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sabato 28 giugno 2014

L'epigrafe di Basilio Argiro Mesardonites

L'epigrafe di Basilio Argiro Mesardonites



L’iscrizione metrica del catepano Basilio Argiro Mesardonites (1010-1017), scoperta nel 1930 immurata capovolta sul davanzale d’una delle esafore della basilica di S. Nicola, è attualmente custodita nel museo della basilica. L’epigrafe è scolpita su una lastra di marmo bianco e a causa del reimpiego l’iscrizione risulta tagliata su tutti i lati ed il testo è mutilo nella parte destra e sinistra.

Con grande impegno e con lodevolissimo ingegno il molto valente Basilio Mesardonites, che si distingue per l’eccellenza, di stirpe imperiale (εξ ανακτων το γενοσ), ha innalzato il Pretorio con estrema perizia poiché ha provveduto a questo con mattoni duri come la pietra, ha costruito una nuova arca fortificata, ha edificato dalle fondamenta questo antemurale per la protezione degli alloggi delle truppe, per la gloria e il vanto del Palazzo. (Spinto) poi da un sincero anelito ha costruito in pietra la chiesa del glorioso Demetrio, che ha eretto come un faro affinché essa illumini chiaramente in (tutta) la sua gloria coloro che abitano qui e che (vi) abiteranno… 
(Traduzione Francesca Fiori)

L’epigrafe rientra nella tradizione delle iscrizioni celebrative di opere pubbliche ma – come osservato da Carile - il catepano Basilio Mesardonites non ottempera alla disposizione legale per cui il funzionario provinciale nella dedica dell’epigrafe commemorativa di lavori pubblici era tenuto a menzionare il nome dell’imperatore, nè allude al grado da lui ricoperto nell'amministrazione ma tramite l’allusione all’ascendenza imperiale (εξ ανακτων το γενοσ) si appella piuttosto all’orgoglio nobiliare della famiglia come principio di individuazione del proprio ruolo sociale.
Basilio Argiro Mesardonites apparteneva infatti alla potente famiglia degli Argiri, imparentata con i Lecapeni e quindi legata alla dinastia macedone. Secondo alcuni studiosi si tratterebbe del fratello del futuro imperatore Romano III Argiro (1028-1034).








giovedì 26 giugno 2014

Il Principato di Teodoro

Il Principato di Teodoro

Porta d'ingresso alla cittadella e facciata esterna del mastio, Teodoro (Mangup)

Dopo la conquista crociata di Costantinopoli nel 1204, ciò che rimaneva dei possedimenti bizantini in Crimea – la parte occidentale dell'antico thema di Cherson (conosciuto anche come Klymata) - divenne di fatto indipendente. Alessio I Comneno, fondatore dell'Impero di Trebisonda, approdato nella penisola con un contingente militare, ne forzò il governatore Teodoro II Gabras a divenire suo vassallo formando la cosiddetta provincia d'oltremare (Perateia). I Gabras, la cui dinastia governò ininterrottamente il possedimento fino alla conquista ottomana (1475), fortificarono la città di Doros nell'entroterra montuoso sull'altopiano di Mangup e la rinominarono Teodoro, in onore del loro antenato San Teodoro Gabras vissuto nell'XI sec (1), che ne divenne il centro politico e amministrativo in luogo dell'antico capoluogo bizantino di Cherson (2) troppo esposto alle scorrerie dei Tartari dell'Orda d'Oro. La popolazione di questa enclave bizantina era di origine molto composita (greci, alani, bulgari e visigoti) per quanto accomunati dalla stessa fede ortodossa, la preponderanza della componente di origine gota le valse il nome di Gotia con cui il principato fu anche conosciuto.
Il controllo trapezuntino sulla provincia d'oltremare fu comunque sempre più formale che reale e scomparve del tutto con il crescere della pressione che l'Impero niceno e i turchi selgiuchidi esercitavano sull'Impero di Trebisonda.
Il primo principe di cui si ha notizia nelle fonti scritte è Demetrio Gabras che viene indicato dallo storico del XVI secolo Teodoro Spandounes come partecipante alla battaglia delle Acque blu (1362-1363) (3). Il Principato mantenne sempre buoni rapporti con il confinante khanato dell'Orda d'Oro, a cui pagava un tributo annuo, non altrettanto con i coloni genovesi che, a partire dalla seconda metà del XIII secolo (4) assunsero progressivamente il controllo della fascia costiera – che i greci chiamarono Parathalassia ed i genovesi Capitanato di Gotia - da Cembalo (l'attuale Balaklava) a Lusta (Alushta) privando il piccolo staterello dell'accesso al mare.

Alessio I Gabras (1411-1434): durante il suo regno il principato raggiunse l'acme della sua prosperità. Individuato il luogo adatto ad Avlita, nella baia dove sfociava il fiume Cernaia, ad ovest della fascia controllata dai genovesi, nel 1427 vi fece costruire un porto che protesse con una fortezza costruita a Kalamita (Inkerman). Il porto iniziò subito a funzionare molto bene e dotò finalmente il principato di un accesso al mare consentendogli di ampliare i propri scambi commerciali ed intaccare il monopolio genovese. Nel 1433 le continue scaramucce con le colonie genovesi degenerarono in guerra aperta. Tra il 1433 e il 1434, con l'aiuto del khan Handj Ghirej, il principe assediò e conquistò Cembalo.
La risposta genovese non si fece però attendere.
Organizzata durante l'inverno, il 22 marzo del 1434, al comando di Carlo Lomellini salpò da Genova una spedizione militare forte di 10 navi grosse e altrettante galee su cui erano imbarcati 6000 uomini. La spedizione raggiunse rapidamente il Mar Nero e Lomellini riprese Cembalo e s'impadronì della fortezza di Kalamita quasi senza incontrare resistenza. Da qui Lomellini raggiunse il quartier generale di Caffa e, quindi, volendo castigare il khan per l'appoggio dato ai ribelli, verso la metà di giugno marciò su Solgat, ma la marcia d'avvicinamento, rallentata dai numerosi carriaggi che trasportavano le armi pesanti necessarie per l'assedio e dal gran caldo, non fu effettuata con le dovute misure protettive, così che all'alba del 22 giugno, a poche miglia da Solgat, la colonna genovese fu colta completamente di sorpresa dalla cavalleria tartara che in uno scontro in campo aperto le inflisse fortissime perdite (circa duemila uomini e tutti i carriaggi) costringendo Lomellini a ripiegare su Caffa.
Nel 1429 la figlia di Alessio, Maria, aveva sposato Davide II Comneno, l'ultimo imperatore di Trebisonda.

Alessio II Gabras (1434-1444): Successe al padre nel 1434 e nel 1441 firmò con Genova un trattato di pace che riconosceva al principato il possesso del porto di Avlita e della fortezza di Kalamita.

L'estensione del Principato di Teodoro nel 1444


Giovanni Gabras detto l'Olubey (1444-1460): Fratello del precedente. Sposò Maria Paleologina Asanina da cui ebbe due figli maschi, Isacco e Alessandro, ed una femmina, Maria, che sposò il principe Stefano III di Moldavia.

Maria di Mangup, seconda moglie di Stefano III di Moldavia
arazzo di copertura della tomba
Monastero di Putna (Romania), 1477

Isacco Gabras (1471-1474): Figlio di Giovanni Gabras. Dopo la caduta dell'Impero di Trebisonda (1461), Stefano III di Moldavia sentì direttamente minacciato dagli Ottomani il proprio territorio. Il principe si sforzò quindi di formare una lega antiottomana riunendo le forze del principato di Teodoro e quelle delle colonie genovesi. La politica filoturca di Isacco ostacolava però questo disegno e il principe moldavo, aiutato dai genovesi, ispirò e appoggiò – inviandogli a sostegno 300 soldati moldavi - il colpo di mano con cui il fratello minore Alessandro Gabras lo rovesciò.

Alessandro Gabras (1474-1475): non appena preso il potere, la flotta turca al comando del Gran Visir Ghedik Ahmed pascià sbarcò a Caffa (31 maggio 1474). Nonostante il contributo alla difesa del khan Mengli Ghirej – che fu preso prigioniero dai turchi - la città capitolò il 6 di giugno. Una dopo l'altra capitolarono tutte le piazzeforti genovesi del Capitanato di Gotia, l'ultima a cadere fu Cembalo, e i Teodoriti rimasero soli a difendere l'ultima enclave cristiana in Crimea. La capitale del principato, costruita sull'altopiano di Mangup, era protetta dalle pareti a strapiombo del massiccio roccioso su cui sorgeva e da una triplice cerchia difensiva, l'ultima delle quali era costituita dalla cittadella con il mastio al cui interno si trovava la residenza dei principi. L'armata ottomana la cinse d'assedio nel luglio del 1474 ma l'esigua guarnigione teodorita rinforzata da un contingente di soldati moldavi fu in grado di respingere ben cinque assalti infliggendo al nemico gravi perdite. La particolare conformazione del terreno non consentiva infatti agli ottomani di mettere in posizione le artiglierie pesanti e ne ostacolava l'avanzata. In dicembre i turchi sfondarono finalmente le difese ed il principe Alessandro si ritirò con gli ultimi superstiti nella cittadella dove continuarono a battersi strenuamente. Dopo la resa il principe e tutti i suoi parenti maschi, eccetto uno, furono passati per le armi, mentre le donne furono destinate all'harem del Sultano.

Note:

(1) Secondo alcuni autori il nome di Teodoro deriva semplicemente dalla corruzione dell'antico nome della città (τὸ Δόρος).

(2) Cherson, le cui rovine si trovano nei pressi dell'attuale Sebastopoli, fu devastata dai Tartari di Nogai Khan nel 1278. Fu definitivamente rasa al suolo sempre dai Tartari nel 1399.

(3) La cosiddetta battaglia delle Acque blu fu combattuta nell'autunno del 1362 o del 1363 sulle rive del fiume Synjucha nei pressi della città ucraina di Torhovytsia tra le forze del granduca di Lituania Algirdas e l'Orda d'Oro. La vittoria lituana consentì al granduca di espandere i propri possedimenti verso sud fino ad affacciarsi sul Mar Nero.

(4) L'insediamento dei coloni genovesi in Crimea iniziò nel 1266 con l'acquisto della città di Caffa dall'Orda d'oro.


giovedì 19 giugno 2014

Gli Ardaburi

Gli Ardaburi

Per quasi cinquant'anni nel corso del V secolo gli Ardaburi, una famiglia di militari di origine alana che servirono per tre generazioni nell'esercito orientale ricoprendone le cariche più alte, giocarono un ruolo chiave nella lotta per il potere in entrambe le metà dell'impero.

Nel 424-425 Ardaburio Aspar ed il padre Ardaburio - che ricopriva la carica di magister militum - guidarono la spedizione che rovesciò dal trono d'Occidente l'usurpatore Giovanni Primicerio e v'insediò il giovane Valentiniano III sotto la reggenza della madre Galla Placidia. Nel 431 fu inviato in Africa, probabilmente con il grado di comes e magister militum, per sostenere il comes Bonifacio nella guerra contro i Vandali di Genserico. Nel 434, mentre si trovava ancora in Africa, in compenso per le vittorie riportate sui Vandali e per il ruolo svolto nel rimettere sul trono il ramo occidentale della dinastia teodosiana, nonostante fosse un generale dell'esercito d'Oriente, fu designato da Galla Placidia come console per la pars occidentis (1).
Nel 441, giudicando l'Africa proconsolare ormai perduta, Aspar fu inviato in Illirico – probabilmente come magister militum per Illyricum – dove cercò di opporsi senza successo all'avanzata di Attila. Nel 447 il figlio Ardaburio Iunior fu designato per il consolato per la pars orientis. Nel 450, alla morte di Teodosio II, Aspar giocò un ruolo decisivo nel favorire l'ascesa al trono di Marciano (450-457) che era stato un giovane ufficiale sotto il suo comando in Africa. Alla morte di Marciano nel 457, Aspar ricopriva la carica di magister militum praesentalis e favorì la successione di Leone I (457-474) che era un suo sottoposto e che riteneva di poter manovrare a suo piacimento. Nel 459 ottenne il consolato orientale Giulio Patrizio, il secondo figlio di Aspar. L'imperatore aveva promesso ad Aspar di dare in sposa a quest'ultimo la propria figlia maggiore Ariadne ma continuava a procrastinare la data delle nozze per un motivo o per l'altro. Nel 465 Ermenerico, il terzo figlio di Aspar, fu nominato console per la pars occidentis ma l'anno seguente il fratello Ardaburio Iunior, che occupava la carica di magister militum per orientem fu accusato di collusione con il re persiano. Un ufficiale isaurico della guardia imperiale, Tarasis, era venuto in possesso di lettere inviate da Ardaburio Iunior al sovrano sasanide Peroz I, con le quali lo sollecitava a prendere le armi e a invadere il territorio romano, promettendogli al contempo sostegno in questa impresa. Tarasis consegnò queste lettere all'imperatore che destituì Ardaburio Iunior dalla carica a cui elevò il cognato Basilisco, riducendo in questo modo l'influenza che il padre Aspar, che pure si dissociò apertamente dalla condotta del figlio, aveva a corte. Come premio per la sua lealtà, Tarasis ottenne la carica di comes domesticorum (comandante della guardia imperiale). Verso la metà del 466, sempre con l'intento di controbilanciare l'influenza di Aspar e della componente germanica dell'esercito, Leone I diede in sposa Ariadne a Tarasis che, probabilmente, cambiò in questa occasione il proprio nome in Zenone. Nel 467 Basilisco fu elevato alla carica di magister militum praesentialis, la più alta carica dell'esercito. In questa veste nel 468 guidò la disastrosa spedizione contro i Vandali, a seguito della quale venne punito dall'imperatore con l'esilio. Nel frattempo Aspar aveva tentato di far assassinare Zenone che, sfuggito ai sicari, riparò a Serdica. Con i suoi due principali antagonisti lontani dalla capitale, Aspar vide rafforzata la sua posizione e nel 470, sembra dopo aver rinunciato alla fede ariana e abbracciato il credo calcedoniano – precondizione necessaria per poter accedere al trono – suo figlio Giulio Patrizio sposò Leonzia, la figlia minore di Leone I, e fu nominato cesare. Aspar sembrava a un passo dal coronamento dei sogni imperiali che aveva nutrito per la sua dinastia (2). L'imperatore era però sempre più sospettoso nei confronti degli Ardaburi e nel 472 in una congiura ordita dall'imperatore stesso con l'appoggio di Zenone furono trucidati Aspar e Ardaburio Iunior seguiti poco dopo da Giulio Patrizio. Al solo Ermenerico, giudicato ininfluente, fu fatta salva la vita.

Il missorio di Ardaburio




Fuso in argento per un peso di 3600 gr ed un diametro di 42 cm, il missorio fu realizzato nel 434 per commemorare il consolato di Flavius Ardaburio Aspar.Venne rinvenuto nel 1769 in provincia di Grosseto ed è attualmente conservato nel Museo archeologico nazionale di Firenze (Inv. 2588).
Lungo il bordo esterno del piatto corre un'iscrizione che recita:
FL(avius) ARDABUR ASPAR VIR INLUSTRIS COM(es) ET MAG(ister) MILITUM
ET CONSUL ORDINARIUS
Al centro della composizione, su un trono con le gambe a forma di teste di leone, è seduto il console, accanto a lui, in piedi sta il figlio indicato dalla didascalia come ARDABUR IUNIOR PRETOR. Il console siede impugnando nella destra la mappula (una specie di fazzoletto da tasca usato dai nobili romani in certi costumi di gala) e nella sinistra uno scettro che termina in alto con i busti dei due imperatori d'Oriente e d'Occidente, Teodosio II e Valentiniano III. Il figlio con la destra saluta il padre mentre tiene la mappula nella sinistra.
Sopra di loro, entro due clipei, Ardaburio, padre del console e console a sua volta nel 427, e Plinta, un suo parente che fu console nel 419. Le due figure nei clipei impugnano lo stesso scettro del console e tra loro è tesa una cortina ad indicare che erano morti all'epoca della realizzazione del missorio.
Rispettivamente a destra e a sinistra del console stanno, nella funzione di littori, le personificazioni di Costantinopoli (3) e Roma. La seconda indossa un elmo a tre creste e un corto chitone mentre tiene nella sinistra un globo e nella destra il fascio littorio, la prima porta una corona di rose e foglie, impugna il fascio littorio con la destra e nella sinistra tiene un fiore ed una spiga di grano.

Lo schema compositivo del missorio riflette il tentativo da parte di Ardaburio Aspar di fondare una dinastia che si ponesse sullo stesso piano di quella regnante e ben esprime le ambizioni imperiali che questi nutriva per la sua famiglia (lui stesso non poteva accedere al soglio imperiale in quanto di fede ariana).

La cisterna di Aspar





Cisterna di Aspar, particolare del muro perimetrale a ridosso della moschea di Selim

Il nome degli Ardaburi è legato anche ad una delle più grandi cisterne a cielo aperto di Costantinopoli. Fatta costruire sul fianco del quinto colle da Aspar nel 459, presenta una pianta quasi quadrata con i lati lunghi di 152 metri e la muratura spessa 5 metri mentre la sua profondità superava i 10 metri. Conosciuta anche con il nome di Xerokipion, fu abbandonata dopo la conquista crociata.
Fino ai primi anni '80 ospitava al suo interno una sorta di piccolo insediamento agricolo con case di legno, orti e giardini in sostituzione del quale si trovano oggi impianti sportivi ed un centro commerciale.


fotografia del luglio 1982



Note:

(1) Nel tardo impero veniva nominato un console per la pars orientis ed uno per la pars occidentis dell'impero. Nei discorsi e nei documenti ufficiali della pars occidentis veniva nominato per primo il console occidentale, in quelli della pars orientis l'ordine veniva invertito.


(2) Leonzia era sì la figlia minore di Leone I ma, a differenza della sorella maggiore Ariadne, era porfirogenita, nata cioè dopo l'ascesa al trono del padre.


(3) Mentre l'identificazione della Tyche di Roma è evidente, quella di Costantinopoli appare più incerta. Il fiore e la spiga non sono infatti attributi usuali di questa personificazione. Meglio si adatterebbero invece a quella di Cartagine – la capitale del granaio dell'impero – la città dove Aspar fu nominato console.










lunedì 2 giugno 2014

Il complesso dei SS.Quattro Coronati

Il complesso dei SS.Quattro Coronati


I santi Quattro Coronati erano quattro soldati romani (Severo, Severino, Carpoforo e Vittoriano) che per ordine di Diocleziano furono battuti a morte a Roma, con flagelli terminanti in pallottole di piombo, per essersi rifiutati di adorare gli idoli pagani. Per molto tempo i loro nomi restarono sconosciuti, ma furono poi rivelati dal Signore, nel 310 papa Melchiade diede loro l'appellativo di Quatuor Coronati e la loro festa fu fissata insieme a quella di cinque altri martiri Claudio, Nicostrato, Simproniano, Castorio e Simplicio che subirono il martirio due anni dopo. (Jacopo da Varagine, Legenda aurea)
Questi ultimi erano scalpellini cristiani – forse fratelli - che lavoravano nelle grandi cave di marmo e di porfido a nord di Sirmium (l'attuale Sremska Mitrovica in Serbia).
I cinque tagliapietre erano i migliori artigiani tra i molti che lavoravano nelle cave della Pannonia. Tanto bravi, che i compagni, nella loro ignoranza, li credevano aiutati dalla magia. Formule magiche sarebbero stati i segni di croce che essi tracciavano prima di intraprendere il lavoro; formule magiche le preghiere e i cantici ripetuti insieme durante l'opera.
Diocleziano – che nel 305 si era ritirato a vita privata nel palazzo di Spalato dei cui abbellimenti si occupava personalmente - visitava spesso le cave della Pannonia. Sceglieva i blocchi di materiali e commissionava volta per volta il lavoro desiderato. Pertanto conosceva benissimo i cinque scalpellini e ne apprezzava l'opera. Ragione per la quale nessuno, tra i compagni di lavoro e tra i superiori, osava denunziare come cristiani gli ottimi tagliapietre.
Fin quando Diocleziano non commissionò loro genietti e vittorie, amorini e figure mitologiche. Tra queste, un simulacro di Esculapio. Per il giorno fissato, genietti e amorini furono pronti, ma non la statua di Esculapio. Diocleziano pazientò, ordinando ancora aquile e leoni, che furono presto realizzati. Non fu fatto, però, il simulacro di Esculapio giacchè i cinque scalpellini si rifiutavano di scolpire un simulacro pagano.
Venne imbastito il processo, e la macchina della legge, messa in moto quasi contro la volontà imperiale, travolse gli artefici cristiani, che vennero gettati nel Danubio, chiusi entro botti di piombo.
Poco dopo, le loro reliquie furono portate a Roma, e i nove martiri furono sepolti insieme.

La basilica


Nel 310 papa Melchiade fece erigere il nucleo originario della basilica ad essi dedicata (1), del quale sopravvive ancora l'abside ed alcuni resti situati al di sotto della basilica attuale; nel VII secolo papa Onorio I ricostruì ed ampliò la chiesa che poi nel IX secolo Leone IV sottopose a radicale restauro. Distrutta dai Normanni di Roberto il Guiscardo nel 1084, la chiesa fu ricostruita in forme ridotte da Pasquale II (1099-1118) all'inizio del XII secolo: in questa occasione la parte anteriore fu trasformata in cortile, la navata centrale originaria divisa in tre navate tramite due file di colonne e le navate laterali originarie trasformate in chiostro l'una (quella di sn.) ed in refettorio l'altra (quella di ds.). 

Ingresso

L'ingresso al complesso avviene attraverso un portale ad arco sovrastato dalla massiccia torre campanaria del IX secolo (fortemente rimaneggiata nel XVII sec.), la più antica superstite di Roma: molto semplice e tozza, è costruita in cortina e presenta un loggiato con quadrifore sovrastato da una semplice cornice costituita da mensolette in marmo prive di decorazione.

Oltrepassato il portale si accede ad un primo cortile, con arcate tardocinquecentesche, corrispondente all'antico atrio della basilica leonina: sopra l'arco d'ingresso da notare un'iscrizione metrica in caratteri gotici relativa al restauro effettuato dal cardinale Alfonso de Carillo nel XV secolo.  

Il primo cortile con la facciata posteriore della torre campanaria e lo stemma del cardinale de Carrillo incassato sopra l'arco d'ingresso

Il primo cortile con il porticato che introduce all'ingresso del secondo

Attraverso un architrave si passa quindi in un altro cortile a cielo aperto, corrispondente alla parte anteriore dell'antica basilica, trasformata appunto in cortile nella ricostruzione di Pasquale II: da qui, attraverso un portico costituito da colonne con capitelli ionici e corinzi, si giunge all'ingresso della chiesa.

Il secondo cortile con il porticato che precede l'ingresso alla chiesa

L'interno della basilica - il cui impianto attuale risale alla ricostruzione di Pasquale II - si presenta attualmente a tre navate divise da quattro colonne per lato con capitelli corinzi che sostengono le arcate. Due grandi pilastri rettangolari raccolgono le ultime arcate e sostengono l'arco trionfale che immette nel transetto. Sopra le navatelle corrono due gallerie aperte verso la navata centrale da due trifore per lato con colonne ioniche e parapetti di marmo. L'abside è ancora quella dell'aula tardoantica, ricostruita parzialmente da Leone IV, e questo spiega le sue ampie proporzioni inadeguate al resto dell'interno. 

Veduta esterna dell'abside

La basilica è arricchita da un pavimento precosmatesco nel quale sono state riutilizzate molte iscrizioni provenienti da un antico cimitero cristiano. Lungo le pareti laterali si notano - incassate nella muratura – alcune delle colonne che separavano la nave della basilica originaria dalle navate laterali.

Il soffitto ligneo presenta lo stemma del donatore, il cardinale Enrico di Portogallo (1580) – figlio cadetto di Manuele I del Portogallo, regnò a sua volta per un breve periodo, dal 1578 al 1580, anno della sua morte. Fu anche detto il cardinale re.  


1. Ingresso
2. Torre campanaria
3. Primo cortile (atrio della basilica leoniana)
4. Oratorio di S.Silvestro
5. Secondo cortile (parte anteriore della basilica leoniana)
6. Navata laterale ds. della basilica leoniana, successivamente trasformata in refettorio
7. Navata laterale sn.della basilica leoniana, successivamente incorporata nel chiostro.
8. Chiostro (edificato nel 1220)
9. Transetto della basilica attuale
10. Nave della basilica attuale

11. Navate laterali della basilica attuale

Dalla navata di sinistra si accede al chiostro del monastero fondato da Pasquale II costruito intorno al 1220, nell'area precedentemente occupata dalla navata. A pianta rettangolare, presenta reperti paleocristiani e romani alle pareti e quattro gallerie divise in due campate da pilastrini sui quali sono scolpite paraste scanalate e rudentate. Le campate sono formate da una serie di otto archetti nei lati lunghi e di sei nei corti. Tutti gli archetti hanno la doppia ghiera e sono sostenuti da colonnine binate, con capitelli a nenufari e basi con foglie protezionali d'angolo, che poggiano sullo stilobate. La parte medioevale termina con una trabeazione in laterizio, composta da corsi di mattoni lisci ed a denti di sega alternati, intramezzati da una zona di marmo dove compare una decorazione a mosaico, formata da rombi che inscrivono stelle, croci e quadrati. Il cortile interno, tenuto a giardino, presenta al centro un "cantharus", ovvero un vaso per le abluzioni, del tempo di Pasquale II.

Il Palazzo cardinalizio

Forse già all'epoca di Leone IV al lato destro della basilica fu addossato un edificio destinato al clero e in particolare al cardinale titolare. Fu comunque notevolmente ampliato ed arricchito dal cardinale Stefano Conti (2), titolare di S. Maria in Trastevere, nel XIII secolo. Egli fece costruire un' imponente struttura fortificata sul lato nord della basilica, che al piano terra contiene l'Oratorio di S. Silvestro. 

La struttura fortificata fatta costruire dal cardinale Conti vista dall'esterno

Al primo piano della cosiddetta Torre Maggiore si trova invece l’ambiente più vasto e prestigioso del palazzo cardinalizio, detto Aula gotica dalla forma a sesto acuto delle volte che lo ricoprono. Qui si svolgevano banchetti, ricevimenti e si amministrava la giustizia.

L'Oratorio di S.Silvestro

Si presenta come una piccola stanza rettangolare con volta a botte, mentre sul lato opposto all’entrata è stato ricavato nel XVI secolo un piccolo presbiterio. Venne consacrato nel 1247 dal cardinale Stefano Conti e ornato da pregevoli affreschi, opera di maestri bizantini.
Il ciclo di affreschi illustra in undici scene, che partendo da quelle poste sopra l’entrata, proseguono sulla destra e si concludono sulla parete di sinistra, la leggenda del battesimo di Costantino e della cosiddetta Donazione di Costantino (3) come narrati negli Acta Silvestri.
Partendo dalla parete d’ingresso, abbiamo i primi tre riquadri:

1) Costantino colpito dalla lebbra.
Secondo gli Acta Costantino contrasse la lebbra nel corso di un'epidemia che imperversava sulla città di Roma. I sacerdoti di corte (Capitolii Pontifices), raccolti attorno al suo capezzale, sentenziarono che l'imperatore si sarebbe salvato bagnandosi nel sangue caldo di 300 fanciulli. I soldati cominciano a sequestrare i fanciulli ma, dinanzi al pianto delle madri, l'imperatore si commuove e da ordine di rilasciarli.

2) Pietro e Paolo appaiono in sogno a Costantino malato e lo esortano ad affidarsi a papa Silvestro.

3) I messi imperiali si dirigono al monte Soratte per incontrare Silvestro.

Al di sopra di questi 3 riquadri è raffigurato il Giudizio Universale, con al centro il Cristo in trono affiancato dalla Vergine e dal Battista. Ai loro lati, quasi protesi, con le mani e gli sguardi verso Cristo, ci sono gli apostoli divisi in due gruppi guidati rispettivamente da Pietro e Paolo. Più in alto due angeli, uno raffigurato nell'atto di arrotolare la volta celeste - E il cielo si ritirò come un volume che si arrotola (Apocalisse, VI,14) - e l'altro mentre suona la tromba del giudizio - Il primo suonò la tromba, e grandine e fuoco mescolati a sangue scrosciarono sulla terra (Apocalisse, VIII,7).


Passando alla parete di destra (quella senza finestre), abbiamo:

4) I messi di Costantino salgono sul monte Soratte.
I messi sono tre come i Re Magi e rappresentati in una posizione di supplica verso Silvestro, così come questi venivano rappresentati al cospetto di Gesù bambino. Anche la stella dipinta al centro della chioma dell'albero a sinistra richiama la cometa che guidò i Magi.

5) Silvestro rientra a Roma e mostra a Costantino un icona con i volti di Pietro e Paolo.

6) Costantino riceve da Silvestro il battesimo.
Molto particolare è il taglio prospettico dato alla scena: Mentre le figure del clero, incluso S.Silvestro, e dei dignitari sono disposte su un piano frontale, Costantino è inquadrato come visto dall'alto.

7) Costantino, curato dalla lebbra, consegna la tiara a Silvestro seduto in trono.
Costantino che con una mano consegna la tiara (simbolo della dignità pontificia) ed il sinichio (4) a San Silvestro e con l’altra tiene le redini del suo cavallo. Il tutto lo esegue senza indossare la sua corona, in segno di rispetto e come si fa di fronte ad una autorità superiore. Allo stesso tempo Papa Silvestro, tiene anche lui con una mano la tiara e con l’altra benedice Costantino e il suo gesto di umiltà ed ubbidienza.

8) Silvestro a cavallo, in corteo, è accompagnato da Costantino.
L'imperatore, a piedi, tiene le redini del cavallo di Papa Silvestro e lo conduce in città. Conducendo il cavallo come fa un paggio, un servitore, Costantino riconosce la superiorità dell’autorità morale su quella temporale. Si può notare come Costantino sia disarmato, la sua spada è tenuta da un servo che è posto all’inizio del corteo. Ma non è tenuta per l’impugnatura ma per la lama. E’ alzata in alto facendola assomigliare più ad una croce. E per ultimo, la croce quella vera rispetto alla spada, entra prima in città, a ribadire ulteriormente il primato religioso e temporale del papa rispetto all'imperatore.


Il ciclo si conclude nella parete sinistra con:

9) Silvestro risuscita il toro ucciso dal sacerdote ebreo.
E' raffigurato l'episodio della disputa tra Papa Silvestro e 12 rabbini per stabilire la supremazia di una religione sull'altra. Un rabbino sussurra in un orecchio di un toro la parola “Jahvè” e lo uccide sul colpo. Silvestro gli sussurra la parola “Cristo” e lo resuscita.

10) Elena, madre di Costantino, ritrova la vera Croce (5).

11) Silvestro libera il popolo romano da un drago.
Gli Acta narrano di un drago che si era rintanato in una grotta nei pressi della Rupe Tarpea. Con il suo alito pestilenziale, il drago uccideva chiunque si trovava a passare nelle vicinanze. Papa Silvestro si recò presso la tana del mostro in compagnia di due diaconi e discese i 365 gradini che lo separavano dal drago completamente disarmato, brandendo il solo Crocifisso. Alla vista del sacro simbolo, mentre Silvestro invocava l’aiuto del Cristo e della Vergine, il drago divenne immediatamente mansueto, al punto che il Papa lo poté legare con un filo della sua veste e portare al guinzaglio al cospetto della folla che lo attendeva in superficie e da cui il mostro fu ucciso.

Nel 1570 l'oratorio fu acquistato dalla Confraternita dei Marmorari (6) che aveva come patroni i santi Quattro, il presbiterio fu trasformato nella forma attuale e affrescato probabilmente da Raffaellino da Reggio; i membri della Confraternita commissionarono anche gli affreschi adiacenti all'ingresso laterale dell'oratorio, sotto il portico ovest del primo cortile, raffiguranti la Visitazione di Maria e la Natività con la data del 1588 nonchè quello posto al di sopra della porta di ingresso che raffigura i santi Quattro.


Nel XIV secolo il palazzo cardinalizio fu in parte abbandonato a causa del trasferimento della Curia ad Avignone. Al ritorno a Roma di Martino V il cardinale Alfonso Carillo (1423-1434) fece importanti lavori di restauro, ma il trasferimento della sede pontificia dal Laterano al Vaticano influí negativamente sull'importanza del complesso. Così nel 1564 Pio IV affidó la chiesa e tutti gli edifici annessi all'Arciconfraternita di S. Maria della Visitazione degli orfani perché li trasformasse in un monastero destinato ad accogliere le fanciulle romane orfane, vigilate da monache agostiniane.
L'Arciconfraternita tra il XVI e il XVII secolo provvide ad adattare le strutture alla nuova funzione.
Le modifiche furono però più esteriori che sostanziali e i muri medievali costituiscono ancor oggi gran parte dell'ossatura muraria. Tra gli interventi va ricordato l'ammodernamento dei due cortili. Nel primo nel 1632 sui lati nord e ovest furono realizzati due porticati a volte su pilastri cruciformi sormontati da un altro piano. Tutti gli ambienti che affacciano sul cortile furono trasformati in dormitori per le orfane. Nel secondo cortile davanti all'ingresso della basilica fu costruito un profondo porticato, che probabilmente riutilizza strutture del tempo di Pasquale II, al di sopra del quale fu realizzato il coro per la monache.
L'orfanotrofio fu soppresso alla fine dell'800 e il complesso fu diviso in due parti, assegnate a diversi ordini religiosi femminili.La zona ovest rimase sempre affidata alle Monache agostiniane, mentre quella est dopo vari passaggi è attualmente occupata dalle Piccole Sorelle dell'Agnello.

Note:

(1) Con l'andar del tempo i cinque scalpellini vennero dimenticati mentre i Quatuor Coronati divennero i protettori dell’arte del costruire in sostituzione degli altri cinque la cui professione venne unita al nome dei quattro.

(2) Stefano Conti, nipote di Innocenzo III da cui fu elevato alla porpora cardinalizia, fu Vicarius Urbis mentre papa Innocenzo IV si trovava a Lione per il Concilio nel quale fu deposto Federico II (1245). Alto funzionario della corte e del tribunale curiale, fu una figura di grande mediatore, tanto che quando divenne vicario della città di Roma, Federico II ne fu contento. In realtà fu uno strenuo difensore del primato della chiesa romana.

(3) Si tratta di un documento apocrifo, la  Constitutum Constantini - fabbricato probabilmente nel periodo 750-850 a Roma o a S. Denis come dimostrato dall'umanista Lorenzo Valla nel XV secolo - che pretende di essere l'atto con il quale l'imperatore Costantino avrebbe donato nel 314 al papa Silvestro I la giurisdizione civile su Roma, sull'Italia e sull'intero Occidente; e avrebbe onorato la Chiesa romana attribuendole i poteri e le dignità dell'Impero sì che il pontefice potesse portare insegne imperiali. La Constitutum Constantini venne utilizzata dalla Chiesa medioevale per avvalorare i propri diritti sui vasti possedimenti territoriali in Occidente e per legittimare le proprie mire di carattere temporale e universalistico.
Dante Alighieri, che pure riteneva autentico il documento, così lo stigmatizza nella Divina Commedia: Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre! (Inferno, Canto XIX, 115-117).

(4) Il sinichio o ombrellino rituale è il peculiare gonfalone o bandiera che, se aperto, segnala la presenza del papa.

(5) L'episodio è raffigurato anche nel ciclo della Leggenda della vera croce realizzato da Piero della Francesca nella basilica francescana di Arezzo (vedi qui)

(6) Questa confraternita, il cui motto era esporre segretamente e dimostrare silenziosamente, viene considerata un antecedente della Massoneria. Significativamente uno dei Santi Quattro raffigurati nell'affresco sembra infatti impugnare un compasso.