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lunedì 7 dicembre 2015

Le Voyage d'Outre-Mer di Bertrandon de la Broquière

Le Voyage d'Outre-Mer di Bertrandon de la Broquière

Bertrandon de la Broquière nacque presumibilmente alla fine del XIV secolo in un paesino alle falde dei Pirenei francesi – La Broquière – in una famiglia appartenente alla nobiltà locale.
Nel 1421 entrò al servizio del duca di Borgogna Filippo il Buono (1419-1467) con il titolo di écuyer tranchant (il nobile incaricato di tagliare la carne durante i banchetti ufficiali) divenendo due anni dopo premier écuyer tranchant.
Nel febbraio del 1432 partì da Gand, dove di trovava la corte del duca, per intraprendere un lungo viaggio in Oriente. Imbarcatosi l'8 maggio a Venezia, insieme ad un gruppo di pellegrini diretti in Terrasanta, raggiunse Jaffa dopo aver fatto scalo a Corfu, Creta, Rodi e Cipro.
Dopo aver visitato Gerusalemme ed altri luogi santi della Palestina, si recò a Damasco dove si aggregò ad una carovana diretta a Bursa, la prima capitale dell'impero ottomano, che raggiunse dopo aver attraversato tutta l'Asia Minore. Da qui si recò a Costantinopoli che lasciò nel gennaio del 1433 per tornare in patria via terra attraversando Bulgaria, Ungheria, Austria e Germania.

L'assedio di Costantinopoli
una delle sei miniature realizzate da Jean Le Tavernier per l'edizione di lusso del Voyage d'Outre-Mer donata al duca Filippo nel 1457.
Biblioteca Nazionale Francese, Parigi

Per tutta la durata del suo viaggio Bertrandon de la Broquière non viene mai accolto o accompagnato da personalità dell'amministrazione ottomana, né gli vengono mai tributati gli onori usualmente riservati agli ambasciatori ufficiali. Sembra comunque viaggiare su incarico del duca di Borgogna con compiti di intelligence al fine di raccogliere informazioni militari in vista di una ipotetica, quanto improbabile, crociata contro i Turchi (1).
A Costantinopoli incontra Bernard Carmer, un mercante catalano già conosciuto a Bruges , che lo ospita per tutta la durata del suo soggiorno.
A Pera incontra invece ed entra in rapporti confidenziali con Benedetto Folchi da Forlì, ambasciatore del duca di Milano Filippo Maria Visconti, accreditato sia presso l'imperatore bizantino che presso il sultano, ed incaricato di trattare la pace tra quest'ultimo ed il nuovo alleato del duca, l'imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo. Il gentiluomo borgonone si aggrega di fatto alla delegazione milanese che lascia Costantinopoli il 18 gennaio diretta ad Adrianopoli, dove Benedetto Folchi incontra il sultano Murad II senza conseguire i risultati sperati, e quindi attraverso la Bulgaria, la Serbia e l'Ungheria dove a Buda si separò dai suoi occasionali compagni di viaggio.
Il racconto del suo viaggio, Le Voyage d'Outre-Mer, redatto soltanto molti anni dopo il suo ritorno in patria (1455-1457) su richiesta del duca e sulla base degli appunti che gli aveva già consegnato, è quindi composto come una sorta di relazione al suo signore.
Bertrandon de la Broquière morì a Lille nel 1459.

Il testo completo del Voyage d'Outre-Mer è consultabile qui.

Note:

(1) Anche la grande disponibilità di denaro di cui sembra poter costantemente usufuire e che traspare in vari passi del suo resoconto di viaggio, depone nel qualificarlo come una missione svolta su incarico del duca più che un pellegrinaggio privato.





domenica 29 marzo 2015

De Andronico Costantinopolitano Imperatore di Giovanni Boccaccio

De Andronico Costantinopolitano Imperatore di Giovanni Boccaccio

Il De casibus virorum illustrium fu scritto da Giovanni Boccaccio tra il 1356 ed il 1359 e narra dei casi di 58 personaggi illustri che dall’altezza della loro condizione, per un improvviso rovescio della Fortuna, andarono in rovina. Un capitolo è dedicato all'imperatore bizantino Andronico I Comneno (1183-1185), qui riproposto nella traduzione in volgare di Giuseppe Betulsi, pubblicata a Firenze nel 1597.
Il De casibus non è in sé un'opera storica, in quanto il suo intento è quello di insegnare le virtù e biasimare i vizi ed in particolare vincere la superbia che inorgoglisce l’animo dell’uomo e infondere l’umiltà, ma tale fu considerata dai letterati contemporanei del Boccaccio. Nelle note sono state sottolineate le aderenze e le difformità della narrazione rispetto alla realtà dei fatti.

Andronico trasse la sua origine del nobil ceppo degli antichi Imperadori. Vogliono alcuni, che costui, essendo Imperadore Emanuele suo fratel cugino, per l'incesto avuto con la sorella, se ne fuggisse insieme con lei in Turchia, a fine di schivar l'ira, e la tema di Emanuele, ed ivi mentre quelli visse, se ne stesse. Altri poi dicono, che essendo giovane sediziosissimo, e che continuamente tentava cose strane, per comandamento d'Emanuele, fu prima imprigionato: indi con l'andar del tempo, dando di sé migliori speranze, fu tratto di prigione, e fatto governatore del Ponto (1). Finalmente, morto Emanuele, già vecchio, non essendo presente Andronico, e restando successor dell'Imperio un suo piccolo figliuolo chiamato Alessio, venne al governo di quello, come tutore, un altro Alessio pur suo parente (2). Il quale non solamente togliendosi la cura del fanciullo, ma usurpandosi la tirannia dell'Imperio, incominciò crudelmente adoperarsi contro i sudditi. La onde da quelli fu chiamato Andronico, il quale venendo con un esercito di Turchi, ovvero con l'armata del Ponto, facilmente occupò la città. Tagliato a pezzi il tiranno, e venutogli disìo di signoreggiare, dopo l'aver segretamente ammazzato il fanciullino Alessio, e legato in un sacco, fattolo gittare in mare, comandò che Maria sua sorella, insieme con Ranieri di Monserrato di lei marito, fossero morti (3). Indi, non essendo restato nessuno di real sangue, a cui potesse pervenire l'Imperio, eccetto un certo Isacco, a mezzo delle ferite delle sorelle, e per tanti morti, e sangue sparso, tutto sanguigno e colmo di crudeltà, ascese a Imperadore. E acciocchè l'età più matura non fosse differente dalla più acerba subito incominciò a farsi familiari tutte le sorti d'huomini scelerati, come sarebbe a dire, traditori, sacrileghi, simulatori, falsari, assassini, banditi, ed altri tali. Oltre di ciò con carezze, doni, minacce, e a forza voleva violare tutte le donne caste, e buone. Appresso i sacri chiostri delle monache faceva rompere, macchiava i letti d'adulteri, infamava la pudicizia delle vedove, e con le sue sceleratezze, bruttava tutti i luoghi. Ma quello, ch'era più infame di ogni altra cosa, poscia che aveva sfogato i suoi sfrenati appetiti, dava le pudiche donne nelle mani dei servi ad essere oltraggiate, e a viva forza corrotte. Così, con le sue iniquità, avendo macchiata la coscienza, e l'onor di tutti, rivolse il fiero animo alle ruberie. Onde, o con giusti giudizi, o con false invenzioni, e se altrimenti non poteva, con forza, e con violenza palese, non lasciava ad alcuno dei suoi cittadini i suoi beni. Per le quali tristizie parve, che la Fortuna si movesse a sdegno. Perciocché avendo il fiero huomo ultimamente rivolto il crudele animo contro Isacco, al quale già aveva perdonato, e avendolo mandato a chiamar, che venisse a lui; avvenne che Isacco s'immaginò la scelerità d'Andronico. Onde, ammazzato il messaggiero (4), si fermò in mezzo al popolo, dimandando l'aiuto de' cittadini, e ricordando loro gli oltraggi, e le villanie ricevute da Andronico. Per le quali parole facilmente mossi, presero l'armi, e innalzarono all'imperio Isacco. Indi occupata quella parte della città dove stavano rinchiusi i tesori reali, subito, assediarono Andronico tutto pieno di paura, e d'affanno. Né molto dappoi, non si potendo difendere, lo pigliarono e lo diedero nelle mani di Isacco. Il quale veggendo che aveva offeso tutto il popolo, commesse infinite scelerità, pensò come lo potesse punire, con grave e fiero tormento, di maniera che tutti restassero soddisfatti.

Henry de Groux, La morte di Andronico, olio su tela, cm. 201x267, 1926
Musées royaux des beaux-arts de Belgique, Bruxelles

La onde si fece menare in pubblico Andronico dinanzi, e spogliatolo delle vesti reali, gli fece cavare un occhio, e mettere una mitera di carta in capo, con la coda di un asino in mano in vece di scettro. Comandando, che fosse posto sopra un asino con la faccia verso la coda, e che ogn'uno potesse dirgli, e fargli tutto quello gli piacesse, pur che non l'ammazzassero: così fece condurre per tutta la città il sublime Imperadore. Finalmente acciocché giungesse all'alto seggio della meritata dignità, comandò che fosse condotto fuori della città, e con un laccio innalzato sopra un sublime palco. Così adunque adornato il buono Andronico, e accompagnato da una schiera di manigoldi, mentre era condotto per li borghi, veniva da ogni parte con ignominiose parole, e rei effetti circondato e afflitto dalla plebe, la quale, con gridi, non cessava d'ingiuriarlo. E come che fosse tutto carico di lezzo, di fango, di sputo, e di sterco, tuttavia dalle finestre, l'infelice era bagnato dalle donne d'orina, d'ogni altra sporcizia, che imaginar si possa, fino a tanto che giunse al destinato luogo, dove aveva a finir la misera vita col laccio. Ivi alla fine pervenuto appena vivo, fu tolto dalle mani del popolo tutto pesto da sassi, e afflitto, e ultimamente sopra le forche sospeso; così quel poco di vita che gl'era restata, fu finita da una sottil fune. Né perciò, con questa morte si terminò l'odio, che le donne in vita gli portavano, atteso che con uncini da molte fu sbranato, e tanto in quelle poteron le forze dell'odio, che mangiarono parte di quelle ree membra, ch'erano state tormentate.

Illustrazione della storia di Andronico tratta da un'edizione miniata del De casibus virorum illustrium del XV secolo conservata presso la Biblioteca Nazionale Francese (Parigi). Andronico vi compare due volte, a sinistra mentre ordina l'assassinio di Maria Comnena e Ranieri di Monferrato e di gettare a mare il corpo di Alessio II, a destra sospeso alla forca.


Note:

(1) Andronico Comneno ebbe due mogli e numerose relazioni amorose che suscitarono scandalo presso la corte comnena. Quella a cui sembra alludere il testo - incestu cum sorore habitu, nel testo latino, dove il termine soror intende probabilmente quello di soror patruelis (cugina) - che suscitò l'ira di Manuele I, e che contribuì ad attirare sul suo capo anche l'anatema del patriarca di Costantinopoli, dovrebbe essere la sua relazione con Teodora Comnena, sua cugina, figlia del fratello di Manuele, Isacco, rimasta vedova del re di Gerusalemme Baldovino III (1143-1161). Invaghitosi di lei mentre era al servizio di Amalrico I di Gerusalemme che lo aveva infeudato a Beirut in compenso dei suoi servigi, fu costretto a fuggire insieme all'amante perchè il re di Gerusalemme, alleato di Manuele, non poteva più garantirgli protezione. Insieme peregrinarono per le corti d'Oriente, soprattutto quelle turche, fino ad essere accolti dal governatore turco della città di Erzorum (l'antica Teodosiopoli) che prese a benvolere Andronico e gli affidò una cittadella fortificata nei pressi di Colonia (l'attuale Sebinkarahisar) praticamente a ridosso della frontiera bizantina (1167). Qui Andronico trascorse diversi anni insieme a Teodora, ai due figli che gli aveva dato, Alessio e Irene, ed al figlio Giovanni avuto dalla prima moglie, compiendo scorribande nei territori dell'impero. Nel 1180 Niceforo Paleologo, il governatore di Trebisonda, riuscì a catturare Teodora ed i suoi due figli e a condurli a Costantinopoli. Qui si precipitò Andronico che si gettò ai piedi di Manuele implorandone il perdono e accettando di giurare fedeltà a lui e a suo figlio Alessio. L'imperatore fu nuovamente indulgente nei confronti del cugino ribelle ma preferì allontanarlo dalla capitale affidandogli il governatorato delle città di Sinope e Oinaion (l'attuale Unye) nella regione del Ponto dove, il 24 settembre dello stesso anno, lo raggiunse la notizia della morte di Manuele.

(2) Il nuovo basileus, l’undicenne Alessio II, venne affidato ad un consiglio di reggenza che aveva il fulcro nella madre, la latina Maria d’Antiochia, monacatasi con il nome di Xene dopo la morte di Manuele I (lo status monacale era necessario per poter assumere la reggenza), ma le redini dello stato finirono interamente nelle mani del suo favorito il protosebastos Alessio Comneno, un nipote del defunto Imperatore.

(3) In realtà la sequenza degli avvenimenti è diversa. Il protosebastos Alessio Comneno fu arrestato e consegnato ad Andronico – che lo fece accecare e successivamente uccidere – mentre questi non era ancora entrato in città. La kaisarissa Maria Comnena, figlia del primo matrimonio di Manuele I con Berta di Sulzbach (Irene) e quindi sorellastra di Alessio II, e suo marito, il cesare Ranieri di Monferrato, furono eliminati (probabilmente avvelenati) prima dell'incoronazione di Andronico (settembre 1183) come anche Maria di Antiochia, accusata e condannata a morte per alto tradimento (il giovane imperatore Alessio II fu costretto a controfirmare la condanna a morte della madre) e giustiziata nel settembre 1182. Alessio II fu invece eliminato per ultimo, strangolato con una corda d'arco ed il suo cadavere gettato a mare in un sacco, un mese dopo l'incoronazione di Andronico a coimperatore.

(4) Isacco Angelo aveva già partecipato ad altri tentativi di rovesciare Andronico ma questi, giudicandolo non troppo pericoloso, si era limitato a recluderlo nel suo palazzo (al quale già aveva perdonato). Con l'avvicinarsi dell'esercito normanno, Andronico diede l'ordine di arrestare tutti gli oppositori. Il fidato Stefano Agiocristoforita, già coinvolto nell'assassinio del giovane Alessio II ed elevato da Andronico alla carica di logoteta, ricevette l'incarico di arrestare Isacco Angelo che non si fece trovare impreparato e lo uccise (ammazzato il messaggiero).


domenica 26 ottobre 2014

Epistula de urbis Costantinopoleos captivitate, parte III

Epistula de urbis Costantinopoleos captivitate, parte III

30. Tutta la speranza della difesa venne posta dunque nel fossato e nell'antemurale, perduti i quali, i difensori, rinserrati contro le mura più alte e prive di difensori, non ebbero poi la possibilità di resistere. (…)

31. Intanto si diffonde la voce, proveniente dagli accampamenti [turchi] e riportata dai nostri informatori, che sarebbero state spedite dall'Italia alcune triremi e navi in nostro aiuto e che Giovanni, detto comunemente Bianco (24), comandante dell'esercito ungherese, si stava avvicinando al Danubio per attaccare il Turco. A seguito della notizia l'esercito [turco] sgomento si spacca in due partiti. (…)

32. Infatti Halil Pasha, dignitario e ministro più anziano del sovrano, che aveva molta influenza per la sua autorità, la sua saggezza ed esperienza di cose militari e che era ben disposto verso i cristiani, aveva sempre cercato di dissuadere il suo sovrano dall'attaccare la città di Costantinopoli, sostenendo che essa era inespugnabile, sia per la sua posizione molto forte, sia per la solidità delle sue abbondanti ricchezze, sia per le difese approntate non tanto dai greci quanto dai latini. (…) “Concedi dunque la pace ai tuoi, o sovrano” - egli diceva - “e non farti nemici i genovesi ed i veneziani, tuoi vicini, che saranno utili ai tuoi sudditi; non provocare l'ira dei cristiani contro la tua gente. La tua potenza è enorme, e la renderai ancora più grande con la pace piuttosto che con la guerra (...)”.
33. Zhaganos [Pasha], più giovane, dignitario e suo secondo ministro, nemico dei cristiani e soprattutto allora antagonista di Halil Pasha, riuscì a persuaderlo che la potenza sua era talmente grande che nessun popolo avrebbe potuto contrastarlo e che occorreva portar guerra contro i greci, la cui potenza era minima. (…) Thurakhan [Beg], comandante delle truppe della Tracia, non osando sostenere l'idea di Halil Pasha, eccitò il sovrano alla guerra. Un eunuco, altro dignitario e suo terzo ministro, appoggiò questa tesi (25). (…)
34. Allora, quando Halil Pasha, ministro anziano, comprese che al suo sovrano era piaciuto il consiglio di Zhaganos, suo nemico, e che l'attacco era stato deciso, comunica tutto ciò, per mezzo di messi molto fidati, di nascosto, all'imperatore suo amico. (…) Molti messaggi vengono inviati da Halil Pasha all'imperatore. (…)
35. Venne quindi emesso un proclama negli accampamenti con cui si ingiungeva che il quarto giorno avanti le calende di maggio, un martedì, dope aver accesi per tre giorni delle luminarie in onore di Dio, averlo pregato e aver fatto digiuno per un giorno intero, tutti fossero pronti ad ingaggiare battaglia e a dar l'assalto generale contro i cristiani; e gli araldi proclamarono a gran voce che, per decisione del sovrano, la città sarebbe stata abbandonata per tre giorni ai combattenti per il saccheggio. (…) Ah, se tu avessi potuto ascoltare le loro voci che gridavano fino al cielo: Illala, Illala, Machomet Russulala (26), cioè “Non c'è alcun altro Dio all'infuori di Allah: Maometto è il suo profeta”, certo saresti rimasto sbalordito. Così avvenne: per tre giorni accesero luminarie in onore di Dio e fecero un giorno di digiuno senza toccare cibo fino al calar della notte. (…)
36. Noi, pieni di meraviglia per così grande religiosità, pregavamo Iddio che ci fosse propizio, con le lacrime agli occhi, portando in giro in processione le immagini sacre con devozione lungo le fortificazioni e per la città, a piedi nudi, seguite da gran turba di donne e di uomini, e pregavamo con compunzione a che il Signore non permettesse la distruzione del suo retaggio e si degnasse di porgere la sua destra a noi suoi fedeli in così grave cimento. Così rinfrancati, riponendo tutte le nostre speranze in Dio, attendevamo il giorno stabilito per la battaglia con più coraggio. (…)
39. La battaglia ha inizio: i nostri resistono con valore, respingono i nemici con colpi di bombarda e di balestra e da una parte e dall'altra cadono un numero quasi uguale di combattenti. Quando si avvicina l'alba, dopo una notte piena di tenebre, i nostri sono ancora in vantaggio, ma quando scompaiono gli astri e la stella di Lucifero (27) precorre il sorgere del sole l'esercito turco si leva in massa e attacca tutt'attorno la città, tra lo squillare delle trombe da tutte e due le parti in lotta e tra il frastuono dei tamburi, invocando con altissime grida: Illala, Illala, il dio della guerra.
40. Nel giro di un'ora soltanto tutta la città viene investita per mare e per terra. Prima fanno rombare le bombarde, poi lanciano frecce che oscurano il cielo (…); si alzano grida altissime, e subito si spiegano i vessilli (…). I Turchi cadono abbattuti dalle pietre, molti soccombono alla morte e calpestandosi a vicenda tentano di scalare le mura attraverso le rovine. I nostri li respingono valorosamente, ma molti di essi feriti abbandonano la battaglia. Il comandante Giovanni resiste e resistono anche gli altri comandanti sulle proprie fortificazioni, accorrono in loro aiuto i capitani della città a questo preposti (…). Nel frattempo, ahimè, per un avverso destino della città, Giovanni Giustiniani è colpito sotto l’ascella da una freccia; questi, giovane inesperto, turbato dalla vista del proprio sangue, è subito preso dal terrore di perdere la vita, e così, affinché i combattenti, che non sapevano nulla della sua ferita, non perdano coraggio, abbandona di nascosto il campo di battaglia per cercare un medico. Certo, se avesse lasciato un altro al suo posto, la patria sarebbe ancora salva.
41. Intanto i Turchi attaccano un’aspra battaglia. L’imperatore appena si rende conto che il comandante non c’era più, domanda, con la voce rotta dal dolore, dove se ne fosse andato. I nostri, quando si accorgono di essere senza comandante, cominciano ad indietreggiare dalle posizioni. I Turchi prendono vigore; tra i nostri si diffonde il terrore. Tutti infatti cercavano di sapere che cosa fosse accaduto in quel punto pericoloso (…). I nostri quindi, molto affaticati, abbandonano per un po’, sotto la pressione del nemico, quel Muro Baccatureo (28) che essi avevano restaurato. I Turchi allora, notato ciò, pensano di poter oltrepassare le mura sfruttando il sentiero spianato che si era venuto a creare con il riempimento del fossato provocato dal crollo delle rovine (…) e come un turbine impetuoso, con una sola spinta, scalano le mura, e conficcando su di esse i vessilli, pieni di gioia, gridano subito vittoria (…).
42. Il povero imperatore, come vide il capitano in preda alla disperazione, esclamò: “Ah, me misero, la città è perduta? O destino infausto! Fermati, ti prego, capitano: la tua fuga spinge altri a fuggire. Non si tratta di una ferita mortale, sopporta il dolore e resisti con coraggio come hai promesso solennemente”. Ma egli, dimentico della salvezza della città, della gloria e di se stesso, mentre nel primo momento aveva mostrato una notevole grandezza d'animo, dopo questo incidente svelò tutta la sua paura. Avrebbe dovuto, se ne era in grado, sopportare la sofferenza della ferita, e non ritrarsi per proprio conto, se era un uomo, o almeno mettere un altro al suo posto che lo rimpiazzasse.
43. A seguito di ciò gli animi di tutti i suoi commilitoni vennero meno, le loro forze scemarono e, per paura di rimanere uccisi, lo seguirono. “Consegna la chiave al mio scudiero”, intimò il capitano. E non appena la porta venne aperta, tutti facendo ressa cercarono affannosamente di passare. Il capitano si rifugiò a Pera; più tardi, mentre navigava alla volta di Chio, morì senza alcuna gloria o per la ferita o per lo sconforto (29). Oltre a ciò l'imperatore, per non cadere nelle mani del nemico, gridò: “Pe amor di Dio, soldati valorosi, uno di voi mi uccida trafiggendomi cpn la sua spada, e che la maestà mia imperiale non cada sotto i colpi dello scaltro nemico”. A questo punto Teofilo Paleologo, buon cattolico, esclamò: “La città è ormai perduta: non è giusto che io le sopravviva”, e dopo aver sostenuto il peso del combattimento per un po' di tempo cade tagliato in due da un colpo di scure. Così Giovanni Dalmata, lottando come un Ercole, prima ne uccide parecchi, poi anch'egli cade trafitto da spada nemica. In seguito i nostri, schiacciatisi a vicenda nel tentativo di passare per la porta, periscono. L'imperatore, rimasto coinvolto con costoro, dopo esser caduto ed essersi rialzato, cade di nuovo e muore, lui principe della patria, nella calca. Dei nostri dunque, tra latini e greci, calpestandosi l’uno con l’altro nel momento in cui uscivano dalla porta, morirono all’incirca in ottocento.
44. (…) Il sole non ancora aveva percorso l’emisfero terrestre e già tutta la città era caduta in mano ai pagani (...)
46. Per tre giorni la città fu preda di devastatori e saccheggiatori, che poi, dopo essersi oltremodo arricchiti, la lasciano al potere del sovrano turco. Ogni ricchezza e ogni bottino viene trasportato alle tende, e tutti i Cristiani, in numero di circa sessantamila, legati con corde, vengono fatti prigionieri. Le croci sradicate dalle sommità e dalle pareti delle chiese, vennero calpestate con i piedi; furono violentate le donne, deflorate le fanciulle, disonorati turpemente i giovani, oltraggiate con atti di lussuria le monache rimaste e coloro che erano state al loro servizio. O Dio mio, quanto devi essere adirato con noi, con quanta severità hai distolto il tuo volto da noi fedeli! Che dire? Tacerò o racconterò le offese arrecate al Salvatore e alle sante immagini? Perdonami, o Signore, se narrp crimini così orribili (...). Gettarono a terra le sacre icone di Dio e dei santi e su di esse compirono non solo orge, ma anche atti di lussuria. Poi portarono in giro per gli accampamenti il Crocefisso, facendolo precedere dal suono dei timpani, per irrisione, e lo crocefissero di nuovo durante la processione con sputi, con bestemmie, con offese, ponendo sul suo capo il berretto turco, quello che essi chiamano zarchula (30), e schernendolo gridavano: "Ecco, questo è il Dio dei cristiani". (...)
47. Ottenuta la vittoria, i turchi la celebrarono con gozzoviglie rimanendo in festa per alcuni giorni, durante i quali il sovrano, caduto in preda all'ubriachezza, volle mescolare sangue umano a vino. Chiamati poi a sé Kyr Luca [Notaras] e gli altri dignitari imperiali e rimproveratili perchè non avevano indotto l'imperatore a chiedere la pace o a consegnare la città in suo potere, Kyr Luca (…) cercò di far cadere sugli altri la sua colpa (31). (…) Accusò poi Halil pasha (…) di essere stato amico dei greci, troppo amico loro, e comandò che fosse preso e rinchiuso in una torre, poi che fosse spogliato di ogni avere e di ogni possesso, infine che fosse portato ad Adrianopoli ed ivi ucciso (…).
48. Tuttavia Kyr Luca non riuscì a sottrarsi alla punizione della sua malafede, perchè, dopo aver perduto i due suoi figli più grandi in combattimento subito all'inizio, un altro suo figlio, ancor giovinetto, venne riservato ai piaceri voluttuosi del sovrano e poi anche questo terzo figlio venne ucciso sotto i suoi occhi e a lui venne tagliata la testa assieme agli altri dignitari. Così comandò che venisse tagliata la testa al bailo dei veneziani e ad un figlio suo oltre che agli altri nobili, e allo stesso modo al console degli aragonesi e ad altri due. E pure Catarino Contarini, persona molto amabile, assieme ad altri sei nobili veneziani, benchè riscattati già una prima volta, sarebbero stati condannati a morte, contro tutte le promesse fatte, se non fossero riusciti a ricomprare la loro vita con settemila monete d'oro (…).
49. (…) Rifletti su tutto ciò, beatissimo Padre, tu che tieni in terra le veci di Cristo, a cui deve stare a cuore vendicare oltraggi così gravi fatti a Cristo e ai suoi fedeli. Ti muova a compassione la pietà divina e abbi misericordia della cristianità, tu che sai e che puoi, al cui cenno tutti i principi cristiani obbediranno senza difficoltà per vendicare le ingiurie fatte ai cristiani. Del resto, sappi che il Turco è montato a così tanta superbia che osa affermare che penetrerà in Adriatico e giungerà fino a Roma (…).
50. E guarda che a questa catastrofe è pure connessa un'altra sciagura: quella degli abitanti di Pera, i quali, quando videro presa la città, quasi impazziti, si diedero alla fuga. Coloro che tra essi non riuscirono a salire sulle navi caddero preda dei turchi, perchè le fuste turche li assalirono: le madri, costrette ad abbandonare i loro figli, vengono fatte prigioniere, altri invece, caduti in mare, muoiono affogati (…).
51. (…) Ahi podestà di Pera, quanto è stata sciocca e cattiva la decisione dei tuoi concittadini! Degli ambasciatori vengono inviati, pieni di terrore, al sultano da parte degli abitanti di Pera per offrirgli le chiavi della città. Ed egli, rendendosi conto con immensa gioia che i peroti non avevano più un podestà, li accoglie e li annette come vassalli e alleati. Nomina un governatore turco, confisca i beni di tutti coloro che erano fuggiti, ordina che vengano abbattute le torri e le mura della città. Essi ubbidiscono e si vendono a lui, senza ricordarsi del loro legame con Genova, per aver salva la vita. Poi fa distruggere fino alle fondamenta quella torre sulla cui sommità c'era il segno di Cristo, da cui essa prendeva il nome di santa Croce (32). Così coloro che erano dei liberi e fruivano della pace, ora sono dei vassalli, non senza sentire amaro rimorso, da cui difficilmente potranno liberarsi, se non con il tuo aiuto, o sommo Pontefice. E noi preghiamo e supplichiamo pieni di fiducia che Dio ti spinga a rivendicare la loro libertà.
 
Note:
 
(24) Giovanni Hunyadi, il voivoda di Transilvania all'epoca dell'assedio capitano generale del regno d'Ungheria. Quando, tra il 1433 ed il 1435, fu al servizio di Filippo Maria Visconti i suoi compagni d'armi ungheresi lo chiamavano Janko (Giovannino) che, pronunciato dagli italiani, divenne Bianco, donde il soprannome di Cavaliere Bianco con cui era conosciuto in Italia.
(25) A parte il contrasto di vedute tra il Gran Visir Halil Pasha ed il secondo visir Zaghanos Pasha, riportato anche da altre fonti, le informazioni di Leonardo sul consiglio di guerra tenuto dal sultano non sembrano molto precise. Il vecchio generale Thurakhan beg non può ad esempio avervi partecipato perchè era stato inviato in Morea per impedire ai despoti Demetrio e Tommaso, fratelli dell'imperatore, di soccorrere la città. L'eunuco indicato da Leonardo come terzo visir potrebbe invece essere il consigliere spirituale, lo sceicco Aq Sems ed-Din.
(26) Lā ʾilāha ʾillā-llāh, muhammadun rasūlu-llāh. E' l'inizio della professione di fede musulmana.
(27) Il pianeta Venere, che raggiunge la sua massima brillantezza poco prima del sorgere del sole.
(28) vedi nota 9.
(29) Giovanni Giustiniani Longo venne sepolto a Chio, nella non più esistente chiesa di S.Domenico (distrutta dal terremoto del 1881, al suo posto sorge ora la moschea Bairakli). Nell'iscrizione in latino sulla lapide, di cui ci rimane solo una trascrizione, si leggeva: Qui giace Giovanni Giustiniani, nobiluomo e patrizio genovese della maona di Chio, nominato grande comandante dal serenissimo imperatore Costantino, ultimo degli imperatori cristiani orientali, durante l'espugnazione di Costantinopoli per opera di Mehemet, sultano dei turchi, morì per una ferita ricevuta nell'anno 1453 il I di agosto.
(30) In turco Zerkulah, è il copricapo bianco indossato dai giannizzeri.
(31) Notaras cercò di addossare la colpa a genovesi e veneziani che avevano sostenuto Costantino XII con armi e uomini.
(32) Sulla sorte di Pera dopo la caduta della città vedi la lettera di Giovanni Angelo Lomellino al fratello. La torre della santa Croce era quella a cui era stata agganciata la catena che sbarrava l'ingresso del porto durante l'assedio.

Epistula de urbis Costantinopoleos captivitate, parte II

Epistula de urbis Costantinopoleos captivitate, parte II
13. Frattanto tre navi genovesi giunsero da Chio in nostro soccorso con armi, soldati e grano scortandone un'altra imperiale che trasportava un carico di grano dalla Sicilia. La flotta turca, che era alla fonda fuori dalla città ed era all'erta, quando vide che tali navi, ormai vicine alla città, stavano per approdare, si diresse rapidamente contro di esse con gran fracasso di tamburi e di trombe facendo finta di voler attaccare la nave imperiale. Mentre noi assistevamo dalle mura, da lontano, cioè dal colle di Pera, stava a guardare anche il sultano dei turchi, attendendo l'esito dello scontro. Ed ecco che si levano alte grida: le triremi più grosse serrano da vicino le nostre navi, attaccano quella imperiale, ma vedendola protetta dalle altre navi la assalgono, impiegano il fuoco con i tubi di lancio, scagliano frecce, si scatena insomma una battaglia feroce. Le nostre navi, sotto il comando del genovese Maurizio Cattaneo, li respingono opponendo loro resistenza. La battaglia, a quel punto, prosegue con Domenico da Novara e Battista da Felizzano, ambedue genovesi, patron delle navi da guerra. (…) la nave imperiale si difende con coraggio: accorre in suo aiuto Francesco Lecanella, altro patron, rimbombano colpi di bombarda, grida selvagge si levano fino al cielo, i remi delle galere vanno a pezzi, i turchi cadono feriti senza possibilità di salvezza. Il loro sovrano, che vede dal colle il disastro della sua flotta, lancia bestemmie, sprona il suo cavallo fin nel mare, si strappa di dosso le vesti in preda al furore; gli infedeli lanciano gemiti ed i soldati, tutti quanti, sono in preda allo sconforto. (…) Venimmo poi a sapere, dalle notizie riportate dalle staffette e dai superstiti, che erano caduti quasi diecimila turchi. (…) E le navi nemiche, che avevano operato l'attacco, erano quasi duecento tra triremi e biremi. (…) Le nostre navi dunque, grazie a Dio, raggiunsero il porto durante la notte e salve con grande loro sollievo, senza aver subito danni e senza aver perso neppure un uomo, salvo quelli che rimasero feriti.

14. Il sultano, fortemente irritato contro Balta-oghlu, ammiraglio della flotta, gli fece salva la vita per intercessione dei suoi consiglieri, ma decretò che fosse spogliato della sua carica e dei suoi beni. (...)


16. Dopo questo avvenimento però nacque un grave contrasto tra i veneziani ed i genovesi di Galata, perchè gli uni rinfacciavano agli altri il sospetto di voler fuggire. I veneziani proposero che, a levare ogni sospetto, venissero tolti dalle navi e messi in serbo a Costantinopoli sia i timoni, sia le vele. I genovesi, sdegnati allora dissero: “Anche se noi manteniamo la pace col Turco simulandola in modo molto scaltro per ordine dell'imperatore al fine della salvezza dei greci – che è poi quella di tutti noi -, come potete pensare che noi si possa compiere un tale crimine, quello di abbandonare Pera, la più bella cittadina del mondo,le nostre spose, i nostri figli e le nostre ricchezze, piuttosto che essere disposti a difendere tutto fino all'ultimo sangue?” (…) Più tardi la situazione tornò tranquilla, ed i veneziani disposero delle loro triremi come ad essi più piacque.


17. Crescendo ogni giorno più le difficoltà, si tenne consiglio per vedere se era possibile che i nostri incendiassero le fuste nemiche. Un giorno, prima dell'alba, furono preparate di nascosto due navi per ordine di Giovanni Giustiniani assieme ad alcune biremi che le dovevano accompagnare fino alla costa pronte a lanciare il fuoco e a sparare le bombarde. Quando le navi vennero portate fuori, adottando la formazione stabilita, le navicelle coperte, dette borbote, si posero dietro di esse, cosicché le navi che precedevano, ricoperte di sacchi pieni di lana, potessero ricevere per prime senza danno i proiettili di pietra delle bombarde. Purtroppo però Jacopo Coco, un veneziano, bramoso di gloria e di onore, fatta sorpassare a piena voga la propria bireme imperiale, che aveva un equipaggio, secondo l'ordine ricevuto, fornito dalle triremi veneziane, la spinse innanzi, ed ecco che, appena è in vista del nemico – ahi, terribile sciagura! - viene sventrata al centro da un proiettile di bombarda e così sprovonda nel mare coinvolgendo nella sua rovina tutte le altre biremi armate. (…) In realtà il piano d'attacco era stato svelato e comunicato ai turchi, cosicchè i nostri, che volevano colpirli duramente, vennero essi stessi colpiti per primi. Ma che dire, beatissimo Padre? E' lecito accusare qualcuno? E' meglio che si taccia. L'insuccesso ebbe una grave e dolorosa ripercussione sui nostri e costrinse le nostre navi a ritornare là donde erano partite in mezzo a una gran confusione. Tra gli uomini che riemersero in superficie alcuni, raggiunta la riva a nuoto, vennero fatti prigionieri e il giorno dopo, per ordine dello spietato sultano, fatti decapitare davanti ai nostri occhi. I nostri allora, esacerbati, prendono i prigionieri turchi che tenevano in carcere e li uccidono senza pietà sulle mura al cospetto dei loro connazionali: così l'iniquità si mescolò alla crudeltà e rese più atroce la guerra.


18. Dopo questi fatti il Turco finse di voler fare la pace. Inviò dei messi i quali, parlando in modo ipocrita, fecero sapere che il sultano si era pentito di aver scatenato la guerra, come se egli fosse stato istigato ad essa dagli ungheresi, e propose un plenipotenziario. Ma la menzogna venne scoperta, poiché egli non volle accettare né di demolire la fortezza che aveva costruito sulla Propontide, né di risarcire i danni inferti nei territori da lui devastati (15). Ciò che più ci angustiava era la slealtà del Turco, che non aveva mai mantenuto fede ad alcun giuramento e patto. (…) Perciò noi, presentendo l'inganno, affidammo la nostra salvezza a Dio. Contavamo i giorni che ci rimanevano con un senso di profonda amarezza e di pentimento nel cuore e andavamo dicendo che occorreva placare Dio con litanie, con sacrifici divini, con incenso e preghiere. (…)


19. Pochi certo tra i greci, per lo più inetti alla guerra, erano in grado di combattere e si servivano dello scudo, della spada, della lancia e dell'arco più per istinto che con abilità. I comandanti erano armati di elmo, di corazza metallica o di corsale, di spada o di lancia; alcuni erano un po' più esperti nell'uso dell'arco e della balestra, ma quanto a numero erano certo inferiori alle necessità della difesa e combattevano come potevano e sapevano. (…) I greci, tra i combattenti, non superavano la cifra dei seimila; gli altri, genovesi e veneziani, anche sommando ad essi quelli che erano venuti di nascosto in loro aiuto, a stento arrivavano a tremila. (…)


20. Ahimè, o greci, dimentichi del vostro dovere, responsabili di furto di fronte alla vostra patria, troppo attaccati ai vostri averi! Quelli di voi a cui si rivolse l'imperatore, privo di mezzi, scongiurandovi con le lacrime agli occhi di dare a prestito dei soldi per arruolare delle truppe, giurarono di esser poveri e di aver tutto consumato a causa della penuria dei tempi; e furono quegli stessi che poi il nemico scoprì ricchissimi (16)! Ciò malgrado alcuni, ben pochi, fecero delle offerte volontarie. Per la verità bisogna dire che il cardinale pose ogni zelo nell'offrire il suo aiuto e fece riparare a proprie spese torri e mura (17).


21. D'altra parte l'imperatore, in preda all'incertezza, non sapeva che fare. Chiede consiglio ai suoi ministri, ed essi lo inducono a non far pressione fiscale sui cittadini, già angustiati dalla situazione, e a ricorrere ai tesori delle chiese. Perciò diede ordine di prendere dalle chiese le suppellettili sacre e di fonderle (…), di coniare delle monete e di distribuirle ai soldati, ai minatori e ai muratori, i quali, preferendo occuparsi delle cose loro piuttosto che di quelle pubbliche, si rifiutavano di prestare la loro opera senza essere pagati. Angustiato da queste ristrettezze, l'imperatore distribuì i soldati, per quanto gli fu possibile, lungo le fortificazioni (…), e ripose tutte le sue speranze nel comandante Giovanni Giustiniani. E sarebbe andata bene, se la sorte ci avesse favorito. L'imperatore prese posizione in quel punto delle mura, nei pressi di San Romano, dove erano state fatte delle riparazioni e dove più infuriava la battaglia, a fianco dello stesso comandante e dei suoi trecento commilitoni genovesi, magnifico nelle sue armi rifulgenti, associandosi alcuni soldati scelti greci molto valorosi (18).


22. Poco più in là Maurizio Cattaneo, nobile genovese, prende posizione, pieno di ardore, come comandante della difesa, dalla Porta di Peghé, cioè della Fonte, fino alla Porta Aurea assieme a duecento balestrieri a cui erano mescolati anche dei greci, proprio di fronte a quel bastione di legno, coperto da pelli bovine, che stava al di là delle mura. I fratelli Paolo, Antonio e Troilo Bocchiardi assumono il comando della difesa, con gran coraggio e con armi loro, a proprie spese, nel punto assai critico di Miliandro (19) dove la difesa era più pericolosa, rimanendo continuamente all'erta, notte e giorno. (...)


23. Teodoro Caristeno, un greco, vecchio ma forte come una quercia, espertissimo nell'uso dell'arco, e Teofilo, un altro greco della nobile famiglia dei Paleologi, uomo di lettere, l'uno e l'altro cattolici, assieme a Giovanni [Grant], un tedesco geniale, provvedono a riparare la Caligaria, che era stata sconquassata, e a difenderla. Catarino Contarini, un veneziano molto illustre tra la sua gente, nominato comandante della Porta Aurea e della fortezza adiacente ad essa fino alla riva del mare, assunto su di sé con gran coraggio il peso della difesa. (…) La difesa del Palazzo imperiale [delle Blacherne] viene affidata a Girolamo Minotto, bailo dei veneziani (...)


24. Il cardinale, che non mancava mai di dare il suo consiglio, si era assunto la difesa del quartiere di san Demetrio verso il mare; il console dei catalani [Pere Julià] difendeva invece la torre che stava davanti all'Ippodromo verso la zona orientale (20). Kyr Luca [il megadux Luca Notaras] vigilava alla difesa del porto e di tutta la zona prospiciente il mare. Girolamo Italiano e Leonardo di Langasco, ambedue genovesi, assieme a molti altri loro commilitoni, tenevano la difesa della Xyloporta e delle torri dette Anemadi (21), che erano state rimesse in sesto a spese del cardinale.


25. (…) Gabriele Trevisan, capitano delle galere veloci, nobile veneziano, uomo molto assennato, aveva assunto il suo posto di combattimento con quattrocento veneziani scelti dalla Porta del Kynegos alla torre del Phanar [Faro]; da questa torre del Phanar fino alla Porta Basilica, cioè Imperiale, la difesa era stata assunta con grande impegno dai fratelli Ludovico e Antonio Bembo, uomini di notevole coraggio, assieme a centocinquanta veneziani (22). Alvise Diedo, comandante delle galere grosse, assieme agli altri che rimanevano, difendeva, da uomo pavido qual'era, più le sue triremi che il porto. (...) Demetrio, suocero di N […] Paleologo e Nicola Goudeles, suo genero, posti a capo di un reparto, vengono tenuti di riserva perchè possano intervenire in aiuto, passando da un capo all'altro della città, con un notevole numero di armati (23). (…)


27. Nello stesso periodo di tempo venne diramato l'ordine che il pane venisse distribuito in modo proporzionato ad ogni compagnia, cosicchè la gente non si allontanasse dal proprio posto di combattimento con la scusa di preoccuparsi del rifornimento. (…) L'imperatore non era in grado di esercitare un controllo rigoroso, e chi disubbidiva non veniva castigato con la fustigazione o punito con la morte. (…)


28. Frattanto il comandante generale Giovanni Giustiniani, su cui pesava tutto il destino della difesa, quando intuì attraverso la proclamazione fatta dai turchi che stava per essere scatenata l'offensiva finale, cercò di riparare in fretta e furia quelle mura che erano state sconquassate dalle bombarde; chiese anzi per sé a Kyr Luca [Notaras], megadux imperiale, delle bombarde, che erano a disposizione della difesa, per schierarle contro i nemici. Egli però gliele negò con alterigia, per cui il capitano gridò: “Chi mi trattiene, traditore, dall'ucciderti con questa mia spada?”. Sdegnato per l'insulto ricevuto, soprattutto perchè un latino lo aveva rimproverato, in seguito provvide alle necessità del combattimento in modo più remissivo. (…) In ogni caso il capitano Giovanni, su consiglio del comandante Maurizio Cattaneo, di Giovanni del Carretto, di Paolo Bocchiardi, di Giovanni Fornari, di Tommaso Selvatico, di Laudisio Gattilusio, di Giovanni Dalmata e di altri alleati greci, riorganizzò lo schieramento e le difese. (…)


29. I nostri s'impegnarono duramente nell'azione di difesa, non soltanto del fossato e dell'antemurale, cosa che io non ho mai approvato, perchè ho cercato sempre di far capire che l'ultimo scampo stava nel non abbandonare le mura alte principali, le quali, benchè fossero in rovina o prive di merlature, a causa delle intemperie o per incuria, avrebbero potuto essere riparate fin dall'inizio, quando cioè si profilò la prospettiva di una guerra; anzi si dovevano restaurare e munire di difensori, in modo tale che, debitamente occupate, potessero servire di presidio estremo per la salvezza della città. (…)


Note:

(14) Qui sembrerebbe che Francesco Lecanella (Lecavella in altre cronache) fosse al comando di una quarta nave da guerra genovese mentre tutti i cronisti – eccezion fatta per il Ducas, Historia Turco-Bizantina 1341-1462, che parla appunto di quattro navi da guerra - parlano di tre navi. Più probabilmente Lecanella comandava la nave da trasporto imperiale.
(15) L'offerta di pace che fu realmente avanzata tra la fine di aprile e i primi di maggio, fu molto probabilmente fatta pro forma, più che altro in osservanza dell'usanza musulmana di offrire la pace al nemico prima di lanciare l'attacco finale per garantirsi i favori della divinità.
(16) In un passo qui omesso – anche perchè fortemente corrotto – Leonardo accusa Manuele Paleologo Iagari, un alto funzionario della corte bizantina, e l'igoumeno del monastero di Carsianite, Neofito, di essersi appropriati di fondi destinati alla riparazione delle mura.
(17) Cfr. la voce Isidoro di Kiev.
(18) Per l'elenco di assegnazione dei posti di comando che segue vedi anche la voce L'assedio di Costantinopoli.
(19) Myriandrios o Polyandrios era anche detta la Porta Rhegium (Mevlana kapi per i turchi). Quando furono restaurate le mura e aggiunte quelle esterne (447), gli Azzurri cominciarono a costruire a partire dalle Blacherne, i Verdi dalla Porta d'Oro. Il nome deriverebbe dal fatto che i due gruppi si congiunsero in corrispondenza di questa porta.
(20) I catalani di Pere Julià difendevano in realtà il tratto di mura compreso tra il Palazzo di Bucoleon ed il Kontoskalion. Al centro di questo tratto, in corrispondenza dell'Ippodromo come scritto da Leonardo, si trovava una torre di guardia del Porto di Sofia nota con il nome di Boukinon perchè sulla sua sommità erano state poste delle buccine che amplificavano il suono melodioso delle onde che si frangevano in questo punto contro una parte cava delle mura.
(21) Le torri affiancate di Isacco II Angelo e di Michele Anemas. Per la conformazione delle mura in questo tratto vedi la voce La Prigione di Anemas.
(22) Ludovico e Antonio Bembo erano membri autorevoli della colonia veneziana. Entrambi figurano tra i consiglieri del Consiglio dei Dodici che la notte del 14 dicembre votò la decisione di trattenere in porto le navi veneziane e partecipare attivamente alla difesa.
(23) Demetrio va identificato con Demetrio Cantacuzeno Paleologo, mesazon dell'imperatore, e suo genero, con N[iceforo] Paleologo che ne aveva sposato la figlia, ed erano al comando di una forza mobile di circa 700 uomini acquartierata nei pressi della chiesa dei SS.Apostoli. Nicola Goudeles, nominato nel testo, molto più probabilmente dirigeva la difesa della Porta di Pege assieme al veneziano Battista Gritti come riportato da Ubertino Puscolo (Costantinopolis, 1464 c.ca) 


Epistula de urbis Costantinopoleos captivitate, parte I


Epistula de urbis Costantinopoleos captivitate, parte I
La lettera-relazione, indirizzata a papa Niccolò V, fu scritta dall'arcivescovo di Mitilene Leonardo di Chio (cfr. scheda biografica) una volta raggiunta l'isola natale e porta la data del 16 agosto 1453.

1. (…) Narrerò dunque tra le lacrime ed i lamenti l'ultima rovina di Costantinopoli, catastrofe a cui ho assistito poco tempo fa e che ho visto con questi miei occhi. Sono certo, santissimo Padre, che molti altri mi hanno preceduto nel riferire a vostra Santità come si sono svolti gli avvenimenti. E' utile infatti raccogliere in un tutto unico le relazioni date da molte persone. Ciò malgrado, poiché si suole esporre in modo assai più esatto ciò che si è visto che non ciò di cui si è sentito parlare, narrerò ciò che io so e darò testimonianza, quanto più fedelmente possibile, di ciò che ho visto.


2. Da quando, reverendissimo Padre, il signor cardinale di Santa Sabina (1), vostro delegato per sancire l'unione con i greci, mi invitò a Chio a far parte del suo seguito, con zelo estremo ho cercato in ogni modo di difendere, come era mio dovere, con forza e con tenacia, la fede della santa Chiesa di Roma. Tentavo così di comprendere le abitudini ed il carattere dei greci e mi sforzavo di capire, attraverso gli argomenti addotti dai santi teologi, quale fosse la loro propensione, quali le intenzioni, quali le ragioni, quali lo scopo che li tratteneva o li faceva ritrarre dalla vera comprensione della fede e dall'obbedienza dovuta. Compresi chiaramente che, al di fuori di Argiropulo (2), maestro nelle arti liberali, e di Teofilo Paleologo (3) oltre che di alcuni pochi ieromonaci e laici, quasi tutti i greci erano a tal punto succubi di un sentimento di vanità che nessuno di loro, condizionato da zelo religioso o da preoccupazione per la salvezza della propria anima, voleva apparire di essere il primo a non tenere quasi in alcun conto la sua opinione o la sua ostinazione.

Ad ammettere l'articolo conciliare sulla precessione dello Spirito Santo, da una parte li metteva in imbarazzo la loro coscienza, dall'altra invece li angustiava il loro orgoglio, la loro arroganza, non volendo essi che i latini pensassero di essere più capaci di penetrare a fondo la verità della fede. In realtà, poiché né la dottrina, né l'autorità, né le varie ragioni addotte da Scolario (4), da Isidoro e da Neofito (5) potevano essere contrapposte alla credenza autentica della Chiesa di Roma, si giunse, per l'impegno e l'onestà del suddetto signor cardinale a sanzionare l'unione santa – se non fu insincera – con l'assenso dell'imperatore e del senato, e a celebrarla solennemente il 12 dicembre nella festa di San Spiridione vescovo.

3. Subito dopo questi fatti scoppiò il flagello violento del Turco che investì Costantinopoli, Galata e le altre città vicine affinchè si avverasse la parola di Isaia: “[Misera,] sbattuta dalla tempesta e senza alcun conforto” (Isaia, LIV, 11). E da questo turbine venni anch'io squassato, fatto prigioniero e, a causa dei miei peccati, legato e percosso dau turchi, ma non fui ritenuto degno di esser trafitto con Cristo, mio Salvatore (...)


4. (...) Così l'unione, non fatta, ma finta, conduceva la città verso la sua distruzione fatale. E ci accorgemmo a qual punto era giunta l'ira divina, maturata proprio in questi giorni.


5. Dio dunque, adirato contro di noi, inviò Mehmed, potentissimo sovrano dei turchi, un giovane pieno di audacia, avido di gloria, inebriato di potere, nemico capitale dei cristiani. Costui, presentatosi davanti a Costantinopoli, pose, il 5 di aprile [1453], il suo accampamento e le sue tende con i suoi trecentomila guerrieri e più tutt'attorno alla città, dalla parte della terraferma. I soldati erano per lo più cavalieri, ma coloro che prendevano parte ai combattimenti erano tutti fanti. Tra questi ultimi quelli che erano destinati alla protezione del sovrano erano circa quindicimila, guerrieri coraggiosi, detti giannizzeri, come i mirmidoni presso il Macedone, che erano in origine dei cristiani o figli di cristiani convertiti in senso contrario, passati cioè all'islamismo. Due giorni dopo [7 aprile], presa posizione davanti alla città, avvicinò ai fossati un numero enorme di macchine da guerra e di ripari, fatti di frasche e vimini intrecciati, con cui i combattenti potessero proteggersi tutt'attorno al contrafforte e al fossato (…) Ma chi mai, di grazia, bloccò da ogni parte la città? Chi furono, se non dei cristiani traditori, coloro che hanno istruito i turchi? Posso testimoniare che greci, latini, tedeschi, ungheresi, boemi, provenienti da tutte le nazioni cristiane, confusi tra i turchi, appresero le loro tecniche di guerra insieme alla loro fede: e furono essi che, dimentichi in modo mostruoso della loro fede cristiana, davano l'assalto alla città. (…)


6. Messa in posizione una bombarda davvero terrificante, sebbene fosse più grande l'altra che saltò in aria, trascinata a fatica da centocinquanta paia di buoi, di fronte a quella parte delle mura detta Caligaria, che era sguarnita, cioè non difesa né dal fossato né dal contrafforte, con essa diroccavano le mura usando proiettili di pietra della circonferenza di undici palmi miei. Per fortuna la muraglia era in quel punto molto profonda e solida: eppure essa non resisteva ai colpi di un ordigno così terribile. In seguito, poiché lo scoppio della bombarda più grossa aveva angustiato l'animo del sultano, questi, per non sentirsi condizionato da un sentimento di tristezza in un così grande combattimento, comandò di fonderne subito un'altra di dimensioni maggiori della precedente. Ma questa bombarda, a quanto si dice, per intervento di Halil pasha (6), ministro del sultano, ma amico dei greci, non venne mai portata a termine dal fonditore. (…) Il nemico, in verità, credeva che i greci fossero pochi e che essi non fossero in grado di difendere la città, una volta che fossero stati prostrati e sfiniti da combattimenti senza tregua. Certo fu vergognoso che i turchi al primo scontro non trovassero ostacoli; ma i nostri, fattisi più esperti di giorno in giorno, riuscirono a schierare contro i nemici delle artiglierie, che venivano però concesse in misura molto limitata. La polvere da sparo era poca e scarsi i proiettili. Le bombarde, d'altra parte, quando c'erano, per la posizione sfavorevole in cui esse si trovavano, non erano in grado di recar danno ai nemici che si riparavano dietro le macerie e nelle buche del terreno. In effetti le nostre bombarde, quando erano di grosso calibro, dovevano tacere, perchè altrimenti sconquassavano le nostre stesse mura; ma quando potevano sparare contro le formazioni nemiche falciavano uomini e tende. (…)


7. Purtroppo, per nostra mala sorte, il genovese Giovanni Longo appartenente alla nobile famiglia dei Giustiniani, era giunto lì per caso durante le sue scorrerie sui mari con due grandi navi e con circa quattrocento armati e, assoldato dall'imperatore, era stato investito del comando militare, sembrando che egli fosse in grado di difendere con coraggio la città. Dirigeva nel modo più sollecito il riassetto delle mura che erano crollate, come si facesse beffe dell'orgoglio e della potenza del Turco. In effetti, quanto più i nemici abbattevano le mura con proiettili di pietra di enormi dimensioni, tanto più costui con coraggio indomito riusciva a ripararle ammassando fascine, terra e botti di vino. Perciò il Turco, sentitosi tradito nella sua aspettativa, pensò che, pur non desistendo dai bombardamenti con i cannoni, fosse possibile impadronirsi della città con l'astuzia, scavando delle mine sotterra. Così comandò che fossero fatti venire i maestri minatori che egli aveva condotto con sé da Novo Brodo . E questi, trasportato il legname e gli strumenti necessari con grande diligenza, come era stato ordinato, cercarono subito di giungere attraverso cunicoli a scavare sotto le fondamenta e di penetrare così da ogni parte passando sotto le mura della città. Ma quando già essi avevano compiuto uno scavo in gran silenzio fino in fondo sotto il fossato e sotto il contrafforte – cosa davvero mirabile – la loro impresa venne scoperta con grande sagacia ed intelligenza dal tedesco Giovanni Grant (8), soldato molto abile ed espertissimo di cose militari, che Giovanni Giustiniani s'era portato con sé come capitano: il fatto, confermato dalle staffette, fece grande impressione sugli animi di tutti. (…)

8. Inoltre, quella famosa bombarda di dimensioni spropositate, poiché non riusciva ad ottenere gli effetti desiderati contro la muraglia della Caligaria, alla quale era stato posto riparo con prontezza, tolta di lì, venne trasportata in un altro punto durante il giorno per colpire la zona della torre Baccaturea (9) presso la Porta di san Romano con proiettili di peso, secondo la mia stima, di milleduecento libbre. La colpì e la scosse dalle fondamenta, la squassò e la distrusse. Le rovine di tale torre del contrafforte riempirono il fossato e lo livellarono, cosicchè i nemici si trovarono di fronte una strada spianata, seguendo la quale potevano irrompere in città; e se non si fosse proceduto immediatamente, come durante il martellamento della Caligaria, a fare riparazioni, non c'è alcun dubbio che sarebbero entrati d'impeto nella città. (…)
9. Frattanto gli abitanti di Galata, cioè di Pera, volendo impedire, anche se con qualche cautela, che il Turco costruisse sulla Propontide un forte (10), cercavano di rifornire di armi e di soldati la città in modo affannoso, ma di nascosto, perchè non trapelasse la notizia al nemico il quale faceva finta di essere in pace con loro (…). Così quella pace, sia pur simulata, diede respiro per un po' di tempo alla città. Io penso però che, a mio modo di vedere, se non erro, sarebbe stato molto meglio per gli stessi abitanti di Galata se essi avessero dichiarato guerra aperta fin dal primo momento, piuttosto che continuare a simulare la pace. Certo il Turco non sarebbe riuscito a costruire quel forte che fu poi la causa della loro rovina, né in seguito avrebbe potuto scatenare una guerra così micidiale. O genovesi, abituati ormai a vedere le cose soltanto in un certo modo! Ma taccio, non voglio parlare dei miei concittadini, su cui gli altri paesi portano un giudizio pieno di verità. (…)

10. Continuiamo piuttosto la nostra narrazione. I nostri intanto al limite delle loro forze non avevano più fiducia nella difesa. Ormai non si poteva più sperare di ricevere aiuti (salvo che da Dio solo) da Genova o da Venezia o da altro paese, da cui – sia detto senza offesa – avremmo dovuto ricevere ogni tipo di pronto soccorso. (…)


11. Mentre dunque continuava la situazione d'assedio della città, bloccata da ogni parte, giunse una flotta di duecentocinquanta fuste che, radunata dalle coste dell'Asia, della Tracia e del Ponto, si schierò contro la città. Di esse sedici erano triremi, settanta biremi, le rimanenti galere leggere ad un solo banco di remi; pure le navicelle e le barche si muovevano piene di arcieri per far bella mostra. Queste navi, non riuscendo ad entrare nel porto, sbarrato da una catena a cui erano collegate delle navi munite di rostri e ben armate, e cioè sette genovesi e tre cretesi, gettarono l'ancora non lontano presso la costa della Propontide (11) alla distanza di circa cento stadi dalla città. (…) Il Turco però, non sperando più di abbattere interamente con le bombarde le mura, benchè esse fossero state sconquassate in tre punti dai proiettili di pietra, per suggerimento di un cristiano traditore, giurò a sé stesso di trasportare dentro il golfo un certo numero di biremi passando dietro la collina. (…) Perciò , allo scopo di stringere ancor più in una morsa la città, diede ordine di spianare una zona impraticabile del terreno e di trascinare a forza di braccia per settanta stadi tali biremi attraverso la collina, dopo aver posto sotto di esse delle armature spalmate di grasso. Queste navi, trascinate su per la salita con grande sforzo, giunte al culmine della collina scendevano poi lungo il declivio verso la costa con grande rapidità fin dentro una delle insenature. Chi svelò questo stratagemma ai turchi aveva appreso, io credo, una tal novità dall'operazione attuata dai veneziani, a loro modo, sul Lago di Garda (12). Così noi, ancor più spaventati, pensavamo di distruggerle o col fuoco o a colpi di bombarda. Ma nemmeno questo ci riuscì, perchè quelle, protette da ogni parte dal fuoco di sbarramento delle bombarde, ci inflissero notevoli perdite. (...)


12. Non contento dunque di questo stratagemma, per spaventarci ancor di più, ne attuò un altro, e cioè fece costruire un ponte lungo circa 30 stadi che si stendeva dalla riva opposta alla città, così da tagliare in due l'insenatura del mare, ponte posato su botti da vino legate l'una all'altra a strutture di legno fissate sul fondo, in modo tale che l'esercito potesse passarvi sopra e giungere fino alle mura della città nei pressi della chiesa (13). (...)


Note:

(2) Umanista bizantino, aveva fatto parte della delegazione greca al Concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439) schierandosi con gli unionisti.
(3) E' nominato anche più avanti, nell'elenco dei comandanti della difesa (paragrafo 23). Probabilmente si tratta di un cugino dell'imperatore.
(4) Giorgio Scolario. Fece anche lui parte della delegazione greca al Concilio di Ferrara-Firenze, in qualità di consigliere teologico dell'imperatore schierandosi, anche se non troppo vigorosamente, sul versante unionista. Rientrato in patria mutò radicalmente opinione e nel 1444, alla morte di Marco Eugenico (Marco di Efeso) di cui era stato discepolo, assunse la guida del movimento antiunionista. Ritiratosi a vita monastica con il nome di Gennadio nel monastero del Pantokrator dopo la morte di Giovanni VIII (1448), fu chiamato a ricoprire la carica di Patriarca dopo la caduta di Costantinopoli e nominato da Maometto II capo della comunità dei greci proprio per la sua ostilità nei confronti dei latini. Ricoprì la carica di Patriarca con il nome di Gennadio II in tre diversi periodi (1453-1457, 1462 e 1464-1465). Nell'autunno del 1465 si ritirò definitivamente a vita monastica nel monastero di San Giovanni  Prodromo nei pressi di Serres dove morì, probabilmente nel 1472, e dove ancora oggi riposano i suoi resti.

Gennadio II Scolario
Monastero di San Giovanni Prodromo
Serres, Grecia

(5) Si tratta molto probabilmente di due monaci o vescovi autorevoli che sottoscrissero verso la metà del novembre 1452 una lettera all'imperatore per protestare contro l'unione.
(6) Çandarlı Halil Pasha - detto “il giovane” per distinguerlo dal padre che aveva lo stesso nome e che ricoprì prima di lui la stessa carica – fu Gran Visir dell'impero ottomano durante il regno di Murad II e nei primi anni di quello di Maometto II. Fu fatto giustiziare dal sultano pochi giorni dopo la caduta della città (1 giugno 1453) per l'opposizione al progetto di conquista di Costantinopoli che aveva sempre apertamente manifestato.
(7) La cittadina kosovara di Novo Brdo.
(8) Nel testo latino Johannis Grande Alemani. Compare anche nei resoconti degli altri cronisti dell'assedio. Ufficiale esperto di mine al seguito di Giustiniani Longo, comandava assieme a Teofilo Paleologo ed al veneziano Zaccaria Grioni la difesa del tratto di mura comprese tra la Porta Caligaria e la Xyloporta (poco oltre la congiunzione delle mura di terraferma con quelle marittime) dove controminò le mine – sette in tutto - scavate dai minatori serbi al servizio del sultano.
Una pietra tombale latina ritrovata ad Adrianopoli (Edirne), fa riferimento ad un Giovanni Grandi da Rimini (Ariminensis) "minarum costructor", morto di peste nel 1455-1456, in cui è più probabilmente identificabile il personaggio citato nel testo.

Pietra tombale di Giovanni Grandi


(9) La torre Baccaturea sorgeva nei pressi della Porta di S.Romano (l'attuale Topkapi) mentre il tratto di mura in direzione della Porta di Charisio prendeva il nome di muro Baccatureo. Dovevano il nome ad un soldato selgiuchide, Bahadur, fedelissimo dell'imperatore Andronico II Paleologo (1282-1328) a noi noto anche per un'elegia a lui dedicata dal poeta Emanuele Philès. Una naturale depressione del terreno che poneva questo tratto delle mura ad una quota più bassa di quella della collina prospicente da cui le artiglierie nemiche potevano batterle ne faceva il tratto più vulnerabile dell'intera cerchia difensiva contro cui si concentrò il fuoco delle artiglierie ottomane di grosso calibro.

Il tratto delle mura detto muro baccatureo

(10) Qui o Leonardo di Chio ricorda male o cerca di mettere in buona luce i genovesi di Galata. Si tratta infatti del castello di Rumeli hisari fatto costruire da Maometto II sulla riva europea del Bosforo, di rimpetto a quello già costruito sulla sponda anatolica (Anadolu hisari), con l'intento di impedire che la città fosse rifornita da convogli provenienti dal Mar Nero. Il castello fu però costruito circa un anno prima rispetto agli eventi narrati e senza che gli abitanti di Galata facessero alcunchè per impedirlo.
(11) La flotta ottomana si dispose lungo il litorale della costa europea del Bosforo, nel tratto detto delle Due Colonne (Diplokionion) – per la presenza di due colonne probabilmente resti di un tempio di età romana che crollarono definitivamente nel 509 – che corrisponde al litorale dell'attuale quartiere di Besiktas.
(12) Leonardo allude qui all'operazione realizzata nel 1439 dai veneziani nell'ambito della guerra con il ducato di Milano e nota come Galeas per montes. Per soccorrere la città di Brescia, rimasta isolata e sotto assedio, su proposta dell'ingegnere militare Biaso de Arboribus e del marinaio greco Nicolò Sorbolo, 25 navi grosse, 2 galee e 6 fregate furono trasportate via terra dal villaggio di Mori, nei pressi di Rovereto, dove erano giunte risalendo l'Adige, fino al porto di Torbole sulla riva settentrionale del lago di Garda, coprendo un tragitto di circa 20 km. L'operazione, coordinata sul campo da Niccolò Carcavilla, richiese l'impiego di 2000 buoi e centinaia di uomini e destò grande scalpore tra i contemporanei.
(13) Il ponte venne teso tra la località oggi conosciuta come Haskoy, sulla riva settentrionale del Corno d'oro, e la Porta di San Giovanni Battista, vicinissima a quella del Kinegos, nei cui pressi sorgeva la chiesa omonima.

La probabile dislocazione del ponte su botti fatto allestire dal sultano 



sabato 13 settembre 2014

Vasilissa ergo gaude di Guillaume Dufay

Vasilissa ergo gaude
Quello che segue è il testo di un mottetto a quattro voci composto dal musicista e compositore franco-fiammingo Guillaume Dufay in occasione delle nozze di Cleofe Malatesta con Teodoro II Paleologo, Despota di Morea. Il mottetto, che è il più antico pervenutoci di questo autore, fu composto tra il 1419 ed il 1420, quando Guillaume Dufay si trovava presso la corte di Malatesta IV (detto Malatesta dei Sonetti per il suo amore per le arti), padre della sposa.
La versione cantata si può ascoltare qui.

Vasilissa, ergo gaude,
quia es digna omni laude,
Cleophe, clara gestis
a tuis de Malatestis,
in Italia principibus
magnis et nobilibus.


Ex tuo viro clarior,
quia cunctis est nobilior:
Romeorum est despotus,
quem colit mundus totus;
in porphyro est genitus,
a deo missus coelitus.

Junvenili estate

polles et formositate
ingenio multum fecunda
et utraque lingua facunda
ac clarior es virtutibus
prae aliis hominibus.


Concupivit rex decorem tuum

quoniam ipse est dominus tuus.

                    ***
Gioisci imperatrice (Vasilissa)
perché sei degna di ogni lode,
resa illustre dalle gesta dei
tuoi Malatesta,
principi in Italia
grandi e nobili.

Resa ancor più illustre da tuo marito,
che è il più nobile tra tutti:
è Despota dei Romei,
che tutto il mondo ossequia;
è nato nella porpora
e da Dio è stato inviato dal cielo.

Di rigogliosa giovinezza
abbondi e di bellezza,
sei nell'ingegno fertile
e versatile in entrambe le lingue
e più illustre per virtù
tra gli altri esseri umani.

Il regnante ha desiderato la tua bellezza
da quando è il tuo signore.






domenica 7 settembre 2014

La lettera di Isidoro di Kiev a Bessarione

La lettera di Isidoro di Kiev a Bessarione
La lettera fu scritta dal cardinale Isidoro mentre si trovava a Creta in data 6 luglio 1453.


Reverendissimo padre in Cristo e signore, porgo a voi i miei più devoti saluti.


Ho scritto spesso nel passato a vostra Reverenza, dalla quale però non ho ricevuto alcuna risposta; per quale ragione, non so. E' possibile tuttavia congetturare o che le mie lettere non ti siano state consegnate o che le tue lettere non siano state a me recapitate, forse per incuria dei messaggeri; ciò che può essere attribuito anche allo stato di guerra e alle difficoltà della situazione, oppure, terza ipotesi, che la tua Reverenza è adirata verso di noi e ci avversa come pure Dio stesso, che sembra essersi mostrato quasi duro, ostile e avverso nei confronti di quella sventuratissima e infelicissima città che fu un tempo e che dagli stessi empi e ferocissimi infedeli era chiamata Costantinopoli, ora, per rio destino, davvero Turcopoli, al cui ricordo io verso fiumi continui e perenni di lacrime...

E per quel Dio immortale ai cui occhi nulla sfugge e tutto è manifesto, spessissimo ho esecrato e maledetto quel crudele turco che mi ha ferito con una freccia nella parte sinistra del capo di fronte alla porta di un monastero, non così gravemente tuttavia da uccidermi nello stesso istante, per il fatto che ero a cavallo e mi sentivo stordito e la punta di essa aveva perso in buona parte la sua forza. Credo che Dio abbia voluto tenermi in vita, perchè potessi vedere tutte le altre così grandi disgrazie di quella sfortunatissima città...
Ma, al momento presente, sarebbe lungo raccontare tutto ciò, né il tempo me lo permette. In seguito, poiché ho stabilito di venire da voi, con l'aiuto del Signore, vi narrerò di persona molte cose, che oltrepassano la misura di una lettera. Mi terrò soltanto all'essenziale, in modo che voi possiate essere informato della situazione in breve. Ecco come stanno le cose.
Quando lascia Roma verso il mese di maggio dell'anno passato (1), senza avere affatto con me alcun presidio o aiuto, mi preparai al viaggio nel modo migliore che mi è stato possibile e certo, dopo essere uscito dalla città, già al primo colpo di sprone, per così dire, e ai miei primi passi, tutto cominciò ad andarmi a rovescio e in modo sfortunato. Lascio da parte ora i particolari. Intanto ci vollero ben sei mesi per il solo viaggio (2), finchè con qualche difficoltà alla fine giunsi alla sventuratissima città di Costantinopoli il 26 del mese di ottobre e la trovai bloccata e accerchiata da ogni parte dal nemico in armi. Quali discorsi quindi io abbia tentato, che cosa abbia fatto e quali pensieri abbia rivolto nella mia mente, non potrei condensare facilmente né a parole né per iscritto. Nel giro di due mesi la flotta dei cristiani è stata raccolta, radunata e messa d'accordo in modo perfetto e saldo (3), come in altra occasione ho già scritto due volte a vostra reverenza, in modo abbastanza ampio ed esauriente. Quando sembrava che le cose dei cristiani procedessero bene e con soddisfazione, benchè non fosse venuta meno né la volontà dei turchi di assalire la città, né il loro forte desiderio, né la loro brama insaziabile, scrissi a vostra Reverenza pure sopra ogni cosa, sulla mentalità dello stesso Turco, che pensa senza sosta di sottomettere al proprio potere tutto quanto l'orbe terrestre e di distruggere interamente il nome di Cristo. Ed è ciò appunto che il folle medita: prepara un forte schieramento, un esercito stimato tra fanti e cavalieri di circa trecentomila uomini ed una flotta grandissima, di duecentoventi navi fra triremi, biremi e uniremi, più una nave mercantile o rotonda; raduna e ammassa tutti gli artigiani, ogni sorta di proiettili, ogni genere di strumenti, di congegni e artifizi che siano ritenuti adatti per assalire ed espugnare le città, ogni tipo di macchine da getto, bombarde, catapulte, in gran numero e di dimensioni enormi, le cui moli ti sarebbero sembrate cose mostruose e portentose: con questi mezzi alla fine si è impadronito di Costantinopoli. Tra le altre numerosissime macchine da getto, catapulte o bombarde, ce n'erano tre, di cui la prima lanciava proiettili di pietra del peso di quattordici talenti, una seconda di dodici ed una terza di dieci. Mentre le mura con il loro spessore e la loro solidità sopportavano bene i colpi di tutte le altre bombarde minori, non riuscirono invece a tollerare la forza dirompente di queste tre che le battevano in continuazione. Al secondo colpo la più gran parte delle mura e delle stesse torri veniva abbattuta e demolita. Allora abbiamo compreso che si compiva fino in fondo che a lungo si è conservata nelle nostre storie e che dice: “Guai a te, città dai sette colli, quando ti assedierà un giovane, perchè le tue mura fortissime saranno abbattute”. Il Turco riuscì ad abbattere le mura nei pressi della Porta di san Romano ed anche quella parte di esse che si trova tra la Porta della Fonte (4), quella Aurea e l'antica Porta della Ventura (5) e l'altra che si chiama Porta Caligaria. Presso di essa, mentre si combatteva eroicamente, il fortissimo Teodoro Caristeno (6), al momento in cui i nemici irruppero nella città, cadde gloriosamente cercando di opporsi con coraggio e grandissimo valore: quella parte delle mura era infatti la più debole di tutta la città...
Il porto era stato chiuso e bloccato con fortissime catene dal colle di Galata fino alla Porta Bella (7) e cinque triremi veneziane con altre dodici navi mercantili o rotonde di grande stazza impedivano ai turchi di entrare nel porto e avvicinarsi alla catena. Quando i turchi capirono che sarebbe stato inutile sostare in quel punto, si trasferirono nel porto di Dipplocioma [Diplokionion=Due colonne] e qui si disposero in assetto di battaglia.
Pochi giorni dopo il Turco ordinò di aprire una via, spianando la via tra i colli dietro Galata di tremila passi e più per trascinarvi da una parte all'altra del colle di Galata novantadue tra biremi e uniremi, ed essendo riuscito a trasportarle in tal modo all'interno del porto, si impadronì di esso e ne divenne interamente signore. Ha escogitato poi un'altra astuzia straordinaria, ciò che si racconta sia stato fatto un tempo anche da Serse: costruì cioè un ponte e lo fece fare lunghissimo dalla zona di mare di santa Galatina (8) fino alle mura del Kynegon, la cui estensione è più del doppio di quella del famoso ponte sull'Ellesponto fatto costruire un tempo da Serse; su di esso potevano transitare non solo truppe di fanteria, ma anche molti cavalieri. Tentò anche di usare un terzo mezzo contro la città: fece scavare da lontano in direzione di Porta Caligaria cinque cunicoli e delle mine sotterranee per poter entrare di soppiatto nella città. Quando però gli scavatori giunsero in prossimità delle fondamenta delle mura e delle torri e quando già stavano per farle cadere, i nostri scavarono ugualmente dei cunicoli dall'interno della città esattamente nella stessa direzione, e così i nemici, da quella parte, furono posti in fuga e ributtati indietro...
Chi potrà descrivere le macchine da getto, gli ordigni, le catapulte e i congegni, detti ora falconi (9)? Fece costruire più di trecento scale, innalzare bastioni e terrapieni davanti alle mura alti come colli, erigere castelli immensi di legno che superavano le torri esterne della città...
Tra questi preparativi il Turco impiegò cinquantatre giorni, pur continuando l'assedio di Costantinopoli, ma senza giungere ad alcun risultato. La cognizione del futuro è certo una delle cose più difficili: eppure, mentre essa rese ciechi gli occhi della nostra mente, li aprì invece a lui, a tal punto che egli riuscì a tenere sotto controllocon grande precisione sia la furia della battaglia, sia il giorno e l'ora dell'assalto. Ha infatti a sua disposizione astrologi persiani molto scrupolosi, ed è appoggiandosi ai loro suggerimenti e alle loro decisioni che spera di riuscire ad ottenere il dominio supremo ed assoluto. Il giorno 29 maggio da poco trascorso al sorgere del sole, quando i suoi raggi colpivano i nostri negli occhi, i turchi investendo per mare e per terra la città assalirono quella parte di mura presso la Porta di San Romano che era quasi interamente distrutta, dove si trovavano molti uomini valorosi latini e greci, ma senza il loro re e imperatore, che era già stato ferito e trucidato e il cui capo fu poi presentato in dono al Turco, il quale alla sua vista esultò per la grande gioia, lo coprì di ingiurie e di insolenze e subito dopo lo inviò come trofeo ad Adrianopoli. Assieme a lui si trovava un condottiero il cui nome era Giovanni Giustiniani, che molti accusano di essere stato la causa prima della presa e di così grande catastrofe. Ma lasciamo stare. La scalata alle mura in quella parte era d'altronde facile, perchè, come si è già detto, essa era stata buttata giù e quasi diroccata interamente dai colpi delle bombarde, per cui fu facile ai nemici irrompere nella città, non trovandosì lì nessuno in grado di contrastare l'impeto dei nemici e di difendere quel punto. Era cosa incredibile vedere la città che da una parte si difendeva tutta quanta all'interno delle mura e dall'altra all'esterno era assalita... Tutte le vie, le strade ed i vicoli erano pieni di sangue e di umore sanguigno che colava dai cadaveri degli uccisi e fatti a pezzi. Dalle case venivano tirate fuori le donne, nobili e libere, legate tra loro con una fune al collo, la serva assieme alla padrona e a piedi nudi, per lo più, e così pure i figli, rapiti con le loro sorelle, separati dai loro padri e dalle loro madri, erano trascinati via da ogni parte. Avresti potuto vedere – o sole, o terra! - schiavi e servi turchi d'infimo grado portar fuori e spartirsi fanciulle giovanissime e nobilissime, laiche e religiose, trascinarle fuori dalla città, non come buoi o pecore o altri animali domestici e mansueti, ma come se fossero un gregge indomabile di fiere spaventevoli, selvagge e crudeli, circondate tutt'attorno da spade, sicari, guardie e assassini...
Appena fu loro possibile buttarono giù e fecero a pezzi nella chiesa che si chiamava Santa Sofia e che ora è una moschea turca, tutte le statue, tutte le icone e le immagini di Cristo, dei santi e delle sante, compiendovi ogni sorta di nefandezza. Saliti come invasi sul ripiano dell'ambone, sulle are e sugli altari, si facevano beffe, esultando, della nostra fede e dei riti cristiani e cantavano inni e lodi a Maometto. Abbattute le porte del santuario [l'iconostasi], ghermivano tutte le cose sacre e le sante reliquie e le gettavano via come cose spregevoli e abbiette. Preferisco passare sotto silenzio ciò che han fatto nei calici, nei vasi consacrati, sui drappi. I paramenti intessuti d'oro con le immagini di Cristo e dei santi li usavano come giacigli in parte per i cani, in parte per i cavalli. Calpestavano con i piedi gli Evangeli ed i libri delle chiese, abbattevano monumenti di marmo lucido e splendente, tutto facevano a pezzi...
Come io sia sfuggito dalle loro empie mani, lo potrai apprendere tra breve quando arriverò in Italia, e allora saprai tutto. Poiché il Turco medita certamente di passare in Italia con una schiera fortissima ad un grandissimo esercito, si presume che abbia approntato trecento triremi, tra piccole e grandi, e più di venti navi mercantili grossissime, ed anche un esercito di fanti e cavalieri di un numero straordinario: ritieni anche tu tale notizia del tutto veritiera, io non dubito che ciò avverrà, se è vero che ogni giorno egli ascolta in arabo, in greco e in latino la vita di Alessandro Magno. Proprio per questo inviando senza indugio da Creta una piccola nave consegnai a fra Giovanni delle lettere per il santissimo signore nostro il papa, per il sacro collegio dei cardinali, e così pure per il re d'Aragona (10) e per le più grandi città d'Italia come anche per la vostra Bologna (11), esortando tutti, sollecitandoli e stimolandoli a volgere il loro sguardo e la loro attenzione ad annientare questi infedeli. Per cui anche vostra Reverenza, a cui auguro di vivere a lungo sana e salva, si degni di venire incontro a quest'opera salutare, pia e necessaria

Devoto in tutto alla tua Reverenza
Isidoro cardinale
Creta, 6 luglio 1453.


Note:

(1) Isidoro partì da Roma il 20 maggio 1452 e giunse a Costantinopoli il 26 ottobre dello stesso anno.
(2) Il cardinale fece una lunga sosta a Chio – dove invitò l'arcivescovo Leonardo ad unirsi alla delegazione - per reclutare uomini e imbarcare vettovaglie. A quanto pare ebbe qualchè difficoltà ad ottenere dai mercanti genovesi quanto richiedeva.
(3) Allude alla chiusura del porto con la catena e allo schieramento delle navi cristiane dietro di essa.
(4) Porta Fontis nel testo latino. E' la cosiddetta Porta pegana che deve il nome alla vicinanza fuori le mura del monastero della Zoodochos peghé dove c'era appunto una fonte miracolosa (peghé). Dopo la conquista ottomana cominciò ad essere chiamata Porta di Selymbria.

Porta pegana

(5) Va identificata con la Porta Xylokerkos (Porta dell'Ippodromo di legno), nei cui pressi, attraverso una posterla detta Kerkoporta, avvenne una prima infiltrazione delle truppe turche.
(6) Nobile bizantino responsabile della difesa di Porta Caligaria, probabilmente sostituito alla sua morte da Emanuele Goudelas e dai genovesi Gerolamo Italiano e Leonardo da Langasco che precedentemente combattevano alla Porta Xylokerkos.
(7) Porta Pulchra nel testo latino. E' la Porta di Neorion, che dava sul porto omonimo. L'appellativo di Porta Bella (Horaia) potrebbe derivare dalla corruzione dell'antico toponimo oppure da abbellimenti realizzati nel corso del restauro della porta negli ultimi anni dell'impero.
(8) La zona dovrebbe corrispondere a quella dell'attuale Kasimpasa.
(9) Pezzo d'artiglieria intermedio tra la bombarda e la colubrina.
(10) Alfonso V d'Aragona (1416-1458). Dal 1442 era divenuto anche re di Napoli.
(11) Al momento in cui venne scritta la lettera, il cardinale Bessarione ricopriva la carica di legato pontificio a latere per la città di Bologna, la Romagna e la Marca di Ancona.