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domenica 23 agosto 2020

Santa Maria Egiziaca

Santa Maria Egiziaca


Nata nel 344 ad Alessandria d’Egitto, Maria fuggì da casa a dodici anni, vivendo di elemosine e di prostituzione. A ventinove anni incontrò ad Alessandria un gruppo di pellegrini in partenza per Gerusalemme: spinta dal desiderio di lasciare l’Egitto, s’imbarcò con loro. Arrivata in città, il giorno della festa della Croce le fu impossibile entrare nella basilica del Santo Sepolcro perché una strana forza la tratteneva. Comprendendo di essere indegna di venerare la croce di Cristo, si mise a pregare davanti all’icona della Madre di Dio, e solo allora riuscì ad entrare. Uscendo, pregò nuova mente davanti all’icona e sentì una voce che diceva: “se attraverserai il fiume Giordano, ritroverai quiete e beatitudine”. Maria si recò al fiume e s’immerse nelle acque per purificarsi, ricevendo poi la comunione nella basilica di San Giovanni Battista, sulle rive del Giordano.

Santa Maria Egiziaca raffigurata tra i Beati
Basilica dell'Assunta, Torcello, XI-XII sec.

Da quel momento, secondo la Vita della santa scritta da Sofronio, patriarca di Gerusalemme nella prima metà del VII secolo, Maria iniziò un durissimo cammino di penitenza nel deserto che durò quarantasette anni, durante i quali si nutrì solo d’erba. Il monaco Zosimo la incontrò durante un pellegrinaggio da lui intrapreso in Quaresima. Zosimo si trovò davanti una donna scheletrica, nuda e con lunghi capelli bianchi, che acconsentì a parlargli dopo essersi fatta dare da lui il mantello per coprirsi. Maria raccontò le circostanze che l’avevano portata a quel lungo pellegrinaggio, e per la seconda volta dall’arrivo in Palestina ricevette la comunione. Zosimo la salutò promettendo di tornare a trovarla l’anno successivo. Il monaco tornò come promesso, ma trovò la santa morta, con addosso il mantello che le aveva donato. L'agiografia narra che Zosimo fu aiutato da un leone che con i suoi artigli scavò la fossa nella quale fu sepolta Maria Egiziaca.
In realtà il carattere storico della santa sembra quasi inesistente anche se probabilmente è stato costruito intorno ad un iniziale nucleo reale: l'esistenza di una tomba di una santa solitaria palestinese, forse proprio di nome Maria.
Santa Maria Egiziaca è infine considerata la protettrice delle prostitute pentite.

martedì 7 agosto 2018

San Lazzaro Zographos

San Lazzaro Zographos

San Lazzaro zographos (il pittore) – ma è noto anche come l'iconografo – nacque in Armenia nell'810. Monacatosi in giovane età, apprese l'arte della pittura molto probabilmente nel monastero costantinopolitano di Studion, divenendo rapidamente famoso per la qualità delle sue realizzazioni. Durante il regno di Teofilo (829-842) – un convinto iconoclasta – Lazzaro continuò imperterrito la sua attività pittorica, mettendosi anche a restaurare le icone sfigurate per ordine dell'imperatore. Dopo aver disatteso numerose volte alle ripetute ingiunzioni di interrompere la sua attività, Lazzaro venne infine condotto al cospetto dell'imperatore, alla cui richiesta di distruggere le immagini che aveva dipinto oppose un netto rifiuto. Fu quindi gettato in prigione e sottoposto ad atroci torture. Rilasciato, ricominciò subito a dipingere icone. L'imperatore lo fece nuovamente imprigionare e, considerata la sua notorietà, volle punirlo in maniera esemplare perchè fosse di monito a tutti gli iconoduli: le palme delle mani gli furono bruciate fino all'osso apponendovi due ferri di cavallo arroventati.
 
Domenico Morelli, Gli Iconoclasti, 1855,
 Museo di Capodimonte, Napoli 
Nel dipinto è rappresentato l'arresto di San Lazzaro

 
Quando giaceva ormai in fin di vita nella sua cella, l'imperatrice Teodora, segretamente iconodula, convinse il marito a liberarlo. Lo fece quindi trasferire nell'appartato monastero di San Giovanni Prodromo a Phoberon, sulla riva asiatica del Bosforo, dove fu curato recuperando anche in parte l'uso delle mani. Dopo la morte di Teofilo (842), il culto delle immagini fu ripristinato dal sinodo convocato dal nuovo patriarca Metodio I nell'843 in cui l'iconoclastia venne condannata come eresia e Lazzaro potè tornare alla sua attività di pittore alla luce del sole.
Tra le opere che gli sono attribuite c'è un grande affresco di San Giovanni Prodromo realizzato nel monastero omonimo di Phoberon, il restauro dell'immagine del Cristo Chalkites nella lunetta della Chalke rimossa sotto Leone V (813-820) – su cui non c'è concordia tra gli studiosi - e quello dell'abside di Santa Sofia, dove, secondo quanto riportato dal pellegrino russo Antonio di Novgorod – che però visitò Costantinopoli soltanto nel 1200 - realizzò una Vergine con il Bambino (ancora visibile) fiancheggiata da due angeli.

 
Accanto alla figura del Cristo di questa Deesis che si trova nell'endonartece della chiesa del Salvatore in chora e che risale al 1316, era un tempo leggibile la didascalia Cristo Chalkites (oggi rimangono tracce soltanto dell'epiteto Chalkites). Dovrebbe quindi trattarsi di una riproduzione dell'mmagine realizzata a mosaico da San Lazzaro Zographos nella lunetta sovrastante l'ingresso monumentale al Palazzo imperiale (Chalke) nell'843.

Mosaico nell'abside della chiesa di Santa Sofia
Costantinopoli 

Nell'856 fu inviato da Michele III, figlio di Teodora e Teofilo, come ambasciatore presso papa Benedetto III, per ricomporre la divergenza con la chiesa di Roma apertasi con la questione iconoclasta.
Morì nell'867, forse al rientro di un secondo viaggio a Roma, e fu sepolto a Galata nel monastero di Evandro.


lunedì 29 agosto 2016

San Sabino

San Sabino

Sabino nacque a Canosa nel 461 probabilmente da un'agiata famiglia romana originaria della Sabina. Poco o nulla è noto della sua infanzia e adolescenza.
Le notizie relative alle sue vicende biografiche provengono essenzialmente dagli Atti del Concilio di Costantinopoli del 536 e dai Dialoghi di San Gregorio Magno. A queste due fonti primarie va aggiunta la Vita Sancti Savini redatta su basi documentarie da un anonimo nel IX secolo.

Ordinato sacerdote nel 486 dal vescovo San Probo nell’antica cattedrale canosina di San Pietro, nel 514, alla morte del vescovo San Memore, Sabino, allora cinquantatreenne, venne nominato al suo posto, dando inizio ad un episcopato che durò ben 52 anni.
Sabino ascese al seggio vescovile, sotto il pontificato di papa Ormisda, in un momento storico particolarmente difficile per la Chiesa. In Oriente Manichei e Nestoriani godevano della protezione dell'imperatore Anastasio I mentre l'Italia era sotto il dominio dei Goti di Teodorico che avevano abbracciato l'arianesimo.
Nel 525 Sabino accompagnò papa Giovanni I (523-526) a Costantinopoli in un viaggio, caldeggiato dal re goto Teodorico, che avrebbe dovuto avere lo scopo di far desistere l'imperatore Giustino I dalle persecuzioni contro gli ariani (la cui posizione non poteva però essere sostenuta dal papa in termini teologici). A causa dell'inevitabile insuccesso della missione, al suo ritorno in Italia Teodorico fece imprigionare e tradurre il papa a Ravenna dove morì per gli stenti e le privazioni.
Nel 531 Sabino partecipò al III Sinodo di Roma convocato da papa Bonifacio II e nel 535-536 fu nuovamente a Costantinopoli, a capo della delegazione di vescovi che accompagnò papa Agapito in una difficile missione diplomatica presso la corte di Giustiniano, volta a contrastare l'eresia monofisita che godeva dell'appoggio dall'imperatrice Teodora.
Il papa, nel pieno esercizio delle sue prerogative e nonostante le intimidazioni dell'imperatore, rimosse dal seggio patriarcale Antimo, apertamente monofisita e protetto dall'imperatrice, e consacrò personalmente il nuovo patriarca Menas, regolarmente eletto e fedele ai dettami del Concilio di Calcedonia.
Nel 543 ormai cieco, nel pieno della guerra greco-gotica, ricevette Totila nella residenza episcopale di Canosa e riescì a dissuaderlo dal mettere a ferro e fuoco la città.
Secondo il racconto di San Gregorio Magno mentre sedevano a pranzo il re goto, per sondare le virtù profetiche di Sabino, si sostituì a un servo nell'offrire al vescovo la coppa del vino, ma Sabino riconobbe l'appartenenza della mano al re ed esclamò: Vivat ipsa manus! (Possa vivere questa mano) (1). Allietato da questo augurio e convintosi delle virtù profetiche del vescovo, Totila decise di risparmiare la città.

Giovanni Boccati, San Sabino cieco riconosce Totila, pradella proveniente da una pala d'altare realizzata per la Cappella di San Savino nel Duomo di Orvieto, 1473
Pinacoteca Corrado Giaquinto, Bari
 
L'agiografia riporta anche un altro episodio in cui sono coinvolte le capacità profetiche del santo.
La longevità di Sabino aveva suscitato l’invidia dell’arcidiacono Vindemio che, temendo di non poter accedere all’episcopato, tentò di avvelenarlo corrompendo un servo che avrebbe dovuto porgere al vescovo una coppa contenente vino avvelenato. Sabino, intuito quanto architettato da Vindemio, ordinò al servo di bere dalla coppa, ma poi, impietosito, bevve egli stesso il vino avvelenato: Sabino rimase incolume, ma Vindemio, distante tre miglia dalla sua casa, morì.
Il santo vescovo si spense a Canosa alla veneranda età di 105 anni il 9 febbraio del 566. Fu probabilmente inumato inizialmente nella chiesa di San Pietro. I resti vennero poi traslati nell'VIII secolo nella nuova cattedrale (ridedicata a Sabino nel 1101) durante l'episcopato di Pietro, come ricordato da un'iscrizione reimpiegata nel pavimento della cripta (Petrus canusinus archiepiscopus posuit hic corpus beati Sabini).  

Oltre alla comprovata abilità diplomatica che gli consentì di destreggiarsi in un periodo storico estremamente difficile (Sabino fu apprezzato e ricevette incarichi di fiducia da pontefici dall'orientamento politico molto diverso, dal filobizantino Giovanni II al filogoto Bonifacio II fino all'intransigente Agapito), fu anche promotore di una intensa attività edilizia, che si estese anche ad alcuni centri vicini a Canosa come Canne e Barletta, riconoscibile dalla presenza di mattoni che recano il suo monogramma.

Il monogramma di Sabino
   
L'attività edilizia del vescovo – per quanto attiene la città di Canosa – sembra inoltre inquadrarsi in un progetto urbanistico di ridefinizione dello spazio urbano volto a connotarlo in senso cristiano.
Con la realizzazione a sud del complesso di San Pietro e la contestuale sistemazione a nord del battistero di San Giovanni affiancato alla chiesa di Santa Maria e, infine, con la risistemazione nell'immediato suburbio sudorientale della basilica di San Leucio il vescovo canosino crea infatti una sorta di cinta difensiva sacra intorno alla città, creando nuovi poli di attrazione, diversi e alternativi a quelli tradizionali della città pagana del foro e dell'area sacra di Giove Toro.

Note:

(1) San Gregorio Magno, Dialoghi, libro II, 15, 593-594


 

giovedì 10 settembre 2015

L'assedio di Otranto (29 luglio-14 agosto 1480) e gli 800 Martiri

L'assedio di Otranto (29 luglio-14 agosto 1480) e gli 800 Martiri


Alla morte del re di Cipro Giacomo II Lusignano (7 luglio 1473), il re di Napoli Ferrante (Ferdinando I) d'Aragona pretese il possesso dell'isola di cui era rimasta reggente – sotto tutela della Serenissima - la vedova di Giacomo II, la veneziana Caterina Cornaro. Sull'isola accampavano diritti per varie ragioni anche gli Sforza, i Gonzaga ed i Savoia. Ferrante, col progetto di far sposare suo figlio Alfonso con Ciarla, figlia illegittima del defunto re, tentò di impadronirsi dell'isola con un colpo di mano – più o meno apertamente appoggiato da papa Sisto IV - ad opera della fazione filoaragonese locale (14 novembre 1473) represso dal pronto intervento della flotta veneziana (1).
Questa manovra di Ferrante determinò la rottura definitiva dell’amicizia tra Napoli e Venezia, che si era rivelata proficua e vantaggiosa per entrambe.
Così nel 1480 la Serenissima, preoccupata dalle mire espansionistiche di Ferrante in Egeo,inviò a Costantinopoli un'ambasceria offrendo alla Sublime Porta una sorta di patto di nulla osta nel caso di una iniziativa turca sulle coste del Regno di Napoli nel Basso Adriatico.
Maometto II non si fece scappare l’occasione di attraversare indisturbato l’Adriatico (la flotta napoletana era schierata soprattutto nel Tirreno a causa di una lunga guerra contro Genova) ed ai primi di giugno raccolse a Valona un corpo di spedizione forte di diciottomila uomini, 140 vele, 60 galeotte e 40 maoni sotto il comando di Ahmed Pascià.
Impegnato nella conquista della Toscana, e all’oscuro degli accordi tra turchi e veneziani, Ferrante si limitò a munire di presidio le città della costa adriatica, specialmente Otranto. Qui furono poste cento lance e due guarnigioni comandate dai capitani Francesco Zurlo e Giovanni Antonio De Falconi.
Il 29 luglio la flotta ottomana fece la sua comparsa nelle acque di Otranto.
In mancanza di sufficienti mezzi per difendersi (la città era completamente sprovvista di artiglierie) le autorità militari, dopo aver fatto entrare il maggior numero di vettovaglie e animali da macello dal circondario, ordinarono l'abbandono del borgo e la ritirata nella cittadella fortificata, di cui vennero sprangate le porte, e distribuirono le armi alla popolazione civile che affiancò la guarnigione nella difesa delle mura.
I Turchi sbarcarono sul litorale senza incontrare resistenza poco a nord di Otranto – in una località che ancora oggi porta il nome di Baia dei turchi. Ahmed Pascià inviò dei messi che comunicarono alle autorità civili e militari la volontà di Maometto II di diventare padrone di Otranto, insieme all’offerta di avere la possibilità di lasciare sani e salvi la città se si fossero arresi senza combattere. L’assemblea dei cittadini di Otranto respinse l’offerta e il maggiorente Ladislao De Marco gettò in mare le chiavi delle porte della cittadella per ribadire la determinazione degli idruntini a combattere. La guarnigione spagnola inviata in rinforzo invece disertò, calandosi nottetempo giù dalle mura con delle funi.
Per tutti i primi dieci giorni di agosto la città fu battuta giorno e notte dall’artiglieria turca. Già all’alba del secondo giorno i turchi aprirono una breccia nelle mura a est, ma il loro assalto fu respinto dai cittadini in armi (duecento idruntini morirono negli scontri). Dalla stessa breccia i turchi provarono a passare il giorno dopo, ma furono, a costo di altri cento morti tra i difensori, nuovamente respinti.
Al quindicesimo giorno di assedio, Ahmed Pascià, dopo un ultimo massiccio bombardamento, ordinò l'attacco generale.
Il capitano Zurlo accorse alla breccia con il figlio al fianco e al comando di una squadra di uomini per tentare una estrema resistenza. Ma il numero dei soldati turchi era soverchiante e tutti furono massacrati. A dare manforte accorse poco dopo il capitano De Falconi con una squadra di cittadini, che resistettero difendendo palmo a palmo il terreno e, raccontano le cronache, facendo strage di nemici. Ma anche loro furono sopraffatti. Il giorno dopo i turchi dilagarono in città, saccheggiando le case e uccidendo chiunque si trovasse per strada. I superstiti ripiegarono verso la cattedrale, dove si erano rifugiate donne e bambini, con i preti e l’ottantenne arcivescovo della città Stefano Pendinelli. L'ultima linea di difesa, schierata a protezione dell'ingresso principale, fu travolta ed i turchi, entrati in chiesa con i cavalli, trovarono l'arcivescovo seduto sulla sua cattedra, che li invitò a convertirsi. Come risposta, un colpo di scimitarra gli troncò la testa.
Fatte schiave le donne e i bambini superstiti, il resto degli idruntini presenti nella Cattedrale e rastrellati per le strade furono tenuti prigionieri una notte nei sotterranei del castello, dove Ahmed Pascià aveva stabilito il suo quartier generale. Giovanni Momplesi, un prete calabrese passato al servizio degli ottomani, comunicò ai prigionieri che se avessero accettato di diventare sudditi di Maometto II e di abbracciare la fede musulmana sarebbero stati rimessi in libertà insieme alle proprie famiglie. Solo poche decine accettarono di apostatare la fede cristiana.
Il giorno seguente, 14 di agosto, Ahmed Pascià volle sentire il rifiuto con le proprie orecchie e, recatosi nei sotterranei, intimò a Momplesi di ripetere l'ultimatum: O la vita col Corano, o la morte col Vangelo. Un conciatore di panni e ciabattino, Antonio Pezzulla detto il Primaldo, si fece avanti e con un breve discorso invitò i suoi concittadini a “piuttosto mille volte morire con qual si voglia morte che di rinnegar Cristo”.
Gli 800 prigionieri (tutti uomini dai quindici anni in sù) furono portati in catene sul colle della Minerva, a poche centinaia di metri. Lì, su una grande pietra, conservata ancora oggi sotto l’altare della Cattedrale di Otranto, furono decapitati uno dopo l’altro. Il racconto che ci è pervenuto vuole che il corpo di Primaldo, che Ahmed Pascià ordinò di decapitare per primo, dopo che la testa venne spiccata dal busto, diventasse rigido come la pietra e restasse in piedi, nonostante i tentativi dei turchi di gettarlo in terra. Fino alla ottocentesima decapitazione. Poi anche il corpo del conciatore si accasciò.

In ottobre, probabilmente per la difficoltà di approvvigionare via mare un esercito così numeroso, Ahmed Pascià ripiegò su Valona con il grosso delle truppe, lasciando a difendere la città un presidio di 800 fanti e 500 cavalieri.
L'8 settembre 1481 la città fu riconquistata dalle armi cristiane al comando del duca di Calabria Alfonso d'Aragona appoggiate dalla flotta pontificia. Il duca trovò una città ridotta ad un cumulo di macerie la cui popolazione era ridotta a soli 300 abitanti. I corpi dei Martiri di Otranto, rimasti senza sepoltura sul colle della Minerva per un anno e ritrovati in gran parte incorrotti, furono recuperati e riposti in una chiesa oggi non più esistente da cui furono successivamente traslati nella Cattedrale, dove - in una cappella a loro dedicata ricavata nell'abside di destra - sono attualmente custoditi (2).

Cappella dei Martiri (3)
 
Dichiarati beati da papa Clemente XIV nel 1771, il 26 maggio 2013 i Martiri di Otranto sono stati canonizzati da papa Francesco.


Note:
 
(1) Cfr. scheda La dinastia dei Lusignano.

(2) Alfonso d'Aragona – figlio primogenito del re Ferrante e della sua prima moglie Isabella di Chiaromonte che sarà re di Napoli per un anno circa tra il 1494 ed il 1495 – fece traslare a Napoli circa duecento corpi dei martiri che attualmente sono custoditi in una cappella della chiesa di Santa Caterina a Formiello. Sul luogo del martirio il duca fece costruire la chiesa di Santa Maria dei Martiri (ancora esistente ma completamente ricostruita nel XVII secolo). A metà strada tra la città ed il colle della Minerva venne invece edificata nel XVI secolo la chiesa di Santa Maria del passo per ricordare il passaggio dei martiri.

(3) Secondo la leggenda, la statua lignea della Madonna con Bambino oggi posta sull'altare della cappella dei Martiri nella cattedrale idruntina che si vede nella fotografia, creduta d'oro massiccio, venne trafugata dai turchi durante il sacco della città e trasportata a Valona. Accortisi che era soltanto ricoperta a foglia d'oro, sarebbe stata gettata nella spazzatura dove la raccolse una schiava idruntina che ottenne dalla sua padrona il permesso di rimandarla ad Otranto quando questa partorì felicemente grazie alle sue preghiere. Caricata su una piccola imbarcazione senza vele e senza equipaggio, la statua arrivò miracolosamente ad Otranto dove fu accolta nella cattedrale.

Filmografia:

Adriano Barbano, Otranto 1480, 1980



domenica 21 giugno 2015

Santa Caterina d'Alessandria e Ipazia

Santa Caterina d'Alessandria e Ipazia


Santa Caterina d'Alessandria

Santa Caterina d'Alessandria
Basilica di Santa Caterina, prima metà del XV sec., Galatina
La prima passio che riferisce le vicende della sua vita è piuttosto tarda e risale all' XI secolo.
Nata nel 287 in una famiglia nobile e agiata, rimase orfana di entrambi i genitori in giovane età, cresciuta indipendente e nella possibilità di scegliere la propria vita, si dedicò allo studio, circondandosi di sapienti ed eruditi, diventando dottissima soprattutto nella filosofia e nella religione. Era, oltre che di grande ingegno, una giovane bellissima, richiesta in sposa dagli uomini più importanti della città d'Alessandria.
Nel 305 Massimino Daia, insignito da Galerio del titolo di Cesare, fu investito del governo della Siria e dell'Egitto.
Giunto ad Alessandria, Massimino Daia ordinò di sacrificare animali agli dei. Caterina, seguita dallo stuolo dei suoi sapienti, regalmente vestita e nel fulgore della sua bellezza, gli si presentò davanti, contestandogli il diritto di fare una simile imposizione e esortandolo a riconoscere invece Gesù Cristo come redentore dell’umanità. Massimino, soggiogato dalla grazia di Caterina, decise che la donna sostenesse le sue idee davanti a una commissione di cinquanta filosofi alessandrini.
Ma nel corso di questo incontro Caterina, oltre a controbattere i loro ragionamenti, riuscì a convertirli in blocco alla fede cristiana. Per questa conversione così pronta, Massimino li fece immediatamente mettere al rogo. Poi richiamò Caterina e le propose di sposarla. Dinanzi al netto rifiuto della Santa ne ordinò la fustigazione ma ella persistette nel rifiutare le nozze ribadendo la sua fede in Cristo suo sposo. Allora Massimino ordinò che fosse sottoposta al supplizio delle ruote dentate ma gli uncini e le lame si piegarono sulle tenere carni di Caterina, le ruote s'infransero e la Santa non ebbe la minima scalfitura.
Caterina fu allora imprigionata e tenuta senza mangiare e senza bere ma una colomba bianca le portava ogni giorno ciò di cui aveva bisogno, tanto che, quando la prelevarono da quell'orrido carcere, stava bene come quando vi era entrata. Allora Massimino dispose che venisse decapitata. Quando la spada del carnefice spiccò la testa dal suo collo, dalla ferita, anzichè il rosso sangue sprizzò invece olio miracoloso (1). Dio non permise che il suo corpo venisse deturpato e una schiera di angeli ne prese le spoglie e ricompostele le sollevò in volo andandole a deporre sul monte Sinai, dove ancora oggi l’altura vicina a Gebel Musa (Montagna di Mosè) è chiamata Gebel Katherin. Agli inizi del IX secolo, i monaci del monastero fondato nel 328 da Sant'Elena ai piedi del Gebel Musa ritrovarono i suoi resti e li traslarono nella chiesa del monastero che venne ridedicato alla Santa.

Santa Caterina d'Alessandria 
Basilica di S.Lorenzo fuori le mura, seconda metà dell'VIII secolo, Roma

Quasi coeva al ritrovamento dei resti della Santa è la sua prima raffigurazione conosciuta, testimonianza del culto a lei tributato: la santa compare infatti accanto a S.Andrea, S.Giovanni evangelista e S.Lorenzo in un affresco rinvenuto nella basilica romana di San Lorenzo e riferibile alla seconda metà dell'VIII secolo. Della figura della santa si è conservata solo parte del volto e la parte superiore del corpo ma è identificata esplicitamente come S.Caterina dalla didascalia che corre in verticale. Un'iscrizione posta alla base dell'affresco ne ricorda il committente (Iohannes qui Maximus pr[es]b[iter] et monachus) e l'autore (Crescentius infelix pictor).

Ipazia
Nata ad Alessandria, probabilmente nel 370, fu allieva e collaboratrice del padre, il filosofo, matematico e astronomo Teone (non è invece noto il nome della madre) di cui proseguì gli studi. Fin dal 393 risulta a capo della comunità scientifica alessandrina, erede del Museion fondato da Tolomeo I nel 305 a.C. e distrutto insieme alla famosa Biblioteca nel corso della guerra tra Aureliano e la regina Zenobia (270 c.ca).
I cosiddetti Decreti teodosiani – emessi tra il 391 ed il 392 in attuazione dell'Editto di Tessalonica del 380 che riconosceva il Cristianesimo come religione di Stato – avevano decretato la soppressione dei culti pagani e la chiusura di tutti i templi ad essi dedicati. Ad Alessandria il vescovo Teofilo era riuscito a farsi assegnare il tempio di Dioniso per trasformarlo in chiesa. Questa decisione scatenò la ribellione dei pagani che si scontrarono nelle strade con i cristiani, dopo che questi ultimi avevano malmenato, torturato e ucciso i sacerdoti del tempio di Dioniso. I pagani si asserragliarono quindi nel Serapeo e, sotto la guida di Olimpio - il sacerdote del tempio – che li esortava a morire piuttosto che rinnegare la fede dei padri, si prepararono a resistere all'attacco della guarnigione imperiale e dei fanatici cristiani agli ordini del vescovo. Nonostante lo stesso imperatore Teodosio scrivesse a Teofilo chiedendogli di concedere il perdono ai pagani, questi ordinò il loro massacro e la distruzione del Serapeo.

Il vescovo Teofilo, con il Vangelo aperto nella mano sinistra e la destra alzata, poggia i piedi sulle rovine del Serapeo al cui interno si riconosce la statua della divinità per il caratteristico modius che porta sulla testa.
Miniatura tratta dal Papiro Goleniscev, redatto ad Alessandria d'Egitto probabilmente ai primi del V secolo e contenente una Storia del mondo, folio VI verso B.

Non è noto l'atteggiamento tenuto da Ipazia durante questi eventi, nè i rapporti che intercorsero tra lei ed il vescovo. La fama di Ipazia e l'affermazione del suo prestigio intellettuale – che si tradussero anche in influenza politica – cominciarono a crescere infatti immediatamente dopo il verificarsi di questi drammatici fatti.
Nel 412, alla morte di Teofilo, gli successe sul trono episcopale il nipote Cirillo che prese a dominare la cosa pubblica oltre il limite consentito all’ordine episcopale entrando in conflitto con il prefetto imperiale Oreste.

Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene (particolare)
Stanza della Segnatura, Palazzi apostolici, Città del Vaticano
 1509-1511
Secondo alcuni autori in questa giovane stante e biancovestita Raffaello avrebbe raffigurato Ipazia

Nel 414, durante un'assemblea popolare, alcuni ebrei denunciarono al prefetto quale seminatore di discordie il maestro Ierace, un sostenitore del vescovo Cirillo, che fu arrestato e torturato. La reazione del vescovo fu durissima: espulse tutti gli ebrei da Alessandria, confiscandone i beni e trasformando in chiese le sinagoghe. Oreste, per quanto indignato, non potè prendere provvedimenti contro il vescovo poichè il clero era soggetto soltanto al foro ecclesiastico.
Un folto gruppo di Parabolani (2) circondò il carro del prefetto mentre passava per le vie di Alessandria ed iniziò ad insultarlo finchè uno di loro, un certo Ammonio, non scagliò una pietra che colpì in testa il prefetto. Ammonio fu arrestato e torturato a morte nel corso di un regolare processo.
Cirillo rispose facendo trasportare il corpo di Ammonio in una chiesa e lo elevò al rango di martire, come se fosse morto per difendere la sua fede.
L'assassinio di Ipazia maturò nel pieno del conflitto tra il prefetto ed il vescovo. Ipazia era infatti uno dei più ascoltati consiglieri di Oreste con cui si incontrava molto frequentemente. Oreste era riuscito anche ad ottenere dal prefetto del pretorio Antemio – che teneva la reggenza dell'impero d'Oriente durante la minore età di Teodosio II – che fossero riassegnati alla scuola di Ipazia i sussidi governativi sospesi da un precedente decreto caldeggiato da Cirillo.
Il vescovo, da questo momento, cominciò a tuonare ogni giorno dal pulpito della cattedrale cristiana del Cesareion contro questa donna che non la smetteva di dedicarsi ai numeri, alla musica e agli astrolabi. Nel marzo del 415 un gruppo di parabolani, guidati da un predicatore di nome Pietro il Lettore, assaltarono la lettiga che riportava Ipazia a casa e la trascinarono nella cattedrale. Qui Pietro il Lettore la denudò e le cavò gli occhi consegnandola ai parabolani che la fecero letteralmente a pezzi usando dei gusci di conchiglia affilati. Poi misero i suoi poveri resti in dei sacchi di iuta e li portarono esultanti al Cinereon dove li bruciarono insieme alla spazzatura.
Nessuno degli scritti di Ipazia è giunto sino a noi.

Le analogie ed i parallelismi tra la biografia di Santa Caterina e quella di Ipazia, nonchè la scarsità di notizie storiche sulla santa (3) - mentre, viceversa, le vicende di Ipazia sono ben documentate negli scritti degli storici dell'epoca (cfr. Socrate scolastico, Historia Ecclesiastica; Damascio, Vita Isidori) – hanno fatto pensare ad una "cristianizzazione" postuma della figura della scienziata e filosofa alessandrina, che comunque morì pagana, in quella di Santa Caterina.

Note:


(1) Per questa ragione, oltre alla ruota dentata simbolo del martirio, la santa è a volte raffigurata con in mano un'ampolla vitrea. Inoltre i monaci del monastero del Sinai a lei dedicato distribuivano ai pellegrini fiale del liquore capitis Sanctae Caterinae da usare a fini terapeutici. La cappella del Tesoro di Palermo conserva una fiala del XII secolo che reca appunto questa dicitura.

Santa Caterina con in mano l'ampolla vitrea
ambiente ipogeo del Palazzo di Arechi II, Salerno, metà XII sec.

(2) I Parabolani (dal greco Παράβολοι o Παραβολᾶνοι, che deriva da παραβάλλεσθαι τὴν ζωήν, che significa letteralmente "coloro che rischiano la vita") furono i membri di una confraternita cristiana che nella Chiesa delle origini si dedicavano sotto giuramento alla cura dei malati, specie degli appestati, e alla sepoltura dei morti, sperando così di morire per Cristo.
La confraternita nacque durante la peste di Alessandria sotto l'episcopato di Dionisio di Alessandria (seconda metà del III secolo). In questo evento sta la giustificazione del loro nome: essi rischiarono la vita (παραβάλλεσθαι τὴν ζωήν) per esporsi a malattie contagiose. Oltre a svolgere opere di misericordia essi costituirono successivamente anche una milizia privata agli ordini diretti del vescovo. All'epoca di Cirillo erano in numero di circa seicento.

(3) Nel 1969 la commemorazione della Santa venne soppressa dai revisori del Calendario liturgico con questa motivazione: "Si elimina la commemorazione di Santa Caterina, iscritta nel Calendario Romano del secolo XIII. Non solo la Passione di Santa Caterina è interamente leggendaria, ma sul suo conto non si può affermare nulla di sicuro”.







lunedì 6 aprile 2015

I Santi militari

I Santi militari


Il culto per i santi militari comincia ad emergere intorno al IX secolo. Un forte impulso allo sviluppo del loro culto viene infatti dal formarsi di un'aristocrazia militare provinciale, che diverrà sempre più influente nell'impero bizantino e che identifica in essi i propri santi predecessori (*).
Christopher Walter, nella sua monumentale opera di catalogazione, The Warrior Saints in Byzantine Art and Tradition (Ashgate, 2003), raccoglie e analizza le biografie di 75 santi militari. Occorre però notare che non tutti hanno alle spalle un reale curriculum militare: alcuni hanno infatti raggiunto questo particolare status grazie ad interventi a difesa della città di cui erano protettori, o a favore delle armi cristiane più in generale, operati dopo la loro morte. Tra questi il caso più emblematico è quello di San Demetrio di Tessalonica (cfr. scheda) inizialmente raffigurato vestito della semplice clamide diaconale e solo a partire dal IX-X secolo, dopo i suoi interventi a sostegno della città assediata dai nemici, in armatura da soldato romano.

* L'ipotesi avanzata da Bakirtzis  (cfr. Ch. Bakirtzis, Warrior Saints or Portraits of Members of the Family of Alexios I Komnenos? in Mosaic. Festschrift for A. H. S. Megaw, ed. J. Herrin et al., Atene 2001) secondo cui nella chiesa della Panagia Kosmosoteira a Feres (1152) quattro membri della famiglia imperiale comnena, tra cui gli imperatori Alessio I e Giovanni II, sarebbero ritratti nelle vesti di altrettanti santi militari, offrirebbe un inedito riscontro iconografico al processo di identificazione dell'aristocrazia militare con questa categoria di santi.


Artemio: Di nobili origini, per ordine dell'imperatore Costanzo II (337-361), che era di fede ariana, Artemio andò a prendere le reliquie di sant'Andrea apostolo, san Luca evangelista e san Timoteo dai territori oltre il Danubio e le portò a Costantinopoli (3 marzo 357). Costanzo lo compensò nominandolo nel 360 dux Aegypti, governatore militare dell'Egitto.
Entrato in carica, Artemio seguì la politica religiosa del suo imperatore, volta a promuovere l'Arianesimo perseguitando i vescovi fedeli alle posizioni sostenute dal concilio di Nicea. Diede infatti la caccia al vescovo Atanasio di Alessandria, torturando e uccidendo la sua seguace Eudemonia. Quando il patriarca Teofilo di Alessandria ordinò il saccheggio del Serapeo, il tempio dedicato al dio Serapide, la popolazione locale si ribellò: Artemio intervenne ordinando alle proprie truppe di sedare la sommossa con la forza.

San Artemio
chiesa di S.Nicola Orfano, Tessalonica, 1311-1322

Nel 363 Giuliano l'Apostata succedette al cugino Costanzo. La popolazione di Alessandria accusò allora Artemio di malgoverno dinanzi al nuovo imperatore, portando tra gli esempi l'uso delle truppe contro la popolazione nell'episodio del Serapeo. Giuliano fece processare Artemio, il quale fu trovato colpevole e giustiziato nella città di Antiochia.
Non sono quindi molto chiare le ragioni per cui fu santificato dalla Chiesa ortodossa. Teodoreto da Cirro (V sec.) nella sua Historia Ecclesiastica racconta che Artemio avrebbe distrutto numerosi idoli e templi pagani e per questa ragione Giuliano avrebbe in realtà ordinato la confisca delle sue proprietà e la sua decapitazione. Secondo la Passio Artemii - redatta poco prima del X secolo da un certo monaco Giovanni di incerta identificazione - in cui non si fa cenno della sua fede ariana, Artemio sarebbe stato invece messo a morte per essere intervenuto a difesa dei Cristiani perseguitati da Giuliano. Non sempre è raffigurato in abiti militari.

Demetrio di Tessalonica: vedi scheda.

Eucarpio e Trofimo: Eucarpio e Trofimo erano due soldati stanziati a Nicomedia durante il regno di Diocleziano (284-305 che si distinguevano per la particolare ferocia con cui applicavano i decreti anticristiani dell'imperatore.
 
Sant'Eucarpio
Rotonda di San Giorgio, Tessalonica, IV-V sec.
 
Un giorno, mentre avevano appena arrestato alcuni cristiani, videro scendere dal cielo una nuvola di fuoco che prese consistenza avvicinandosi a loro. Dalla nuvola emerse una voce che disse: “Perchè siete così zelanti nel minacciare i miei servi? Non illudetevi, nessuno può sopprimere quelli che credono in Me con tutte le loro forzae! E' meglio che vi uniate a loro e scopriate anche voi il Regno dei Cieli.”
Eucarpio e Trofimo caddero a terra spaventati, non osando alzare gli occhi, e si dissero l'un l'altro: “Davvero questo è il grande Dio, che si è manifestato a noi. Faremmo bene a diventare i Suoi servitori ”. Quindi il Signore parlò dicendo:“ Alzatevi e pentitevi, perché i vostri peccati sono perdonati ”. Mentre si alzavano, videro nella nuvola l'immagine di un Uomo che emanava raggi e una grande moltitudine in piedi attorno a lui.
Attoniti, gridarono con una voce sola: “Accoglici, Signore, perchè abbiamo peccato. Non c'è altro Dio all'infuori di te, il Creatore e vero Dio e noi non siamo ancora nel numero dei suoi servi”. Ma in quel mentre la nuvola si sollevò in cielo e scomparve.
Convertiti da questa apparizione, i due santi liberarono tutti i prigionieri cristiani. Per questo vennero imprigionati e sottoposti a tortura, appesi, le loro carni vennero lacerate da ferri acuminati. Quando fu acceso un grande fuoco, Eucarpio e Trofimo vi si gettarono di propria volontà, chiedendo perdono al Signore dei loro peccati e affidandogli le loro anime.

Eustazio (Eustachio) Placido: Placido era un generale romano all'epoca di Traiano (98-117) che, benché pagano, era per sua natura una persona spinta a fare grandi beneficenze. La Legenda aurea racconta che un giorno (100-101) andando a caccia, inseguì un cervo di rara bellezza e grandezza e quando questi si fermò sopra una rupe e volgendosi all’inseguitore, aveva tra le corna una croce luminosa e sopra la figura di Cristo che gli dice: “Placido perché mi perseguiti? Io sono Gesù che tu onori senza sapere”.

San Eustazio
chiesa del Salvatore in Chora, Costantinopoli, 1316-1321

Riavutosi dallo spavento, il generale decise di farsi battezzare prendendo il nome di Eustazio (Eustachio) insieme alla moglie ed ai due figli che presero i nomi di Teopista, Teopisto e Agapio.
Ritornato sul monte, riascoltò la misteriosa voce che gli preannunciava che avrebbe dovuto dar prova della sua pazienza. E qui iniziano i guai, la peste gli uccide tutta la servitù e poi i cavalli e il bestiame; i ladri gli rubano il resto.
Eustazio decide quindi di emigrare in Egitto, durante il viaggio non potendo pagare il nolo, si vede togliere la moglie dal capitano della nave che se n’era invaghito. Sbarcato a terra prosegue il viaggio a piedi con i figli, che gli vengono rapiti uno da un leone e l’altro da un lupo; salvati dagli abitanti del luogo, i due ragazzi crescono nello stesso villaggio senza conoscersi.
Rimasto solo, Eustazio si stabilisce in un villaggio vicino chiamato Badisso, guadagnandosi il pane come guardiano, sta lì per 15 anni, finché avendo i barbari violati i confini dell’Impero, Traiano lo manda a cercare per riportarlo a Roma.



San Eustazio
chiesa del Protaton, Keyres, Monte Athos, 1290-1310

Di nuovo comandante delle truppe, arruola soldati da ogni luogo; così fra le reclute finiscono anche i suoi due figli, robusti e ben educati, al punto che Eustazio pur non riconoscendoli, li nomina sottufficiali, tenendoli presso di sé.
Vinta la guerra, le truppe sostano per un breve riposo in un piccolo villaggio, proprio quello in cui vive coltivando un orto, Teopista, che era rimasta sola dopo la morte del capitano della nave e viveva in una povera casupola. I due sottufficiali le chiedono ospitalità, e nel raccontarsi le loro vicissitudini, finiscono per riconoscersi come fratelli, anche Teopista li riconosce ma non lo dice, finché il giorno dopo presentatasi al generale, per essere aiutata a rientrare in patria, riconosce il marito, segue un riconoscimento fra tutti loro e così la famiglia si ricompone.
Intanto morto Traiano, gli era succeduto Adriano (117-138), il quale accoglie a Roma il generale vincitore dei barbari decretandogli il trionfo. Il giorno seguente, quando doveva partecipare al rito di ringraziamento nel tempio di Apollo, Eustachio si rifiuta essendo cristiano. L’imperatore per questo lo condanna alla morte nel circo insieme aalla moglie ed ai figli, ma il leone per quanto aizzato non li tocca nemmeno e allora vengono introdotti vivi in un bue di bronzo arroventato, morendo subito, ma il calore non brucia loro nemmeno un capello.
I cristiani recuperarono i corpi dei martiri e gli diedero sepoltura, in questo luogo Costantino il grande fece costruire un primo oratorio dedicato a Sant'Eustachio su cui fu in seguito edificata la chiesa ancora esistente. 

Giorgio: Le poche notizie pervenute sono contenute nella Passio Georgii – che però il Decretum Gelasianum del 496, classifica tra le opere apocrife (supposte non autentiche, contraffatte). Nel De situ terrae sanctae di Teodoro Perigeta (530 ca.) si attesta che a Lydda in Palestina (l'attuale Lod presso Tel Aviv in Israele) vi era una basilica costantiniana, sorta sulla tomba di san Giorgio e compagni, martirizzati verosimilmente nel 303, durante la persecuzione di Diocleziano (detta basilica era già meta di pellegrini prima delle Crociate, fino a quando il Saladino non la fece abbattere).
La notizia viene confermata anche dall'Itinerarium Antoninii (570 ca.) (*), dal monaco Adamnano di Iona (De locis sanctis, 698 c.ca) e da un’epigrafe greca, rinvenuta ad Eraclea di Betania datata al 368, che parla della “casa o chiesa dei santi e trionfanti martiri Giorgio e compagni”.
I documenti successivi, che sono nuove elaborazioni della passio sopra citata, offrono notizie sul culto, ma sotto l’aspetto agiografico non fanno altro che complicare maggiormente la leggenda, che solo tardivamente si integra dell’episodio del drago e della fanciulla salvata dal santo.
Dalla passio apprendiamo che Giorgio era nato in Cappadocia ed era figlio di Geronzio persiano e Policronia cappadoce, che lo educarono cristianamente; da adulto divenne tribuno dell’esercito di Diocleziano. Alla proclamazione del primo editto dioclezianeo contro i cristiani (303) il tribuno Giorgio di Cappadocia distribuì i suoi beni ai poveri e dopo essere stato arrestato per aver strappato l’editto, confessò davanti al tribunale la sua fede in Cristo; al rifiuto di abiurare fu sottoposto a tortura e poi buttato in carcere. Qui ha la visione del Signore che gli predice sette anni di tormenti, tre volte la morte e tre volte la resurrezione.
E qui la fantasia dei suoi agiografi, spazia in episodi strabilianti, difficilmente credibili: vince il mago Atanasio che si converte e viene martirizzato; viene tagliato in due con una ruota piena di chiodi e spade; risuscita operando la conversione del magister militum Anatolio con tutti i suoi soldati che vengono uccisi a fil di spada; entra in un tempio pagano e con un soffio abbatte gli idoli di pietra; converte l’imperatrice Alessandra che viene martirizzata; l’imperatore lo condanna alla decapitazione, ma Giorgio prima ottiene che l’imperatore ed i suoi settantadue dignitari vengano inceneriti; promette protezione a chi onorerà le sue reliquie ed infine si lascia decapitare.


San Giorgio
chiesa del Salvatore in Chora, Costantinopoli, 1316-1321

Il culto per il martire iniziò quasi subito, come dimostrano i resti archeologici della basilica eretta qualche anno dopo la morte (303?) sulla sua tomba nel luogo del martirio a Lydda. La leggenda del drago comparve soltanto molti secoli dopo in epoca medioevale, quando il trovatore normanno Wace (La vie des Saints, 1170 ca.) e soprattutto Jacopo da Varagine nella sua Legenda Aurea, fissano la sua figura come cavaliere eroico.
Essa narra che nella città di Silene in Libia, vi era un grande stagno, tale da nascondere un drago, il quale si avvicinava alla città, e uccideva con il fiato quante persone incontrava. I poveri abitanti gli offrivano per placarlo, due pecore al giorno e quando queste cominciarono a scarseggiare, offrirono una pecora e un giovane tirato a sorte.
Un giorno fu estratta la giovane figlia del re, il quale terrorizzato offrì il suo patrimonio e metà del regno, ma il popolo si ribellò, avendo visto morire tanti suoi figli, dopo otto giorni di tentativi, il re alla fine dovette cedere e la giovane fanciulla piangente si avviò verso il grande stagno.
Passò proprio in quel frangente il giovane cavaliere Giorgio, il quale saputo dell’imminente sacrificio, tranquillizzò la principessina, promettendole il suo intervento per salvarla e quando il drago uscì dalle acque, sprizzando fuoco e fumo pestifero dalle narici, Giorgio non si spaventò, salì a cavallo e affrontandolo lo trafisse con la sua lancia, ferendolo e facendolo cadere a terra.
Poi disse alla fanciulla di non avere paura e di avvolgere la sua cintura al collo del drago; una volta fatto ciò, il drago prese a seguirla docilmente come un cagnolino, verso la città. Gli abitanti erano atterriti nel vedere il drago avvicinarsi, ma Giorgio li rassicurò dicendo: Non abbiate timore, Dio mi ha mandato a voi per liberarvi dal drago: Abbracciate la fede in Cristo, ricevete il battesimo e ucciderò il mostro.
Allora il re e la popolazione si convertirono e il prode cavaliere uccise il drago facendolo portare fuori dalla città, trascinato da quattro paia di buoi.
La leggenda era sorta al tempo delle Crociate, influenzata da una errata interpretazione di un’immagine di Costantino il grande, trovata a Costantinopoli, dove il sovrano schiacciava col piede un drago, simbolo del “nemico del genere umano”.
La fantasia popolare e i miti greci di Perseo che uccide il mostro liberando la bella Andromeda, elevarono l’eroico martire della Cappadocia a simbolo di Cristo, che sconfigge il male (demonio) rappresentato dal drago. I crociati accelerarono questa trasformazione del martire in un santo guerriero, volendo simboleggiare l’uccisione del drago come la sconfitta dell’Islam. L'anonimo autore (probabilmente un semplice soldato al seguito di Boemondo di Taranto) della cronaca della prima crociata nota come Gesta Francorum (1100-1101) lo descrive intervenire insieme a San Demetrio e San Maurizio a fianco dei crociati il 28 giugno del 1098 nella battaglia contro l'esercito dell'atabeg di Mosul, Kerbogha, che stava assediando Antiochia.
San Giorgio è per altro onorato anche dai musulmani, che gli diedero l’appellativo di ‘profeta’.

(*) L'Itinerarium Antoninii è stato a lungo ritenuto opera di Antonino da Piacenza, un martire piacentino delle persecuzioni dioclezianee, è invece quasi sicuramente opera di un pellegrino devoto al santo martire che descrive il suo viaggio in Terrasanta effettuato intorno al 570.

Maurizio: generale dell'esercito romano sotto l'imperatore Massimiano (286-305), comandava la leggendaria Legione Tebana (*) interamente formata da soldati reclutati nell'Alto Egitto e per la gran parte cristiani. Inizialmente stanziata in Mesopotamia, ai confini orientali dell'impero, la legione fu trasferita nell'Europa centrale (300 c.ca) per contrastare la pressione che le tribù barbare dei Quadi e dei Marcomanni esercitavano sul confine delle Gallie e reprimere la rivolta che era scoppiata tra le popolazioni locali. Secondo alcune versioni, dopo essersi comportati valorosamente in battaglia, i legionari rifiutarono di sacrificare agli dei di Roma, secondo altre rifiutarono di sterminare gli abitanti di un villaggio nei pressi di Agaunum (l'attuale Saint Maurice en Valais, in Svizzera) perchè quasi tutti cristiani come loro. In conseguenza dell'insubordinazione, Massimiano ordinò la decimazione della legione, ma i legionari, confortati dal loro comandante, rimasero fermi nel loro rifiuto. Massimiano ordinò quindi un'altra decimazione e procedette finchè tutti i legionari (gli effettivi di una legione romana erano all'epoca circa 6.600) non furono uccisi.
Le notizie più antiche dell'episodio provengono dalla Passio Acaunensium martyrum attribuita al vescovo di Lione sant'Eucherio (380-449). Alcune contraddizioni, come il fatto che la decimazione non fosse più in uso nell'esercito romano da molti anni, fanno però dubitare della veridicità dell'episodio. Nel corso del tempo, diversi commilitoni di Maurizio – come sant'Urso, san Vittore di Xanten o san Gereone - sono anch'essi divenuti oggetto di venerazione.

(*) L'esistenza di una Legio I Maximiana, nota anche come Legio Maximiana Thebaeorum, è riportata nella Notitia Dignitatum (un documento redatto tra la fine del IV e gli inizi del V secolo che contiene un elenco delle unità militari dell'esercito romano).

 
Mercurio di Cesarea: Figlio di un cristiano di origini scite che lo fece battezzare con il nome di Filopatros, fu arruolato nell'esercito romano e servì sotto l'imperatore Decio (249-251). Assegnato alla legione dei Martenses stanziata in Armenia, si distinse per il valore militare dimostrato combattendo contro i persiani e raggiunse rapidamente il grado di generale.

San Mercurio
chiesa della Teotokos Peribleptos (San Clemente), Ocrida, Macedonia, 1295

Divenne noto con il soprannome di “Mercurio” attribuitogli dai commilitoni per le sue virtù militari. Allo scatenarsi delle persecuzioni anticristiane, non rinnegò il suo battesimo e venne condannato a morte. Fu legato a quattro pali e tagliato con coltelli per tutto il corpo, mentre sotto di lui divampava un fuoco, le cui fiamme venivano spente dal suo stesso sangue. Poi venne sospeso per la testa, con un macigno attaccato ai piedi. Quindi venne flagellato con fruste metalliche. Alla fine, portato a dorso d'asino a Cesarea di Cappadocia, sua città natale, venne decapitato (250 c.ca). Quando subì il martirio aveva 25 anni. Era di corporatura imponente, splendido alla vista, biondo, con le guance rosate.

San Mercurio
Hosios Loukas, Beozia, XI sec.

Più di cento anni dopo la sua morte, quando il 26 giugno 363 l'imperatore Giuliano l'apostata morì in circostanze non del tutto chiare colpito a morte da un giavellotto non si sa bene da chi scagliato, prese corpo la leggenda, probabilmente diffusa inizialmente dagli stessi cristiani – riportata per la prima volta nella Cronografia di Giovanni Malalas (VI sec.) e, successivamente, anche da Jacopo da Varagine nella Legenda aurea (XIII sec.) - che fosse stato ucciso da San Mercurio per ordine della Vergine implorata da San Basilio di liberare i cristiani dalle persecuzioni avviate dall'imperatore apostata. Per questa ragione il santo è a volte raffigurato nell'atto di trafiggere con una lancia l'imperatore Giuliano.


San Mercurio mentre uccide Giuliano
Monastero di Sant'Antonio sul Mar Rosso, 1232-1233
 
Nestore di Tessalonica: Discepolo di san Demetrio fu martirizzato insieme a lui a Tessalonica (vedi scheda).
 
San Nestore di Tessalonica
Nea Moni, Chios, XI sec.


Procopio: Eusebio di Cesarea (265-340) nel suo I martiri di Palestina lo indica come primo martire di Palestina, dove i decreti di Diocleziano contro i cristiani del 303 ebbero immediata attuazione.
Procopio era nato a Gerusalemme da padre cristiano e madre pagana che gli avevano dato il nome di Nenias. Morto il padre, fu cresciuto ed educato dalla madre nella religione pagana. Raggiunta la maggiore età fu notato da Diocleziano che lo prese a palazzo per svolgervi il servizio militare.
Quando l'imperatore decise di dare inizio alle persecuzioni anticristiane, ordinò a Nenias di recarsi ad Alessandria al comando di un distaccamento e sterminare i cristiani. Durante il viaggio, nella notte la terra fu scossa da un terremoto ed una croce sfolgorante apparve a Nenias mentre una voce gli diceva: io sono Gesù, il figlio crocefisso di Dio, in questo segno sconfiggerai i tuoi nemici e la mia pace sarà con te. Questa visione cambiò la vita di Nenias, che, anziché eseguire gli ordini dell'imperatore, lanciò il suo distaccamento contro gli arabi che stavano assediando Gerusalemme.
Entrato in città da vincitore, si presentò alla madre dichiarandole di essere cristiano. Portato davanti al governatore, depose ai suoi piedi il cinturone e la spada a significare che egli era soltanto un soldato del Cristo re. Richiesto di fare libagioni ai tetrarchi, rispose con un verso di Omero: Non è bene che vi sia un governo di molti; uno sia il capo, uno il re. Dopo essere stato torturato fu rinchiuso in prigione dove il Signore lo visitò nuovamente e lo battezzò con il nome di Procopio.
Quando fu condotto al patibolo, Procopio levò le braccia al cielo e pregò per i poveri ed i derelitti, gli orfani e le vedove e per la Santa Chiesa, poi offrì serenamente il collo alla spada del carnefice. Era l'8 luglio del 303.

San Procopio
chiesa del Salvatore in chora, Costantinopoli, 1316-1321

I Quaranta martiri di Sebaste: vedi scheda.

Sergio e Bacco: Sergio e Bacco erano due alti ufficiali dell'esercito del cesare d'Oriente Massimino Daia (305-313) presso la cui corte ricoprivano rispettivamente la carica di primicerius e secundarius delle scholae palatinae (i reggimenti della guardia imperiale). Stanziati in Siria, furono accusati di essere cristiani da chi invidiava la loro posizione; condotti al tempio di Giove ed invitati a sacrificare, essi rifiutarono, venendo così degradati e fatti girare per dileggio per le vie della città, vestiti da donna.
Lo stesso Massimino Daia fece invano un tentativo di farli apostatare, di fronte al loro rifiuto, furono inviati da Antioco, prefetto della provincia siro-eufratese, perché fossero uccisi.
Nel castrum di Barbalisso, Bacco fu sottoposto ad una cruenta flagellazione, tanto spietata che sotto i colpi morì; il suo corpo fu lasciato insepolto, ma di notte i cristiani lo raccolsero seppellendolo in una grotta vicina.
Sergio invece fu costretto a camminare con dei chiodi conficcati nei piedi, attraverso i castra di Saura, Tetrapirgio e Resafa, finché in quest’ultimo presidio fortificato venne decapitato.
Venne sepolto nello stesso luogo dell'esecuzione e sulla sua tomba venne eretto un piccolo martyrion. Al termine delle persecuzioni venne costruita una chiesa dedicata al santo che inglobò il precedente edificio martiriale e che divenne meta di pellegrinaggi.
Nel 491, essendosi l'antico presidio militare notevolmente sviluppato e accresciuto anche grazie al culto per il santo, l'imperatore Anastasio I rinominò l'insediamento Sergiopolis.
Invocati in epoca bizantina come i santi protettori delle milizie sono quasi sempre raffigurati con al collo il maniakion che spettava al loro rango.

I santi Sergio (a sn.) e Bacco (a ds.)
Icona lignea (VII sec?) di probabili origini costantinopolitane, appartenuta al monastero di Santa Caterina nel Sinai ed attualmente conservata presso il Bohdan e Varvara Khanenko Museum di Kiev

I santi Teodori (Teodoro Tirone e Teodoro Stratelatos): vedi scheda



domenica 25 gennaio 2015

San Niceta il Patrizio

San Niceta il Patrizio

San Niceta il Patrizio
Monastero di Gracanica, Kossovo, XIV secolo

San Niceta il Patrizio – noto anche come S.Niceta di Costantinopoli o S.Niceta di Paflagonia - nacque in Paflagonia nel 761-762 e fu castrato in giovane età. Ricevette una buona educazione ed all'età di diciassette anni (778 c.ca) fu mandato a Costantinopoli dove prese servizio a corte. Il suo operato fu notato dall'imperatrice madre – Irene l'ateniese – che nel 780 assunse la reggenza per conto del figlio Costantino VI. L'imperatrice, con cui secondo alcune fonti era anche imparentato, ne promosse la carriera. Elevato al rango di patrizio, Niceta fu quindi nominato strategos del tema di Sicilia nel 796-797, carica che ricoprì fino al 799. Poco o nulla si sa delle sue attività nel decennio successivo alla deposizione di Irene (802). L'agiografia riporta soltanto che, manifestato il desiderio di ritirarsi a vita monastica, ne fu impedito dal nuovo imperatore Niceforo I (802-811). Con l'avvento di Michele I Rangabe (811-813) potè prendere i voti monacali e l'imperatore gli affidò il monastero di Chrysonike (1) situato nei pressi della Porta Aurea. Niceta rimase igoumeno del monastero fino all'815 quando, nell'infuriare delle persecuzioni iconoclaste durante il regno di Leone V (813-820) preferì lasciare la capitale e trasferirsi in uno dei suoi suburbi. Accusato di nascondere un'icona, fu quindi posto agli arresti domiciliari.
Con la nuova recrudescenza delle persecuzioni iconoclaste sotto l'imperatore Teofilo (813-842) gli fu ordinato di scegliere tra accettare la comunione con il patriarca iconoclasta Antonio I Kassymatas (821-837) o prendere la via dell'esilio. Niceta scelse l'esilio e, recatosi in Bitinia seguito da un pugno di monaci, prese a vagare lungo le coste del Mar di Marmara per sottrarsi alle molestie dei funzionari iconoclasti. Si stabilì infine nel villaggio di Katesia dove fondò il monastero di Asomaton dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Morì l'8 ottobre dell'836.

Le fonti principali per la sua vita sono la sua agiografia e il Sinassario. L'agiografia fu originariamente scritta da un anonimo monaco del monastero da lui fondato, sulla base degli appunti lasciati dal nipote e discepolo di Niceta che portava il suo stesso nome e che alla sua morte gli successe nella carica di igoumeno.

Spesso San Niceta è identificato con il patrizio Niceta Monomachos che nel 796 prelevò una mano di santa Eufemia dall'omonima chiesa costantinopolitana dove riposavano i suoi resti e la portò in Sicilia dove a Siracusa eresse una chiesa a lei dedicata. Si tratterebbe in questo caso del primo antenato noto del futuro imperatore Costantino IX Monomachos (1042-1055). A volte è identificato anche con l'ammiraglio che nell'806-807 guidò la flotta bizantina alla riconquista della Dalmazia e di Venezia.
In Italia, dove nel Meridione si diffuse un culto devozionale del santo, il suo nome ricorre spesso corrotto nella forma di San Niceto o Aniceto.

Note:
(1) Il monastero di Chrysonike (della Vittoria d'oro) è menzionato solo nel Sinassario in relazione a San Niceta. Probabilmente doveva trovarsi nei pressi della Porta Aurea, all'interno delle mura.

giovedì 28 agosto 2014

S.Margherita di Antiochia

S.Margherita (Marina) di Antiochia

S.Margherita di Antiochia, XIII secolo

Santa Margherita di Antiochia (Marina nella passio greca attribuita ad un certo Timoteo che è la fonte principale per la biografia) nasce nel 275 ad Antiochia di Pisidia, all'epoca una delle città più fiorenti dell'Asia Minore, (oggi vicino le rovine della città è situata la cittadina turca di Yalova).
Il padre Edesimo o Edesio era un sacerdote pagano e per questo ruolo la famiglia di Margherita spiccava per agiatezza e nella vita sociale e religiosa della città. Nessuna notizia si ha della madre. Margherita presumibilmente rimane orfana di madre dai primi giorni di vita, tanto che il padre la affida ad una balia che abita nella campagna vicina.
La balia, segretamente cristiana, educa Margherita a questa fede e quando ritenne che fosse matura la presentò per ricevere il battesimo. Tutto ciò avvenne, ovviamente, ad insaputa del padre.
Margherita crescendo apprendeva la storia degli eroismi dei fratelli di fede, irrobustiva il suo spirito ispirandosi al Vangelo, si sentiva decisa ad emulare il coraggio dimostrato dai martiri cristiani davanti alla crudeltà delle persecuzioni e nelle sue preghiere chiedeva di essere degna di testimoniare la sua fedeltà a Cristo.
Nel 290 il padre, ignaro di tutto ciò, decise di riprendere la figlia ormai quindicenne presso la sua casa di Antiochia. Margherita fu subito a disagio sia per il distacco dalla nutrice, che per lo stile di vita che teneva presso la casa paterna colma di agi.
Una sera chiese al padre cosa rappresentassero quelle statuette e le lampade che erano in casa, il padre spiegò che quelli erano gli idoli che adorava ed invitò Margherita a bruciare incenso per loro. Ella ascoltava quasi indifferente quello che il padre le diceva, sì che questi credette che Margherita mancasse di una educazione religiosa adeguata al proprio rango sociale e la affidò ad un maestro di sua conoscenza che dirigeva una scuola dove si insegnava un po' di tutto. Margherita non gradiva gli insegnamenti pagani e dopo poco tempo rivelò al padre di essere cristiana. Per tale motivo, il padre non esitò a mandarla via di casa, quindi Margherita ritornò dalla sua balia. In campagna Margherita si rese utile pascolando il gregge e per le altre necessità che si presentavano; dedicava molto tempo alla preghiera, in particolare pregava per il padre e per i fratelli nella fede che venivano sempre più spesso perseguitati.


Santa Margherita di Antiochia, XIV secolo

Un giorno mentre conduceva le pecore al pascolo, Margherita, venne notata da Olibrio, nuovo governatore della provincia; appena la vide rimase colpito dalla sua bellezza e ordinò che gli fosse condotta dinnanzi.
Dopo un lungo colloquio il governatore non riuscì nell'intento di convincere Margherita a diventare sua sposa, ella si dichiarò subito cristiana e fu irremovibile nel professare la sua fede. Il governatore rispose facendola incarcerare e fustigare.
Secondo la passio, in carcere a Margherita apparve il demonio sotto forma di un terribile drago, che la inghiotte, ma lei armata da una croce che teneva tra le mani, squarcia il ventre del mostro sconfiggendolo. Da questo fantastico episodio, nacque nella devozione popolare quella virtù riconosciuta a Margherita, di ottenere, per sua intercessione, un parto facile per le donne che la invocano prima dell'inizio delle doglie.
Dopo un breve periodo di carcere, Margherita è sottoposta ad un nuovo martellante interrogatorio davanti a tutta la cittadinanza, anche in quest'occasione, essa non esita a proclamare a tutti la sua fede e l'aver dedicato a Cristo la sua verginità. Ancora una volta viene invitata ad adorare ed offrire incenso agli dei pagani, ma lei si rifiuta e menziona il brano del vangelo di Matteo che recita: (..) sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. Ma, quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi (Matteo, X, 18-20).

Mentre tutti osservavano quanto stava succedendo, una forte scossa di terremoto fece sussultare la terra e apparve una colomba con una corona che andò a deporre sul capo di Margherita.
Questo fatto prodigioso, le affermazioni di Margherita, il suo rifiuto delle pratiche pagane e le molte conversioni che avvennero, mandarono su tutte le furie il governatore che emise la sentenza di condanna per Margherita.
Dopo aver subito una serie di torture, Margherita fu decapitata il 20 luglio 290 all'età di quindici anni.

Il corpo della martire venne raccolto e portato in luogo sicuro dai fedeli dove fu fatto oggetto di grande venerazione.
Secondo la tradizione un pellegrino di nome Agostino da Pavia, nel X sec., riuscì a trafugare, dopo varie peripezie, il corpo di S. Margherita e trasportarlo in Italia, a Roma, per proseguire poi verso Pavia. Durante il viaggio, si fermò a Montefiascone, dove fu accolto dai benedettini del monastero di S.Pietro ai quali raccontò le vicende del suo viaggio. Dopo qualche giorno il pellegrino si ammalò e morì, raccomandando ai monaci di conservare e venerare la preziosa reliquia.
Da qui cominciò a diffondersi il culto di S. Margherita per tutta l'Italia ed in altri paesi dell'Europa, molte città si pregiarono di erigere chiese in suo onore.