esposizione dei doni nuziali viene visto da tutti, ben prestandosi quindi al "doppio gioco" di un mercante fiorentino come Vanni Strozzi il cui animo si divideva tra gli interessi commerciali delle nuove relazioni che andava stringendo con gli ottomani e l'adesione allo spirito crociato. A questo Baccini aggiunge l'osservazione che  essendo l'alleanza antiottomana auspicata nata come conseguenza del matrimonio tra Unzun Hasan e Teodora, ciò rendeva il soggetto rappresentato appropriato per un dono nuziale



lunedì 22 giugno 2015

La cacciata del duca di Atene dell'Orcagna

La cacciata del duca di Atene dell'Orcagna, Palazzo Vecchio, Firenze



Il Duca di Atene, Gualtiero VI di Brienne, fu cacciato da Firenze il 26 luglio 1343. Nell'occasione fu assaltato il carcere delle Stinche, quello dei detenuti politici, e liberati tutti gli oppositori che il duca aveva fatto incarcerare. Per ricordare l'evento fu commissionata - probabilmente ad Andrea di Cione detto l'Orcagna - l'esecuzione in loco di un affresco celebrativo. Con la dismissione e la distruzione parziale del carcere, dopo il 1833, l'affresco fu inglobato in un nuovo tabernacolo e solo nel 1964 staccato e restaurato. Attualmente è conservato nella Salotta del Quartiere di Leonora di Palazzo Vecchio.
Di forma circolare, l'affresco presenta un diametro di circa tre metri e in origine presentava all'intorno i segni dello Zodiaco, dei quali oggi rimane visibile solo quello del Leone, alternati a figure femminili e ad alcune iscrizioni poste a commento della scena. Nella scena principale è rappresentato al centro Palazzo Vecchio (si tratta della sua più antica rappresentazione conosciuta), nell'assetto riscontrabile tra il 1323, anno della costruzione dell'Aringhiera, e il 1349, quando furono demolite le antiporte fatte costruire dal Duca.
Sulla sinistra si vede una figura femminile con l'aureola (variamente interpretata, probabilmente sant'Anna, la cui festività ricorreva il giorno della cacciata del Duca) seduta su un trono coperto da un drappo sorretto da due angeli. Essa porge, in segno di restituzione, i tre gonfaloni di Firenze, del Popolo e del Comune ad un gruppo di cavalieri, inginocchiati per riceverli: si tratta di una rappresentazione simbolica della restituzione del potere alle milizie fiorentine. Questi cavalieri hanno la spada nella mano destra e guardano con intensità la loro protettrice. Sul fianco destro delle loro cotte d'armi si vede la lettera T, che sembrerebbe identificarli come cavalieri dell'Ordine del Tau di Altopascio (1). A terra si vedono una spada spezzata, una bilancia anch'essa spezzata, un libro chiuso ed uno scudo deformato.
Sulla destra dell'affresco si vede il Duca d'Atene che, con un abito guarnito d'ermellino, si allontana dal trono che rimane vuoto scacciato da un angelo, portandosi via uno strano oggetto dalle forme antropomorfe. Secondo l'interpretazione convenzionalmente accettata si tratterebbe del mitico Gerione, demone della frode, descritto nell'Inferno di Dante come un mostro dalla testa di uomo e dal corpo di serpente, a simboleggiare la frode che il Duca teneva in petto. L'angelo porta sul braccio sinistro una colonna e, nella mano destra, un frustino a tre corde, simboli della Passione di Cristo.

Esistono comunque degli elementi d'incongruenza che stridono con l'interpretazione convenzionale, il più eclatante dei quali è proprio lo strano oggetto nelle mani del duca, e che hanno dato adito a letture alternative come quella, piuttosto fantasiosa, di Giulio Lensi Orlandi (Il Bafometto a Firenze, in Almanacco italiano, 1976) che ha ritenuto di identificare in esso il Bafometto e ha posto l'affresco in relazione al processo ai Templari.
Un'ipotesi più recente (V.Perrera, Il custode delle reliquie, 2010; E.Baccarini, Sindone. Firenze e i misteri del sacro telo, 2010) ha invece identificato in esso la Sindone-Mandylion (2) trafugata a Costantinopoli nel sacco del 1204 da Ottone de La Roche, futuro primo duca di Atene e antenato di Gualtiero VI.

Note:

(1) A tutt’oggi non si conosce con esattezza l’anno di fondazione dell’Ordine ospitaliero dei Cavalieri del Tau di Altopascio, in quanto manca il documento inerente all’istituzione dell’ospedale, la cui prima attestazione ci perviene da un atto di donazione risalente al 2 agosto 1084, in cui si fa riferimento ad un ospizio ubicato in loco et finibus ubi dicitur Teupascio. Comunque già intorno al 1080 o negli anni immediatamente seguenti era di certo già nata tale struttura ospedaliera, se è vero che in una bolla del 1154, papa Anastasio IV, fa riferimento a precedenti decime concesse all’ospedale di Altopascio dal vescovo diocesano Anselmo. Essendo l'ospedale rivolto soprattutto all'assistenza dei pellegrini che percorrevano la via Francigena, lungo il cui itinerario si trovava Altopascio, l'ordine adottò come proprio simbolo il “Tau”, tale lettera greca evocava infatti, in primo luogo, la caratteristica forma del bordone dei pellegrini, ma, al tempo stesso si caricava anche di altri contenuti simbolici, quali, ad esempio, il richiamo alla croce.
In alcuni sigilli dell'Ordine il Tau compare anche affiancato alle conchiglie che i pellegrini si procuravano a Santiago di Compostela, sede del pellegrinaggio alla tomba di San Giacomo Maggiore che era anche il santo protettore dell'Ordine.
L'Ordine conobbe l'acme del suo splendore nel XIII secolo divenendo proprietario di vasti territori lungo il percorso della via Franchigena e aprendo delle magioni anche fuori d'Italia (nel 1180 l'Ordine possedeva a Parigi un ospedale ed una cappella), all'epoca della cacciata del duca le sue fortune erano però già declinanti, a causa del coinvolgimento di Altopascio nel conflitto tra Firenze e Pisa-Lucca. L'Ordine fu definitivamente soppresso da papa Sisto V nel 1587 ed i suoi beni ceduti alla milizia di Santo Stefano.

(2) Secondo questa ipotesi, il Mandylion di Edessa, custodito a Costantinopoli nella chiesa palatina della Vergine del Faro a partire dal 944 e di cui si perde ogni traccia dopo il sacco crociato, non sarebbe altro che la Sindone ripiegata in modo da mostrare solo il volto del Cristo.

Vedi anche le schede su Ducato di Atene e La contea di Lecce e la casa dei Brienne








giovedì 21 novembre 2013

San Benedetto incontra Totila di Luca Signorelli

San Benedetto incontra Totila di Luca Signorelli


Il ciclo di affreschi che illustrano Le storie di San Benedetto nel Chiostro Grande dell'Abbazia di Monte Oliveto (Siena) venne commissionato dall'abate e generale degli Olivetani fra Domenico Airoldi a Luca Signorelli, che vi lavorò con la sua la bottega dal 1497 al 1498; chiamato alla più prestigiosa commissione della Cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto, abbandonò l'opera incompleta, che venne poi ultimata dal Sodoma, chiamato ancora dall'Airoldi - che nel frattempo era stato rieletto abate del monastero – nel 1505.
La narrazione dell'incontro tra San Benedetto e Totila si sviluppa in due lunette, entrambe opera di Luca Signorelli.

Papa Gregorio Magno (590-604) così descrive l'episodio nei suoi Dialogi (II,15)


«Al tempo dei Goti, il loro re Totila, avendo sentito dire che il santo era dotato di spirito di profezia, si diresse al suo monastero. Si fermò a poca distanza e mandò ad avvisare che sarebbe tra poco arrivato. Gli fu risposto dai monaci che senz’altro poteva venire.

Insincero però com’era, volle far prova se l’uomo del Signore fosse veramente un profeta. Egli aveva con sé come scudiero (spatarius) un certo Riggo: gli fece infilare le sue calzature, lo fece rivestire di indumenti regali e gli comandò di andare dall’uomo di Dio, presentandosi come fosse il re in persona. Come seguito gli assegnò tre conti tra i più fedeli e devoti: Vult, Ruderic e Blidin, i quali, in presenza del servo di Dio, dovevano camminare ai suoi fianchi, simulando di seguire veramente il re Totila. A questi aggiunse anche altri segni onorifici ed altri scudieri, in modo che, sia per gli ossequi di costoro, sia per i vestiti di porpora, fosse giudicato veramente il re.
Appena Riggo entrò nel monastero, ornato di quei magnifici indumenti, e circondato dagli onori del seguito, l’uomo di Dio era seduto in un piano superiore. Vedendolo venire avanti, appena fu giunto a portata di voce, gridò forte verso di lui: “Deponi, figliolo, deponi quel che porti addosso: non è roba tua!”. Impaurito per aver presunto di ingannare un tal uomo, Riggo si precipitò immediatamente per terra e, come lui, tutti quelli che l’avevan seguito in questa gloriosa impresa.
Poco dopo si rialzarono in piedi, ma di avvicinarsi al santo nessuno più ebbe il coraggio. Ritornarono al loro re e ancora sbigottiti gli raccontarono come a prima vista, con impressionante rapidità, erano stati immediatamente scoperti.
Totila allora si avviò in persona verso l’uomo di Dio. Quando da lontano lo vide seduto, non ebbe l’ardire di avvicinarsi: si prosternò a terra. Il servo di Dio per due volte gli gridò: “Alzati!”, ma quello non osava rialzarsi davanti a lui. Benedetto allora, questo servo del Signore Gesù Cristo, spontaneamente si degnò avvicinarsi al re e lui stesso lo sollevò da terra. Dopo però lo rimproverò della sua cattiva condotta e in poche parole gli predisse quanto gli sarebbe accaduto. “Tu hai fatto molto male – gli disse – e molto ne vai facendo ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità. Tu adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo morirai”.
Lo atterrirono profondamente queste parole, chiese al santo che pregasse per lui, poi partì. Da quel giorno diminuì di molto la sua crudeltà.
Non molto tempo dopo andò a Roma, poi ritornò verso la Sicilia; nel decimo anno del suo regno, per volontà del Dio onnipotente, perdette il regno e la vita».

L’esistenza storica dei tre conti (comites) ostrogoti di cui viene indicato il nome nel testo gregoriano (Vult, Ruderic e Blidin), è confermata da Procopio. Ruderic fu ucciso nel dicembre 546 (Procopio, De Bello Gothico, III,19) e ciò consente di stabilire un termine ante quem per l’incontro con San Benedetto nel monastero di Montecassino, che si ritiene avvenuto nel 542, mentre Totila, scavalcati gli Appennini, marciava su Napoli e si accingeva a riconquistare l'Italia meridionale.


Come Benedetto discopre la finzione di Totila
 
In primo piano Riggo, camuffato da Totila per ingannare Benedetto, in ginocchio di fronte alla figura del santo che lo invita a spogliarsi delle vesti non sue, esprime tutta la sua costernazione. Alle spalle di Riggo, alla testa del suo seguito, si distinguono i tre nobili ostrogoti riccamente vestiti mentre i soldati della scorta, dai tratti accigliati, sembrano sul punto di intervenire (uno di loro ha già la mano sull'elsa del pugnale). Sullo sfondo della scena Riggo riferisce al suo re l'accaduto.
 
Come Benedetto riconosce e accoglie Totila
 
San Benedetto si alza e solleva lui stesso da terra il vero Totila inginocchiato ai suoi piedi.
 
L'incontro tra San Benedetto e Totila s'inscrive appieno nella consolidata tradizione veterotestamentaria in cui il dono profetico di un vir Dei viene esercitato nei confronti di un re malvagio spingendolo ad un ravvedimento (cfr. ad es. l'incontro di Daniele con il re babilonese Baldassar in Daniele, V, 13-29).
Nel basso medioevo, la caratterizzazione di Totila come perfidus rex è infatti decisamente più accentuata che non nei cronisti contemporanei. Nella Chronica di Giovanni Villani (XIV sec.) gli viene ad esempio attribuito per due volte l'epiteto di Flagellum Dei, solitamente riferito ad Attila, sintomatico di una sovrapposizione dei due personaggi storici.


 
 




domenica 3 novembre 2013

Sant'Agostino nello studio di Vittore Carpaccio

Sant'Agostino nello studio di Vittore Carpaccio

Vittore Carpaccio, Sant'Agostino nello studio (Visione di Sant'Agostino), 1502
Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia
 
Carpaccio, al culmine della propria carriera, venne chiamato dalla Scuola Minore degli Schiavoni, cioè dei Dalmati residenti o di passaggio a Venezia, per dipingere un ciclo di sette teleri sulle storie dei santi protettori della confraternita (Giorgio, Girolamo e Trifone) a cui si aggiunsero altre due tele fuori della serie con Storie evangeliche. Il lavoro per gli Schiavoni iniziò nel 1502 e terminò nel 1507.
Sant'Agostino è ritratto nel proprio studio, mentre viene distratto dalla scrittura dalla voce di Girolamo, che gli appare in forma luminosa dalla finestra accanto allo scrittoio.
L'episodio viene riportato dal frate predicatore domenicano Petrus Calo de Clugia (ossia da Chioggia) nel 1348 (Acta Sanctorum, settembre, VII, 423) che si riferisce ad una epistola apocrifa di Agostino al vescovo di Gerusalemme Cirillo, in cui il santo racconta di aver avuto la visione del Battista e di Girolamo che gli comunicava la sua morte mentre egli era intento proprio a scrivergli una lettera.
Il miracoloso annuncio viene ambientato nello stanza di un colto e raffinato umanista del tempo, rappresentata con la cura meticolosa dei dettagli che caratterizza le opere di Carpaccio.
In una stanza più o meno rettangolare, con soffitto dipinto, Agostino sta seduto su una panca poggiata su una pedana rialzata, coperta di tessuto verde e profilata da borchie, dove si trova il tavolo da studio, retto da una candelabra.
Numerosi libri dimostrano i suoi interessi eruditi o musicali, dato che alcuni sono aperti e mostrano righe di pentagramma; da molti di essi pendono le corde segnalibro. Uno stipo si trova incassato nel muro sotto la finestra, con cassetti estraibili e mensole dove si intravedono un fascicolo e una clessidra. La scrivania e la stessa panca sono ingombre di libri dalle preziose rilegature, cofanetti, strumenti per la scrittura e oggetti curiosi, come una campanella e una conchiglia. Davanti alla finestra pende una sfera armillare (1), mentre anche le modanature decorative della parete sono usate come mensole e vi si trovano vasi, bottiglie e altro.
Al centro della parete di fondo si apre una nicchia con altare, in cui, come mostra la tenda scostata, sono riposti gli oggetti liturgici (due ampolle, una navicella portaincenso, un paramento ripiegato, due libri da messa) mentre sul piano è appoggiata la mitria vescovile e sullo spigolo destro dell’abside il bastone pastorale.
Sull'altare campeggia una statua di san Giovanni Battista e il catino della semicupoletta è decorato da mosaici dorati in stile veneziano-bizantino.
Ai lati dell'altare si trovano due portali gemelli, finemente decorati in stile rinascimentale.
Quello di sinistra è aperto e mostra una stanzetta con una propria finestrella, secondo il gusto per le molteplici fonti di illuminazione derivate dall'arte fiamminga e ben popolari a Venezia dopo l'esempio dato da Antonello da Messina (in particolare nel San Girolamo nello studio, che probabilmente Carpaccio vide e studiò). Qui, su un tavolo retto da tre coppie di gambe incrociate e coperto da una tovaglia rossa, si trovano numerosi altri strumenti dello studioso: ancora numerosi libri, alcuni appoggiati su un leggio monastico, e, sulla mensola che corre lungo il perimetro della stanzetta, vari strumenti astronomici e scientifici, tra cui un quadrante e il famoso astrolabio di Regiomontano.
Lungo la parete sinistra della stanza principale si trovano altre due lunghe mensole: una inclinata, dove sono appoggiati in sequenza un numero straordinario di libri, dalle copertine in sgargianti colori; una piana dove si trova una collezione di anticaglie, con vasi, bronzetti, e altri oggetti. In alto si trova un reggicandela a forma di zampa leonina (un secondo è in posizione simmetrica dall'altro lato), mentre in basso, oltre ad alcuni volumi di notevole mole, si vede su una pedana un sedile e un inginocchiatoio per la meditazione.
Al centro della stanza si trova un cagnolino maltese e, poco più in là, il cartiglio con la firma dell'artista e la data.
 
Nella fila degli astrolabi appesi alla mensola che corre lungo tutto il perimetro della stanzetta, quello Regiomontano è il primo da destra
 
L’ipotesi che il pittore e i suoi committenti abbiano voluto ritrarre Bessarione nei panni di sant’Agostino, commemorandolo a trent’anni di distanza dalla scomparsa nella Scuola cui aveva concesso nel 1464 un’importante indulgenza e nella città dove aveva soggiornato a lungo in compagnia di Niccolò Perotti ma anche di Giovanni Regiomontano, è stata probabilmente dimostrata in via definitiva da Patricia Fortini Brown, nel momento in cui per prima ha identificato, tra i molti oggetti disposti nel dipinto a connotare l’identità del personaggio, o meglio ancora la sua dimensione di studioso di astronomia, un oggetto unico, specificamente e indubitabilmente di proprietà di Bessarione: l’astrolabio Regiomontano.
L'astronomo Johannes Muller nativo di Koenisberg, più noto come Giovanni Regiomontano, aveva conosciuto Bessarione a Vienna ed era stato ospite del cardinale in Italia, soprattutto a Roma, nei successivi cinque anni giacché Bessarione lo aveva incaricato di scrivere l'Epitome dell'Almagesto di Tolomeo.
L'astrolabio da lui realizzato – oggi conservato in una collezione privata londinese – fu presentato a Roma nel 1462 con incisa una dedica al cardinale.
 
L'astrolabio Regiomontano di Bessarione
collezione privata, Londra
 
Altri elementi che suggeriscono l'identificazione di sant'Agostino con Bessarione sono gli attributi vescovili (mitria e bastone pastorale) presenti nella stanza, la porpora cardinalizia che spunta dalla sopravveste e la cappa nera che dalle spalle scende sino al petto dei monaci basiliani: tutte e tre identità ecclesiastiche che appartenevano a Bessarione.
La conchiglia posata sullo scrittoio (usata all'epoca per lisciare le pergamene) sarebbe un attributo esplicito dello scrittore e del bibliofilo (De Marchis) (2) mentre nella pergamena sigillata ai piedi del santo si dovrebbe riconoscere l'indulgenza concessa da Bessarione alla scuola nel 1464, per l'impegno profuso dalla confraternita nell'organizzazione della crociata promossa da papa Pio II Piccolomini (Perrocco) e nel grande sigillo rosso in primo piano quello del cardinale stesso (Branca).
L'inconsueta presenza del cagnolino quasi al centro dello studio – che guarda immobile verso l'apparizione di S.Gerolamo oltre la finestra – è spiegata dalla Fortini Brown come una citazione dalla miniatura del frontespizio del codice Marc. gr. 388 della Geografia di Tolomeo, eseguita per il cardinale probabilmente intorno al 1453, in cui Bessarione è ritratto nei panni di Tolomeo ed è appunto in compagnia di un piccolo animale (un piccolo cane secondo l'autrice o una donnola).
 
Frontespizio del codice Marc. gr. 388 della Geografia di Tolomeo, 1453
Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia
Note:
 
(1) Il suo nome deriva dal latino armilla (cerchio, braccialetto), poiché ha uno scheletro composto da cerchi metallici graduati che collegano i poli e rappresentano l'equatore, l'eclittica, i meridiani e i paralleli. Al suo centro è posta una palla che rappresenta la Terra (in seguito il Sole) e viene usata per mostrare il movimento delle stelle attorno alla Terra.
Le sfere armillari vennero sviluppate dai greci e furono usate come strumento didattico già nel III secolo a.C. Con forme più grandi e precise erano usate anche come strumenti di osservazione.
Divennero nuovamente diffuse nel tardo medioevo; l'astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601) ne costruì diverse .
Scienziati rinascimentali e altre figure pubbliche spesso si facevano ritrarre con in mano una sfera armillare, che rappresentava le vette della saggezza e della conoscenza.

(2) La conchiglia contiene comunque anche un rimando piuttosto esplicito ad un tema iconografico più strettamente agostiniano largamente diffusosi nella pittura rinascimentale.
Mentre passeggia lungo la spiaggia, immerso nella riflessione sui misteri trinitari, il santo incontra un bambino che aveva scavato una buca nella sabbia e corre continuamente dal mare alla buca trasportandovi un po' d'acqua con una conchiglia. “A cosa stai giocando?”, gli domanda il santo e il bambino gli risponde che non si tratta di un gioco ma che vuole trasferire tutto il mare nella buca. Agostino gli spiega sorridendo che è impossibile, perchè il mare è troppo grande per essere contenuto nella buca. Mentre si sta allontanando, il bambino (che è in realtà un angelo inviato dal Signore) gli dice: "Forse hai ragione Agostino, ma sappi che è più facile per me travasare qui le acque dell'intero Oceano che alla tua mente comprendere i misteri di Dio e della SS.Trinità".
Dell'episodio non c'è traccia negli scritti di Sant'Agostino; secondo Padre Antonio Iturbe Saìz questo episodio apparve in uno degli exempla che si scrivevano per i predicatori nel XIII secolo applicato a un professore di scolastica di Parigi con un fine chiaramente morale: criticare la alterigia e la superbia dei teologi. Cominciò ad essere attribuito al santo africano (la prima fonte scritta in cui questo avviene è del 1263) perchè necessitava un protagonista alla storia stessa e Agostino era l'uomo adatto in quanto era considerato un sommo teologo e perchè in un dialogo tra Agostino e san Girolamo, contenuto nella già citata lettera apocrifa al vescovo di Gerusalemme, Agostino ricorda una rivelazione divina con queste parole: Augustine, Augustine, quid quaeris ? Putasne brevi immittere vasculo mare totum?.




La leggenda della Vera Croce nella basilica francescana di Arezzo

La leggenda della Vera Croce nella basilica francescana di Arezzo

Interno della basilica di San Francesco di Arezzo

Nel 1417 era morto Baccio di Maso Bacci, un ricco mercante appartenente a un'importante famiglia aretina, che nelle sue disposizioni testamentarie aveva previsto un generoso lascito per la decorazione del coro della basilica francescana, patronato dalla famiglia stessa. Iniziative del genere non erano infrequenti nei testamenti tra Medioevo e Rinascimento, ed erano una sorta di riconciliazione religiosa di individui di successo che si erano arricchiti in maniera non del tutto tollerata dalla Chiesa, come il prestito e il cambio, che all'epoca erano considerati peccato di usura.
Le disposizioni testamentarie vennero messe in pratica dagli eredi solo trent'anni dopo, quando nel 1447 Francesco Bacci vendette una vigna per pagare i lavori che vennero affidati all'attempato artista fiorentino Bicci di Lorenzo, maestro di una delle più attive botteghe della città toscana, ma dallo stile piuttosto ancorato al passato, che non abbracciò mai, se non in questioni superficiali, le novità dell'arte rinascimentale.
Il programma iconografico del ciclo sarà incentrato su una storia diffusa in età medievale e cara alla predicazione francescana: la Leggenda della Vera Croce, raccolta da Jacopo da Varagine nella sua Legenda aurea, la summa dell'agiografia compilata dal frate domenicano nel XIII secolo.
Nei primi anni cinquanta del Quattrocento, dunque, Bicci di Lorenzo si mette all'opera nella chiesa francescana di Arezzo. Ma già nel 1452 l'artista muore, lasciando le pareti della cappella ancora spoglie, a eccezione dei quattro evangelisti nelle vele della copertura a crociera, i dottori della Chiesa nel sottarco e il Giudizio Universale sopra l'arco trionfale.
Nello stesso anno Piero della Francesca viene chiamato – presumibilmente da Giovanni Bacci, figlio di Francesco - a mettere mano al lavoro incompiuto del pittore da poco deceduto. Il programma iconografico è già definito e la famiglia Bacci preme per ottenere che la decorazione sia completata nel minor tempo possibile.

La Leggenda della Vera Croce

La fortuna della leggenda della Vera Croce è collegata al culto di Sant'Elena, madre di Costantino (Legenda aurea, cap. LXVIII).

I. La vicenda narrata in questa fabula cristiana affonda le sue radici nell'epoca dei progenitori dell'umanità, Adamo ed Eva: Seth, figlio di Adamo, riceve da un angelo un seme che pone nella tomba del padre. Secoli dopo dal seme cresce un grande albero, il cui tronco però non si adatta a nessun uso, e viene quindi gettato a mo' di ponte sopra un fiumiciattolo; quando la Regina di Saba in visita a Salomone gli profetizzerà che quello stesso legno deciderà del declino della religione ebraica, il tronco viene seppellito.
Il legno ricompare in modo misterioso proprio qualche giorno prima della condanna a morte di Cristo e presta il suo materiale alla Croce del Golgota.

II. Il giorno prima della battaglia di Ponte Milvio (28 ottobre 312), Costantino vede stagliarsi in cielo, al di sopra del sole, il segno luminoso di una croce accompagnata dalla scritta Εν Τουτῳ Νικα (In Hoc Signo Vinces nella vulgata latina). Durante la notte gli appare in sogno un angelo che gli ordina di adottare il segno visto in cielo come suo vessillo. All'alba del giorno della battaglia, Costantino fa sovrapporre al labaro imperiale il monogramma di Cristo (Chi-ro) e sconfigge Massenzio (Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, 337 c.ca).

III. Nel 326 l'imperatrice madre, l'augusta Elena, si reca in pellegrinaggio in Terrasanta. A Gerusalemme riesce a scovare l'unico ebreo a conoscenza dell'esistenza del prezioso legno e lo sottopone a torture finché non rivela il suo nascondiglio.
Dopo avere recuperato il legno, Elena stessa ne verifica l'autenticità (il cadavere di un uomo viene disteso sul sacro legno e questi resuscita) e lo consacra come preziosa reliquia. La croce – a parte alcuni frammenti che l'imperatrice madre invia a Roma (dove sono a tutt'oggi conservati nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme) e Costantinopoli – verrà conservata nella basilica del Santo Sepolcro fatta erigere da Costantino ed inaugurata nel 335.

IV. Nei 614 i Persiani conquistano Gerusalemme e la croce è predata dal re Cosroe II e portata in Persia.
Il 12 dicembre 627 l'imperatore Eraclio (610-641) sconfigge l'esercito di Cosroe nella decisiva battaglia di Ninive. Cosroe viene deposto e ucciso ed il suo successore, Kavadh II, accettò nel 628 la pace proposta da Eraclio e si ritirò dai territori occupati dai Sasanidi nel corso della guerra, restituendo la reliquia della vera croce.
Nello stesso anno Eraclio, dopo essersi spogliato della sontuosa veste imperiale, entra in Gerusalemme dalla Porta d'oro – la stessa da cui aveva fatto il suo ingresso Gesù il giorno della Domenica delle Palme - e riporta la reliquia presso il Santo Sepolcro (restitutio Sanctae Crucis).

V. L'esistenza di una stauroteca che contenesse la reliquia è attestata per la prima volta dal racconto della pellegrina Egeria (Itinerarium Egeriae), che si fermò tre anni a Gerusalemme (la data più comunemente accettata è 381-384), che la descrive come un cofano (loculus) d'argento dorato in cui la vera croce era conservata.
Da una fonte più tarda (Teofane, Chronographia, IX secolo) sappiamo invece per certo che negli anni venti del V secolo Teodosio II (408-450) fece innalzare sul Golgota una croce gemmata, prototipo di una lunga serie di raffigurazioni.

VI. Nel 1099, quando il governatore fatimide di Gerusalemme, Iftikhar al-Dawla, all'approssimarsi dell'esercito crociato espulse tutti i cristiani dalla città santa, alcuni preti ortodossi nascosero la preziosa reliquia. Essa fu ritrovata dopo la conquista della città (15 luglio 1099) da Arnolfo di Roeux – il primo patriarca latino di Gerusalemme – che fu costretto a ricorrere alla tortura per farsi rivelare il nascondiglio dai riluttanti preti ortodossi, e divenne la più preziosa reliquia del regno.

VII. Della Vera croce e della stauroteca che la conteneva si perdono completamente le tracce nel 1187, quando condotta in battaglia dal vescovo di Acri al seguito dell'esercito crociato, cade nelle mani dei musulmani nel corso della battaglia di Hattin (4 luglio 1187). Il cronista arabo, Imàd ad-Din, che era presente al seguito di Saladino alla battaglia, scrive che i crociati l'avevano incastrata in una teca d'oro, e coronata di perle e di gemme, e la tenevan preparata per la festività della passione, per la solennità della ricorrente lor festa. Quando i preti la cavavan fuori, e le teste (dei portatori) la trasportavano, tutti accorrevano e si precipitavano verso di lei, nè ad alcuno era lecito rimanere indietro, nè chi si attardasse a seguirla poteva più disporre di sè. La sua cattura fu per loro più grave che la cattura del Re, e costituì il maggior colpo che subirono in quella battaglia.

Cronologia di esecuzione del ciclo pittorico

Il lavoro di Piero nella chiesa aretina di San Francesco si protrae però con tutta probabilità per alcuni anni: la datazione del ciclo è a oggi ancora incerta, e l'arco di tempo interessato dalle ipotesi di datazione dei diversi critici abbraccia quasi un quindicennio dal 1452 (data della morte di Bicci di Lorenzo) al 1466 (anno in cui Piero riceve un'altra commissione per la città di Arezzo e dal documento si deduce che il ciclo nella chiesa di San Francesco è completato). Nel corso degli anni cinquanta Piero si reca a Roma, una o forse più volte: la critica è concorde nel datare un viaggio nell'inverno 1458-1459 presso Pio II, ma Vasari riferisce di un primo viaggio alla corte papale già nel 1453, su invito di Niccolò V.
Carlo Ginzburg (1981 e 1994) propende per un'esecuzione del ciclo dilatata nel tempo, in un arco ampio che arriva fino al 1466. Viene proposta quindi una cronologia interna degli affreschi secondo una articolazione in due fasi distinte (pre e post soggiorno romano).
Roberto Longhi (1963) analizza il ciclo di Arezzo in base a considerazioni squisitamente stilistiche e ipotizza per esso una cronologia compresa tra il 1452 e il 1459. La tesi longhiana si fonda tra l'altro sul confronto tra gli affreschi aretini e l'affresco riminese del Tempio malatestiano che raffigura Sigismondo Malatesta in preghiera davanti a San Sigismondo (1451): Longhi riconosce una parentela stilistica tra le due opere e, in base a questa, sostiene che l'artista subentrò attivamente in San Francesco immediatamente a ridosso della morte di Bicci di Lorenzo.
Sempre Longhi stabilisce una cronologia interna al ciclo: prima sarebbero state dipinte le due lunette con gli episodi della Morte di Adamo e della Riconsegna della Croce a Gerusalemme da parte di Eraclio, per ultimo il riquadro posizionato in basso lungo la parete sinistra, raffigurante la Disfatta e la decapitazione di Cosroe. Dall'esame dell'evoluzione interna al ciclo di Arezzo, lo stesso Longhi ipotizza che negli stessi anni 1452-1458 Piero avrebbe realizzato sia la Madonna del parto di Monterchi che la Resurrezione di Sansepolcro. Secondo Roberto Longhi, dunque, il ciclo sarebbe stato concluso prima del viaggio a Roma alla corte di Pio II del 1458-1459, dove Piero realizza il San Luca in Santa Maria Maggiore, accostabile stilisticamente agli episodi della fascia mediana della cappella (il riquadro con la Regina di Saba e Salomone e quello con Sant'Elena).

Schema iconografico e cronologia narrativa del ciclo
 
 
1. Morte di Adamo
2. Salomone e la regina di Saba
3. Innalzamento e sepoltura del legno
4. Sogno di Costantino
5. Battaglia di Ponte Milvio
6. Tortura dell'ebreo
7. Ritrovamento e verifica delle tre croci

8. Battaglia di Eraclio contro Cosroe

9. Esaltazione della Croce
 
1. La morte di Adamo (1460)
 
All'estrema sinistra sono rappresentati due giovani, che assistono con costernazione alla prima morte nella storia dell'uomo.
Sulla destra, seduto a terra e circondato dai suoi figli, il vecchio Adamo manda Seth presso l'arcangelo Michele. Nello sfondo si vede l'incontro tra Seth e Michele, mentre a sinistra, all'ombra di un grande albero, il corpo di Adamo viene sepolto alla presenza dei familiari. Ponendo tutte e tre le scene della rappresentazione nello stesso paesaggio, Piero si mantiene negli schemi narrativi tradizionali già usati da Masaccio nella Cappella Brancacci.
L'affresco occupa l'intera lunetta della parete destra e racconta di come Adamo, ormai anziano, è morente (gruppo di destra), assistito dall'anziana Eva e da altri discendenti. Il giovane ignudo di spalle è una citazione classica del Pothos di Scòpa (visto probabilmente in un disegno proveniente da Roma).

Photos
copia di età adrianea dell'originale di Scòpa (330 a.C. c.ca)
Museo Montemartini, Sala delle caldaie, Roma
 
Sullo sfondo del dipinto Seth è a colloquio con l'Arcangelo Michele, per chiedergli l'Olio della Misericordia. Ne riceve invece il germoglio dell'Albero della Conoscenza, che sarebbe cresciuto fino "ai tempi di Salomone".
Nella parte centrale avviene la morte di Adamo, con una donna che apre le braccia urlando di disperazione (e richiamando l'attenzione dello spettatore sul centro del dipinto), mentre Seth (quasi completamente cancellato dal cattivo stato di conservazione) sta piantando nella bocca di Adamo il germoglio dell'Albero.
All'estrema sinistra si trovano due giovani, dei quali uno è insolitamente estraneo all'evento e guarda fuori dallo spazio del dipinto, verso il Profeta sulla parete adiacente. Si tratta forse di una connessione tra l'evento narrato e la profezia della venuta del Salvatore che vincerà la morte.
 
2. Salomone e la regina di Saba (1452)
 
Due episodi sono mostrati nello stesso affresco, separati l'uno dall'altro dalla colonna del palazzo reale. L'elemento architettonico, la colonna, è il centro della composizione e il punto di vista dell'intero affresco. L'episodio sulla sinistra è tratto dalla leggenda, mentre quello sulla destra è un elemento iconografico aggiunto da Piero.
La Regina di Saba, nel suo viaggio per incontrare Salomone e in procinto di attraversare quel ponte, ha la visione che il Salvatore verrà crocifisso con quel legno. Invece di attraversarlo si inginocchia ad adorare quel legno. Quando Salomone scopre la natura del messaggio divino ricevuto dalla Regina di Saba ordina che il ponte venga rimosso e il legno sepolto. Ma il legno viene ritrovato e, dopo un secondo messaggio premonitore, diventa lo strumento della Passione.
 
3. Innalzamento (o sepoltura) del Legno
 
Sul muro frontale della cappella, nel lato destro della finestra e sotto un Profeta, è stato posto l'Innalzamento (o sepoltura) del Legno. Questa storia fu dipinta dal principale assistente di Piero, Giovanni da Piemonte.
Qui la pesante modellazione di Giovanni da Piemonte disegna le rigide pieghe dei vestiti dei portatori e i loro capelli raccolti. Sulla Croce la venatura del legno, come un elegante motivo decorativo, forma un alone attorno alla testa del primo portatore, che appare così come una prefigurazione di Cristo sul Calvario. Il cielo occupa metà della superficie dell'affresco e le bianche nuvole irregolari appaiono come intarsi nell'azzurro.
 
4. Il sogno di Costantino (1455)
 
Al di sotto del riquadro precedente, è raffigurata la scena in cui un angelo appare in sogno all'imperatore la notte che precede la battaglia di Ponte Milvio e gli intima di combattere nel segno della croce. 
La scena è ambientata in piena notte. Costantino dorme dentro la sua grande tenda. Seduto su un piano bagnato dalla luce, un servitore fissa l'osservatore in una silenziosa conversazione. Con una audace innovazione, che sembra anticipare il moderno concetto di luce di Caravaggio, le due sentinelle rimangono nell'ombra contornate solo dalla luce proveniente dall'angelo sopra di loro.
 
5. Battaglia di Ponte Milvio (1458?)
 
Nella Battaglia di Costantino contro Massenzio, Ginzburg ravvede nell'insistenza sulla figura di Costantino (figura assente nel ciclo di Agnolo Gaddi in Santa Croce a Firenze, che invece dà spazio unicamente alla figura di Eraclio) un dichiarato manifesto politico antiturco.
Il vessillo che portano i soldati 'romani' di Costantino reca infatti l'aquila monocipite, l'insegna imperiale romana che proprio Giovanni VIII prima e Costantino XI poi adottarono al posto della precedente aquila bicipite. Le insegne dell'esercito nemico di Massenzio, una testa di moro e un drago, sono un chiaro riferimento all'esercito turco: il drago è la bestia musulmana che assalta la cristianità, la testa di moro non ha bisogno di decrittazione.
Secondo altra interpretazione l'affresco, oltre a raffigurare genericamente la lotta contro il Turco, alluderebbe più specificamente alla vittoria del voivoda di Transilvania Giovanni Hunyadi contro l'esercito di Maometto II sotto le mura di Belgrado nel luglio 1456.
Secondo Ginzburg, inoltre, l'inserimento nel dipinto del ritratto di Giovanni VIII Paleologo nelle vesti di Costantino il Grande sarebbe una chiara prova della volontà della committenza di celebrare la figura del penultimo imperatore di Bisanzio: Giovanni Bacci, subentrato dopo la morte del padre Francesco nel 1459 alla 'guida' della committenza aretina, avrebbe intessuto rapporti molto stretti con Bessarione, e quindi richiesto esplicitamente a Piero di inserire nell'affresco il profilo dell'imperatore, forse anche passandogli, per conto dello stesso Bessarione, la medaglia pisanelliana come modello.
 
Raffronto del profilo di Costantino con quello di Giovanni VIII ritratto da Pisanello nella medaglia di bronzo realizzata in occasione del Concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439) 
 
L'intervento del cardinale sarebbe stato mirato a glorificare l'ultima dinastia imperiale bizantina nella figura di Giovanni VIII al seguito del quale era venuto in Italia per il Concilio di Ferrara-Firenze del 1438-1439 e grazie al quale era entrato in possesso del prezioso reliquiario che conteneva un frammento del legno della Vera Croce.
Al di là dell'allegoria, la battaglia tra Costantino e Massenzio è dipinta come una splendida parata dalla quale il fragore delle armi è stato definitivamente eliminato. L'assenza di movimento immortala i cavalli nell'atto di saltare, i guerrieri che gridano con le bocche aperte, tutti fissati dall'inflessibile struttura compositiva imposta dalla prospettiva lineare.
 
6. La tortura dell'ebreo
 
Sul muro frontale della cappella, nel lato sinistro della finestra e sotto un Profeta, è stata posta la scena della Tortura dell'Ebreo, dipinta da Giovanni da Piemonte.
 
7. Ritrovamento e verifica delle tre croci (1460)
 
Questa è una delle più complesse e monumentali composizioni di Piero.
L'artista dipinge sulla sinistra la scoperta delle tre croci in un campo arato, fuori delle mura di Gerusalemme, mentre sulla destra, in una via della città, avviene il riconoscimento della Vera Croce. Il suo grande genio, che gli permetteva di trarre ispirazione dal semplice mondo della campagna, come dall'atmosfera sofisticata delle corti, così come dalla struttura urbana di città come Firenze e Arezzo, raggiunge in questo affresco le vette della varietà visiva.
La scena sulla sinistra descrive una scena di lavoro nei campi e la sua interpretazione del lavoro umano come atto di epico eroismo è ulteriormente sottolineata dai gesti solenni delle figure, immobilizzate nella loro fatica rituale. Oltre le colline sullo sfondo, bagnata da una luce pomeridiana, Piero ha dipinto la città di Gerusalemme. E', di fatto, una delle più indimenticabili viste di Arezzo, racchiusa tra le sue mura e abbellita dalla varietà dei suoi edifici colorati, dalle pietre grigie ai rossi mattoni. Questo senso del colore, che permette a Piero di rendere la diversa natura dei materiali e con l'uso di tonalità differenti permette di far distinguere le stagioni e l'ora del giorno, raggiunge le massime vette in questo affresco, confermando il distacco dai pittori fiorentini contemporanei. Sulla destra, davanti al tempio di Minerva, la cui facciata in marmi di diverso colore è molto simile agli edifici progettati da Leon Battista Alberti, l'imperatrice Elena e il suo seguito sono attorno alla barella su cui giace il giovane morto; improvvisamente, toccato dal Sacro Legno, questi risorge. La Croce inclinata, lo scorcio del busto del giovane col suo profilo appena accennato, il semicerchio creato dalle dame di compagnia di Elena, e anche le ombre proiettate sul terreno, ciascun elemento è attentamente studiato per ottenere una profondità spaziale che mai prima, nella storia della pittura, era stata resa in maniera così fortemente tridimensionale.
 
Nel volto del camerlengo che, nella scena del ritrovamento, sta in piedi tra la croce e l'imperatrice, l'artista ha ritratto se stesso. 
 

All'estrema destra del dipinto, l'ultimo personaggio di un gruppetto di astanti che indossano copricapo di foggia bizantina, e che ricorre anche nel successivo pannello dell'Esaltazione della Croce, appare vestito allo stesso modo del cardinale Bessarione nel celebre dipinto della Flagellazione (Ronchey), con una sorta di sovramantella che cala lateralmente alle maniche e con un colletto floscio.
 
 
 
8. La battaglia di Eraclio contro Cosroe (1460)
 
L'imperatore Eraclio (610-641) dichiara guerra al re persiano Cosroe e, dopo averlo sconfitto, ritorna a Gerusalemme con il Legno Sacro. Ma la Volontà Divina impedisce all'Imperatore di fare il suo ingresso trionfale in città. Così Eraclio, abbandonate tutte le insegne del potere e della magnificenza, entra a Gerusalemme portando la Croce in un gesto di umiltà, seguendo l'esempio di Cristo.
Pienamente godibile è la concertazione dei dettagli, che sono di per sé dei capolavori fruibili anche indipendentemente. Celebri dettagli sono quelli del trombettiere con il cappello alla bizantina (che spicca chiaro per contrasto sulle figure scure attorno), le armature rinascimentali perfettamente ritratte nei lustri metallici, la cura meticolosa nella rappresentazioni delle più disparate armi.
Difficile è però coordinare con precisione l'insieme, per la mancanza di riferimenti spaziali precisi. Tutto appare infatti condensato e tutti gli spazi intermedi sono occupati da altre figure o parti di figure. Numerosi sono gli scambi di colori "a scacchiera" tra figure vicine, che rendono impossibile la distinzione tra amici e nemici. Per esempio la scena della pugnalata al collo vede due figure con corazza verde o bruna o le maniche o il cappello del colore opposto; il soldato con lo scudo sotto Eraclio porta nelle brache gli stessi colori che ha nello scudo (rosso, verde e bianco).
In alto si dispiega una selva di lance e spade intrecciate, con bandiere simboliche sventolanti. L'aquila simboleggia il potere imperiale ed è aggressivamente rivolta verso i nemici, col becco aperto. Vi è poi la bandiera dell'oca, simbolo di vigilanza, e il leone, emblema della forza e del coraggio; tra le bandiere dei nemici, ormai già lacerate, si riconoscono lo scorpione, simbolo del giudaismo, la testa di moro e la mezzaluna calante. Al centro della composizione campeggia intatto lo scudo crociato: esso simboleggia l'annuncio della vittoria, non ancora conseguita ma ormai inevitabile.
Un quarto circa della scena è occupato nell'estremità destra dal baldacchino sotto il quale si sta svolgendo l'esecuzione dello sconfitto Cosroe. L'ambiente, nonostante mostri un episodio successivo alla battaglia, è rappresentato in maniera continua, con le gambe di un cavallo al galoppo che invadono la parte inferiore.
Il baldacchino è quello che il re persiano usava per farsi adorare su di un trono, a fianco della Croce (issata a destra del trono) e di un gallo sulla colonna. In basso egli è raffigurato in ginocchio, circondato da un semicerchio di funzionari, mentre due guardie si avvicinano minacciose: quella di destra ha già la spada alzata nel braccio destro, che sfora di una porzione oltre il confine della scena. Gli uomini abbigliati alla moderna sono rappresentanti della famiglia Bacci, i committenti dell'opera, la cui presenza li pone simbolicamente tra i difensori del cristianesimo (quello di profilo a sinistra di Cosroe dovrebbe essere Giovanni Bacci).
 
9. L'Esaltazione della croce (1466)
 
La scena che chiude le Storie mostra la finale esaltazione delle Croce, cioè il suo rientro a Gerusalemme dove può essere issata di nuovo per la devozione. L'imperatore Eraclio (la sua figura è quasi completamente perduta) dopo aver ripreso la Croce a Cosroe si appresta a riportarla in città, ma un angelo lo interrompe sulla via e ferma la sua parata trionfale: il vescovo Zaccaria lo esorta allora a un atteggiamento d'umiltà, infatti solo entrando scalzo, come Cristo sul Golgota, l'imperatore può riportare la Croce a Gerusalemme.
L'affresco mostra quindi la parata del rientro della Croce, mentre dalla città un gruppo di fedeli si fa incontro e si inginocchia in adorazione. Questo episodio era ricordato dalla cerimonia religiosa dell'Esaltazione.
Dietro l'imperatore si trovano una serie di dignitari con vesti e mantelli all'antica e con vistosi cappelli che erano in uso nella corte bizantina e che vennero visti da Piero e da altri artisti durante il concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439). Il secondo dopo Eraclio, con la mitria di profilo, è il vescovo Zaccaria, il terzo è nuovamente il personaggio (Bessarione?) già visto nella scena del Ritrovamento della Vera Croce.
La parte destra, all'ombra delle imponenti mura della città dove si levano due torri fortificate, ha il carattere di un'istantanea, infatti non tutti i personaggi sono arrivati: alcuni sono già inginocchiati, con la testa fasciata come si usava portare sotto i copricapo, uno si sta per inginocchiare togliendosi il vistoso cappello alla bizantina (un motivo essenzialmente geometrico), mentre un altro sta accorrendo. L'allineamento degli oranti o dei partecipanti alla processione convoglia l'attenzione dello spettatore sui singoli volti, che sono ritratti con varie inclinazioni in ossequio al principio della Varietas.
Gli alberi sul fondale riempiono la parte verticale della lunetta e si ricollegano all'altra lunetta con la Morte di Adamo, ambientata anch'essa all'aperto in uno scenario simile. Le nuvole sfumate a cuscinetto sono una caratteristica tipica dell'arte di Piero della Francesca. Un tramonto, tenuemente sfumato all'orizzonte, chiude il ciclo sullo sfondo.
 
 
A e B. I due profeti (1452)
 
Ai lati della finestra, in alto, l'artista ha posto due giovani profeti, quasi due solidi guardiani.
La maggiore qualità del profeta sulla destra indica che sicuramente fu dipinto da Piero, mentre l'altro fu eseguito da un assistente su un cartone dello stesso Piero.
Nel programma iconologico dei cicli di affreschi dell'epoca è usuale trovare anche la rappresentazione di un certo numero di profeti dell'Antico Testamento, che però di solito si trovano in cornici o zone marginali, di dimensioni spesso più piccole. Piero invece li rappresentò a grandezza uguale a quella delle altri figure del ciclo, posti su uno sfondo neutro monocolore e appoggiati su un gradino marmoreo.
L'identificazione dei profeti è incerta poiché mancano attribuiti specifici o cartigli che ne stabiliscano inequivocabilmente l'identità o il contenuto delle loro profezie.
L'identificazione di Ezechiele con il profeta a sinistra della finestra si basa sul riscontro della sua posizione al di sopra dell'Annunciazione, per via della sua visione della porta clausa (Ez 44,1) che nel medioevo era identificato come uno dei più popolari simboli di Maria: nella scena sottostante infatti una porta chiusa si trova dietro l'Angelo.
La veste del profeta è rossa, con mantello verde, mentre nell'altro profeta il rosso sta sul mantello, secondo un'alternanza di colori frequente nell'arte pierfrancescana.
 
L'identificazione di Geremia con il profeta a destra si basa sul riscontro della sua posizione accanto alla Morte di Adamo, verso la quale guarda ed è riguardato da un personaggio all'estremità sinistra. Geremia infatti aveva profetizzato un discendente di Davide che Jahvé farà crescere come il germoglio piantato nella bocca di Adamo, interpretato come allusione al Cristo che lega la scena della nascita dell'Albero della Conoscenza al resto delle storie della Croce.
Il profeta è raffigurato in piedi, su uno sfondo scuro, in mano tiene un cartiglio svolazzante, dove però non c'è iscrizione o non si è conservata. L'elemento più spettacolare è l'illuminazione sperimentale che proviene da dietro a sinistra, dalla finestra cioè che illumina naturalmente la cappella. In questo senso il profeta è come se fosse sbalzato in avanti sul gradino, proiettandosi verso lo spettatore quel tanto che basta per lasciarsi la finestra e la luce alle spalle.
In base alla somiglianza con il giovane scalzo che figura nella Flagellazione di Piero, la Ronchey riconosce in questo personaggio le fattezze di Tommaso Paleologo, fratello minore di Giovanni VIII ed ultimo despota di Morea.