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sabato 16 novembre 2013

Ludovico Podocataro

Ludovico Podocataro

Armi del cardinale Podocataro
(particolare del monumento funebre in S.Maria del Popolo)

Nato a Nicosia nel 1429 in una nobile famiglia di origine greca, Ludovico Podocataro compì gli studi all'Università di Ferrara, dove studiò greco, latino, filosofia e medicina.
Stimato come eminente studioso nel 1460 divenne rettore della facoltà di Medicina e delle Arti dell'Università di Padova (l'università italiana preferita dai ciprioti che si recavano a studiare all'estero). Rientrato a Cipro, tornò definitivamente in Italia al seguito della regina Carlotta nel 1473 (cfr. l'affresco nella Corsia sistina dell'Ospedale di S.Spirito in Sassia).
Nominato abbreviatore di parco minore (1) durante il pontificato di papa Sisto IV (1471-1484), fu elevato al seggio vescovile della diocesi di Capaccio il 14 novembre del 1483.
Fu richiamato a Roma da papa Innocenzo VIII (1484-1492) che lo volle come segretario particolare e medico personale, incarichi che ricoprì anche sotto il pontificato di Alessandro VI Borgia (1492-1503).
Ricevette la porpora cardinalizia durante il concistoro del 28 settembre 1500 e gli fu assegnata la diaconia della chiesa romana di S.Agata dei Goti, elevata pro illa vice a titolo cardinalizio.
Il 20 gennaio 1503 fu promosso arcivescovo di Benevento, ma non prese possesso della sede e l'8 gennaio 1504 ne divenne amministratore apostolico.
Morì a Milano nell'agosto del 1504 mentre era in viaggio verso la Spagna e fu sepolto a Roma in un elegante monumento funebre scolpito da Gian Cristoforo Romano, allievo di Andrea Bregno, nel transetto di Santa Maria del Popolo.


Il cardinale lasciò la sua ricca biblioteca al nipote Livio, vescovo di Nicosia dal 1524 al 1552 (anche se non si recò mai nell'isola per prendere possesso della sede), adesso parte della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Il nipote ereditò anche il palazzo che il cardinale si era fatto costruire a Roma in via Monserrato (civico n.20) che abbellì facendone decorare la facciata da Perin del Vaga con decorazioni di cui oggi non rimane più traccia. E' invece ignoto il nome dell'architetto che ne disegnò il progetto. La corte interna presenta le pareti ornate da numerosi frammenti antichi e da colonne di granito e, su un lato, la Fontana di Venere di epoca settecentesca.
La semplice facciata presenta un portale coevo alla fondazione del palazzo, mentre le finestre ai tre piani sono seicentesche.

Palazzo Podocataro a Roma
.
Nel 1565 il palazzo fu venduto da Pietro Podocataro ai Della Porta e da questi agli Orsini, che lo possedettero fino alla metà del Settecento.

Tracce dei Podocataro a Nicosia

A Nicosia, in 20 Patriarchou Grigoriu street, si trova la casa di Hadjigeorgakis Kornesios (dal 1960 sede del Museo Etnologico) che fu dragomanno della Sublime Porta dal 1779 al 1809. L'edificio fu costruito – come si legge in una targa di marmo collocata all'interno, al di sopra dell'ingresso principale - nel 1793.
Al di sopra del portale d'ingresso lungo la facciata nord è incassato un bassorilievo marmoreo che mostra al centro, al di sotto del leone di San Marco e in uno scudo dove è raffigurata l'aquila bicipite, lo stemma dei Podocataro, probabilmente prelevato dall'antico palazzo di famiglia.


Uno dei bastioni delle mura cittadine, a sottolineare ulteriormente l'influenza della famiglia Podocataro nella società cipriota del XV-XVI secolo, porta il loro nome.


Note:

(1) Gli abbreviatori erano un corpo di scrittori della cancelleria pontificia, il cui incarico era di abbozzare e preparare in forma compiuta le bolle papali, le note pontificie e i decreti concistoriali, prima che questi venissero scritti in extenso dagli scriptores. Erano anche addetti alla spedizione delle costituzioni apostoliche.
Dall'epoca di papa Benedetto XII (1334-1342) venivano classificati in de Parco majori e de Parco minori. Il nome deriva da uno spazio della cancelleria, circondato da una grata, nel quale essi sedevano, e che veniva chiamato alto o basso (majori o minori) a seconda della vicinanza delle postazioni a quella del vice-cancelliere.
Il collegio, temporaneamente abolito nel 1466, tra feroci polemiche, dal papa Paolo II che intendeva porre un freno alla libertà di pensiero dell'ambiente umanistico raccolto intorno alla curia (molti umanisti di spicco erano infatti chiamati a ricoprire questa carica), fu ripristinato proprio da Papa Sisto IV.


sabato 21 aprile 2012

La regina Carlotta di Cipro


Carlotta I Lusignano (Nicosia, 28 giugno1444 – Roma, 16 luglio1487; regina di Cipro dal 1458 al 1460)

Figlia di Giovanni II Lusignano ed Elena Paleologina (la figlia di Teodoro II Paleologo, despota di Morea e Cleofe Malatesta) sale al trono alla morte del padre e viene incoronata nella chiesa di santa Sofia di Nicosia il 7 ottobre del 1458.
Nel 1458, poco dopo il suoi insediamento, i turchi prendono Gorhigos (l’attuale Kizkalesi), ultimo avamposto cristiano in terraferma.
Il 4 ottobre 1459 - rimasta vedova (1457) del primo marito, l'infante del Portogallo Giovanni di Coimbra -  sposa in seconde nozze Luigi di Savoia, conte di Genova, perchè i genovesi le promettono di sostenerla contro le pretese al trono del fratellastro Giacomo, figlio illegittimo di Giovanni II e della sua amante Maria di Patrasso.
Ma Giacomo – che si era rifugiato in Egitto alla corte del sultano – nel 1460 sbarca al comando di un distaccamento di mamelucchi e conquista rapidamente l’isola. Carlotta ed il marito si ritirano nella fortezza di Kyrenia. Da qui Carlotta intraprende una intensa attività diplomatica.
Nel 1461 si reca in Italia: incontra a Roma papa Pio II, poi è a Firenze, a Bologna, dove incontra i legati veneziani. Rimane presso la corte sabauda fin oltre la metà del giugno 1462, spostandosi tra le residenze ducali e svolgendo, d'intesa con il duca Amedeo IX, fratello del marito, un'intensa attività diplomatica con l'Ordine dei cavalieri di Rodi, Genova e il re d'Aragona, chiedendo loro di fornire aiuti militari e promettendo pagamenti che avrebbero ancora una volta gravato sulle finanze sabaude.
In cambio di quanto aveva ricevuto, il 18 giugno 1462 stipulò un atto con i Savoia nel quale, riconoscendosi ampiamente debitrice, ribadiva e ampliava i diritti dei duchi sabaudi sul regno di Cipro.
Nell'autunno del 1462 s'imbarcò da Venezia per Rodi dove fu raggiunta dal consorte prima del 23 febbraio del 1463. Con la resa della fortezza di Kyrenia i due coniugi persero di fatto il trono. Carlotta rimase per diversi anni ospite dell'Ordine a Rodi mentre il marito sul finire del 1463 fece ritorno in patria (1).
Dopo la morte del fratellastro Giacomo II (6 luglio 1473), partì immediatamente per l'Italia per rinsaldare i rapporti con Ferdinando d'Aragona, re di Napoli. Il 3 giugno raggiunse Roma dove prese dimora nel Palazzo dei Convertendi, ospite di papa Sisto IV che le riconosce una rendita di 100 fiorini al mese.
Continuò a cercare di rovesciare Caterina Cornaro ispirando la congiura di Marco Venier (1479), comandante della guarnigione di Famagosta, scoperto e giustiziato dai veneziani, fino ad un ultimo fallimentare tentativo di sbarcare a Cipro con il sostegno del sultano d'Egitto fidando in una sollevazione popolare in suo favore (1481).
Ormai rassegnata torna a Roma sul finire del gennaio 1482 dove morirà esule il 16 luglio 1487.
E' sepolta nella cripta di S.Pietro accanto a Cristina di Svezia.

Palazzo dei Convertendi, facciata attuale


Palazzo dei Convertendi (Palazzo Spinola), la residenza romana della regina Carlotta.

 Si trova al numero 34 di via della Conciliazione. L'originale di questo palazzo era nella scomparsa piazza Scossacavalli e sembra sia stato costruito intorno alla seconda metà del XV sec. per la famiglia Spinola, originaria di Genova. Il nome dell'architetto chiamato dagli Spinola e a cui venne affidato il progetto di costruzione del palazzo in piazza Scossacavalli, rimane ignoto. Infatti la generica attribuzione al Bramante non può essere accettata in quanto il maestro urbinate non giunse a Roma se non alla fine del Quattrocento.
Nel 1938 fu demolita la spina di borgo e con essa anche il palazzo dei Convertendi che venne ricostruito sul luogo dove sorgevano altri edifici del quattro e cinquecento, tra i quali il palazzo del Cardinal Soderini. Tale "nuovo plazzo" costituisce un autentico falso architettonico con una costruzione che solo teoricamente risulta identica all'originale. L'unica parte che fu salvata è il triplice portale a bugnato con la loggia sovrapposta creato forse da Baldassarre Peruzzi. Nel seicento a tale edificio fu atribuito il nome Convertendi dall'ospizio che ospitava gli eretici che manifestavano il desiderio di tornare in seno alla Chiesa di Roma, una volta rinnegata la loro eresia. Attualmente è proprietà della Santa Sede e ospita la Sacra Congregazione per le Chiese Orientali.
 
Palazzo dei Convertendi nel 1937 durante lo smantellamento della spina di Borgo

 
la facciata del palazzo su piazza Scossacavalli

Posizione originaria ed attuale del palazzo

 

Testimonianze del soggiorno romano della regina Carlotta
Cerchia di Melozzo da Forlì, Sisto IV riceve Carlotta regina di Cipro
Ospedale di S.Spirito in Sassia, Corsia sistina (sala Baglivi), Roma.

 La regina Carlotta giunse a Roma il 3 giugno 1475 e cinque giorni dopo fu ricevuta formalmente da papa Sisto IV. Il pontefice rimase così favorevolmente impressionato da lei (ab eodem tanta benignitate ac munificentia suscipitur, si legge testualmente nell'iscrizione sottostante l'affresco composta dal Platina) da volere che l'incontro fosse ricordato nel ciclo di affreschi che celebravano il suo pontificato nella corsia dell'Ospedale di S.Spirito in Sassia.
La regina è raffigurata inginocchiata mentre riceve la benedizione papale, nel suo seguito si riconoscono il ciambellano di Cipro Hugo de Langlois ed il futuro cardinale cipriota Ludovico Podocataro.

Guidobaldo Abbatini
 La regina Carlotta inscrive il suo nome nel registro dei membri della Confraternita di S.Spirito

Affresco realizzato da Guidobaldo Abbatini nella sacrestia della chiesa romana di S.Spirito in Sassia. Raffigura la regina Carlotta mentre inscrive il suo nome nel registro dei membri appartenenti alla confraternita di S.Spirito (Liber Fraternitatis). La regina fu ammessa tra i membri della Confraternita il 27 marzo 1478. 
La Confraternita del S.Spirito era stata rifondata nel 1446 da papa Eugenio IV e ne facevano parte tutte le grandi famiglie del clan filobizantino tra cui lo stesso Papa Eugenio IV, i cardinali Capranica, Torquemada e Bessarione, Ludovico Gonzaga e appunto Carlotta di Cipro.

Cosimo Rosselli, Discorso della montagna e guarigione del lebbroso
Cappella Sistina, Roma, 1481-1482.
 
Affresco realizzato da Cosimo Rosselli nella cappella Sistina (contratto firmato nel 1481). La regina è raffigurata tra il pubblico che ascolta il discorso della montagna.
 

La tomba della regina nelle Grotte Vaticane
 
Note:

(1) Sulla pietra tombale del Gran Maestro dell'Ordine di San Giovanni Jaques de Milly- proveniente dalla distrutta chiesa rodiota di San Giovanni Battista in Collachium ed attualmente conservata nel Museo di Cluny – è scolpita un'epigrafe che riferisce l'inumazione nella stessa tomba di un principe della casa di Sabaudia Antiochia del cui nome è nota unicamente l' iniziale "H" e morto all'età di soli quattro mesi nel 1464 (tre anni dopo il GM). La notizia della morte di questo figlio è riportata anche in una lettera della regina Carlotta al marito.  





giovedì 19 aprile 2012

Edifici di epoca veneziana in aree rurali

La chiesa di Agios Mamas nel villaggio di Agios Sozomenos, nei pressi di Potamia

Per raggiungerla: da Nicosia si prende la A1, poi l'uscita per Potamia e si seguono le indicazioni per Agios Sozomenos.


Presenta una pianta a tre navate ed è di difficile datazione.


Gli ornamenti delle porte ovest e sud e le archeggiature richiamano il primo gotico francese (XIII sec) mentre i profili delle basi dei pilastri e dei piedritti e le modanature che inquadrano le porte sembrano piuttosto di epoca veneziana. Tra l'altro non sembra essere mai stata terminata.

lato occidentale

particolare della porta occidentale

L'ipotesi più probabile è che sia stata costruita nel XVI secolo, durante la dominazione veneziana, in uno stile che riecheggiava il gotico dell'età dei Lusignano. E’ praticamente l’unico esempio di chiesa gotica inserita in un contesto rurale presente a Cipro.
Il feudo di Potamia fu acquisito dall'influente famiglia greco cipriota dei Sinclitico nel 1521 e nella parete meridionale spicca l'allestimento di due grandi tombe ad arcosolio decorate con colonne e modanature, il che lascia pensare ad una destinazione della chiesa  a cappella funebre di famiglia.
Il villaggio di Agios Sozomenos, dove si trova la chiesa, è stato definitivamente abbandonato dopo la guerra del 1964.

lato settentrionale


Torre di avvistamento (o posto di blocco) sulla spiaggia di Kiti.


Francesco Priuli, primo governatore veneziano di Cipro, dopo l’abdicazione di Caterina Cornaro (1488) vendette alcuni feudi alle famiglie più abbienti. Quello di Kiti fu ceduto a Ercole Podocataro, che assunse il titolo di barone di Kiti (La Quaid).
La torre presenta proporzioni quadrate, un machicolio sprovvisto di decorazioni che ne circonda la sommità e una forte inclinazione del muro nella parte inferiore e assomiglia alle torri di avvistamento costruite in questo periodo lungo le coste del regno di Napoli. L’unico ingresso è la porta che introduce al piano superiore. All’interno della torre una scala lungo il muro ovest conduce al tetto. Sotto il pianoterra si trova un’ampia cisterna voltata a botte. La parte inferiore, le cui pietre erano state ampiamente asportate è stata restaurata nel 1911.


Il listello sopra la porta è diviso in tre settori: al centro è scolpito il leone di S.Marco che impugna la spada, a destra uno scudo con una banda che corre da sinistra a destra e a sinistra uno scudo con un bucranio e tre mezzelune.





sabato 8 ottobre 2011

Famagosta, l'assedio

Assedio di Famagosta (22 settembre 1570 – 4 agosto 1571)

Il morbo infuria, il pan ci manca
sul ponte sventola bandiera bianca
(A.Fusinato, L'ultima ora di Venezia)

cerchia di Alessandro Vittoria (1525-1608), Busto di Marcantonio Bragadin
chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, Venezia, XVI secolo.

Comandanti veneziani:

Marcantonio Bragadin, Capitano generale di Famagosta.
Astorre Baglioni, comandante militare della piazza di Famagosta.
Alvise Martinengo, comanda la difesa del Rivellino.
Piero di Mont’Alberto, comanda il forte Moratto.
Lorenzo Tiepolo, Capitano di Paphos.

11 settembre 1570 Mustafa Lala Pascià*, comandante delle forze ottomane, fa recapitare a Bragadin la testa di Niccolò Dandolo, luogotenente di Nicosia, insieme ad una richiesta di resa.
22 settembre 1570 il blocco di Famagosta è completo**.
26 settembre cominciano i bombardamenti.
6 ottobre La contessa Amalda da Rocas dà fuoco alla santabarbara della nave che doveva condurla schiava a Costantinopoli insieme ad altre donne catturate a Nicosia. Secondo altra versione questo episodio è attribuito a una nobildonna veneziana di nome Belisandra Maraviglia, vedova di Pietro Albini, il cancelliere di Cipro, ucciso durante l'assedio e sorella di Giovanni, segretario del Senato veneziano.

Sala degli imperatori, Palazzo Regazzoni, Sacile, XVI secolo.


L'affresco appartiene forse alla scuola di Paolo Veronese (1528-1588), poiché i colori usati sono luminosi ed ariosi, privi di timbri scuri e di scontri cromatici.
Una sfera coinvolge la parte finale del timpano e una parte del comparto sovrastante, nascondendo, così, una frazione importante degli eventi narrati.
Sappiamo con certezza che si tratta dei momenti precedenti l'esplosione della santabarbara della nave ottomana. A sinistra un paio di soldati guardano preoccupati verso il fuoco e intorno al fuoco le donne, tra cui una vista di schiena con le braccia allargate, sono una presenza inquietante.
Nello spazio intorno alla sfera viene narrata la ribellione e la tragica fine delle donne di Nicosia.
 I Turchi, dopo la resa della città, si abbandonarono a saccheggi e violenze di ogni tipo, catturarono le donne e le caricarono su tre navi per venderle nei mercati orientali. Tutte le donne, nobili e popolane, di comune accordo, decisero di provocare un incendio in prossimità del deposito delle munizioni e di far esplodere le navi piuttosto che condurre il resto della propria esistenza in schiavitù.
Le tre navi furono distrutte e tutte le donne perirono assieme ai loro aguzzini.

7 ottobre Arrivo di una fregata al comando di Fassidonio Candioto con notizie della flotta.
24 gennaio una flottiglia di 13 galee e 4 navi da trasporto al comando di Marco Querini forza il blocco e sbarca 1700 uomini e 150 cannoni, viveri e munizioni al comando del capitano Alvise Martinengo. Querini consegna a Bragadin anche alcuni prigionieri turchi catturati sulla via del pellegrinaggio alla Mecca.
Fortemente irritato da questo episodio, il sultano Selim II rimuove l'ammiraglio Piyale Pascià dal comando della flotta e lo sostituisce con Müezzinzade Alì Pascià.
19 maggio comincia il cannoneggiamento praticamente ininterrotto che durerà 72 giorni.
22 maggio Arrivo di una fregata (probabilmente sempre al comando di Fassidonio). Il Bragadin invia una disperata richiesta di aiuto.
21 giugno una mina apre una breccia nel bastione dell’Arsenale (Dijambulat). Sei assalti generali in cinque ore vengono ricacciati.
22 giugno Arrivo di una fregata che annuncia il prossimo arrivo di soccorsi.
29 giugno una mina apre un’altra breccia nel Rivellino. In sette ore i difensori respingono sei assalti generali.
9 luglio il capitano Roberto Malvezzi, per fermare l’assalto dei turchi, dà fuoco alla santabarbara del Rivellino. Con lui saltano in aria 300 fanti veneziani.
14 luglio nuovo furioso assalto al Rivellino. Baglioni ne fà saltare il fianco sinistro che era ancora in piedi e vi seppellisce i turchi.
17 luglio Ordine del Bragadin di murare le porte.
19 luglio ultimo rapporto del Bragadin al governo della Repubblica, trasmesso da una fregata inviata a Candia.
29-31 luglio attacco generale che dura ininterrotto per 48 ore. La sera del 31 una mina fa saltare il bastione dell’Arsenale, muore anche il figlio di Mustafà Lala (Siliato).
1 agosto viene inviata dai turchi la proposta di pace
4 agosto Baglioni firma la capitolazione e i turchi entrano in città.

* "Lala" in turco significa guardiano. Il vizir portava questo soprannome perchè era stato il tutore del sultano Selim II (1566-1574).
** In realtà i turchi non riuscirono mai a bloccare del tutto il porto. Navi veneziane vi entrarono e uscirono praticamente fino alla fine.

Bisante in rame fatto coniare a Famagosta da Bragadin durante l'assedio. Sul rovescio è inciso il motto: "Venetoru(m) Fides Inviolabilis" 


Famagosta è difesa da settemila uomini e da 500 bocche da fuoco. Le fortificazioni, opera del celebre architetto Girolamo Sammicheli (1550-1559), sono frutto delle più avanzate concezioni belliche (cfr. la voce Famagosta).
Per spaventare i difensori Mustafà Pascià invia a Famagosta, racchiusa in una cesta, la testa del governatore di Nicosia, Niccolò Dandolo. Ma il Capitano Generale di Famagosta, Marcantonio Bragadin, di antico e nobile casato veneziano, non s’impressiona, respinge ogni intimazione di resa e dà tutte le disposizioni necessarie per quella lunga ed eroica resistenza “che resterà sempre monumento di gloria negli annali militari”. Bragadin ed i suoi uomini sono convinti che Venezia non li lascerà in balia del turco e che, prima o poi, arriveranno i sospirati e promessi soccorsi.

  Un esercito di 200 mila uomini l’assedia per via terra, una flotta di 150 navi per via mare. I turchi hanno completato l’accerchiamento della città fino ad un tiro di cannone. Sulle alture circostanti millecinquecento cannoni ed alcuni obici giganteschi tengono sotto il loro micidiale tiro sia la fortezza che i quartieri cittadini; invano i veneziani cercano di salvare i piu’ importanti monumenti e le chiese, ricorrendo a “travate di sostegno e cumuli di sacchetti di sabbia”: tutto crolla o brucia irrimediabilmente e la popolazione, terrorizzata, si rifugia nella fortezza aggravando la già precaria situazione dei combattenti. Tra gravi privazioni e sofferenze - scarseggiano viveri e munizioni - passa così l’inverno 1570.


Stefano Gibellino, L'assedio di Famagosta, 1571
Biblioteca Nazionale Francese, Parigi

   Nella primavera del 1571 Mustafà Pascià, che fino ad allora si è  illuso di far cadere Famagosta per fame, decide di passare all’offensiva.
All’alba del 19 maggio i millecinquecento cannoni turchi scatenano un bombardamento di potenza inaudita che si prolunga senza soste, notte e giorno, per millesettecentoventotto ore, sino alla fine della battaglia, con una tattica di demolizione sistematica delle postazioni difensive e di debilitazione psicofisica degli avversari. Ma poichè non bastano a piegare Famagosta le 170 mila cannonate sparate durante la battaglia, Mustafà Pascià passa alla “guerra delle mine”, con un impiego di esplosivo talmente grande per quantità e potenza da risultare senza precedenti.
I turchi scavano nottetempo lunghissimi cunicoli sotto il fossato e raggiungono così le fondamenta dei forti, minandole con forti cariche di esplosivo. Vasti tratti di postazioni saltano improvvisamente per aria sotto i piedi dei veneziani, mentre i turchi attaccano selvaggiamente a più ondate.
  L’8 luglio cadono su Famagosta 5 mila cannonate: è il preludio ad un ennesimo attacco generale che l’indomani si scatena, più massiccio che mai, contro il forte del Rivellino. Per arrestare i turchi, Bragadin non esita a dar fuoco alle polveri ammassate nei sotterranei della piazzaforte, sacrificando trecento soldati veneziani ed il loro comandante, Roberto Malvezzi. Con loro sotto le macerie del forte rimangono sepolti migliaia di ottomani.
  A difendere Famagosta sono rimasti ormai solo duemila uomini, in gran parte feriti, debilitati dalla fame e dalle fatiche. Da tempo, esaurite le vettovaglie, militari e civili ricevono come razione giornaliera un po’ di pane raffermo ed acqua torbida con qualche goccia di aceto. La situazione è disperata, anche se finalmente la Santa Lega contro il turco è stata sottoscritta, il 20 maggio, da tutti gli Stati interessati. Ma la flotta spagnola arriverà a Messina, dove già si sono date appuntamento le altre navi alleate, solo alla fine di agosto, quando ormai Famagosta è costretta a capitolare.
Il 29 luglio i difensori respingono un’altra terribile offensiva del nemico: decine di migliaia di turchi si alternano all’attacco che continua ininterrotto per oltre 48 ore, fino alla sera del 31, quando salta in aria il forte dell’Arsenale.
Per la prima volta, dopo 72 giorni, i cannoni ottomani finalmente tacciono; centinaia e centinaia di turchi giacciono sul campo di battaglia e sotto le mura della fortezza. Tra gli altri, lo stesso figlio primogenito di Mustafà Pascià. Questi, ignorando le misere condizioni degli assediati e preoccupato per le gravi perdite subite, offre ai veneziani patti insolitamente generosi ed onorevoli: se si arrendono, tutti avranno salvi vita ed averi, la popolazione sarà rispettata, chi lo chiederà sarà trasportato in un paese neutrale, onori militari per i vinti.


Anonimo veneto-greco, La resa di Famagosta (?), seconda metà XVI sec.
Museo civico di Castelfranco veneto 

   Marcantonio Bragadin non vuole nemmeno ricevere il messaggero turco e, presagendo quanto sarebbe accaduto in caso di resa, respinge sdegnosamente l’offerta. Ma la maggior parte degli ufficiali, dei soldati, la stessa popolazione invocano la fine di una lotta troppo impari. Famagosta, abbandonata dalla madrepatria, non ha più alcuna speranza di salvezza: bisogna almeno salvare la vita ai superstiti e salvaguardare la popolazione civile. I rappresentanti dei cittadini (Mathias Solphios, capo del Consiglio cittadino), il Vescovo (?), i magistrati, appositamente convocati, optano tutti per la resa. Tanto più che al primo di agosto rimangono solo munizioni per una giornata di fuoco, mentre i difensori ancora validi sono ridotti a settecento (in media uno ogni 50-60 metri del perimetro difensivo).
La capitolazione sarà comunque firmata solo dal generale Astorre Baglioni.
Così il 4 agosto, dopo dieci mesi di assedio, i turchi possono entrare a Famagosta.
 
   Come Bragadin, che non volle firmare l’atto di resa, aveva previsto, i turchi non rispettano i patti. Mustafà Pascià, esasperato per la morte del figlio e dalla mancata espugnazione di Famagosta, soprattutto dopo aver accertato l’esiguità numerica dei veneziani, fa massacrare a tradimento tutti gli ufficiali e deportare come schiavi i soldati.
Marcantonio Bragadin viene scuoiato vivo dopo tredici giorni di atroci torture: “... e lentamente staccarono dal suo corpo vivo la pelle, spogliandola in un sol pezzo, a cominciare dalla nuca e dalla schiena, e poi il volto, le braccia, il torace e tutto il resto ...”.
La pelle riempita di paglia è esposta a guisa di trofeo sull’antenna più alta della nave di Mustafà Pascià.
I turchi lasciarono sotto le mura di Famagosta ben 80 mila uomini, quanti all’inizio avevano destinato alla conquista dell’intera Cipro; i veneziani circa seimila.

Secondo la versione turca, il massacro sarebbe dovuto alle risposte sprezzanti del Bragadin, che avrebbe prima negato a Mustafà Pascià di trattenere Antonio Querini come ostaggio a garanzia delle navi su cui i veneziani si sarebbero imbarcati, e quindi avrebbe tranquillamente confessato di aver fatto giustiziare (forse la notte stessa della resa) i prigionieri musulmani (alcuni dei quali catturati sulla via del pellegrinaggio). La supposta cupidigia omosessuale di Mustafà Pascià nei confronti di Querini è avanzata per la  prima volta dalla Renier Michiel (Origine delle feste veneziane, 1817)


Fonti dirette della cronaca dell’assedio:
  1. Nestore Martinengo, Relatione di tutto il successo in Famagosta, Venezia 1572. Giunto a Famagosta come volontario con il convoglio del Querini. La notte del 5 agosto riesce a nascondersi a casa di un greco. Successivamente si consegna ad un ufficiale turco che lo fa schiavo. Riesce miracolosamente a fuggire e dopo varie peripezie è il primo reduce a fare rientro in patria. Scrive la sua relazione su incarico del Senato della Repubblica.
  1. Angelo Gatto da Orvieto. Soldato di ventura fedelissimo di Astorre Baglioni insieme a cui giunge a Cipro nel 1569. E' a Famagosta dalla metà dell' agosto 1570; il 5 luglio 1571 viene promosso capitano e posto al comando di una compagnia. Dopo la resa viene fatto schiavo e condotto a Costantinopoli. Nel 1573 scrive una relazione dell'assedio e della sorte dei prigionieri con l'intento di farla pervenire ad Adriano Baglioni, fratello del suo comandante, per sollecitarne l'aiuto. Una copia del manoscritto viene ritrovata sul finire del XIX secolo dal sacerdote orvietano Policarpo Catizzani che ne cura la pubblicazione con il titolo: Narratione del terribile assedio e della resa di Famagosta nell'anno 1571 da un manoscritto del capitano Angelo Gatto da Orvieto, Orvieto 1895.
  1. Frate Agostino. Priore dei frati eremitani del convento di S.Antonio durante l'assedio. Probabilmente di origine greca. La sua relazione - come recita il finale del documento stesso - fu letta in Senato il 12 febbraio 1572 (probabilmente dallo stesso autore) e data alle stampe nel 1891 da Nicolò Morosini, che l'aveva ritrovata nell'archivio di famiglia.
  1. Ufficiale anonimo. E’ il diario di un soldato (capitano o ufficiale) di cui non si sa praticamente nulla, neppure se riuscì mai a tornare dalla prigionia. Pubblicato a Venezia nel 1879 da Leonardo Antonio Visinoni.
  1. Alessandro Podocataro. Nobile cipriota, giunge a Famagosta con 300 soldati reclutati nel suo feudo insieme al padre e al fratello, che muoiono sugli spalti. Fatto schiavo nonostante che condotto dinanzi al Bragadin questi testimoni la sua grecità, paga il riscatto e dopo circa un mese di galera ripara a Venezia. Nel romanzo della Siliato è probabilmente indicato come segretario del governatore. I Podocataro erano stati fatti baroni di Kiti dopo l’abdicazione di Caterina Cornaro. Il suo manoscritto fu pubblicato a Venezia nel 1876 con il titolo: Relatione de' successi di Famagosta dell'anno 1571 ora per la prima volta pubblicata. Per le auspicatissime nozze: Bonomi-Bragadin.
  1. Matteo da Capua. Capitano addetto ai fuochi artificiati. Lettera a Marcantonio Barbaro, bailo di Venezia, inviata dalla prigione di Costantinopoli in data 28 ottobre 1571 perché interceda per la  liberazione sua e degli altri prigionieri (Biblioteca Marciana, Mss. italiani, Cl.7, n.391).
Bibliografia:

Maria Grazia Siliato, L'Assedio, Mondadori, Milano 1995.
Gigi Monello, Accadde a Famagosta, Scepsi & Mattana, Cagliari 2006



Famagosta

Famagosta (in greco Ammochostos che significa "nascosta nella sabbia")

Pianta della città all'epoca dell'assedio


Le fortificazioni di Famagosta, opera del celebre architetto Girolamo Sammicheli (1550-1559), erano all'epoca dell'assedio frutto delle più avanzate concezioni belliche: la cinta rettangolare delle mura, lunga quasi quattro chilometri e rafforzata ai vertici da possenti baluardi, è intervallata da dieci torrioni e coronata da terrapieni larghi fino a trenta metri. Alle spalle le mura sono sovrastate da una decina di forti, detti “cavalieri” (*), che dominano il mare e tutta la campagna circostante, mentre all’esterno sono circondate da un profondo fossato. La principale direttrice d’attacco era difesa dall’imponente massiccio del forte Andruzzi, davanti al quale si protende, più basso, il bastione del Rivellino.

(*) I forti "cavalieri" erano così detti perché, sopraelevati rispetto alla linea degli spalti, le loro artiglierie potevano sparare "a cavallo" delle mura. Per solito vi venivano dislocate le batterie di grosso calibro. 


Modello della città presso il Museo Navale di Venezia




 

Porta di terra (porta di Limassol): si apre sul fianco del Bastione Rivellino detto dai turchi Akkule (Ak=bianca, kule=bastione) perché qui i veneziani issarono la bandiera bianca. E’ sopravanzata da un barbacane (muro con feritoie posto davanti alla porta vera e propria) e sormontata dal massiccio del Forte Andruzzi. Le feritoie che si vedono al di sopra della porta erano gli alloggiamenti dove scorrevano le catene della saracinesca e del ponte levatoio.


Nuovo ingresso alla città: il ponte di accesso venne costruito dopo la caduta della città. Sulla sinistra, dietro l'albero, si nota il barbacane e sopra di questo la sagoma squadrata del Forte Andruzzi.



Forte Andruzzi: androne che dà sulla galleria d’accesso. All’interno, sorpassata la cancellata e sulla sinistra forse i resti dell’affresco davanti al quale era posto un altare.
All’esterno, sulla sinistra e addossata alle mura si nota la moschea Akkule, costruita dai turchi nel 1618-19, come dalla data posta sull’iscrizione coranica scolpita sulla lastra di marmo incassata sopra la porta.

rampa d'accesso alla terrazza del Forte Andruzzi


Torrione Diocare

Bastione Martinengo: dal nome del conte Ercole Martinengo, secondo la Siliato (L'Assedio, Milano 1997) così chiamato invece dai turchi in riferimento al colonnello Alvise Martinengo, è l’elemento più caratteristico della ristrutturazione del Sanmicheli che aveva protetto le punte angolari del bastione inserendovi delle postazioni d’artiglieria che spazzavano il fossato. Possente e imprendibile non fu praticamente attaccato dai turchi.



Bastione dell’Arsenale: rinominato dai turchi bastione Diamboulat dal nome dal generale - Djamboulat Bey - che lo conquistò e che qui è sepolto. Gli ottomani avevano piazzato qui di fronte gran parte delle artiglierie e per questo molte chiese all’interno mostrano i danneggiamenti soprattutto sul lato rivolto in questa direzione.


Porta del mare: in epoca veneziana era lambita direttamente dalle acque. Il leone sopra la porta è materiale di recupero proveniente probabilmente da una porta medioevale. Un’iscrizione ne data il rifacimento al 1496, attribuendolo a Nicola Priuli, capitano di Famagosta.



Cittadella (Torre di Otello):
nell’opera di Shakespeare si parla effettivamente di ‘un porto di Cipro’ e di ‘Cipro, la cittadella’. Si è ipotizzato che potesse trattarsi di Cristoforo Moro, governatore di Cipro nel XVI sec o di Francesco de Sessa, mercenario italiano vissuto a Cipro e soprannominato ‘il Moro’. Otello è anche il nome del governatore veneziano del 1506.


La cittadella è di epoca lusignana - fu fatta costruire assieme alla precedente cinta muraria da Enrico II, subito dopo la caduta di Acri, nel 1291 - ma fu ampiamente ristrutturata dal Sammicheli intorno al 1559.
Nel corso dell'assedio vi furono rinchiusi i prigionieri turchi.



Sulla porta che introduce alla cittadella c’è un leone di S.Marco di marmo e al di sotto un’iscrizione che attribuisce il rifacimento della stessa a Niccolò Foscari, prefetto di Cipro, nel 1480. Da notare che il leone marciano - come spesso avviene a Cipro - è coronato, a significare che l'isola, anche quando fu inglobata nello Stato da Mar veneziano, mantenne il suo status di regno.  



Sul lato settentrionale della corte interna si aprono gli ingressi al grande refettorio, al di sopra del quale si trovavano gli alloggi. Questo edificio risale all'epoca dei Lusignano.



Torre SO: di regola i veneziani, per adattare le fortificazioni preesistenti alle necessità dell’artiglieria, non distruggevano le antiche mura – già sufficientemente spesse – ma rimpiazzavano le torri quadrate con torri circolari, meno vulnerabili al fuoco di artiglieria e aprivano bocche per i cannoni.

Edifici civili


 Palazzo del provveditore: si trova di fronte alla cattedrale di San Nicola ed è impropriamente detto tale. In realtà dal 1489 fino alla conquista turca fu infatti sede del capitano di Cipro. Sulla facciata si aprono tre archi sostenuti da 4 colonne di granito di recupero che introducevano alla loggia. Al di sopra dell’arco centrale le armi di Giovanni Renier, capitano di Cipro nel 1552 e provveditore nel 1557. Sorge al posto del più antico palazzo dei Lusignano, dove avvennero i tragici fatti che seguirono l'incoronazione di Pietro II (1369), poi il palazzo fu distrutto da un terremoto. Le colonne di granito grigio che adornano la facciata provengono dalle rovine di Salamis.



 Le due colonne - anche queste provenienti dalle rovine di Salamis - erette dai veneziani nella piazza principale a simboleggiare la loro sovranità, erano sormontate da leoni di pietra. Su quella di destra fu torturato Marcantonio Bragadin.


Questo leone - di fattura ellenistica e proveniente dalla necropoli di Salamis - che si trova attualmente nei pressi della porta del mare, potrebbe essere uno dei due che si trovavano alla sommità delle colonne. E' però più probabile che, assieme ad un altro di dimensioni più piccole oggi collocato tra i resti del Palazzo del Provveditore di Famagosta, fosse stato collocato durante la dominazione veneziana sulla banchina del molo a guardia della Porta da Mar accentuandone la monumentalizzazione (cfr. R.F Gunnis, Historic Cyprus. A Guide to its Towns and Villages, Monasteries and Castles, London, 1936).


Porta di Biddulph: dal nome di Sir Robert Biddulph, alto commissario per Cipro nel 1879 che si battè per salvare questo monumento. Imita l'arco di trionfo romano e probabilmente costituiva l'ingresso della dimora di un ricco mercante (o di quella di Audet de Bousset? cfr. M.G. Siliato, op cit.).



Sepolcro di Venere: sarcofago di epoca romana (II sec.) rinvenuto a Salamis nel XVI sec. e posto dai veneziani tra le due colonne della piazza principale, vicino alla quale, dopo varie traversie è recentemente ritornato.


mercoledì 5 ottobre 2011

Nicosia

Nicosia


La cinta muraria fu ridisegnata dall'architetto militare Giulio Savorgnano nel 1567 - sotto il provveditore Francesco Barbaro - su quella fatta edificare da Pietro II (1369-1382). La nuova cinta misurava tre miglia - il Savorgnano aveva infatti ristretto il vecchio perimetro difensivo - ed era rafforzata da 11 bastioni a forma di punta di freccia ma non fu completata dal Savorgnano bensì da Niccolò Dandolo. Consapevole della potenza dell'artiglieria ottomana, l'architetto veneziano progettò delle mura basse e fortemente scarpate, la cui parte superiore era costruita in terra battuta e mattoni di fango proprio al fine di meglio assorbire i colpi di cannone.

I bastioni portano i nomi di alcuni dei principali ufficiali veneziani (Mula, Querini, Barbaro, Loredano), o quelli dei nobili che hanno acconsentito a finanziare e organizzare i lavori (Flatro, Carafa, Podocataro, Costanzo, Davila, Tripoli, Rocas).


L'assedio


Durante la guerra con i turchi era sotto il comando del luogotenente generale di Cipro, Niccolò Dandolo e del capitano cipriota, Eugenio Sinclitico, conte di Rocas.

Il 25 luglio del 1570 l’esercito ottomano pone l’assedio alla città. Le artiglierie battono i bastioni Podocataro, Costanza, Davila e Tripoli, sul versante meridionale della cinta difensiva.
Il 5 agosto Mustafa Lala lancia il primo assalto alle mura. Soltanto il provvidenziale intervento del contingente al comando del capitano Paolo dal Guasto consente ai difensori di respingere i turchi dal bastione Costanzo sul punto di cadere.
La notte del 10 agosto, contravvenendo alle disposizioni di Dandolo che aveva proibito le sortite, trecento uomini escono dal bastione Davila e gettano lo scompiglio tra le trincee ottomane.
Il 17 agosto, nell'ora più calda della giornata, mille uomini escono dalla Porta di Famagosta e, cogliendo i turchi impreparati, s'impossessano di due batterie. Il governatore, informato di quanto stava accadendo, impedisce alla cavalleria stradiotta di unirsi all'attacco e da ordine di chiudere la porta. Abbandonati al proprio destino gli incursori, contrattaccati dai turchi, subiscono molte perdite (circa cento uomini) tra cui il capitano Cesare Tiene (ucciso) ed il conte Alberto Scotto (catturato) che avevano guidato la sortita, ma riescono comunque a rientrare in città. Non ci saranno altre sortite fino alla caduta di Nicosia.
Il 9 settembre Mustafa Lala sferra l’attacco generale, il colonnello Francesco Palazzo, nominato in maggio vicegovernatore della città, muore nel tentativo di respingere i turchi dal bastione Podocataro, perso per la cattiva sorveglianza del conte da Rocas che cade nella mischia.

Bastione Podocataro

I turchi, ormai all'interno della cinta muraria, prendono prima il bastione Costanza e poi il bastione Tripoli dove s’impossessano di tre pezzi d’artiglieria che rivolgono verso la città. Viene sfondata la Porta di Famagosta attraverso la quale la cavalleria ottomana penetra in città uccidendo chiunque gli si para davanti. 
Nel massacro finale vengono uccisi anche il governatore Dandolo e Francesco Contarini, vescovo di Paphos.

Nella cinta muraria si aprivano tre porte di accesso alla città.


Porta di Famagosta 

Costruita tra il 1567 e il 1570. Consiste in un ampio passaggio voltato a botte che attraversa il bastione Carafa ed al cui centro si alza una cupola sferica, aperta al suo vertice da un forame circolare che consente l'illuminazione dell'interno. Sulla muratura esterna si notano le armi del doge Pietro Loredan (1567-1570). E’ detta anche Porta giuliana o Julia in onore dell’architetto Giulio Savorgnano.

 
Porta di Kyrenia
 
Costruita dai veneziani e nota come Porta del Provveditore. Fu restaurata dai turchi nel 1821 che vi aggiunsero l’edificio quadrato che la sormonta.


Durante questi lavori venne rinvenuta l’iscrizione che fa risalire la costruzione della porta al 1562, oggi visibile al di sopra dell’architrave. Oltre a questa iscrizione si notano quella Giorgio V 1931, data in cui gli inglesi tagliarono le mura accanto alla porta per aprirvi delle strade e un’iscrizione coranica.

Porta di Paphos
Era uno dei tre ingressi alla città nelle mura costruite dai Veneziani nel 1567. La strada, che inizia appena fuori dalla Porta, conduceva a sudovest della città di Pafos, da cui prende, appunto, il nome. Era anche nota come Porta di San Domenico o Porta dei domenicani, in quanto sostituiva un’omonima porta delle mura franche, situata nei pressi dell’Abbazia di San Domenico. La porta consiste semplicemente in un’apertura nel muro, ricoperta da un tetto con volta a botte.


Durante l’occupazione britannica, nel 1878, un tratto delle mura tra la Porta ed il Bastione Rocas, fu demolito per creare una nuova apertura. La Stazione di Polizia della Porta di Pafos si trova proprio sopra la porta originaria.

Kastelliotissa

L'edificio in stile gotico coperto da volte a crociera e noto come kastelliotissa sorge nell'area antistante alla porta di Paphos ed è probabilmente tutto ciò che rimane del primo palazzo reale dei Lusignano, andato in disuso dopo il saccheggio dei mamelucchi (1426) e definitivamente demolito dai veneziani durante i lavori di fortificazione del 1567 (insieme ad esso venne distrutto anche il contiguo complesso religioso di S.Domenico che fungeva da cappella palatina ed ospitava le tombe dei regnanti). Possiamo solo immaginarlo sulla base della rappresentazione riprodotta su alcune monete dei primi re Lusignano, dove compare una fortezza con torri angolari non dissimile dal duecentesco castello di Kyrenia.
Rientrato in patria dopo undici mesi di prigionia (maggio 1427), il re Janus, a causa dei danni riportati dal Palazzo dei Lusignano durante il saccheggio, decise di trasferire la residenza reale nella tenuta che era appartenuta al cavaliere Ugo de la Baume e che occupava la parte sudoccidentale dell'attuale piazza Ataturk.
Il nuovo palazzo, con alcune modifiche, rimase in uso come residenza reale fino alla caduta dei Lusignano (1489). Durante il dominio veneziano divenne sede del governatore di Nicosia, funzione che mantenne anche durante l'occupazione ottomana. Venne infine demolito dagli inglesi nel 1905.


Questa fotografia, realizzata prima del 1905, mostra il lato interno della torre in cui si apriva la porta d'ingresso alla residenza.


La finestra tetrafora che si vede al di sopra della porta – splendido esempio di gotico flamboyant – venne smontata e successivamente riassemblata (1926) nella parete di fronte all'ingresso del Museo del Lapidarium dove ancora si trova.

Piazza Ataturk
Colonna veneziana
 
Al centro della piazza si erge la colonna veneziana. 
I veneziani erano soliti erigere due colonne (o una colonna e un pennone) per ribadire la propria sovranità. Qui venivano affissi gli editti governativi e avvenivano le esecuzioni dei criminali politici. La colonna di Nicosia fu eretta probabilmente durante il regno del doge Francesco Donà delle Rose (1545-1553).
E’ di granito grigio e proviene probabilmente da un tempio romano. Notevole il capitello (versione con abaco esagonale dell’ordine dorico). Il globo d’argento è un’aggiunta britannica, in epoca veneziana la colonna culminava ovviamente con il leone di San Marco (1). A pianta esagonale anche il basamento e i tre gradini. Le sei faccie del basamento recano altrettante armi dogali tra cui quelle dei Donà delle rose e dei Contarini.
Vi si legge anche il motto:

FIDES INCORRUPTA NON PULCHRITUDO NON HUJUS UBERTAS SPECETUR INCOLAR
(non la bellezza, non la ricchezza ma la fede incorruttibile di questi abitanti bisogna guardare)

che richiama il Fides inviolabilis fatto incidere dal Bragadin sulle monete durante l’assedio di Famagosta.
Nella stessa piazza si trova anche un palchetto in pietra che  presenta due leoni rampanti che sostengono le armi dei Lusignano sormontate dal leone di Venezia.

 

Buyuk Hamam (Grande bagno)
 
Questo edificio, che si trova nei pressi di piazza Ataturk, venne erroneamente identificato da Mas Matrie ed Enlart con la scomparsa chiesa del XIV sec. di San Giorgio dei Greci. Per quanto somigli apparentemente ad una chiesa di epoca medievale non ne ha infatti l'orientamento est ovest, né all'interno presenta alcuna caratteristica dell'architettura ecclestica. L'unico elemento che la richiama rimane dunque il portale d'ingresso che risulta dall'assemblaggio approssimativo di elementi di reimpiego. In particolare la cornice che lo sormonta, finemente intagliata con un curioso motivo di fogliame e uccelli intrecciati, è molto simile a quella del portale occidentale del monastero della Panagia Acheropoietos di Lapithos che risale al 1563.


 All'interno del portale si aprono lateralmente due nicchie in stile turco ma su questo lato dell'edificio è stato addossata successivamente alla sua costruzione una seconda muratura incredibilmente spessa nel cui ambito si ritrovano frammenti scultorei del XVI sec.
In conseguenza dell'innalzamento del piano stradale l'edificio appare oggi interrato di circa un metro e mezzo. E' comunque vero che non somiglia molto agli hamam costruiti dai turchi. In conclusione l'edificio potrebbe aver avuto la funzione di bagno pubblico già in un'epoca precedente alla conquista turca o essere stato costruito sulle rovine di una chiesa preesistente, come sembrerebbe indicare il rinvenimento, nel corso di una ripulitura del pavimento nel 1890 di una lastra sepolcrale, purtroppo successivamente trafugata. 
Palazzo dell’Arcivescovo

Situato di fronte all’ingresso nord di S.Sofia, qui ne è inquadrata la porta carraia. Dal 1456 al 1459 vi risiedette Giacomo II di Lusignano, nella sua qualità di arcivescovo di Nicosia che lo fortificò.
In alto a destra stemma dei Donà delle rose.
 
Note:

(1) La colonna venne abbattuta dai turchi nel 1570 e riposta nel cortile della moschea Sarayonu. Fu rialzata nel 1915 dagli inglesi che rimpiazzarono il leone di san Marco con il globo d'argento.


Le chiese di Santa Sofia e Santa Caterina sono trattate nelle seguenti schede:
 
Chiesa di Santa Sofia
 
Chiesa di S.Caterina