Il ritorno a Gerusalemme della vera croce di Miguel Ximenez e Martin Bernat
Storia, Arte e Architettura dell'Impero romano d'Oriente. Lineamenti di storia, arte e architettura degli stati latini d'Oltremare e dei possedimenti della Serenissima.
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domenica 24 marzo 2024
Il ritorno a Gerusalemme della vera croce di Miguel Ximenez e Martin Bernat
domenica 17 giugno 2018
Il ciclo pittorico della storia della reliquia di Sant'Andrea di Bernard Rantwijck
Degli arredi della cappella, facevano parte cinque grandi tele, commissionate al pittore fiammingo Bernard Rantwijck, che illustravano il viaggio della reliquia del cranio di Sant'Andrea da Patrasso alla basilica di San Pietro a Roma.
Queste cinque tele, con modalità ancora non del tutto chiare, furono successivamente trasferite a Pienza dove furono a lungo dimenticate nelle stanze del seminario vescovile. Attualmente sono conservate nel locale Museo Diocesano di Palazzo Borgia.
Nell'estate del 1460 Tommaso Paleologo, ultimo despota di Morea ed erede al trono di Bisanzio, incalzato dai Turchi, riparò nel possedimento veneziano di Navarino dove poco dopo s'imbarcò, assieme alla moglie Caterina Zaccaria ed ai figli Andrea, Manuele e Zoe (Sophia), su una galera veneziana che fece vela verso Patrasso, città ancora sotto il suo controllo. Prima di raggiungere Roma, dove papa Pio II Piccolomini – illustre antenato del vescovo Francesco Maria Piccolomini - che lo aveva riconosciuto legittimo erede al trono di Bisanzio, gli aveva offerto asilo, doveva infatti ottemperare alla richiesta espressagli dal papa di recuperare la reliquia del cranio dell'apostolo Andrea che era appunto colà custodita.
Attorno alla compostezza di Tommaso Paleologo, consapevole di tenere fra le mani un reperto di grande sacralità, si muove il corteo della sua famiglia messa in fuga dalla minaccia turca incombente sul Peloponneso. Tale pericolo è forse evocato dai due personaggi vestiti con abiti orientali che emergono dall’estremità più bassa del dipinto. Nella parte sinistra del quadro dominano degli edifici classici: in essi troviamo scritto con lettere dorate “Patriae Peloponnesi civitas” e, in primo piano sulla sinistra, si nota un’ara con il nome “Peloponnesus”.
...si recò [Tommaso Paleologo] a Patrasso, città ancora in suo possesso, e dal santuario, che era affidato alla sua personale custodia, prese il preziosissimo capo dell’apostolo Sant’Andrea e quindi, con la moglie e i figli e l’accompagnamento di molti nobili greci, si recò presso il despota di Arta, nell’isola di Santa Maura (E.S. Piccolomini, I Commentari).
Approdato ad Ancona nel 1461, Tommaso Paleologo consegna la preziosa reliquia nelle mani del legato pontificio, il cardinale Alessandro Oliva, incaricato dal papa di esaminare la reliquia e portarla nella rocca di Narni giacchè il trasporto fino a Roma era reso insicuro dall'infuriare della guerra che contrapponeva Alessandro Sforza e Federico da Montefeltro a Jacopo Piccinino e Jacopo Savelli.
Alle spalle del despota si erge statuaria la figura della moglie Caterina con il piccolo Manuele (1). In realtà, nel dipinto, la figura che sembra ricevere materialmente la reliquia sembra piuttosto quella di Bessarione, che indossa il saio nero dei monaci basiliani a cui il cardinale orientale non volle mai rinunciare.
Nell'aprile del 1462, scortata dai cardinali Alessandro Oliva, Bessarione (che anche qui appare vestito di nero) e Francesco Todeschini Piccolomini, il futuro papa Pio III (1503-1503) - che figurano nel dipinto immediatamente alle spalle del cavallo bianco che trasporta la testa dell'apostolo - la reliquia lasciò la rocca di Narni (che torreggia sullo sfondo) per essere trasferita a Roma.
La reliquia giunse a Roma l’11 aprile 1462, Domenica delle Palme, presso Ponte Milvio e venne riposta all’interno della torre del ponte, dove rimase fino al giorno seguente quando sull'altra sponda del Tevere arrivò il papa in pompa magna.
vedere la cerimonia che vi si svolgeva...(E.S.Piccolomini, I Commentari).
Nel dipinto il pontefice riceve sul palco sopra descritto la reliquia dalle mani del cardinale Oliva mentre Bessarione (sempre vestito di nero) ed il cardinal nipote si dispongono alle sue spalle (2).
In San Pietro il pontefice fece successivamente costruire una cappella dedicata a Sant’Andrea (3), in cui la testa dell’apostolo si conservò racchiusa in una nuova teca commissionata appositamente, nel 1463, a Simone di Giovanni Ghini, in sostituzione dell’originale reliquiario bizantino che Pio II volle inviare a Pienza (4) con un frammento della mandibola del Santo.
(1) In realtà Tommaso Paleologo affrontò da solo la traversata dell'Adriatico, quell'anno particolarmente pericolosa a causa delle tempeste che v'infuriavano, preferendo lasciare i suoi familiari a Corfù.
(2) A memoria dell'evento, nel punto dove era stato eretto il palco, Pio II fece successivamente costruire un tempietto con al centro la statua dell'apostolo (cfr. scheda).
(3) Questa cappella - in cui venne collocato anche il monumento funebre di Pio II dove, in un bassorilievo attribuito a Paolo Romano, il papa era raffigurato proprio nell'atto di depositare la testa di sant'Andrea nella basilica - si trovava poco dopo l'ingresso nella navata sinistra. Fu smantellata nel 1614 sotto il pontificato di Paolo V Borghese che fece trasferire il monumento funebre di Pio II nella chiesa di Sant'Andrea della Valle dove attualmente si trova.
Successivamente, sotto papa Urbano VIII (1623-1644) la reliquia venne trasferita nella cappella dedicata a Sant'Andrea ricavata all'interno di uno dei quattro pilastri che sorreggono la cupola (le altre tre cappelle ricavate negli altri pilastri sono dedicate a Sant'Elena, San Longino e alla Veronica).
(4) Pio II aveva fatto ricostruire quasi completamente il piccolo borgo dove era nato dal Rossellino - un allievo di Leon Battista Alberti - e lo aveva rinominato Pienza.
Bibliografia:
martedì 4 aprile 2017
Il cassone con dipinta la Caduta di Trebisonda
E' un cassone nuziale fiorentino del XV secolo – oggi conservato nel Metropolitan Museum di New York - che, nella parte frontale, mostra dipinta la Caduta di Trebisonda.
E' segnalato per la prima volta in un articolo del Weisbach del 1913 come proveniente da casa Strozzi per la presenza delle insegne araldiche della famiglia (1). E' considerata opera della bottega fiorentina di Apollonio di Giovanni e Marco del Buono Giamberti.
In una variopinta scena di battaglia sono raffigurate due città: a sinistra Costantinopoli, identificabile dalla legenda e dall'accurata resa della topografia; in alto a destra Trebisonda, anch'essa identificata dalla legenda e, per la maggiore contiguità alla scena di battaglia, considerata come fulcro dell'azione.
Il tema raffigurato suggerisce quindi un termine post quem per la datazione (1461, caduta di Trebisonda) mentre la morte di Apollonio di Giovanni (1465) ne stabilisce uno ante quem.
Come già osservato la topografia costantinopolitana è molto accurata, sulla sponda opposta di un dilatato Corno d'Oro si distingue il sobborgo di Pera e più a nord, indicata come chastelo novo dalla didascalia, la fortezza di Rumeli Hisari fatta costruire nel 1452 da Maometto II sul versante europeo del Bosforo.
a sinistra di questo un altro edificio coperto da cupola e a cui è addossato un porticato rappresenta molto probabilmente il katholikon del monastero di San Giovanni Battista nel quartiere di Petrion (2) mentre di più incerta identificazione è la chiesa a pianta basilicale con un tetto a doppio spiovente, eretta su un basamento a cui da accesso una scalinata di tre gradini. La chiesa presenta inoltre una facciata in cui si aprono tre portali, quello centrale dei quali sormontato da rosone e la didascalia la indica chiaramente come dedicata a San Francesco.
L'esito della battaglia è evidenziato dai prigionieri tapezuntini inginocchiati con le mani legate dietro la schiena nei pressi del campo nemico.
Andrea Paribeni (2001) ha però rilevato una serie di incongruenze in questa interpretazione:
1. L'ultimo imperatore di Trebisonda, Davide II Comneno, si arrese a Maometto II senza combattere. Non vi fu quindi alcuna battaglia (cfr. scheda L'impero di Trebisonda);
2. Maometto marciò su Trebisonda da Costantinopoli - quindi da ovest - e non da oriente come nel dipinto.
Ma è soprattutto la parola tanburlana che compare, appena sbiadita, nei pressi del carro che trasporta il comandante dell'esercito vincitore, a fargli avanzare l'ipotesi che l'esercito vittorioso proveniente da oriente sia quello dei mongoli di Tamerlano mentre gli sconfitti siano i turchi del sultano Beyazit I nella battaglia di Ankara (1402).
La presenza della città di Trebisonda – che comunque appare nel dipinto estranea alla battaglia (ad esempio non si notano soldati sulle mura) – andrebbe ricercata nella committenza che Paribeni fa risalire a Vanni degli Strozzi come dono nuziale per il matrimonio del fratello Ludovico con la figlia di Bertoldo Corsini e collega ad i suoi recenti interessi economici nella città di Trebisonda.
Il riferimento alla battaglia di Ankara alluderebbe inoltre ad una adesione del committente al progetto politico elaborato da papa Pio II Piccolomini intorno al 1458 di formare un'alleanza antiottomana tra i regni cristiani orientali e Unzun Hasan, il beg dei turcomanni di Ak Koyunlu (il Montone bianco) che aveva sposato Teodora Grande Comnena, figlia dell'imperatore trapezuntino Giovanni IV. Unzun Hasan, tra l'altro, aveva mutuato per sè proprio l'appellativo di nuovo Tamerlano.
In quest'ottica interpretativa, T.Braccini (2024) nella parte destra della scena identifica come Tamerlano la figura seduta nella tenda che colloquia con l'imperatore Davide II in sella al cavallo nero mentre sul carro trionfale siederebbero di nuovo Tamerlano e Unzun Hasan. La scena raffigurerebbe quindi uno scontro, auspicato ma storicamente mai avvenuto, tra la lega antiottomana guidata da Unzun Hasan e l'esercito ottomano di Maometto II per sottrarre alla conquista Trebisonda. La figura di anacronistica di Tamerlano sarebbe presente come auspicio di vittoria in memoria della battaglia di Ankara (3).
Note:
(1) Quando, circa un anno dopo l'articolo del Weisbach, il cassone venne acquistato dal Metropolitan Museum era però già privo di queste insegne. La provenienza da casa Strozzi sembra però confermata dall'impresa dipinta sulle fiancate laterali, un falcone ad ali spiegate appollaiato su un trespolo. Strozziere significa infatti falconiere.
lunedì 22 giugno 2015
La cacciata del duca di Atene dell'Orcagna
Vedi anche le schede su Ducato di Atene e La contea di Lecce e la casa dei Brienne
giovedì 21 novembre 2013
San Benedetto incontra Totila di Luca Signorelli
Papa Gregorio Magno (590-604) così descrive l'episodio nei suoi Dialogi (II,15)
«Al tempo dei Goti, il loro re Totila, avendo sentito dire che il santo era dotato di spirito di profezia, si diresse al suo monastero. Si fermò a poca distanza e mandò ad avvisare che sarebbe tra poco arrivato. Gli fu risposto dai monaci che senz’altro poteva venire.
Insincero però com’era, volle far prova se l’uomo del Signore fosse veramente un profeta. Egli aveva con sé come scudiero (spatarius) un certo Riggo: gli fece infilare le sue calzature, lo fece rivestire di indumenti regali e gli comandò di andare dall’uomo di Dio, presentandosi come fosse il re in persona. Come seguito gli assegnò tre conti tra i più fedeli e devoti: Vult, Ruderic e Blidin, i quali, in presenza del servo di Dio, dovevano camminare ai suoi fianchi, simulando di seguire veramente il re Totila. A questi aggiunse anche altri segni onorifici ed altri scudieri, in modo che, sia per gli ossequi di costoro, sia per i vestiti di porpora, fosse giudicato veramente il re.
Appena Riggo entrò nel monastero, ornato di quei magnifici indumenti, e circondato dagli onori del seguito, l’uomo di Dio era seduto in un piano superiore. Vedendolo venire avanti, appena fu giunto a portata di voce, gridò forte verso di lui: “Deponi, figliolo, deponi quel che porti addosso: non è roba tua!”. Impaurito per aver presunto di ingannare un tal uomo, Riggo si precipitò immediatamente per terra e, come lui, tutti quelli che l’avevan seguito in questa gloriosa impresa.
Poco dopo si rialzarono in piedi, ma di avvicinarsi al santo nessuno più ebbe il coraggio. Ritornarono al loro re e ancora sbigottiti gli raccontarono come a prima vista, con impressionante rapidità, erano stati immediatamente scoperti.
Totila allora si avviò in persona verso l’uomo di Dio. Quando da lontano lo vide seduto, non ebbe l’ardire di avvicinarsi: si prosternò a terra. Il servo di Dio per due volte gli gridò: “Alzati!”, ma quello non osava rialzarsi davanti a lui. Benedetto allora, questo servo del Signore Gesù Cristo, spontaneamente si degnò avvicinarsi al re e lui stesso lo sollevò da terra. Dopo però lo rimproverò della sua cattiva condotta e in poche parole gli predisse quanto gli sarebbe accaduto. “Tu hai fatto molto male – gli disse – e molto ne vai facendo ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità. Tu adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo morirai”.
Lo atterrirono profondamente queste parole, chiese al santo che pregasse per lui, poi partì. Da quel giorno diminuì di molto la sua crudeltà.
Non molto tempo dopo andò a Roma, poi ritornò verso la Sicilia; nel decimo anno del suo regno, per volontà del Dio onnipotente, perdette il regno e la vita».
L’esistenza storica dei tre conti (comites) ostrogoti di cui viene indicato il nome nel testo gregoriano (Vult, Ruderic e Blidin), è confermata da Procopio. Ruderic fu ucciso nel dicembre 546 (Procopio, De Bello Gothico, III,19) e ciò consente di stabilire un termine ante quem per l’incontro con San Benedetto nel monastero di Montecassino, che si ritiene avvenuto nel 542, mentre Totila, scavalcati gli Appennini, marciava su Napoli e si accingeva a riconquistare l'Italia meridionale.
domenica 3 novembre 2013
Sant'Agostino nello studio di Vittore Carpaccio
(2) La conchiglia contiene comunque anche un rimando piuttosto esplicito ad un tema iconografico più strettamente agostiniano largamente diffusosi nella pittura rinascimentale.
La leggenda della Vera Croce nella basilica francescana di Arezzo
Nel 1417 era morto Baccio di Maso Bacci, un ricco mercante appartenente a un'importante famiglia aretina, che nelle sue disposizioni testamentarie aveva previsto un generoso lascito per la decorazione del coro della basilica francescana, patronato dalla famiglia stessa. Iniziative del genere non erano infrequenti nei testamenti tra Medioevo e Rinascimento, ed erano una sorta di riconciliazione religiosa di individui di successo che si erano arricchiti in maniera non del tutto tollerata dalla Chiesa, come il prestito e il cambio, che all'epoca erano considerati peccato di usura.
Le disposizioni testamentarie vennero messe in pratica dagli eredi solo trent'anni dopo, quando nel 1447 Francesco Bacci vendette una vigna per pagare i lavori che vennero affidati all'attempato artista fiorentino Bicci di Lorenzo, maestro di una delle più attive botteghe della città toscana, ma dallo stile piuttosto ancorato al passato, che non abbracciò mai, se non in questioni superficiali, le novità dell'arte rinascimentale.
Il programma iconografico del ciclo sarà incentrato su una storia diffusa in età medievale e cara alla predicazione francescana: la Leggenda della Vera Croce, raccolta da Jacopo da Varagine nella sua Legenda aurea, la summa dell'agiografia compilata dal frate domenicano nel XIII secolo.
Nei primi anni cinquanta del Quattrocento, dunque, Bicci di Lorenzo si mette all'opera nella chiesa francescana di Arezzo. Ma già nel 1452 l'artista muore, lasciando le pareti della cappella ancora spoglie, a eccezione dei quattro evangelisti nelle vele della copertura a crociera, i dottori della Chiesa nel sottarco e il Giudizio Universale sopra l'arco trionfale.
Nello stesso anno Piero della Francesca viene chiamato – presumibilmente da Giovanni Bacci, figlio di Francesco - a mettere mano al lavoro incompiuto del pittore da poco deceduto. Il programma iconografico è già definito e la famiglia Bacci preme per ottenere che la decorazione sia completata nel minor tempo possibile.
La Leggenda della Vera Croce
La fortuna della leggenda della Vera Croce è collegata al culto di Sant'Elena, madre di Costantino (Legenda aurea, cap. LXVIII).
I. La vicenda narrata in questa fabula cristiana affonda le sue radici nell'epoca dei progenitori dell'umanità, Adamo ed Eva: Seth, figlio di Adamo, riceve da un angelo un seme che pone nella tomba del padre. Secoli dopo dal seme cresce un grande albero, il cui tronco però non si adatta a nessun uso, e viene quindi gettato a mo' di ponte sopra un fiumiciattolo; quando la Regina di Saba in visita a Salomone gli profetizzerà che quello stesso legno deciderà del declino della religione ebraica, il tronco viene seppellito.
Il legno ricompare in modo misterioso proprio qualche giorno prima della condanna a morte di Cristo e presta il suo materiale alla Croce del Golgota.
Nello stesso anno Eraclio, dopo essersi spogliato della sontuosa veste imperiale, entra in Gerusalemme dalla Porta d'oro – la stessa da cui aveva fatto il suo ingresso Gesù il giorno della Domenica delle Palme - e riporta la reliquia presso il Santo Sepolcro (restitutio Sanctae Crucis).
5. Battaglia di Ponte Milvio
6. Tortura dell'ebreo
7. Ritrovamento e verifica delle tre croci
Sulla destra, seduto a terra e circondato dai suoi figli, il vecchio Adamo manda Seth presso l'arcangelo Michele. Nello sfondo si vede l'incontro tra Seth e Michele, mentre a sinistra, all'ombra di un grande albero, il corpo di Adamo viene sepolto alla presenza dei familiari. Ponendo tutte e tre le scene della rappresentazione nello stesso paesaggio, Piero si mantiene negli schemi narrativi tradizionali già usati da Masaccio nella Cappella Brancacci.
Qui la pesante modellazione di Giovanni da Piemonte disegna le rigide pieghe dei vestiti dei portatori e i loro capelli raccolti. Sulla Croce la venatura del legno, come un elegante motivo decorativo, forma un alone attorno alla testa del primo portatore, che appare così come una prefigurazione di Cristo sul Calvario. Il cielo occupa metà della superficie dell'affresco e le bianche nuvole irregolari appaiono come intarsi nell'azzurro.
La scena sulla sinistra descrive una scena di lavoro nei campi e la sua interpretazione del lavoro umano come atto di epico eroismo è ulteriormente sottolineata dai gesti solenni delle figure, immobilizzate nella loro fatica rituale. Oltre le colline sullo sfondo, bagnata da una luce pomeridiana, Piero ha dipinto la città di Gerusalemme. E', di fatto, una delle più indimenticabili viste di Arezzo, racchiusa tra le sue mura e abbellita dalla varietà dei suoi edifici colorati, dalle pietre grigie ai rossi mattoni. Questo senso del colore, che permette a Piero di rendere la diversa natura dei materiali e con l'uso di tonalità differenti permette di far distinguere le stagioni e l'ora del giorno, raggiunge le massime vette in questo affresco, confermando il distacco dai pittori fiorentini contemporanei. Sulla destra, davanti al tempio di Minerva, la cui facciata in marmi di diverso colore è molto simile agli edifici progettati da Leon Battista Alberti, l'imperatrice Elena e il suo seguito sono attorno alla barella su cui giace il giovane morto; improvvisamente, toccato dal Sacro Legno, questi risorge. La Croce inclinata, lo scorcio del busto del giovane col suo profilo appena accennato, il semicerchio creato dalle dame di compagnia di Elena, e anche le ombre proiettate sul terreno, ciascun elemento è attentamente studiato per ottenere una profondità spaziale che mai prima, nella storia della pittura, era stata resa in maniera così fortemente tridimensionale.