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domenica 8 dicembre 2019

Chiesa del SS.Crocifisso, Salerno

Chiesa del SS.Crocifisso, Salerno

La data di fondazione della chiesa non è nota, ma è collocabile tra il X e il XII secolo. La sua prima notizia è del febbraio 1140, quando Romoaldo, figlio del conte Landone, ne dona all’arcivescovo parte del patronato (1). La chiesa, precedentemente dedicata a Santa Maria della Pietà – nota anche come Santa Maria de Portanova per la vicinanza all'originaria porta di questo nome oggi non più esistente - fu ridedicata al SS. Crocefisso soltanto nel 1879, quando vi fu trasferito il crocifisso detto del Barliario (2).
Il portale su via Mercanti

All’esterno, la parete su via Mercanti mostra alcune monofore appartenenti all'edificio originario, un portale in pietra e una finestra ogivale in stucco, che era in origine una bifora.

La bifora

La bifora è divisa in due scomparti da un architrave : nell'ordine superiore è presente un articolato motivo a traforo, arabeggiante, costituito dall'alternanza di croci e stelle ad otto punte, che la accomuna a decori analoghi presenti nel Duomo di Amalfi. Nell'ordine inferiore, due colonnine impostano l'ogiva, che è delimitata da una fascia su cui sono distribuiti sette scudi; purtroppo solo su uno di essi è riconoscibile l'insegna, a bande orizzontali, bianche e rosse, della famiglia Carafa (il primo a partire da sinistra).
A questa finestra corrisponde all’interno della chiesa un’apertura che presenta, addossato al davanzale, un gradone più basso che sembrerebbe un sedile.
Il portale era invece un antico accesso laterale della chiesa, probabilmente quello che agli inizi del secolo costituiva l’unico ingresso, dal momento che quello principale era stato inglobato all’interno di un androne e non veniva utilizzato.
La facciata della chiesa era stata infatti completamente coperta da costruzioni, che le si addossavano, poi demolite nel 1928, quando fu creata l’attuale piazza e realizzata una nuova facciata, preceduta da un porticato e poi sostituita, dopo l’alluvione del 1954, da quella attuale che ha inglobato al suo interno il porticato.

All'interno la pianta è basilicale, divisa in tre navate da colonne e capitelli tutti diversi tra loro, in quanto elementi di spoglio provenienti da edifici più antichi. Le colonne sono collegate da archi a tutto sesto; la navata maggiore, più alta, è illuminata da monofore e coperta da capriate lignee. Le navate laterali, invece, sono coperte da voltine a crociera.


La cripta della chiesa, forse un edificio religioso di età precedente, ripete la pianta basilicale a tre navate della chiesa soprastante, le navate sono separate da archi con volte a crociera e chiuse da absidi semicircolari. Sulla parete occidentale, di fronte all'abside centrale, si osserva il grande affresco raffigurante la Crocifissione, databile tra il XIII e XIV secolo.


Al centro il Cristo Patiens (il Cristo crocifisso è raffigurato con gli occhi chiusi, patiens, in un'epoca in cui, secondo la tradizione bizantina, si usava dipingerlo sulla croce vivo e con gli occhi aperti, nella tipologia del Cristo triumphans).
Sulla sinistra figura il gruppo delle pie donne, dove la Vergine accasciata, le mani protese verso il Figlio, è sorretta dalle due Marie, cupe ed accorate dal dolore; sulla destra, l’immagine di S.Giovanni – molto deteriorata – è affiancata dalle figure meste di due astanti, riconducibili, secondo il testo evangelico, a Giovanni d’Arimatea e Nicodemo, ma iconograficamente più simili ai Santi Pietro e Paolo, di cui recano anche gli attributi: il rotolo ed il libro. Ai lati della croce sono ritratti i soldati, di dimensioni più piccole rispetto agli altri personaggi, e gli angeli, due adoranti e due che raccolgono nelle coppe il sangue di Cristo che fuoriesce dalle mani e dal costato.


Nell’abside di destra un altro affresco di fattura simile, ma forse posteriore, propone un trittico di santi racchiusi in archi e separati da colonnine: San Sisto papa (115-125) al centro, san Lorenzo a sinistra, un altro santo pellegrino a destra. Nel dipinto si colgono notevoli assonanze con la Crocifissione, anche se la maggiore fluidità nella resa dei panneggi sembrerebbe indice di un adeguamento allo spirito cortese, di gusto già trecentesco.

La chiesa era annessa al convento femminile di donne nobili di S. Maria della Pietà, sorto presumibilmente tra il XII e il XIII secolo. Per quanto oggi completamente trasformato e illeggibile nelle sue strutture originarie - perché smembrato e parzialmente divenuto civile abitazione (palazzo Pernigotti) - esistono ancora degli elementi decorativi che collocano il monastero all’interno di quell’architettura, diffusa in Campania a partire dall’XI secolo, caratterizzata dall’utilizzazione di tarsie policrome giocate sull’utilizzo di fasce alternate di tufi grigi e gialli.
L’antico loggiato con archi incorniciati da larghe fasce policrome, che presumibilmente correva sui quattro lati dell’edificio, è oggi inglobato in un’abitazione ed è possibile soltanto vedere da lontano alcuni pezzi scultorei sul lato orientale del fabbricato. Pochissimi elementi, tra cui alcuni archi a sesto acuto tuttora esistenti nei locali dell’ex convento ne confermerebbero la datazione di origine al XIII secolo.

Note:

(1) Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 45.

Il Crocifisso del Barliario

(2) Si tratta di mirabile esempio di arte lignea dell’ultimo quarto del XIII secolo - oggi conservato nel Museo diocesano - che riproduce la figura del Cristo Triumphans, come vuole la tradizione orientale bizantina. Benché notevolmente danneggiato da un incendio nell’Ottocento, presenta ancora un viso fortemente espressivo ed è completato da due tabelle laterali raffiguranti la Vergine e San Giovanni. Alla storia del crocifisso si lega la leggenda dell’alchimista salernitano Pietro Barliario; si narra, infatti, che il mago, dopo aver provocato la morte dei suoi nipoti nel suo laboratorio, si sia recato a chiedere perdono ai piedi del Crocifisso, il quale, si dice abbia chinato il capo in segno di accoglimento del pentimento e di perdono.

domenica 13 ottobre 2019

chiesa di S.Andrea di Lavina, Salerno

chiesa di S.Andrea di Lavina (o della Lama), Salerno

Per almeno tre secoli, a causa di un antico documento dell'866, questa chiesa fu confusa con un'altra omonima (oggi scomparsa) che risultava dislocata super porta Radeprandi constructa.
Un altro documento scoperto di recente ha rivelato che la "porta Radeprandi" (o Rateprandi) si trovava nella zona alta della città, all'incirca dove oggi si trova il Museo diocesano (probabilmente si trattava dell'antica Porta Rotese, detta in origine di Radeprandi dal nome proprio di qualche importante personaggio locale). A causa di tale equivoco, la strada davanti all'ingresso della chiesa si chiama ancora via Porta Radeprandi, ed un massiccio arco poco lontano è, da molto tempo, scambiato per la porta stessa.
La chiesa originaria dovrebbe risalire alla committenza del principe Guaimario III (989-1027). Con l’edificazione della basilica e la sua dedicazione all’apostolo Andrea – santo patrono di Amalfi - il principe intendeva probabilmente manifestare agli Amalfitani la sua protezione politica, già espressa in seguito al suo matrimonio con Porpora di Tabellaria. Ma questa chiesa potrebbe essere stata preceduta da un'altra edificata poco dopo la deportazione degli Amalfitani voluta dal duca di Benevento Sicardo dopo la conquista di Amalfi (838) (1).
La chiesa, inizialmente nota come Sant'Andrea della lama (2), sorse infatti nei pressi del quartiere amalfitano, delimitata a nord dalla zona del Plaium montis, a est dalla lama d’acqua, a sud dalla via Marina e ad ovest dal vico di santa Trofimena, dove l’omonima chiesa è attestata fin dal 940.

La chiesa sorge attualmente su un alto basamento prospiciente via della Lama alla quale è raccordato da una gradinata racchiusa da un cancello e si presenta attualmente nella veste conferitagli dalla ristrutturazione settecentesca.


In facciata, un ampio finestrone semicircolare sormonta l’ingresso principale ai cui lati paraste in stucco con capitelli ionici sorreggono un aggettante timpano con eco centrale. All’interno della cornice del portale un’epigrafe, fino a qualche anno fa sormontata dallo stemma della famiglia de Vicariis, di cui rimane la sola impronta, recita: templum hoc aetate vetustum rectore Hieronymo de Vicariis forma fuit elegantiori restauratum anno domini MDCCLXXXVIII.


Nonostante le alterazioni ed i rimaneggiamenti subiti nel corso del tempo è palese come il campanile, datato dal Kalby al XII secolo, con i suoi piani rientranti e il suo tamburo con copertura a calotta, rimandi a modelli architettonici di matrice islamica, ben attestati in costiera amalfitana tra XI e XIII secolo. Il primo ordine del campanile sul suo lato meridionale ha una monofora a tutto sesto, mentre gli ordini superiori presentano monofore a sesto acuto anche sul lato orientale. La cella campanaria, a forma di tamburo con copertura a calotta emisferica, mostra aperture ogivali distribuite a raggiera. il linguaggio decorativo è del tutto assente nelle partizioni architettoniche, mentre vi appare una compatta massa muraria, ricordo dei tozzi campanili altomedievali, come il poco noto campanile del S. Michele di Grottaminarda, in provincia di Avellino. È tuttavia possibile che tale robustezza sia dovuta al fatto che in fondazione vi erano precedenti strutture di edifici in rovina posti presso la lama d’acqua che dava nome alla zona. Secondo alcuni, proprio da questo campanile Ippolito di Pastena estese a Salerno la rivolta contro il governo del viceré spagnolo scatenata a Napoli da Masaniello (1648).

Al suo interno l’edificio, orientato est-ovest, si presenta con le vesti del rifacimento settecentesco con una pianta longitudinale tripartita in modo disomogeneo, terminante con abside centrale semicircolare.
Il muro di fondo dell’abside reca tracce della tamponatura di precedenti finestre che una per lato davano luce all’ambiente; queste risultano ancora aperte secondo una descrizione della chiesa che risale al 1692. La loro chiusura e l’assenza di ulteriori prese di luce deve aver determinato, sul finire del settecento, la inusuale sistemazione dell’ampio finestrone in facciata.


Il muro perimetrale settentrionale presenta due archi ciechi di altezza diversa, in origine separati da una colonnina di cui si è conservata solamente la base. Il primo mostra un subsellium in muratura, il secondo mantiene sulla parete di fondo un affresco settecentesco, dipinto come un finto tabernacolo con scene tratte dalla vita di San Nicola, al di sotto di questo strato il santo appare nuovamente in una ulteriore raffigurazione più antica: l’aureola raggiata a rilievo, mostrata anche dalla santa non riconoscibile che lo affianca sulla sinistra, rimanda a espressioni pittoriche di XIV secolo.


L'asimmetria della pianta (la navata sinistra, attualmente adibita a sacrestia, è molto più stretta di quella destra) fa ipotizzare che la chiesa originaria non avesse l'attuale orientamento est-ovest bensì un inconsueto orientamento nord-sud, con l'abside posta dove ora si trova l'affresco di San Nicola e l'ingresso nella sacrestia, dove attualmente si trova inglobato nella muratura un architrave di epoca imperiale; l'ambiente oggi adibito a sacrestia avrebbe svolto la funzione di nartece.

1.Architrave di recupero; 2.Abside attuale; 3.Parete con l'affresco di san Nicola; 4.Colonna della chiesa originaria successivamente inglobata in un pilastrino.

La decorazione settecentesca della conca absidale

Al di sotto del pavimento della navata centrale nel lato sud, ad una profondità di cinque metri e ottanta è stata rinvenuta un’aula rettangolare absidata di circa quattro metri per sei. Un gradino e una transenna, le cui tracce sono ben evidenti al di sotto del muro perimetrale sud, mentre appaiono residue su quello nord, delimitavano lo spazio liturgico. Il battuto pavimentale della piccola aula appare in pendenza verso ovest nella cui direzione è possibile vi sia stato l’ingresso, non più visibile, poiché l’area è stata completamente devastata dalle successive costruzioni.
Planimetria della chiesa sottostante
 
L’aula rettangolare mostra due fasi costruttive immediatamente susseguenti. All’abside primitiva ne fu addossata dall’interno una seconda che determinò la riduzione della sua ampiezza, mentre sul fronte e ai lati della nuova abside furono ricavate due piccole nicchie semicircolari.

Resti di affresco nell'abside della chiesa sottostante

Dell’affresco dell’abside che vede come colori impiegati l’ocra, il rosso, il blu e il nero, rimangono i due terzi inferiori, poiché la calotta, già distrutta prima del cantiere di XI secolo, fu ulteriormente ridotta per sistemare le nuove strutture di fondazione. Le parti residue delle figure sono attribuibili a quattro angeli alati (gli Arcangeli?), posti due per lato; al centro della composizione si può immaginare una figura stante con i piedi su di un cuscino. Tutte le figure sono sorrette da onde di linee ocra che potrebbero rappresentare le nubi del cielo o le onde del mare, mentre una tratto scuro delimita l’orizzonte terreno dal quale germogliano racemi e fiori. E' stata avanzata l'ipotesi che possa trattarsi di una scena del Paradiso, in quanto secondo l’iconografia medievale le ondine rappresenterebbero il prato e i papaveri che si trovano nell’Eden.
Negli spazi tra l’abside e le nicchie laterali una decorazione a scacchiera fu eseguita con i medesimi colori.
In base ai rapporti stratigrafici delle strutture murarie altomedievali e all’analisi tipologica degli affreschi è possibile datare le due fasi costruttive entrambe al IX secolo, in pieno consolidamento del Principato longobardo di Salerno. Nello specifico i racemi in nero che sollevano rosse corolle rimandano agli analoghi motivi decorativi di area beneventano-volturnense, attestati anche nel materano tra l'VIII e il IX secolo. Il motivo geometrico della decorazione a scacchiera, inoltre, trova stringente confronto con il particolare pittorico della scena dei Santi Cecilia, Urbano e Valeriano nella chiesa ipogea di Santa Maria Assunta di Pago del Vallo di Lauro, in provincia di Avellino, e con l’analogo pilastrino presente nell’episodio dei Santi Zosimo e Maria Egiziaca nella chiesa di S. Maria de Gradellis a Roma, entrambi assegnati al IX secolo.
Intorno al X secolo, forse in seguito a un'alluvione, questo primo edificio fu in parte demolito e adibito a sepolcreto, e su di esso fu costruita una chiesa più ampia, di cui rimangono ancora due delle tre navate, oltre a qualche moncone di affresco raffigurante due santi ed un'iscrizione in greco, che testimonia una possibile diversa frequentazione dell'ambiente.


La planimetria di questo nuovo edificio potrebbe infatti anche essere stata quella di un edificio a due navate (una per il rito latino e l'altra per quello greco-orodosso molto diffuso tra gli amalfitani), una maggiore terminante nella zona absidale e una minore posta a settentrione e alla quale si aveva accesso mediante i varchi precisati dai pilastri e dalle due colonne. L’accesso sul fronte occidentale doveva essere preceduto dall’atrio dove venivano rogati degli atti notarili.

Note:
(1) Sicardo – che fu l'ultimo a regnare prima della divisione del Principato longobardo nei principati di Benevento e di Salerno - deportò gli amalfitani a Salerno con l'intento di sfruttarne la perizia nella costruzione di navi al fine di dotare il ducato longobardo di una marineria mai avuta in precedenza. Gli amalfitani furono insediati in un nuovo quartiere che divenne noto come “Le Fornelle”. Il quartiere aveva una forma planimetrica pressoché quadrangolare ed era delimitato a nord dalla attuale via Torquato Tasso, a sud da via Porta Catena, a est da via Porta Rateprandi e ad ovest dal vicolo S. Trofimena. Inizialmente extra moenia venne successivamente incluso dall'estensione della cinta muraria.

(2) Il toponimo de lavina, con cui la chiesa compare per la prima volta in un documento del 1312, allude alla presenza di un canale di scolo (lavinario) che sfruttava la lama d'acqua che scorreva dinanzi all'edificio.

domenica 6 ottobre 2019

Il Palazzo di Arechi II, Salerno

Il Palazzo di Arechi II, Salerno

Facciata meridionale e campanile della Cappella Palatina

All’indomani della sconfitta di Desiderio, re dei Longobardi, a opera di Carlo Magno nel 774 alle Chiuse di Pavia, Arechi II, duca di Benevento – che aveva sposato Adelperga, una delle figlie del re - assunse il titolo di Princeps gentis langorbadorum, accogliendo nell’area salernitana i profughi della gens langobarda del nord. Nel quadro di un riassetto del ducato beneventano decise anche di spostare la capitale da Benevento a Salerno, che evidentemente giudicava più difendibile dalla minaccia franca.
Ne fece quindi rafforzare le difese e vi fece anche costruire un sontuoso palazzo residenziale che venne edificato in pieno centro cittadino, ribadendo le scelte già fatte dai Longobardi a Pavia e a Benevento.
L'area del Palazzo doveva estendersi dal rione dei Barbuti al Vicolo Pietra del Pesce ed era disposto in senso longitudinale secondo una direzione nord-sud; il lato nord era allineato con l'attuale parete settentrionale della chiesa di San Pietro a Corte; il lato sud doveva coincidere con il vicolo Pietra del Pesce; il lato est era probabilmente poco oltre l'attuale Largo Antica Corte; il lato ovest doveva coincidere con l'allineamento della facciata occidentale della cappella palatina con la via Pietra del Pesce. La parte meridionale era innestata, probabilmente con una torre, sulle mura che affacciavano sulla spiaggia – che all'epoca era molto più vicina al palazzo di quanto lo sia attualmente, dove una scalinata monumentale introduceva al palazzo.


Ciò che rimane del palazzo è ancora leggibile nell'edificio superstite che affianca la chiesa di S. Stefano e nelle arcate sorrette da colonne e capitelli che si affacciano su via della Dogana Vecchia.
Arcate del Palazzo di Arechi II inglobate in nuovi edifici in via della Dogana Vecchia
L'edificio superstite corrisponderebbe alla Cappella Palatina del palazzo di Arechi (1).
I pilastri di fondazione della Cappella Palatina (due centrali affiancati da una serie di semipilastri laterali) poggiano sul frigidarium di un complesso termale romano di età flavio-traianea. L’antico edificio aveva un’altezza di circa 13 metri ed era coperto da volte a botte e volte a crociera ed era illuminato da grandi finestroni. Abbandonato probabilmente a seguito di un alluvione, nei primi secoli dell’età cristiana venne riutilizzato come aula religiosa e area di sepoltura, come testimoniano alcune epigrafi rinvenutevi e databili dal V all’VIII secolo.
Quando Arechi decise di fare erigere il palazzo, rafforzò le strutture romane preesistenti che dovevano sostenere ora il peso di piani superiori e divise in due l'ambiente sottostante erigendo un setto murario. Sulle volte ormai crollate posizionò un solaio che divenne il pavimento della soprastante chiesa, che dedicò ai SS. Pietro e Paolo (oggi nota come San Pietro a corte), decorandolo con splendidi mosaici in tessere marmoree di spoglio, di cui si conservano numerosi frammenti.

Frammento della pavimentazione della cappella palatina

La cappella, a navata unica, terminava originariamente con un abside rettangolare sostituito da uno semicircolare nel corso del rifacimento del 1576 quando venne realizzata anche l'attuale scala d'accesso. Un imponente Titulus dedicatorio – opera di Paolo Diacono - correva lungo i muri interni della chiesa magnificando l'opera del duca. L'iscrizione, di cui sono stati ritrovati alcuni frammenti, era incisa sul marmo su cui si applicavano le lettere di bronzo dorato.
Grazie alla tradizione manoscritta, del testo originario si conoscono i sette versi iniziali:

[Chri]ST[E SALUS UTRIUSQUE DECUS SPES UNICA MUNDI]
[DUC A] GE DUC C[LE]M[ENS ARICHIS PIA SUSCIPE VOTA
PERPETUUMQUE TIBI HAEC CONDAS HABITACULA TEMPLI.
REGNATORI TIBI SUMME DECUS TRINOMINIS ILLE
HEBREAE GENTIS SOLYMIS CONSTRUXIT ASYLUM
PONDERE QUOD FACTUM SIC CIRCUMSEPSIT OBRIZO
DUXIT OPUS NIMIUM VARIIS SCULPTUMQUE FIGURIS
BRAC(TEATIS)…]
(O Cristo, salvezza, Gloria ed unica speranza di entrambi i mondi orsù!,
Guida, indirizza benigno, e accogli i pii voti di Arechi
 e a tua gloria edificherai in eterno questo tempio. 
Per Te, sommo Sovrano, egli ha costruito 
una dimora degna della Gerusalemme ebrea dai tre nomi e,
 una volta portata a termine, l’ha ornata di purissimo oro
 accrescendole enormemente il valore con varie figure bratteate…)
Vi si accedeva originariamente soltanto dal Palazzo per mezzo di una galleria coperta che terminava con un ingresso (oggi murato) che si apriva lungo il lato meridionale della cappella.
La cappella era preceduta da un atrio di cui rimane soltanto il loggiato di cui sono visibili delle bifore con archi in mattoni che poggiano al centro su una colonna con capitello altomedievale e pulvino a stampella.

Il campanile romanico che sorge sul lato nord della chiesa sarebbe stato fatto erigere dal principe Guaimaro II intorno al 920, come testimonia il Chronicon Salernitanum, sebbene recenti scavi abbiano fatto ipotizzare che l’attuale campanile sia di epoca successiva al X secolo. L’altissimo prospetto della facciata occidentale contrasta con il campanile apparentemente sproporzionato, che deve la sua mole ridotta ad un cedimento delle fondazioni verificatosi in fase di costruzione.

La cripta, orientata come la chiesa superiore, in epoca normanna o sveva venne divisa in due ambienti distinti su livelli diversi chiudendo il vano di comunicazione esistente e rafforzando il setto murario arechiano; nell'ambiente più basso si trovano vasche per la preparazione di materiale edilizio, quello più elevato, che venne adibito ad oratorio, si conclude, all’estremità orientale, in un’abside rettangolare con presbiterio delimitato da muretti e fornito di un piccolo altare.
Tre pareti sono decorate da affreschi non riconducibili alla cultura longobarda.


Sul pilastro centrale – fatto erigere da Arechi per sostenere il solaio della cappella soprastante - è presente un affresco raffigurante a destra una Madonna in trono con Bambino e a sinistra Santa Caterina d’Alessandria. L’affresco è databile alla metà del XII secolo. Una semplice fascia bicroma bianca e rossa incornicia la rappresentazione. La Vergine è seduta su un trono composto da schienale, cuscino e suppedaneo decorato con perline bianche ed elementi geometrici. Maria regge nella mano destra una lunga croce astile mentre la sinistra è appoggiata sulla spalla del Figlio. Il Bambino ha nella mano sinistra un rotolo chiuso mentre la destra, mutila, doveva essere benedicente. A sinistra abbiamo Santa Caterina d’Alessandria identificabile dall’iscrizione E KATHER leggibili tra l’aureola e la spalla destra e dall’ampolla con il sangue del martirio. Nella vita di santa Caterina si narra come dopo il martirio per decapitazione della giovane egiziana sgorgasse dalle ossa senza sosta un olio in grado di sanare le malattie. Questa sua caratteristica taumaturgica legherebbe la sua raffigurazione in questa sede alla trasformazione in epoca medioevale di quest'ambiente in aula della Scuola medica salernitana.
Sul muro sud del vano orientale è presente una teoria di Santi databile all’inizio del XIII secolo. L’analisi degli affreschi mostra delle sensibili variazioni rispetto all’affresco sul pilastro; partendo da destra abbiamo la Vergine seduta su un trono con decorazioni che suggeriscono elementi di ricchezza e regalità; la Madonna ha in grembo Gesù che abbraccia la Madre accostando il suo volto a quello di Maria. Questo genere iconografico - caratterizzato dall'abbraccio tra la Vergine ed il Bambino - è definito Madonna Eleusa (misericordiosa). Immediatamente accanto è dipinto San Giacomo, identificabile dall’iscrizione "JAC" alla destra del suo capo. A seguire abbiamo San Pietro, Santa Caterina d’Alessandria e un santo vescovo non identificato.


Sul muro a destra, che separa i due ambienti, sono raffigurati San Giorgio e San Nicola di Myra datati al XIII-XIV secolo. I due Santi sono separati tra di loro da una riga appena leggibile. San Nicola, vestito in abiti vescovili, stringe il pastorale nella mano sinistra mentre la destra è benedicente. San Giorgio, in pessime condizioni di conservazione, è a cavallo con la mano destra sollevata nell’impugnare la lancia verso il basso contro il drago che è andato perso in seguito all’apertura dell’accesso di collegamento dei due ambienti.

Nel 1576 la chiesa superiore subì un considerevole restauro che ne modificò sostanzialmente l'aspetto interno, mentre nel Settecento fu realizzata l'imponente scala d'ingresso che conduce ad un protiro caratterizzato da con un timpano triangolare sostenuto da colonne.
Caduta successivamente in disuso, durante la prima guerra mondiale fu utilizzata come deposito militare finché, nel 1939 fu affidata in concessione alla confraternita di Santo Stefano dall'arcivescovado.


Secondo lo storico dell'arte Antonio Braca queste strutture lignee – oggi conservate nel Victoria and Albert Museum di Londra – che in origine probabilmente sostenevano un pulpito, potrebbero provenire dalla chiesa di San Pietro a Corte. Lo storico dell'arte sostiene, infatti, che le colonne furono acquistate nel 1886 a Napoli presso un certo Pepe. Nel 1914, il Tavenor-Perry, in un suo articolo storico, precisa, nel ritrarle, che le stesse provenivano dalla Cappella Palatina di Salerno.
Altri storici sostengono, tuttavia, la non appartenenza alla Cappella Palatina di Salerno, riconoscendovi, invece, origini siciliane (Negri Arnoldi, Williamson) (2).


Note:
(1) Secondo più recenti ipotesi interpretative, non confermate però da una storiografia certa, indicano l'ambiente di San Pietro a Corte non come Cappella Palatina ma come aula di rappresentanza della Reggia di Arechi II.

domenica 24 marzo 2019

Il casale di Santa Maria Nova

Il casale di Santa Maria Nova


La tenuta che ha come edificio principale il cosiddetto Casale di Santa Maria Nova si estende al V miglio della Via Appia Antica, dove la strada compie una lieve curva in prossimità dei monumenti noti come Tumuli degli Orazi e dei Curiazi, nel luogo riconosciuto dalle fonti antiche (Livio e Strabone) come Fossae Cluiliae, dove correva l'antico confine che separava l'ager romanus dal territorio di Alba Longa.
Il Casale di Santa Maria Nova, è così denominato per essere appartenuto dal XIV secolo fino al 1875 ai Monaci Olivetani di Santa Maria Nova – attualmente nota come chiesa di santa Francesca Romana al Palatino - che lo acquistarono nel 1393 dalla nobile famiglia romana dei Sanguigni e ne mantennero ininterrottamente la proprietà fino al 1873, quando la Giunta liquidatrice dell'Asse ecclesiastico ne decise la vendita all'incanto che due anni dopo si aggiudicò Isidoro Marfori. Ceduto al conte Niccolò Marcello nel 1909, rimase in mano a privati fino al 2006 quando venne acquistato dalla Soprintendenza archeologica che ne ripristinò la continuità con la Villa dei Quintili.


Il fabbricato principale fu edificato riutilizzando le murature di un imponente edificio di epoca romana, forse una conserva d'acqua o un castellum aquae a due piani, parte integrante del sistema di distribuzione idrica della zona e della Villa dei Quintili come attestano le numerose strutture antiche presenti in tutto il sito.

La grande cisterna a pianta rotonda (Cisterna Piranesi) 

Un’altra grande cisterna, a pianta rotonda, divisa all’interno da setti murari, è posta lungo il muro di epoca rinascimentale che separa la tenuta di Santa Maria Nova dalla Villa dei Quintili, dove è indicata la presenza di « grandi bagni », descritti da Luigi Canina nella metà dell’800. E' l’unica cisterna a pianta circolare della villa e fu realizzata intorno alla prima metà del II secolo con un calcestruzzo in scaglioni di basalto. Nel XVII secolo fu inglobata nel muro di recinzione che separava la Tenuta di Santa Maria Nova da quella dei Quintili. Il suo diametro misura circa 29 metri, pari a 100 piedi romani.
Internamente è suddivisa in sei camere parallele e comunicanti coperte con volte a botte, e le sue pareti sono completamente rivestite da “ cocciopesto” per renderle impermeabili: la sua funzione principale era il rifornimento d’acqua agli impianti residenziali e termali dei Quintili.

Veduta della cisterna dall'alto

Tra il 1500 ed il 1600 le tre camere centrali, quelle più lunghe e più capienti, furono dotate di nuove coperture a doppio spiovente, realizzate con una massicciata in scaglie di basalto; i tre piccoli frontoni che si vennero a formare agli estremi delle coperture, in prossimità del paramento curvilineo dell’edificio, furono sistemati con una cortina di mattoni di riutilizzo; sotto di essi venne scalpellata la muratura portante del tamburo costruttivo per realizzare i tre accessi alle “gallerie”, che da questo momento in poi cambiarono destinazione d’uso, divenendo ambienti adatti al ricovero degli animali e alla conservazione del loro foraggio.
E' nota anche come Cisterna Piranesi per via di un'opera del celebre incisore che la raffigura sul finire del XVIII secolo già con il nuovo sistema di coperture.

In prossimità dell'ingresso alla tenuta si trova un casaletto, costruito nel 1876 come stalla, che si alza su strutture romane in opera reticolata, con relative fondazioni, oggi adibito a punto di accoglienza e biglietteria.


Il nucleo originario del casale principale è invece formato dal monumento di epoca romana, verosimilmente una conserva d’acqua o un castellum aquae a due piani, riconducibile alla prima metà del II secolo.
Gli ambienti situati al piano terreno e la soprastante torre tardo-romana, che corrispondono al nucleo più antico dell’edificio, hanno conservato fino ad oggi la struttura originaria nonostante il riuso dei secoli successivi. La muratura è in opera laterizia con poderosi contrafforti esterni disposti sugli angoli e lungo le pareti longitudinali. L’interno era originariamente diviso in quattro vani comunicanti tra loro mentre all’esterno due scale, le cui tracce sono in parte visibili sui lati nord e sud, conducevano al piano superiore.


In età tardo-romana avviene la sopraelevazione della torre in opera laterizia, con funzione difensiva e di avvistamento realizzata nel VI secolo, verosimilmente, nel corso delle guerre greco-gotiche. Tracce di muratura del IX secolo, poste in prossimità della torre, ne attestano l'utilizzo anche in età altomedievale, indizio della trasformazione del monumento in fabbricato annesso al fondo agricolo.
Tra il XIII e il XIV secolo, con un'ulteriore sopraelevazione della torre in scaglie di marmo bianche, e quella dell’intero edificio in blocchetti di tufo grigio nonché con la costruzione del redimen, ossia la cinta muraria, si registra una ulteriore modificazione che configura l’aspetto tipico del casale della Campagna Romana.
Alcune caratteristiche, oggi perdute ma ancora visibili nei disegni del XIX secolo, come la facciata gradonata sul lato est e il coronamento merlato dei prospetti longitudinali, dovevano ricordare il Palazzo Caetani a Capo di Bove.


All'ultimo piano della torre è visibile una decorazione a scacchi bianchi e rossi che richiama lo stemma dei Sanguigni.

Stemma dei Sanguigni
Nel XVI secolo, ulteriori trasformazioni del monumento sono evidenti in una ulteriore sopraelevazione in blocchi irregolari di tufo grigio, nella realizzazione della piccola cappella semicircolare e nella costruzione dei due recinti adiacenti al redimen, edificati con materiali di spoglio. L’ampliamento è legato alle rinnovate esigenze funzionali del fondo agricolo; intorno al corpo di fabbrica principale si consolida il sistema dei tre cortili riservati a orto, corte del casale e pascolo per gli animali domestici.
L’edificio è utilizzato al piano terra a magazzini per lo stipare le derrate, gli attrezzi e quant’altro necessario allo svolgimento dell’attività agricola; al piano superiore per l’abitazione dei conduttori del fondo.
La piccola cappella, fruibile dal primo piano del casale, che coincide con il vano superiore del monumento, si erige sui resti del pianerottolo della scala romana. Il luogo di preghiera, elegante nelle forme, è plausibile sia stato realizzato dai monaci Olivetani che in una fase, hanno condotto in prima persona l’azienda agricola.
Lo stemma dell’Ordine, scolpito su vecchi cippi di confine del tenimentum, è visibile su due gradini della scala moderna costruita a ridosso del lato principale del casale.
Lo stemma degli Olivetani su un gradino della scala esterna

L'impianto termale

In una delle zone meglio indagate, si è riscoperto un piccolo impianto termale prospiciente la Via Appia alimentato dall’acqua di alcune cisterne collocate a breve distanza (forse anche di quella, imponente, su cui si è impiantato il Casale principale).
L'aula absidata (frigidarium)

Prima degli scavi recenti era a vista solo la parte più alta di alcune strutture, tra cui quella della parete curva della sala absidata. Lo scavo ne ha chiarito la funzione come frigidarium, con vasche per l’abluzione in acqua fredda, una semicircolare, l’altra rettangolare. La muratura in mattoni era interamente rivestita di pregevoli lastre di marmo cipollino e breccia corallina. A sinistra di questa sala sono visibili i due ambienti della parte più calda delle terme (calidarium e tepidarium), con il sistema di riscaldamento che metteva in circolo, attraverso i tubuli di terracotta sulle pareti e l’intercapedine (ipocausto) sotto ai pavimenti, l’aria calda prodotta dai forni (praefurnia) collocati negli ambienti di servizio circostanti.
Il calidarium ed il tepidarium di cui sono evidenziati gli ipocausti
Queste sale sono decorate da mosaici con scene di spettacoli gladiatori e di circo.
schema ricostruttivo

Il pavimento del calidarium (a sinistra nella ricostruzione), è decorato da un mosaico con raffigurazione di scena di circo con quattro cavalli accoppiati: due si fronteggiano incedenti al passo, contrapposti ad un elemento centrale, forse una palma, su un terreno accidentato; gli altri due sono divergenti e sembrano nell’atto di ripartire impetuosamente, con la zampa anteriore sinistra sollevata dal suolo, il dorso contratto, nello sforzo dello scatto.


Del cavallo meglio conservato, si apprezzano ancora i finimenti come frontale e testiera, il collare con fila di falere e al centro del petto una borchia (bulla). In basso, a sinistra dell’animale, restano tre lettere di dubbia interpretazione: TOT; nulla rimane del suo antagonista, di cui si può supporre la raffigurazione speculare; di quello nell’angolo nord resta la testa, buona parte del corpo e se ne legge il nome in alto alla sua destra, INVICT[V]S; ha gli stessi finimenti di quello precedente e la corta coda è decorata con nastri (teniae); dell’altro nell’angolo opposto rimane solo parte del treno posteriore.
Il mosaico che decora il tepidarium rappresenta un gladiatore con rete e tridente (raetiarius) che indica una figura mancante sulla sua destra di cui si conservano l’impugnatura di una spada e una porzione di scudo.


Il giovane, con capigliatura corta e ciuffo sulla fronte, indossa l’abbigliamento tipico, una sorta di pantaloncino trattenuto da una fascia (subligaculum e balteus), e gli accessori difensivi (galerus paracolpi sopra la spalla sinistra e manica lungo il braccio). Il tridente è tenuto in posizione di riposo. Tra la testa e il braccio destro è indicato il nome del combattente, MONTANUS, elemento raro e importante.
Un secondo personaggio in tunica tiene in mano una lunga bacchetta (virga, rudis) che punta verso la figura mancante; indossa calzari chiusi e la veste decorata da bande verticali, è trattenuta in vita da una cintura. Anche per lui è indicato il nome, ANTONIUS e si tratta quasi certamente di un arbitro al massimo livello d’esperienza.

La presenza di un marchio di fabbrica dell’età di Commodo, impresso su un mattone nell’intercapedine del sistema di riscaldamento, ha permesso di datare il mosaico dei gladiatori alla fine del II secolo, quindi a un intervento edilizio successivo alla fondazione dell’impianto originario, per motivi di restauro o adeguamento della struttura.
Le scene rappresentate, con i combattimenti gladiatori tanto cari all’imperatore Commodo - che amava cimentarsi personalmente nell’arena - i cavalli delle quattro fazioni del circo, evocazione dello sport popolare per eccellenza, assieme alle dimensioni limitate degli edifici, collegati quasi certamente all’edificio residenziale situato nelle vicinanze, fanno supporre che l'impianto termale fosse utilizzato dal presidio militare dell’imperatore, preposto alla difesa della Villa dei Quintili.






domenica 20 gennaio 2019

Bonifacio

Bonifacio

Di Bonifacio ignoriamo completamente le origini. Compare per la prima volta nelle fonti scritte nel 413: in quell'anno il re dei goti Ataulfo prese d’assalto il fiorente porto di Marsiglia. Bonifacio faceva parte della guarnigione della città e si distinse per aver ferito personalmente il re durante un combattimento. Fu probabilmente ricompensato con un avanzamento al grado di tribuno ed il trasferimento sulla frontiera meridionale della Numidia, dove comandò una guarnigione di 500-1000 foederati goti stanziata nella città di Tubunae (l'attuale Tobna in Algeria) con compiti di sorveglianza delle tribù dei Mauri. In Africa Bonifacio conobbe e divenne amico di Sant'Agostino con cui si mantenne a lungo in corrispondenza epistolare (1).
Nel 422 il tribuno fu richiamato alla corte ravennate dall'augusta Galla Placidia, appena rimasta vedova del co-imperatore Costanzo III. L'augusta intendeva probabilmente contrapporre al magister militum Flavio Castino, sostenuto dal fratellastro Onorio, la cui posizione a corte era sempre più forte, un militare che aveva goduto della fiducia del marito.
Bonifacio ebbe il comando di una unità delle Scholae palatine (la guardia imperiale) e sotto gli auspici dell'augusta sposò (era rimasto vedovo della sua prima moglie) – tra le ire di Agostino giacchè si trattava di un'ariana - Pelagia, una principessa che apparteneva alla più alta nobiltà gota. Dal suocero Beremud, Bonifacio ereditò il comando dei suoi buccellarii che andarono così ad ingrossare le fila dei soldati su cui l'augusta poteva contare.
Questo spiega perchè sul finire del 422 Bonifacio potè impunemente rifiutarsi di seguire Crastino nella campagna di Spagna contro i Vandali, preferendo tornare in Africa dove, ottenuto in circostanze poco chiare il titolo di comes Africae, prese il controllo della regione da cui partivano i carichi di grano che approvvigionavano Roma e l'Italia intera. Si trovò quindi ad occupare una posizione di forza che corrispondeva in pieno alle sue ambizioni ma anche a quelle della sua augusta protettrice.
Al ritorno di Castino dalla Spagna - dopo una campagna che si era risolta con una disfatta anche per il tradimento del contingente visigoto di cui il generale riteneva responsabile l'augusta – la tensione tra il magister militum e Galla Placidia raggiunse il culmine, degenerando in scontri nelle strade tra i partigiani delle opposte fazioni. Onorio diede ascolto al suo generale ed esiliò la sorella che nella primavera del 423 s'imbarcò con i figli Onoria e Valentiniano alla volta di Costantinopoli dove trovò asilo presso la corte del nipote Teodosio II.
Alla morte di Onorio (agosto 423) senza discendenti diretti, Teodosio II non assegnò subito l'impero d'Occidente a Valentiniano, che era il primo nella linea di successione dinastica, ma temporeggiò.
Nel vuoto di potere così creatosi, Castino riuscì a far nominare imperatore dal Senato romano il decano dei funzionari civili (primicerius notariorum) Giovanni Primicerio (20 novembre 423). 
Bonifacio manifestò la sua fedeltà a Galla Placidia e alla dinastia teodosiana rifiutandosi di riconoscerlo e interrompendo le forniture di grano. Nel Marzo del 424 Castino salpò dall'Italia al comando di un corpo di spedizione con l'intento di riprendere il vitale controllo della provincia d'Africa.

Moneta battuta dalla zecca di Cartagine durante il governatorato di Bonifacio.
La legenda Dominis Nostris sul verso della moneta fa propendere per una sua datazione al periodo dell'usurpazione di Giovanni Primicerio (423-425). Nell'uso del plurale Bonifacio ribadirebbe infatti la sua lealtà verso entrambi i legittimi imperatori d'Oriente (Teodosio II) e d'Occidente (Valentiniano III).

La strategia difensiva di Bonifacio fu a tal punto efficace che l'esercito comitatense d'Occidente era ancora impantanato in Africa quando l'esercito inviato da Teodosio II al seguito di Galla Placidia e del giovane Valentiniano – che nel frattempo era stato investito del titolo di cesare – guidato dal magister militum Ardaburo e da suo figlio Aspar, raggiunse l'Italia. La sorte di Giovanni e Castino era decisa. Giovanni, catturato, fu giustiziato a Ravenna mentre Castino fu esiliato. 
Il 23 ottobre 425, a Roma, Valentiniano III fu proclamato augusto d'Occidente all'età di sei anni e la madre Galla Placidia ne assunse la tutela. Nel riassetto delle cariche di potere che seguì, Bonifacio rimase alquanto insoddisfatto. Fu confermato nella carica di comes Africae ed ottenne quella di comes domesticorum ma, contro le sue aspettative, non fu richiamato in Italia.
Al posto di Castino venne infatti nominato magister militum Costanzo Felice e Ezio, uno degli ufficiali che si era schierato con l'usurpatore Giovanni, ottenne l’incarico di comes. Troppo forti e potenzialmente preziosi erano i suoi legami con gli unni (2).
Bonifacio reagì all'ascesa di Felice con la secessione della provincia africana ma non mise in atto il blocco dei rifornimenti di grano.
Con l'appoggio della potente famiglia degli Anici, Felice riuscì a far dichiarare dal Senato Bonifacio nemico pubblico (hostis publicus), dichiarazione che legittimava ogni azione volta ad eliminarlo. La sua protettrice di un tempo, l'augusta, non sollecitò ma neppure si oppose a questa misura.
Come conseguenza della condanna, vennero organizzate due spedizioni militari dall’Italia contro l’Africa. La prima, nel 426-427, guidata dai generali Mavorzio, Gallone e Sanece si risolse in un grave fallimento e con la morte dei tre comandanti. La seconda, nel 428, guidata dal generale goto Flavio Sigisvulto, seppure coronata da maggiori successi (cinse d'assedio Ippona e Cartagine) non riuscì comunque a eliminare Bonifacio asserragliatosi a Sitifis, il capoluogo della Mauretania sitifensis (l'attuale Setif, nell'Algeria nordoccidentale). Questa capacità di resistenza di Bonifacio dimostra innanzitutto le sue doti di comandante militare riconosciute dai suoi ufficiali e dalle truppe al suo servizio ed il consenso che raccoglieva tra l'aristocrazia locale ed i ceti urbani a cui garantiva ordine e sicurezza.
Gli insuccessi militari ed il timore che Bonifacio potesse interrompere le forniture di grano gettando nel caos l'impero occidentale, nonchè l'opera di mediazione esercitata dai senatori amici del comes Africae, determinarono una riappacificazione tra questi e la corte ravennate.

Ma la pace in Africa fu di breve durata. L'anno seguente Genserico con tutto il popolo dei Vandali (circa 80.000 persone di cui 20.000 combattenti), attraversò lo stretto di Gibilterra e invase la Mauritania tingitana sbarcando probabilmente a Tangeri (3).

Le provincie dell'Africa romana al momento dell'invasione dei Vandali.
 
Secondo la Notitia Dignitatum a difesa della Tingitana erano dispiegati 13 reggimenti limitanei (formati da soldati di frontiera scarsamente addestrati) e 5 comitatensi (3 dei quali formati da reggimenti limitanei recentemente promossi), il che vuol dire che Bonifacio poteva contare in quella regione su 1000, al massimo 1.500 soldati in grado di fronteggiare i guerrieri vandali, il che rendeva impensabile uno scontro in campo aperto. Il comes lasciò quindi avanzare i Vandali e li affrontò soltanto un anno dopo alla testa del suo esercito forte di circa 25.000 unità venendone comunque sconfitto. Bonifacio si ritirò allora nella città di Hippo Regius (Ippona, l'attuale Annaba in Algeria), dove sostenne per 14 mesi l'assedio dei Vandali durante il quale morì di morte naturale sant'Agostino. Alla fine i Vandali, le cui file erano state ingrossate dagli eretici – soprattutto ariani e donatisti – ostili alla politica religiosa dell'impero, nel luglio del 431 desistettero e si ritirarono non senza aver ampiamente devastato la provincia.
Per quanto fosse ben diretto e si battesse con coraggio, l'esercito di Bonifacio non poteva comunque resistere a lungo alla pressione dei Vandali senza ricevere rinforzi. L'augusta si rivolse quindi al nipote Teodosio II che accettò d'inviare in Africa un corpo di spedizione al comando del magister militum Aspar (4). Nell'estate del 432, congiunte le sue forze a quelle di Aspar e unitele sotto il suo comando, Bonifacio diede battaglia ma fu nuovamente sconfitto da Genserico.

Proprio quando la situazione in Africa si faceva più critica, Galla Placidia richiamò Bonifacio in Italia. Dopo l'assassinio di Flavio Felice (maggio 430) – accusato di complottare ai suoi danni – Ezio lo aveva sostituito nella carica di comandante dell'esercito d'Occidente (magister utriusque militiae) diventando la figura forte della corte ravennate. Richiamando Bonifacio ed insignendolo del titolo di patricius (che Ezio non aveva) nonchè promuovendolo al comando dell'esercito, l'augusta sperava di contrastare l'irresistibile ascesa di Ezio. Il loro essere espressione di due gruppi di potere diversi, da una parte i visigoti e l'aristocrazia africana che sostenevano Bonifacio, dall'altra gli unni e l'aristocrazia gallica che parteggiavano per Ezio, rese lo scontro inevitabile. Questo ebbe luogo a Rimini, agli inizi del 433. Probabilmente si trattò di uno scontro tra le guardie personali dei due generali, Bonifacio ne uscì vincitore ma riportò gravissime ferite che di lì a poche settimane ne causarono la morte. Morente, fece promettere alla moglie Pelagia che se si fosse risposata l'avrebbe fatto proprio con il suo acerrimo rivale, Ezio (5). Cosa che poi puntualmente avvenne.

Note:

(1) L'epistolario tra Agostino e Bonifacio comprende una decina di lettere scritte dal vescovo di Ippona tra il 417 e il 429. Le sedici lettere di Bonifacio (molto più brevi) sono invece considerate apocrife da gran parte della critica e sono note con il nome di Pseudo-Bonifacio.
(2) Incaricato da Giovanni di reclutare mercenari unni, Ezio era tornato in Italia alla testa di un forte contingente, soltanto troppo tardi per salvare l'usurpatore dalla disfatta.
(3) La storiografia moderna tende a rigettare l'ipotesi, ampiamente diffusa in passato, che sia stato lo stesso Bonifacio a chiamare i Vandali in Africa per appoggiarlo nella guerra contro il Senato romano
(4) Cfr. scheda Gli Ardaburi.
(5) Probabilmente Bonifacio riteneva che sposare il nuovo uomo forte dell'impero d'Occidente potesse garantire alla moglie e alla sua discendenza il mantenimento della posizione sociale raggiunta.

Bibliografia:
- Jeroen W.P. Wijnendaele, L'ultimo romano. Il generale Bonifacio e la crisi dell'Impero d'occidente, 21 editore, 2017