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giovedì 10 marzo 2016

Forte Giuliano e teatro romano, Pola

Forte Giuliano e teatro romano, Pola

Forte Giuliano

 
1. Ingresso principale al forte veneziano
2. Torre d'avvistamento
3. Cisterna
4. Teatro romano
 

Fu eretto dai veneziani sulle rovine del castello urbano medievale – sulla sommità di una collinetta all'interno della cinta muraria - tra il 1630 ed il 1633 su progetto dell'ingegnere militare francese Antoine De Ville che ne diresse anche i lavori di costruzione, nel cui ambito fece ampio uso di blocchi lapidei provenienti dal vicino teatro romano.
 
Disegno progettuale di A. De Ville
 
Il forte presenta una pianta quadrangolare rafforzata ai vertici da quattro bastioni di forma pentagonale che potevano ospitare complessivamente 24 cannoni. A ridosso delle cortine che racchiudono l'ampia corte centrale si dispongono gli alloggi per la guarnigione, l'armeria, il pozzo e gli appartamenti del provveditore. La fortezza era dotata di un fossato di protezione e di mezzelune sulla controscarpa.

Planimetria attuale
 
 
Durante il periodo asburgico (all'ingresso attuale si legge la data 1840) furono effettuati alcuni lavori di ammodernamento (tra l'altro furono incorporate due cisterne sotterranee) mentre la torre d'avvistamento dodecagonale e a tre piani risale al periodo italiano (1918-1943).

Porta d'accesso principale al forte veneziano (1)
 
Ingresso attuale, in secondo piano la torre d'avvistamento edificata negli anni Trenta (2)
 
Cisterna (3)
 
Stemma del Regno d'Italia
 
Piccolo teatro romano

In epoca romana la città di Pola aveva, oltre al celebre anfiteatro, ben due teatri. Il teatro grande era ubicato all' esterno delle mura cittadine sulle pendici del Monte Zaro. Purtroppo, non ne rimane quasi più nulla.
 
 
Il cosiddetto teatro piccolo era invece situato entro le mura cittadine sul declivio che conduce al castello e viene datato al primo secolo dopo Cristo. Era adagiato sulla pendice della collina, alla cui sommità si trova il forte, come i teatri greci. Del teatro minore restano conservate le fondamenta della scena e della cavea, sebbene in età romana occupasse un' area più grande rispetto a quanto risulta visibile oggi poiché gli scavi archeologici non sono stati ultimati. Si suppone che potesse accogliere tra i 4 e 5 mila spettatori vale a dire quasi tutta la popolazione di Pola dell'epoca. Attualmente, come in epoca romana, vi si accede attraverso una doppia entrata. Dinanzi al teatro si trova l' edificio del Museo archeologico dell' Istria nel quale una volta aveva sede il liceo tedesco.








giovedì 10 novembre 2011

Anfiteatro, Pola

Anfiteatro


E' l'unico anfiteatro romano a tre ordini, in tutto il mondo antico, che abbia conservato integro il suo mantello esterno; infatti né il Colosseo né l'Arena di Verona sono ancora in possesso del loro perimetro esterno. E' anche l'unico che abbia quattro torri scalarie, sporgenti da essa al centro di ogni quadrante.

torre scalaria

Venne costruito tra il 2 a.C. ed il 14 d.C. sotto l’imperatore Augusto, prelevando il materiale dalle note cave di pietra situate alla periferia della città ed ancora oggi esistenti.
In seguito, l’imperatore Vespasiano, che aveva commissionato il Colosseo a Roma, lo fece ampliare (secondo la leggenda, egli voleva rendere omaggio ad una sua amante del luogo).
Come il Colosseo, veniva utilizzato prevalentemente per combattimenti di gladiatori o per naumachie.
Si presume che sia rimasto intatto, seppure in uno stato di sempre maggiore trascuratezza ed abbandono, fino al XV secolo. In seguito sarebbe stato saltuariamente utilizzato come cava di pietra per alcune costruzioni della Repubblica di Venezia, oltreché degli abitanti locali. Fu oggetto di ampio restauro durante l'epoca napoleonica.
Salì all'onore delle cronache nel 1583 quando al Senato veneziano, versando Pola in uno stato di sempre maggior decadenza e desolazione, si propose di smontare l'Arena pezzo per pezzo e di ricostruirla a Venezia. A sventare tal proposito fu soprattutto l'azione del senatore veneziano Gabriele Emo e per questo suo impegno, nell'anno successivo la città di Pola pose su una torre dell'Arena, lato mare, una lapide a perenne memoria e gratitudine.


In pietra calcarea bianca, è articolato in tre ordini grazie alla sovrapposizione di due serie di archi; una parete alleggerita da aperture quadrangolari corona l’edificio formando il terzo ordine.
Dopo l'ampliamento di Vespasiano, l'ovale della pianta raggiunse le dimensioni di 132,5 m x 105. Visto dal litorale, ha un'altezza di 32,5 m, ma dato che la costruzione si erge su un pendio, il lato opposto al mare (ad est) è di altezza notevolmente ridotta: presenta solo il secondo ordine, di 72 arcate. Sempre a causa della pendenza del terreno, dalla parte del litorale gli ordini si appoggiano su un massiccio basamento.
Degli avancorpi distribuiti sulla circonferenza danno ritmo alla costruzione.
In origine la cavea, divisa in due meniani, comprendeva quaranta gradini per ospitare fino a 23.000 spettatori che si spingevano sino alla cornice tra il II ed il III ordine, al di sopra si elevava una loggia in legno.
Sopra la gronda erano infisse lunghe travi che reggevano il velario formato da spicchi di tela. Le quattro torri contenevano una doppia serie di scale di legno con transenne in pietra; sopra ogni torre vi erano due cisterne la cui acqua alimentava una fontana, faceva funzionare gli organi idraulici ed era usata per far zampillare spruzzi di acqua profumata. Le scale sono state ricostruite nella torre di nord-ovest. Sotto l'arena che aveva quindici ingressi era stata realizzata una grande fossa dalla quale, a mezzo di elevatori, si portavano all'esterno belve, persone e scene dei ludi. Sotto le gradinate si trovavano tutta una serie di magazzini, negozi e sale di ritrovo.

resti delle botteghe che si trovavano al di sotto delle gradinate

L'anfiteatro mantenne la sua funzione fino al V secolo circa, allorché l'imperatore Onorio vietò i giochi sanguinari ed i combattimenti fra gladiatori; nel V secolo iniziò quindi lo smantellamento delle opere in ferro, dei cancelli di bronzo e delle pietre dei gradini.
Nel XIII secolo il patriarca d'Aquileia emanò severe disposizioni e pene fino a 100 bisanti d'oro per ogni pietra asportata dall'Arena o dal teatro di monte Zaro. Gli ultimi prelievi di materiale dell'Arena avvennero nel 1709 per le fondazioni del campanile del Duomo.

mercoledì 9 novembre 2011

Il Foro di Pola, Pola

Il Foro di Pola

In epoca repubblicana il Foro di Pola era dominato dal tempio capitolino (C), probabilmente dedicato ad Ercole, e dalla basilica (B). In epoca augustea vennero aggiunti, ai lati del tempio capitolino, i tempi gemelli dedicati ad Augusto (A) e a Diana (D).

Il tempio di Augusto e della dea Roma


Il tempio sorse sui resti del podio di un precedente santuario edificato tra il 42 a.C. e il 16 a.C., quando l'Impero Romano era in piena espansione e la città di Pietas Iulia (l'antico nome di Pola) era ancora fuori dai suoi confini e possedeva dunque lo status di colonia. La costruzione si colloca nel grande piano voluto dall'imperatore Ottaviano di rinnovo dell'urbanistica di gran parte delle città allora sottomesse a Roma, nell'ottica di celebrare la neonata istituzione imperiale, che aveva sostituito una repubblica durata quasi cinque secoli. Costruito tra il 2 a.C. e il 14 d.C., il tempio era dedicato all'imperatore stesso.
Il luogo di culto venne anche dedicato alla dea Roma, poiché Augusto era restio alla costruzione di edifici in suo nome che non fossero dedicati anche alla figura dell'Impero divinizzato, in modo che il passaggio alla nuova forma di governo non sembrasse troppo brusco e radicale.
Il tempio fu chiuso alla fine del IV secolo, quando il Cristianesimo divenne religione di Stato e i culti pagani furono soppressi. Come molti altri edifici simili (tra cui il Pantheon, la Maison Carrée e i due tempietti del Foro Boario) deve la sua preservazione alla trasformazione in chiesa dedicata a Maria durante l'VIII secolo, quando l'Istria venne annessa dai Bizantini.
Nel XVI secolo uno dei lati della cella fu danneggiato da un incendio. Il danno fu riparato solo nel XVII secolo dai Veneziani, che avevano conquistato le coste dell'Istria e della Dalmazia. Diversi edifici sorsero attorno al tempio, che venne inglobato in un complesso più esteso. Il pronao divenne un loggiato, mentre l'interno venne trasformato in un granaio.
Nel XVIII secolo venne trasformato in una stalla, ma con la riscoperta dell'arte classica l'erudito Scipione Maffei propose di trasportare il tempio a Venezia, come eccelso esempio di architettura, insieme all'anfiteatro romano della stessa città, ma l'idea non venne eseguita a causa dell'alto costo dell'operazione.
Tra il 1920 e il 1925 vennero demolite le strutture che si erano insediate attorno all'edificio. Quest'ultimo venne restaurato negli stessi anni e riportato alle forme originarie. Durante la Seconda guerra mondiale, nel 1944, il tempio subì danni a causa delle bombe sganciate dagli Alleati sulla città di Pola, la quale era occupata dalle forza naziste. Il restauro durò dal 1945 al 1947 e venne curato dalla Soprintendenza delle Belle Arti di Trieste, poiché la città era ancora italiana (lo sarebbe stata fino al febbraio, quando venne firmato il Trattato di Parigi). Ciò ha permesso alla struttura di giungere in buone condizioni sino ai giorni nostri.
L'interno dell'edificio ospita un piccolo museo di lapidi e sculture romane rinvenute durante gli scavi archeologici della colonia di Pietas Iulia, istituito nel 1806 dal generale francese Marmont, governatore delle Province Illiriche, durante le conquiste napoleoniche. Alcune tracce di affreschi sono ancora visibili sui muri della cella.


Caratteristiche architettoniche: Il tempio misura 8.05 metri in larghezza, 17.5 metri in profondità e 12 metri in altezza e poggia su un alto podio. Una scalinata composta da sette gradini unisce il livello della pavimentazione con quello del pronao.
Il tempio è tetrastilo, ossia con quattro colonne sul fronte principale, e due posizionate lateralmente, per un totale di sei colonne. L'ordine è corinzio, nonostante la scelta atipica di utilizzare colonne a fusto liscio invece che scanalato (come nel Pantheon). La cella ha ai quattro angoli pilastri scanalati, mentre l'ingresso al tempio è decorato con paraste. Il materiale usato per la costruzione dell'edificio è marmo bianco. Il tempio non aveva frontoni decorati, ma solo una dedica scritta a caratteri bronzei sull'architrave, che recitava "Romae et Augusto Caesari Divi F. Patri Patriae".
Nel complesso l'edificio appare slanciato ed elegante, con un forte contrasto tra parti aggettanti e rientranti, in particolar modo a livello del pronao, dove è presente un grande contrasto tra luci ed ombre. La struttura venne studiata da Andrea Palladio nel XVI secolo.

Tempio di Diana
Il tempio gemello dedicato a Diana, venne costruito nella stessa area, ma già nel XIII secolo l'edificio non era più in buone condizioni, tanto che nel 1296 venne inglobato nell'edificio del Comune. Il retro del tempio è ancora visibile all'esterno del palazzo.

parte posteriore del tempio di Diana

Palazzo comunale

Nella posizione dove sorgeva un tempo il tempio capitolino si trova oggi il Palazzo comunale, che un'iscrizione sulla facciata fa risalire al 1296 ma probabilmente si riferisce ad un suo restauro o ingrandimento perchè sembra risalire ad un tempo precedente (tra l'altro ingloba la parete posteriore dello scomparso tempio di Diana). Il muro ovest mostra interventi romanici e gotici mentre le statue agli angoli sono comprese da colonne rinascimentali, finestre barocche sembrano costituire gli interventi più tardi.


Il palazzo è stato comunque completamente restaurato di recente.
Durante il periodo veneziano era la sede del Provveditore.




Mosaico del supplizio di Dirce, Pola

Mosaico del supplizio di Dirce


Si trova in un condominio lungo la via Sergijeveca, la strada che dall'arco dei Sergi conduce all'interno della città vecchia.
La scena è rappresentata sul campo centrale di un grande mosaico (12x6 m). L' intera superficie è suddivisa in due metà pressoché uguali con un totale di 40 campi raffiguranti motivi geometrici del mondo animale (uccelli e pesci). Il mosaico ricopriva il pavimento della sala centrale di una casa romana, presumibilmente del III sec. E' conservato nel luogo del suo ritrovamento per cui e' visibile anche il livello delle pavimentazioni delle case di epoca romana, che è 2 metri sotto quello attuale.
Anfione e Zeto, i gemelli generati da Antiope dopo essersi accoppiata con Zeus, sono raffigurati nell'atto di legare Dirce, moglie del re di Beozia, ad un toro infuriato, lo stesso supplizio che questa avrebbe voluto infliggere alla loro madre.


Porta erculea e porta gemina, Pola

Porta erculea



E' la costruzione più antica della cinta difensiva di Pola perchè risale agli ultimi anni della repubblica romana (40 a.C.), contemporanea alla fondazione della colonia, quando i nuovi conquistatori riadattarono, ampliandole, le antiche mura del castelliere. E' anche una delle più antiche porte dell'Italia settentrionale romana.
La porta è ad unico fornice, è larga 3,60 m ed è senza ornati, all'infuori della testa barbata di Ercole con la sua clava, scolpita nella chiave di volta dell'arco della porta, ormai consunta dai secoli. L'asse della porta forma un angolo di 70 gradi con il fronte delle mura perché segue il percorso della strada pre-romana. Era una delle porte che conduceva ad una delle vie di accesso al colle Capitolino. A sinistra della porta erano riportati i nomi dei duumviri Lucio Cassio Longino e Lucio Calpurnio Pisone o Cesonino.
Il primo fu probabilmente il fratello di Caio Crasso mentre il secondo dovrebbe essere il suocero di Cesare; forse furono i primi duumviri della colonia fondata dopo la morte del dittatore.
E' fiancheggiata da due torri rotonde e nell'arcata possente mostra ancora una reminescenza delle porte etrusche.


Porta gemina


E' un'elegante costruzione del II° secolo d.C. a due fornici di tipo gallo-romano, con semicolonne non scanalate e con capitelli compositi.
In alto, sopra una ricca trabeazione, un'iscrizione sostitutiva del timpano, trovata nelle adiacenze e relativa alla costruzione di un acquedotto, fu applicata in epoca più recente. Ricorda il lascito di Lucio Menazio Prisco che servì, oltre alla realizzazione di quest'opera anche a quella degli impianti che conducevano l'acqua del Ninfeo fino ad una cisterna nella parte alta della città. Questi stanziò inoltre per la sola manutenzione 400.000 sesterzi.
La ricca cornice decorata sopra la porta si può spiegare con il fatto che questa conduceva al teatro minore posto nel Campidoglio. Oltre le due arcate si trova un recinto a pianta trapezoidale, aperto verso la città da un solo fornice fiancheggiato da semicolonne.
Porta Gemina fu chiusa dai Veneziani, nel XVI secolo, con una gran massa di materiale da riporto e verso il 1820 si intravvedevano gli intradossi degli archi.
Venne restaurata nel secolo scorso ma ora è mancante del fregio. Fino al 1500 il nome volgare era Porta Zemera. Da Porta Gemina, al tempo di Roma si usciva dalla città per prendere la strada militare che, attraverso il fiume Arsa, conduceva oltre Albona nella Liburnica e nell'Illirico. Nel medioevo, nei pressi della porta, esisteva una piccola chiesetta dedicata a S. Giovanni che, nel 1357, risulta già diroccata. La Porta Gemina venne chiamata anche Porta S. Caterina, per l'immagine della santa che vi era stata posta.

Monumento funebre


Al di fuori della cinta muraria, lungo la strada militare per l'Illirico che partiva dalla Porta Gemina, si trova il basamento ottagonale di un monumento funebre databile al I secolo.

ricostruzione

Arco dei Sergi, Pola

Arco dei Sergi


L'arco venne eretto a "proprie spese" da Salvia Postuma (il riferimento alla committente si trova nell'iscrizione dedicatoria, con la specifica de sua pecunia), per commemorare il marito Lucio Sergio Lepido, tribuno della legione XXIX, che aveva partecipato alla battaglia di Azio ed era stata in seguito soppressa nel 27 a.C., e insieme a lui il padre, omonimo, e il fratello Gaio.
La datazione della costruzione è attribuita agli anni 25-10 a.C.
La famiglia dei Sergi era e rimase anche in seguito una delle più importanti di Pola.
L'arco venne realizzato addossato all'interno di una porta delle mura cittadine, che prese in seguito il nome dei "Porta aurea". Per questo motivo si presenta decorato sul lato verso la città, mentre il lato esterno, visibile solo con la demolizione dell' antica Porta Aurea nel 1829 non era stato rifinito.
Davanti all'arco è ancora visibile il basamento di una delle torri di guardia della porta.
L'arco è di piccole dimensioni, con un unico fornice di 8 m di altezza e 4,5 m di larghezza. Il passaggio è fiancheggiato da coppie di colonne corinzie, addossate alla muratura, ma sporgenti per oltre tre quarti della circonferenza. La trabeazione principale sporge al di sopra delle coppie di colonne rispetto alla parte centrale, dove si trova sul fregio l'iscrizione di dedica.
Al di sopra della trabeazione l'attico è articolato in tre basamenti, che dovevano sorreggere le statue dei membri della famiglia onorati: al centro quella del tribuno e sui lati quelle dei suoi parenti.
La decorazione è arricchita dai rilievi con Vittorie alate nei pennacchi degli archi, dal fregio con amorini, ghirlande e bucrani al di sopra delle coppie di colonne, da lesene decorate con intrecci vegetali sul lato interno del passaggio. Le Vittorie con corone, le bighe e gli Eroti con le ghirlande, con gli emblemi militari nel fregio dei fianchi, i simboli dell'apoteosi rappresentati dall'aquila che vince il serpente e gli intrecci di rami, grappoli e foglie di vite popolati da uccelletti nella fascia interna dei pilastri, mostrano in tutta la loro bellezza armonia e la finezza dell'insieme delle decorazioni e rivelano lo stile naturalistico e arioso della scultura augustea (cfr. l'Ara Pacis di Roma che però è posteriore). Il fregio d'armi è il più ricco che si conosca dopo quelli del portico di Atena a Pergamo.
Molto belli sono anche i rosoni che ornano il sottoarco.

Ma l'originalità dell'Arco dei Sergi sta nelle colonne binate, cioè poste sporgenti a due a due davanti ai pilastroni di sostegno dell'arcata, su propri distinti piedistalli e con propri segmenti di trabeazione superiore.
Le colonne, scanalate, sono corinzie e le foglie dei capitelli sono tagliate con effetto di forte chiaroscuro.
Gli architetti del Rinascimento gli dedicarono un'attenzione particolare come dimostra lo schizzo di Michelangelo, corredato da misure, oggi conservato al Museo Wicar di Lille.

sabato 10 settembre 2011

Basilica eufrasiana di Parenzo, Istria

Complesso episcopale della basilica eufrasiana




  1. Episcopio
  2. Basilica eufrasiana
  3. Battistero
  4. Oratorio di S.Mauro
  5. Cappella trilobata
  6. Atrio
  7. Ingresso


2. Basilica eufrasiana
La prima versione della basilica venne dedicata a San Mauro di Parenzo, e viene datata alla seconda metà del IV secolo.
Il pavimento mosaicato del suo oratorio, originariamente parte di una grande casa romana, è ancora conservato nel giardino della chiesa. Questo oratorio venne ampliato nel corso dello stesso secolo trasformandolo in una chiesa composta da una navata ed un'abside (basilicae geminae). Il pesce (simbolo di Cristo) presente sul mosaico risale a quel periodo. Monete con l'effigie dell'imperatore Valente (365–378), ritrovate nello stesso luogo, ne confermano la datazione.

L'attuale basilica, intitolata alla Vergine Maria, venne eretta nel VI secolo durante la reggenza del vescovo Eufrasio (che viene definito "santo" sebbene non sia mai stato canonizzato). Venne costruita tra il 539 ed il 560 sul sito dell'antica basilica che, per l'occasione, venne rasa al suolo.
Per la costruzione vennero usate parti del precedente edificio, mentre i blocchi di marmo vennero importati dalla costa del Mar di Marmara.
I mosaici sui muri vennero eseguiti da maestri bizantini, mentre quelli sul pavimento da artisti locali. La costruzione richiese circa 10 anni.
Eufrasio, con in mano la basilica stessa, è rappresentato su uno dei mosaici nell'abside, accanto a san Mauro.


Architettura: L'entrata nella basilica è costituita da un nartece, costruito sopra una via preesistente, mentre lo spazio antistante il nartece appartiene ad un armonioso atrio aperto a pianta quadrata. Di fronte all'entrata nella basilica è situato il battistero ottagonale, che risale all'epoca pre-eufrasiana e riprende la tradizione dell'architettura tardo antica, mentre la struttura del muro e la costruzione lignea del tetto sono opera di costruttori locali.



La basilica è una costruzione a tre navate, munita di tre absidi orientate verso est. L'abside centrale è esternamente poligonale, mentre le due absidi laterali sono inscritte in un muro esternamente lineare. Le navate sono separate da due serie di nove arcate che alla loro estremità occidentale e a quella orientale si appoggiano ai pilastri addossati al muro. Le arcate sono formate da colonne di marmo grigio che si ergono sopra le basi abilmente scolpite, mentre la loro parte superiore termina con dei capitelli sovrastati da imposte con i medaglioni circolari recanti il monogramma inciso di Eufrasio.
La prima fase di costruzione dell'edificio sembra collocabile già intorno al 313; in seguito, il complesso venne più volte ricostruito e fu completamente ristrutturato e decorato dal vescovo Eufrasio, fra il 539 e il 560, dopo la riconquista di Parenzo da parte di Giustinano: vennero infatti del tutto ristrutturate la parte orientale della basilica precedente e la sua decorazione interna.
Da allora, l'edificio ha conservato quasi completamente, sia all'interno che all'esterno, la sua architettura originaria. L'unico intervento di trasformazione di un certo peso si ebbe nel 1277, quando al centro del presbiterio venne eretto un ciborio. Durante il medioevo vennero aperte finestre nelle absidi laterali: tale intervento distrusse parzialmente i mosaici. Queste finestre furuno chiuse nel XIX sec.

Mosaici:


 
Mosaici esterni della facciata occidentale

La decorazione musiva occupa l'intera superficie della facciata, in particolare lo spazio tra le finestre, i pilastri laterali e la zona del timpano. Sui pilastri, all'interno di una cornice con una serie di gemme rettangolari e ovali, è rappresentato verticalmente un motivo vegetale a volute. Nelle ampie fasce a destra e a sinistra delle finestre sono raffigurati quattro santi, due per lato. Le figure sono simili, rappresentate in posizione eretta e con votli sbarbati. Appaiono simili anche i loro nimbi bianchi. Lo sfondo è suddiviso in cinque fasce orizzontali; alla base una superficie erbosa con fiori; al centro una fascia di colore grigio - marrone; alla sommità alcune campate di colore azzurro, rossastro e bianco.
Negli spazi tra le finestre sono rappresentati sette alti candelabri (tre a sinistra e quattro a destra), con una fiamma accesa (i sette candelabri dell'Apocalisse).
Al centro del timpano si intravedono i contorni di una grande figura di Cristo, posto in una mandorla, e dei personaggi che lo attorniavano, probabilmente apostoli o evangelisti, da quanto è possibile presumere dalla documentazione esistenti.

Abside

La scena centrale dell'abside rappresenta la Vergine assisa sul trono attorniata da arcangeli, dal martire Mauro, da tre santi, dal vescovo Eufrasio, dall'arcidiacono Claudio e da Eufrasio, figlio di Claudio. Al centro della composizione si trova Maria, con il Bambino sulle ginocchia, seduta su un trono privo di schienale, gemmato, su ampio cuscino. La Vergine, nimbata, indossa manto color porpora che copre una tunica dello stesso colore con bande dorate. Il Salvatore veste una tunica bianca con pallio dorato e ha un nimbo crucisegnato. Tiene la mano destra alzata in atteggiamento benedicente e nella sinistra regge un rotolo con tre sigilli. Ai lati della Vergine sono raffigurati due angeli, con tunica e pallio bianco con gammadie. Questi reggono nella mano sinistra velata una verga. Seguono da entrambi i lati altre figure; a sinistra, dall'interno verso l'esterno, san Mauro, il vescovo Eufrasio, l'arcidiacono Claudio con il figlio Eufrasio. A destra sono visibili tre martiri con nimbi, che recano il primo e il terzo una corona martiriale tra le mani, e il secondo un volumen. Sono vestiti di pallio e tunica, bianca e dorata; nel pallio sono presenti le gammadie. I nomi non sono evidenziati e pertanto si ignora la loro identità. Il gruppo di sinistra è guidato da Mauro con la corona in mano. Segue, reggendo tra le mani il modello della basilica, Eufrasio. Dietro Eufrasio vi è l'arcidiacono Claudio, che stringe un libro. Le figure di Eufrasio e dell'arcidiacono Claudio, a differenza di quelle di altri martiri ignoti rappresentati in modo uniforme e tipizzato, recano esplicite caratteristiche ritrattistiche e sono contrassegnate da iscrizioni. Tra il vescovo e il diacono si trova la figura di un giovane che la scritta sottostante indica come Eufrasio, figlio dell'arcidiacono, con pallio dorato e due rotoli in mano. Tale figura è stata interpretata variamente: come ritratto del figlio di Claudio ancora bambino, oppure come uno dei funzionari minori legati alla realizzazione della basilica. Le figure sono collocate su un prato verde con fiori stilizzati tra i quali si riconoscono gigli. Avanzano verso la Vergine su sfondo dorato arricchito da nuvolette policrome. Sopra il capo della Vergine, si trova la dextera Dei con corona gemmata. L'intera decorazione è incorniciata da una fascia con nastro a spirale nelle cui risulte si trovano fiori stilizzati policromi.
Al di sotto del mosaico scorre una epigrafe latina che recita:
All'inizio questo fu un tempio vacillante e cadente in pericolo di crollo e non fu consolidato con forza sicura, angusto e non fu decorato con oro, mentre il tetto logoro resisteva per pura grazia. Quando premuroso e alla fede devoto sacerdote Eufrasio vide che la sua sede fu minacciata dal pericolo di crollo sotto il peso con sacro proposito prevenne il cedimento e per consolidare meglio l'edificio cadente lo smantellò, costruì le fondamenta ed eresse il comignolo del tempio. Questo che tu testé vedi splendere in oro (egli) abbellì terminando l'opera iniziata e regalò grandi doni, evocando il nome di Cristo consacrò la chiesa rallegrandosi dell'opera.


 
Visitazione (quinto riquadro della parete absidale)

La scena raffigura l'incontro fra la Vergine e la cugina Elisabetta. La Vergine, che procede da sinistra verso destra, è nimbata e indossa una tunica e un ampio pallio color porpora, che la avvolge completamente; la tunica è decorata da due fasce auree e sotto il mantello scende una stola liturgica. Elisabetta, anch'essa con nimbo dorato e con le braccia leggermente sollevate, indossa un pallio giallo e una tunica color porpora con sottili fasce dorate e stola liturgica. Alle sue spalle si intravede la facciata di un edificio con timpano e croce dorata alla sommità: una piccola figura con tunica di colore verde e decorazioni dorate, stretta in vita da una cintura, scosta la tenda che chiude la porta dell'edificio e si porta la mano destra al volto. Ai piedi delle figure si estende un prato verde, mentre lo sfondo è reso a fasce parallele, blu, azzurre, rosate e bianche
  
Alcuni studiosi sostengono che Eufrasio avesse a cuore soprattutto la rappresentazione in immagini del titolo mariano di Theotokos (Madre di Dio). Ufficializzato un secolo prima nel concilio di Efeso (431), esso non era ancora accettato in alcune parti dell’impero. La scelta delle due scene del registro intermedio si spiegherebbe allora anche come citazione scritturistica in appoggio al dogma mariano. Annunciazione e Visitazione sono in effetti le scene bibliche in cui si radica il titolo di Theotokos. Colpisce nel mosaico della Visitazione la messa in evidenza dei seni delle due donne e del loro grembo materno, è l'incontro tra due madri. Che tutta la Chiesa partecipi al mistero di Maria ce lo suggerisce inoltre anche la cornice rossa che scandisce l’abside in diversi spazi iconografici. Costellata di perle e gemme, questa cornice simboleggia la Gerusalemme celeste, le cui porte sono perle e le cui mura sono pietre preziose (cfr. Apocalisse, 21)



Annunciazione

Ancora più esplicita in questo senso è la scena dell'Annunciazione raffigurata nel primo riquadro della parete absidale.
Come nella scena della Visitazione, lo sfondo dell’Annunciazione non è l’oro del cielo, ma sono i colori della terra. L’episodio è ben "piantato" sul terreno. L’incarnazione è "storia della nostra terra". Anche l’azzurro con cui i mosaicisti rappresentano il cielo lo rende un cielo terrestre. È in questo spazio pienamente terrestre che entra il messaggero divino: Gabriele.
Il movimento dell’ala sinistra e del piede destro, la torsione del vestito e delle gambe di Gabriele indicano che l’immagine coglie il momento dell’arrivo dell’angelo, il saluto iniziale: «Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te!» (Lc I, 28). Nella mano sinistra regge il baculus viatorius, il segno distintivo dei portavoce imperiali , con la destra mostra due dita: nella Roma antica è il gesto dell’oratore o dell’avvocato che prende la parola. Nella nostra immagine si tratta della Parola per eccellenza. "Detta" dal messaggero divino, essa "prende carne" in Maria. Questa mano, cioè questa Parola, è il vero centro della scena. Il vuoto che la circonda la mette ulteriormente in evidenza e ne fa un ponte fra la creatura celeste e Maria, fra cielo e terra. Ma le due dita di Gabriele sono leggermente separate ed esprimono così la cifra "due". È un’allusione alle due nature del Verbo incarnato: vero Dio e vero uomo.

Sulla destra dell’immagine, Maria è seduta su un trono, come già agli albori dell’iconografia cristiana. Ella stessa è la cathedra Christi. Perciò nel nostro mosaico il trono, concavità aperta in direzione dell’angelo, non fa altro che rinforzare il movimento di accoglienza di Maria stessa. Esso richiama così l’abside nel quale è situato il mosaico.
Il gesto della mano destra della Vergine, la leggera ritrosia del suo busto e l’inclinazione del suo capo traducono genialmente il versetto che segue il saluto: «A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto» (Lc I, 29).
Il diventare carne della Parola passa attraverso il turbamento e la domanda sul senso. In questo Maria è "porta" esemplare per ogni ingresso di Dio nella storia e "porta" di ogni preghiera. Le sopracciglia alzate e lo sguardo che incrocia quello dell’angelo esprimono al tempo stesso la sorpresa e un’attenzione estrema.
Con la sua mano sinistra situata esattamente sul suo grembo, Maria tesse un filo rosso (1). Secondo il Protovangelo di Giacomo (a Maria toccarono la porpora e lo scarlatto, X, 2), si tratta del filo con cui Maria tesse il velo per il tempio, che sarà squarciato con la morte di Gesù (Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, Mt, XXVII, 51) (2). Nel suo grembo, Maria tesse già il corpo del Figlio, che sarà lacerato sulla croce.
È interessante notare che il recipiente da cui proviene il filo rosso è situato per terra, nel punto più basso dell’immagine: come a dire che è dalla terra (in ebraico adamah) che Maria tesse il nuovo corpo, il corpo del nuovo Adamo. Il recipiente è inoltre in sovrapposizione lineare con la mano dell’angelo e la punta della sua bacchetta: in Maria, il cielo e l’adamah costituiscono le due nature della stessa persona.
Dietro Maria, verso la destra dell’immagine, si sviluppa una chiesa, interrotta dalla cornice del mosaico ma che potrebbe idealmente proseguire e riempire tutta l’abside.
Si tratta della basilica Eufrasiana di Parenzo, cioè del luogo dove ci troviamo. Come a dire: nel luogo dove ci troviamo, avviene il proseguimento di ciò che ha avuto inizio nell’Annunciazione. Maria coincide con la porta di questa chiesa. Ella è la Ianua coeli, nel senso di «porta attraverso la quale il cielo entra nella terra». Nell’Annunciazione Maria è la Chiesa nascente e al tempo stesso la sua porta d’ingresso.

Nel secondo, terzo e quarto riquadro della parete absidale sono raffigurati rispettivamente: S. Zaccaria (padre del Battista, il santo stringe nella mano destra un turibolo e in quella sinistra, velata, uno scrigno-reliquiario dorato e gemmato, sul quale sono visibili tre piccole figure, una di orante e altre due in movimento: Milan Prelog ricorda le affinità fra queste e i Re Magi ricamati sul bordo inferiore della veste di Teodora nel mosaico di S. Vitale a Ravenna), un arcangelo e S.Giovanni Battista.

Note:

(1) La Vergine è raffigurata seduta in trono mentre fila lo scarlatto per il velo del tempio anche nell' Annunciazione rappresentata sull'arco trionfale della basilica romana di S.Maria Maggiore (432-440).

(2) Il velo del tempio separava il Sancta Sanctorum, a cui soltanto il Sommo sacerdote poteva accedere una volta all'anno, dalla zona a cui potevano accedere i semplici sacerdoti. Al Sancta Sanctorum erano associati il paradiso terrestre ed il cielo, mentre alla navata del tempio (dove entravano solo i sacerdoti) era associata l'idea di terra. Squarciare il velo del tempio significava quindi unire il cielo e la terra.





lunedì 22 agosto 2011

Cappella di S.Maria Formosa, Pola

Cappella di S.Maria Formosa

E' l'unica cappella superstite della basilica benedettina di S. Maria Formosa (maestosamente bella in virtù dei ricchi marmi, stucchi e mosaici che l'adornavano) o del Canneto, detta del Canè dai Veneziani e del Canedolo dai Polesi.
Eretta nel 547 per volere di Massimiano, istriano di Vestre, allora arcivescovo di Ravenna, divenne il più significativo simbolo di un grande possedimento terriero polese della Chiesa ravennate, rimasto iscritto nel territorio diocesano della città come feudo di S. Apollinare fino al XII secolo.
Era a triplice navata e sorgeva probabilmente sul sito di un più antico tempio dedicato a Minerva.
Esternamente, a fianco dell'abside centrale ed addossate ai pastoforia si trovavano, indipendenti, due cappelle ( o martyria) a pianta cruciforme e sormontate da cupola centrale: una dedicata a S. Andrea ed una alla Madonna del Carmelo.

la chiesa era dotata di absidi poligonali all'esterno e di portali con aperture a «fungo». Il ritmo delle colonne e degli archi dell'interno veniva ripreso sulle mura perimetrali esterne in una cadenza di finestre e lesene terminanti in archi ciechi, il cui gioco di ombre conferiva vivacità alle facciate e misticismo all'ambiente interno grazie ai contrasti di luce.

Secondo la tradizione la basilica fu danneggiata nel 1242 dalle ciurme venete del Tiepolo e del Querini.
La tradizione vuole anche che, dopo il sacco della città, il doge Giacomo Tiepolo abbia portato a Venezia, quale preda di guerra, le quattro colonne diafane di alabastro orientale che sostengono attualmente il ciborio dell'altare maggiore della basilica di S. Marco.
Altre colonne furono usate nella chiesa della Madonna della Salute e nel Palazzo Ducale di Venezia.
Alla fine del XVI secolo la basilica era in gran parte demolita e nel 1550 Venezia inviò a Pola Jacopo Sansovino per restaurare la chiesa già spogliata delle sue bellezze ed ormai caduta in rovina. Lo stato rovinoso in cui si trovava la basilica sconsigliò il restauro e pertanto venne del tutto abbandonata, tranne la cappella che si vede ancora oggi.
 
 
La cappella superstite, quella meridionale, che ha molte analogie con il Mausoleo di Galla Placidia di Ravenna (qui però i mattoni sono sostituiti dalla pietra d'Istria), può dare un'idea della grandezza e della ricchezza della scomparsa basilica. All'interno conteneva un preziosissimo mosaico nel catino absidale a fondo d'oro, rappresentante Cristo e San Pietro, un frammento del quale è oggi conservato nel Museo archeologico dell'Istria di Pola.


Il frammento di forma irregolare presenta uno sfondo aureo, costellato di nuvolette di colore azzurro e rosa, sul quale si stagliano le teste di Gesù Cristo e di San Pietro. Cristo, sulla destra, è raffigurato imberbe e con nimbo crucigeno; si conserva anche una piccola parte del busto. Pietro, sulla sinistra, è raffigurato secondo l'iconografia tradizionale con barba e capelli bianchi; oltre alla testa si conserva anche buona parte del busto, avvolto in un pallio chiaro. Si tratta di una rappresentazione della Traditio Legis, in cui Cristo è colto nell'atto di consegnare i codici della Legge all'apostolo Pietro. Databile al 546-557 c.ca (BOVINI, G. Le antichità cristiane della fascia costiera istriana da Parenzo a Pola, 1974)


Il Gnirs, nei primi anni di questo secolo, esplorò i resti del pavimento musivo che consiste in strisce colme di nastri, tamari e trecce. Le strisce si intrecciano in un ordito di cerchi; gli spazi vuoti sono riempiti con pesci, rosette e rami con viticci. I mosaici sono prevalentemente di colore nero e verde.


Le due nicchie superstiti della protesis