Visualizzazioni totali

mercoledì 31 agosto 2016

Castello di Chlemoutsi (Clermont)

Castello di Chlemoutsi (Clermont)

Apertura: 8.000-15.00, chiuso il lunedì


Fu fatto edificare da Goffredo I di Villehardouin tra il 1220 ed il 1223 a conclusione di un contenzioso che lo aveva contrapposto al clero. Il clero era proprietario di circa un terzo delle terre del Principato d'Acaia ma era esentato dal servizio militare, quindi il principe chiese loro di aumentare le donazioni a favore delle spese per la difesa. Al rifiuto del clero, il principe rispose confiscando i beni della chiesa e con questi fondi diede inizio alla costruzione della fortezza.
Il nome di Clermont deriva probabilmente dalla corruzione del locale Chlemoutsi mentre nelle fonti italiane, a partire dal XV secolo compare come Castel Tornese, probabilmente confondendo la collocazione della zecca del principato che si trovava invece nella vicina Clarentza.
Il castello fu eretto sulla collina di Chelonata in una posizione strategica da cui controllava sia la città di Clarentza, il principale porto commerciale del Principato, che quella di Andravida, sede del potere amministrativo.
A dispetto del ruolo strategico della sua posizione e della sua imponenza non fu mai oggetto di importanti operazioni militari e svolse prevalentemente la funzione di prigione per detenuti di alto lignaggio come il generale bizantino Alessio Philes che, catturato dopo la battaglia di Makryplagi (1263), vi morì poco dopo esservi stato rinchiuso.
Alla morte di Guglielmo II Villehardouin (1278), in forza del trattato siglato a Viterbo nel 1267 tra l'imperatore latino di Costantinopoli Baldovino II e Carlo d'Angiò, il Principato passò sotto il controllo angioino ma il castello di Clermont rimase come lascito ereditario, insieme alla baronia di Kalamata, alla vedova Anna (Agnese) Angelina Comnena d'Epiro, terza moglie di Guglielmo II e figlia del despota epirota Michele II.
Nel 1280 Anna si risposò con il barone Nicola II di Saint Homer, signore della metà di Tebe, e l'anno successivo fu raggiunto un accordo con gli angioni in base al quale il castello passò sotto il loro controllo. Negli anni '90 vi fu detenuto come ostaggio il futuro despota d'Epiro Tommaso I Ducas Comneno.
Nel 1314 vi fu imprigionata Margherita di Villehardouin, figlia di Guglielmo II Villehardouin e Anna Angelina Comnena, che rivendicava i suoi diritti sul principato e che vi morì l'anno seguente. Nel giugno del 1315 il castello fu conquistato da suo genero Ferdinando di Majorca prima di essere sconfitto e ucciso nella battaglia di Manolada (5 luglio 1316) da Luigi di Borgogna, secondo marito di Matilde d'Hainault - figlia di Florent d'Hainault e della figlia maggiore di Guglielmo II Villehardouin, Isabella - che reclamava anch'egli il diritto alla successione.
Nel 1418 il castello passò sotto il controllo del despota epirota Carlo I Tocco e nel 1428 fu ceduto all'allora despota di Morea Costantino Dragaze come parte della dote nuziale di Maddalena Tocco.
Nel 1446 Tommaso Paleologo vi fece rinchiudere il figlio illegittimo di Centurione II – Giovanni Asen Zaccaria – che reclamava il titolo del padre e che riuscì a evadere nel 1453 ponendosi a capo di una rivolta.
Con la conquista ottomana (1460) il castello perse la sua importanza strategica.
Rimasto in mano ai veneziani al termine della guerra di Morea (1699), nel 1701 il provveditore generale di Morea, Francesco Grimani, ne propose lo smantellamento perchè troppo lontano dal mare.
Nel 1825 parte delle mura furono bombardate dalle artiglierie di Ibrahim Pascià per impedire agli insorti greci di utilizzarlo.
Rispetto alla conformazione originale, nel corso del tempo, le uniche trasformazioni furono realizzate dagli ottomani, principalmente per adeguare le difese al fuoco d'artiglieria.

Il cuore del castello presenta la forma di un esagono irregolare a cui si addossa sul lato occidentale, dove il pendio è meno scosceso, un'opera poligonale, le cui mura abbracciano un'ampia corte centrale.
L'ingresso principale alla cinta esterna si trovava originariamente al termine di un recesso del muro di NO sbarrato da una saracinesca. Il recesso fu riempito dagli ottomani per ripristinare la continuità della muratura. Furono anche aggiunti dei contrafforti dove le nuove mura si congiungevano alle vecchie mentre fu lasciato a cielo aperto lo spazio tra la nuova porta e quella originaria.

L'ingresso principale come si presenta attualmente

Sul lato interno, sono addossati alle mura una serie di edifici, quello meglio conservato si trova in prossimità della porta, che erano adibiti a caserme e stallaggi o magazzini e che risalgono alla fondazione del castello. Il parapetto merlato con cui culminano le mura risale invece ad epoca ottomana.

L'ingresso principale visto dall'interno
 
Le mura del lato a sinistra dell'ingresso, nel punto dove si congiungono con quelle della fortezza interna, presentano una posterla ed all'interno, quasi in corrispondenza ad essa una scalinata di pietra che conduce al cammino di ronda. Sul lato opposto, presentano invece un'unica torre semicircolare, molto probabilmente un'aggiunta ottomana, così come il terrapieno costruito all'interno delle mura in corrispondenza dell'angolo SO e destinato ad accogliere una batteria di artiglieria.
 
La torre circolare di epoca ottomana
 
Dietro l'edificio in primo piano, la piazzola per l'artiglieria costruita in epoca ottomana
 
Il tratto meridionale delle mura presenta una rientranza di 5 m all'incirca a metà del suo decorso, dove si apre un'altra posterla. Questo tratto di mura presenta inoltre evidenti tracce di riparazioni (con frammenti di tegole e corsi di pietra) di epoca ottocentesca perchè nel 1825 furono cannoneggiate da Ibrahim Pascià.
La fortezza interna ha una cinta a pianta esagonale, rafforzata sul lato occidentale da due torri circolari (ma con la base a pianta quadrata).

Le due torri circolari che rafforzano il tratto occidentale delle mura della fortezza interna
 
L'ingresso si trova in un avancorpo sul lato settentrionale ed è formato da un passaggio a volta che attraverso una doppia porta introduce alla corte interna.
L'ingresso alla fortezza interna. Sulla sinistra s'intravedono la posterla aperta nelle mura della fortezza esterna e la scalinata che conduceva al camminamento di ronda
 
A sinistra della prima porta e a livello del piano superiore si nota una piccola abside che apparteneva alla cappella che era dedicata a Santa Sofia. La cappella era un tempo interamente affrescata ed era illuminata da quattro ampie finestre ad arco acuto che si aprivano sulla corte.

L'abside della cappella
 
All'interno, attorno alla corte centrale, si dispone una serie continua di edifici a due piani, separati da un solaio di legno, oggi in gran parte crollato, un tempo sostenuto da archi traversi impostati su pilastri laterali addossati alle pareti e su una serie di pilastri centrali. Il piano superiore era costituito da una serie di gallerie coperte da una volta a ogiva, interrotte ogni 7-10 m. da muri traversi, mentre ampie finestre si aprivano verso la corte interna.

La corte della fortezza interna
 
Nell'ala a destra dell'ingresso (circa 300 mq.), si svolgevano le funzioni pubbliche (le udienze del principe, la sua proclamazione, i banchetti, etc.). L'accesso al piano superiore di quest'ala – che aveva un'estensione continua, priva cioè dei muri traversi di separazione che si trovano in corrispondenza dei piani superiori degli altri settori - avveniva per mezzo di una scalinata di pietra che terminava con un'ampia balconata che dominava la corte.

Resti della scalinata che conduceva alla sala delle udienze
 
La fortezza interna è stata assai meno rimaneggiata di quella esterna in epoca ottomana e rappresenta tuttora un esempio abbastanza tipico dell'architettura militare occidentale del XII sec. trapiantata in Grecia. Mancando però gli elementi caratteristici del gotico, la si direbbe più che altro una forma di transizione dal romanico.
 
Nel museo: in alcune sale del castello è allestita una mostra permanente che raccoglie interessanti reperti provenienti dagli edifici di matrice latina della regione dell'Elide. Tra questi segnaliamo:
- la pietra tombale di Anna Angelina Comnena ritrovata nella chiesa di S.Sofia di Andravida (cfr. scheda);
- un capitello proveniente dalla stessa chiesa in cui sono scolpite le armi dei Villerhardouin (è forse l'unico esempio ritrovato di queste armi);
- due cornici di finestre gotiche ed un affresco raffigurante un santo militare a cavallo provenienti dalla chiesa di San Francesco a Clarentza;
- un capitello proveniente dal monastero di Isova.


Il Ritratto di cavaliere (Marco Gabriel) di Vittore Carpaccio


Il Ritratto di cavaliere (Marco Gabriel) di Vittore Carpaccio

Vittore Carpaccio, Ritratto di cavaliere, 1510 (?), Collezione Thyssen-Bornemisza, Madrid
 
Una recente interpretazione ha identificato nel personaggio ritratto da Vittore Carpaccio in questo dipinto il patrizio veneziano Marco Gabriel, rettore di Modone all'epoca della conquista turca (9 agosto 1500). Secondo lo studioso Augusto Gentili, la data sul cartiglio (1510), molto pasticciata, sarebbe errata ed il dipinto sarebbe invece coevo alla serie di teleri commissionati da Paolo Vallaresso, per la chiesa di San Giorgio degli Schiavoni tra il 1499 ed il 1502. Lo stesso Paolo Vallaresso, all'epoca rettore di Corone che cadde poco dopo Modone, avrebbe suggerito alla famiglia Gabriel di commissionare il dipinto al Carpaccio al fine di riscattare l'onore del loro congiunto. Come traspare anche dai Diari di Marin Sanudo, il patrizio fu infatti sospettato all'epoca di codardia e collusione con il nemico, nonostante il fatto che, catturato dai turchi, fosse stato giustiziato circa un anno dopo la caduta di Modone (1).
Il motto iscritto nel cartiglio, Malo mori quam foedari (meglio morire che macchiarmi), sarebbe una chiave esplicita in questo senso. Secondo Gentili il nobile veneziano sarebbe inoltre rappresentato due volte: la prima nelle vesti dell'uomo in armatura in primo piano che rinfodera la spada e la seconda in quelle dell'uomo a cavallo fino ad ora interpretato come scudiero del primo. Marco Gabriel sarebbe identificato dai colori giallo e nero dello stemma di famiglia che ricorrono sia nel fodero della spada del personaggio in primo piano che nelle vesti di quello a cavallo.

Lo stemma dei Gabriel sormontato dall'arcangelo Gabriele
Hotel Gabrielli, Venezia
(courtesy venicewiki.org)

Le lettere che spuntano dalla bisaccia alla cintola del personaggio in armatura sarebbero quelle scritte al Senato dalla città assediata e l'unica scritta durante la prigionia. L'allegoria sarebbe completata dalla presenza nel dipinto di altri elementi simbolici: l'ermellino, simbolo di purezza, alluderebbe alla condotta senza macchia del rettore di Modone; in alto, l'airone che soccombe al falco, rappresenterebbe l'integrità che soccombe alla violenza;
 
 
il cane ringhioso che minaccia il personaggio in primo piano rappresenterebbe il Gran Turco (assimilato al Gran Khan) secondo una simbologia già utilizzata da Pisanello (2).
 
 
Sullo sfondo del dipinto sarebbe infine raffigurata la città di Modone.
 


Note:

(1) La guarnigione di Modone, forte di 7.000 uomini, sostenne in realtà per oltre un mese l'assedio delle truppe ottomane guidate personalmente dal sultano Bayezid II, che schierò 100.000 uomini e 500 bocche da fuoco, mentre la flotta nemica bloccava il porto. Il 9 agosto la flotta inviata dalla Serenissima al comando di Melchiorre Trevisan tentò di forzare il blocco e portare rinforzi e rifornimenti alla città assediata. Improvvidamente i difensori abbandonarono le mura per precipitarsi al porto e rimuovere la catena che ne ostruiva l'accesso onde permettere l'ingresso alle navi di Trevisan. I Turchi penetrarono in città dal lato settentrionale mentre i difensori si asserragliarono nel Bourtzi dove furono massacrati.

(2) Cfr. l'affresco di Pisanello di San Giorgio e la principessa nella chiesa di S.Anastasia a Verona, realizzato nella prima metà del XV sec. Anche in questo caso il cane ringhioso è contrapposto ad uno mansueto (nel dipinto di Carpaccio il cane mansueto fa capolino a fianco del cavaliere in secondo piano).   





Chiesa dei SS.Apostoli, Kalamata

Chiesa dei SS.Apostoli, Kalamata

lato meridionale

La chiesa riveste una particolare importanza storica perchè il 23 marzo 1821 vi fu celebrata la prima messa in territorio greco libero dopo quasi quattrocento anni di dominazione turca - Kalamata fu infatti la prima città ad essre liberata dagli insorti - e nel piazzale antistante fu proclamata la guerra d'indipendenza da Teodoro Kolokotronis e dagli altri capi dell'insurrezione.
Nell'edificio attuale si possono distinguere due fasi costruttive principali: la chiesa più antica – che risale al XII sec. - corrisponde al santuario di quella attuale. Aveva una pianta a croce libera con cupola centrale e presenta un'accurata muratura a castone.

lato orientale, formato dall'antica chisa bizantina
 
Durante il secondo periodo di dominazione veneziana (1685-1715) alla chiesa originaria fu aggiunto ad ovest uno spazioso ambiente, coperto da cupola impostata su un tamburo esagonale, che andò a formare il naos della nuova chiesa.

facciata occidentale

Venne anche eretto il campanile in corrispondenza dell'angolo NE. L'edificio aggiunto, costruito in pietra porosa, presenta caratteristiche tipiche della coeva architettura occidentale come la finestra circolare che si apre al centro della facciata occidentale o la rifinitura delle cornici in pietra delle porte e delle finestre.

ingresso sul lato settentrionale

All'interno, la chiesa originaria conserva affreschi postbizantini che risalgono a fine XVI-inizio XVII sec.
Fortemente danneggiata dal terremoto del 1986 – che determinò anche il crollo della cupola centrale - è stata recentemente riaperta al pubblico dopo un lungo intervento di restauro.

martedì 30 agosto 2016

Basilica di San Leucio, Canosa

Basilica di San Leucio, Canosa

Si può visitare solo su prenotazione (Tel. 333-8856300)

Sullo sfondo, le colonne dell'abside meridionale

Sorta ricalcando esattamente la pianta dell’antico tempio di Minerva - probabilmente in stato di abbandono dal IV secolo - la basilica di San Leucio a Canosa deve la sua realizzazione alla committenza del celebre vescovo Sabino, come attestato dal rinvenimento nella muratura di mattoni con il suo monogramma, di cui la tradizione fissa l’episcopato tra il 514 e il 566 (1).
 
Particolare del podio dell'antico tempio su cui venne eretta la basilica
 
Il preesistente edificio pagano non doveva essere però completamente distrutto, dal momento che fu sottoposto a una sistematica opera di spoglio e riuso dei materiali edilizi per la costruzione del nuovo edificio di culto.

Capitello figurato con la testa di Minerva proveniente dall'antico tempio ellenistico (III sec. a.C.) e reimpiegato nella basilica.

La chiesa, inizialmente dedicata ai SS.Cosma e Damiano – le cui reliquie erano state portate a Canosa dal vescovo Sabino al ritorno da uno dei suoi viaggi a Costantinopoli - fu ridedicata a San Leucio probabilmente soltanto nell'VIII secolo, quando il culto del santo si diffuse in quest’area della Puglia a seguito della traslazione delle sue ossa da Brindisi a Trani ad opera di marinai tranesi.
Del tutto particolare è la pianta della basilica, consistente in un doppio tetraconco, ossia in un grande quadrato esterno (m 47 x 47) dotato di quattro absidi al centro di ciascun lato; al suo interno ne è inserito un altro concentrico (m 28 di lato), costituito da pilastri in blocchi con rinforzi di muratura in listato conformati a L agli angoli e rettangolari alle testate delle quattro absidi che pure lo articolano su ogni lato, queste delineate però da un giro di quattro colonne anziché da muratura piena come nel quadrato maggiore.

 
N
Pianta della basilica nella prima fase costruttiva
 
I due quadrati vengono cosi a delimitare un ambulacro a quattro bracci, comunicante attraverso i passaggi tra i pilastri con un esteso spazio centrale. In Italia, l'unico esempio accostabile a questo impianto è la basilica milanese di S.Lorenzo ma va sottolineata anche la similitudine con la scomparsa chiesa giustineanea dei SS.Apostoli che il vescovo ebbe sicuramente modo di vedere durante i suoi viaggi a Costantinopoli.
Nella sua prima fase la basilica era anche dotata, sul lato Nord, di due ampi vani rettangolari attestati sulla linea esterna dell’abside (l’unica con fronte rettilineo), accessibili sia dall’interno della chiesa che dall’esterno e nei quali si possono forse riconoscere i pastoforia, o comunque ambienti di servizio.

L'ingresso in corrispondenza dell'abside orientale

Non è da escludere inoltre che al fronte settentrionale si addossasse un grande spazio, pure delimitato da muri in blocchi con fondazioni in cementizio, forse interpretabile come nartece.
Per quanto riguarda invece le coperture, mentre i bracci dell’ambulacro erano voltati a botte e le absidi coperte da più alti catini a semicupola, il quadrato centrale era verosimilmente sormontato da una grande volta a quattro vele.
Resta invece dubbio se già in questa prima fase l’altare della chiesa fosse collocato presso l’abside occidentale, come tuttora visibile.

Il pavone raffigurato nel pavimento dell'abside occidentale esterna

In una seconda fase edilizia (forse già nello stesso VI secolo), seguita probabilmente a un terremoto che aveva causato il crollo di ampie porzioni del muro esterno (specialmente nella parte centro-meridionale), delle absidi e dell’intera copertura centrale, la basilica fu sottoposta a una consistente opera di restauro e ristrutturazione.
Venne aggiunta una serie di speroni quadrangolari lungo la metà esterna dell’edificio e due grossi pilastri pentagonali furono inseriti all’interno a contraffortare le colonne dell’abside meridionale; quindi si procedette alla ricostruzione della volta centrale, che venne ora poggiata su quattro nuovi sostegni introdotti nel quadrato interno, costituiti da pilastri angolari in muratura e da colonne addossate.

Pianta della basilica nella II fase costruttiva
 
La volta a quattro vele che copriva lo spazio centrale venne quindi presumibilmente sostituita da una cupola impostata su quattro sostegni, trasformando la pianta della chiesa in una croce greca iscritta, che è l'impianto privilegiato dall'architettura giustinianea.
A questa fase si può attribuire anche la ricostruzione, nel settore a ridosso dell’abside occidentale
interna, del presbiterio con l’altare e relativo ciborio, di cui restano alcuni elementi dell’arredo scultoreo in marmo proconnesio (base e fusto di colonnina ottagonale) e la connessa stesura di nuovi mosaici con motivi geometrici, vegetali e figurati, tra cui spicca il famoso pavone.

Ad un epoca poco successiva va invece fatta risalire la tamponatura, a mezzo di tramezzi, delle absidi orientale ed occidentale.
A partire dal VII secolo (se non prima), nell’area immediatamente circostante la basilica e
successivamente anche al suo interno (braccio Sud dell’ambulacro) comincia ad impiantarsi tutta una serie di sepolture di diversa forma e tipologia che venne progressivamente a formare a una vera e propria area di necropoli. A fianco dell'abside meridionale venne inoltre costruito il mausoleo dove furono riposti i resti di San Leucio.

Il mausoleo di San Leucio addossato al fronte meridionale della basilica

Note:


(1) Sembra in realtà più probabile che l'edificio pagano fosse stato trasformato in chiesa già alla fine del IV secolo ma l'intervento del vescovo Sabino ne determinò comunque la conformazione visibile tuttora.




Agia Samarina, Kalogerorachi

Agia Samarina, Kalogerorachi


Situata in una vallata tra il villaggio di Samari (l'attuale Ellinoekklisia) e quello di Kalogerorachi (entrambi frazioni di Androusa).
L'origine del nome è alquanto incerta giacchè non esiste nessuna Santa Samarina. Potrebbe trattarsi della corruzione del nome di Santa Marina, ed in effetti le fonti attribuiscono il patronato di una chiesa dedicata a Santa Marina in questa zona ad Anna (Agnese) Angelina Comnena d'Epiro, terza moglie di Guglielmo II Villehardouin (1258-1286), alla cui committenza andrebbe riferita parte della decorazione parietale attualmente visibile.
In base alla presenza di alcune caratteristiche strutturali e decorative può essere datata alla metà del XII secolo.
Rialzata su un basso podio, presenta una pianta a croce greca inscritta del tipo a due colonne con cupola. Abbiamo così nella parte ovest della chiesa due colonne e ad est le due pareti che tripartiscono il presbiterio. Le tre absidi mostrano forma semicircolare all'interno e poligonale all'esterno, quella centrale è traforata da una bifora e le due laterali da una monofora.


Sul lato occidentale la chiesa presenta un vestibolo esterno (prosteon) diviso in tre campate, quella centrale, nettamente più alta, voltata a botte mentre le due laterali sono coperte da cupolette a calotta. Questo tipo di copertura non si riscontra in nessuna altra chiesa in Messenia, nè a Mistrà.


Il campanile di forma quadrata e aperto da bifore su tutti i lati, è un'aggiunta di epoca successiva, probabilmente della fine del XIII secolo, sotto l'influenza latina.
 

Le colonne del prosteon, quelle all'interno della chiesa ed i grossi blocchi di pietra inseriti nella parte bassa della muratura perimetrale testimoniano l'utilizzo di materiali di spoglio.
Dal prosteon attraverso una porta centrale sormontata da un arco in mattoni si accede al nartece che sulla parete sud presenta una cotruzione in muratura che fa supporre una tomba. Una porta di piccole dimensioni, in asse con quella del prosteon immette alla navata centrale.
Per mezzo di una piccola apertura lungo la navata nord si accede ad un piccolo ambiente chiuso, probabilmente un deposito per le attrezzature liturgiche. Esternamente a questo è affiancato un portico a campata unica coperto da volta a calotta impostata su quattro archi sostenuti da una colonna con capitello dorico e tre paraste. Al centro del portico si apre un altro ingresso che si ritrova specularmente sul lato opposto incorniciato da paraste in blocchi di pietra squadrata.

 
La cupola centrale è impostata su tamburo ottagonale forato da monofore su quattro lati, mentre sugli altri presenta monofore murate.


Una parte dell'iconostasi in marmo originaria (fine XII sec.) è giunta sino a noi. Nel proskynetarion di destra Cristo in trono sormontato da un arco a tutto sesto in marmo scolpito, in quello di sinistra la Vergine con il Bambino.
Sulle volte dei bracci della croce erano dipinte le scene del Dodekaorton, di queste sono ancora riconoscibili:
braccio nord: Annunciazione e Presentazione di Gesù al Tempio;
braccio sud: Discesa agli Inferi;
braccio ovest: Ingresso a Gerusalemme;
braccio est: completamente distrutti.
Nella parete della navata sud sono raffigurati i tre Gerarchi: Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo, Basilio e a fianco di questi, separato da una banda rossa, Sant'Antonio. Questo affresco risale al tardo XVI secolo.
Nel catino absidale si osserva la Vergine in trono con il Bambino ed al di sotto, tema iconografico del tutto inusuale per una chiesa bizantina, il compianto sul Cristo morto.




lunedì 29 agosto 2016

San Sabino

San Sabino

Sabino nacque a Canosa nel 461 probabilmente da un'agiata famiglia romana originaria della Sabina. Poco o nulla è noto della sua infanzia e adolescenza.
Le notizie relative alle sue vicende biografiche provengono essenzialmente dagli Atti del Concilio di Costantinopoli del 536 e dai Dialoghi di San Gregorio Magno. A queste due fonti primarie va aggiunta la Vita Sancti Savini redatta su basi documentarie da un anonimo nel IX secolo.

Ordinato sacerdote nel 486 dal vescovo San Probo nell’antica cattedrale canosina di San Pietro, nel 514, alla morte del vescovo San Memore, Sabino, allora cinquantatreenne, venne nominato al suo posto, dando inizio ad un episcopato che durò ben 52 anni.
Sabino ascese al seggio vescovile, sotto il pontificato di papa Ormisda, in un momento storico particolarmente difficile per la Chiesa. In Oriente Manichei e Nestoriani godevano della protezione dell'imperatore Anastasio I mentre l'Italia era sotto il dominio dei Goti di Teodorico che avevano abbracciato l'arianesimo.
Nel 525 Sabino accompagnò papa Giovanni I (523-526) a Costantinopoli in un viaggio, caldeggiato dal re goto Teodorico, che avrebbe dovuto avere lo scopo di far desistere l'imperatore Giustino I dalle persecuzioni contro gli ariani (la cui posizione non poteva però essere sostenuta dal papa in termini teologici). A causa dell'inevitabile insuccesso della missione, al suo ritorno in Italia Teodorico fece imprigionare e tradurre il papa a Ravenna dove morì per gli stenti e le privazioni.
Nel 531 Sabino partecipò al III Sinodo di Roma convocato da papa Bonifacio II e nel 535-536 fu nuovamente a Costantinopoli, a capo della delegazione di vescovi che accompagnò papa Agapito in una difficile missione diplomatica presso la corte di Giustiniano, volta a contrastare l'eresia monofisita che godeva dell'appoggio dall'imperatrice Teodora.
Il papa, nel pieno esercizio delle sue prerogative e nonostante le intimidazioni dell'imperatore, rimosse dal seggio patriarcale Antimo, apertamente monofisita e protetto dall'imperatrice, e consacrò personalmente il nuovo patriarca Menas, regolarmente eletto e fedele ai dettami del Concilio di Calcedonia.
Nel 543 ormai cieco, nel pieno della guerra greco-gotica, ricevette Totila nella residenza episcopale di Canosa e riescì a dissuaderlo dal mettere a ferro e fuoco la città.
Secondo il racconto di San Gregorio Magno mentre sedevano a pranzo il re goto, per sondare le virtù profetiche di Sabino, si sostituì a un servo nell'offrire al vescovo la coppa del vino, ma Sabino riconobbe l'appartenenza della mano al re ed esclamò: Vivat ipsa manus! (Possa vivere questa mano) (1). Allietato da questo augurio e convintosi delle virtù profetiche del vescovo, Totila decise di risparmiare la città.

Giovanni Boccati, San Sabino cieco riconosce Totila, pradella proveniente da una pala d'altare realizzata per la Cappella di San Savino nel Duomo di Orvieto, 1473
Pinacoteca Corrado Giaquinto, Bari
 
L'agiografia riporta anche un altro episodio in cui sono coinvolte le capacità profetiche del santo.
La longevità di Sabino aveva suscitato l’invidia dell’arcidiacono Vindemio che, temendo di non poter accedere all’episcopato, tentò di avvelenarlo corrompendo un servo che avrebbe dovuto porgere al vescovo una coppa contenente vino avvelenato. Sabino, intuito quanto architettato da Vindemio, ordinò al servo di bere dalla coppa, ma poi, impietosito, bevve egli stesso il vino avvelenato: Sabino rimase incolume, ma Vindemio, distante tre miglia dalla sua casa, morì.
Il santo vescovo si spense a Canosa alla veneranda età di 105 anni il 9 febbraio del 566. Fu probabilmente inumato inizialmente nella chiesa di San Pietro. I resti vennero poi traslati nell'VIII secolo nella nuova cattedrale (ridedicata a Sabino nel 1101) durante l'episcopato di Pietro, come ricordato da un'iscrizione reimpiegata nel pavimento della cripta (Petrus canusinus archiepiscopus posuit hic corpus beati Sabini).  

Oltre alla comprovata abilità diplomatica che gli consentì di destreggiarsi in un periodo storico estremamente difficile (Sabino fu apprezzato e ricevette incarichi di fiducia da pontefici dall'orientamento politico molto diverso, dal filobizantino Giovanni II al filogoto Bonifacio II fino all'intransigente Agapito), fu anche promotore di una intensa attività edilizia, che si estese anche ad alcuni centri vicini a Canosa come Canne e Barletta, riconoscibile dalla presenza di mattoni che recano il suo monogramma.

Il monogramma di Sabino
   
L'attività edilizia del vescovo – per quanto attiene la città di Canosa – sembra inoltre inquadrarsi in un progetto urbanistico di ridefinizione dello spazio urbano volto a connotarlo in senso cristiano.
Con la realizzazione a sud del complesso di San Pietro e la contestuale sistemazione a nord del battistero di San Giovanni affiancato alla chiesa di Santa Maria e, infine, con la risistemazione nell'immediato suburbio sudorientale della basilica di San Leucio il vescovo canosino crea infatti una sorta di cinta difensiva sacra intorno alla città, creando nuovi poli di attrazione, diversi e alternativi a quelli tradizionali della città pagana del foro e dell'area sacra di Giove Toro.

Note:

(1) San Gregorio Magno, Dialoghi, libro II, 15, 593-594


 

Clarentza

Clarentza


Vi si accede per mezzo di un sentiero che parte dall'estremo limite occidentale dell'attuale cittadina di Killini.
Fondata da Guglielmo II Villerhardouin alla metà del XIII secolo sui resti dell'antica città di Killene, Clarentza divenne il porto più importante del Principato d'Acaia attraverso cui si svolgeva il commercio con l'Italia. E' quindi uno dei rari casi in cui i Latini fondarono in Morea una città ex novo.
Nel 1267 il principe d'Acaia Guglielmo II Villehardouin, su concessione del re di Francia Luigi IX, fondò a Clarentza una zecca che battè denari tornesi fino al 1353.
Nel 1278 passò sotto il controllo degli Angioni che impressero alla città un nuovo sviluppo.
Nel 1316 fu conquistata da Ferdinando di Majorca nel corso della guerra di successione che lo contrapponeva a Luigi di Borgogna.
Con la disgregazione del Principato agli inizi del XV secolo iniziò invece il suo declino.
Nel 1407 fu presa e messa a ferro e fuoco da Leonardo II Tocco.
Nel 1414 fu restaurata da Centurione Zaccaria, ultimo principe d'Acaia, per cadere nelle mani dell'avventuriero italiano Franco Oliverio che, alla testa di un centinaio di mercenari, se ne impadronì con un colpo di mano nel 1417-1418 e la tenne fino al 1421-22, quando la vendette al despota epirota Carlo I Tocco.
Assediata da Giovanni VIII Paleologo nel 1427, nel 1428 fu ceduta a Costantino Dragaze, allora despota di Morea, come dote di Maddalena Tocco, la nipote del despota epirota che gli fu data in sposa per sugellare la pace tra i due despotati.
Saccheggiata dai catalani nel 1430, Costantino Dragaze ne fece abbattere le mura nel 1431 per evitare una nuova cattura.
Nel 1432 divenne sede del despota Tommaso Paleologo.
Nel 1460 cadde nelle mani dei Turchi.


1. Chiesa di San Francesco
2. Porta di Andravida
3. Porta di Chlemoutsi
4. Cittadella

La città murata occupava un'area di forma irregolare larga all'incirca 450x350 m, a nord della quale, dove ora si trova una zona paludosa, si apriva il porto interno a ridosso del quale, all'esterno della cinta muraria, sorgeva il quartiere commerciale.
Le mura erano rinforzate da torri e bastioni a pianta quadrangolare nei punti più vulnerabili come gli angoli o le porte, in particolare il bastione settentrionale sul fronte del porto era a pianta pentagonale. Nelle mura si aprivano tre porte, quella del mare ancora non è stata bene individuata, quella orientale – detta anche Porta di Andravida – era rinforzata da una torre ed aveva un ponte in pietra che scavalcava il fossato esterno.

Porta di Andravida (2)

Il ponte che da accesso alla porta

L'ingresso sudorientale (Porta di Chlemoutsi) era costituito da una torre, l'imposta della volta che ne copriva il passaggio è ancora visibile nelle mura.

Porta di Chlemoutsi (3)

La cittadella (4): nell'angolo sudovest della cinta muraria – distrutta da Costantino Paleologo ed oggi segnalata solo da una cresta del terreno lungo la scarpa interna del fossato – un'altra cinta difensiva a forma di pi greco e rafforzata agli angoli da due torri quadrate circonvallava una piccola cittadella. Sull'angolo NO della cittadella si alzava un'altro massiccio torrione, successivamente collassato in mare.

I resti della torre NO franati sulla riva

L'ingresso si trovava in corrispondenza della torre SE ed era inquadrato da una cornice gotica.
Torre SE

La torre NE era a due piani, priva di ingresso al piano terreno e coperta da una volta emisferica

Torre NE

Il riutilizzo di spolia di stile occidentale ed un'iscrizione che mostra la data 1441-42 ne fanno risalire la costruzione al periodo in cui la città era sede del despota Tommaso Paleologo.
 
Chiesa di S.Francesco (1): dedicata a S.Francesco (*), si trova in prossimità dell'attuale ingresso al sito archeologico, e - come la chiesa di Santa Sofia ad Andravida - ospitava anche le assemblee dei nobili latini. Da quanto deducibile sulla base delle notizie riportate dalle fonti scritte, dovrebbe essere stata costruita intorno al 1260.


Presenta una pianta a navata unica (43x15 m.) che termina con un santuario a pianta rettangolare, fiancheggiato da due cappelle laterali. Come nelle chiese di Isova e Andravida soltanto il santuario era coperto da volte a crociera, sostenute da colonne disposte sugli angoli, mentre la nave era coperta da un tetto a capriate.
La chiesa era divisa in due da una parete trasversale, che probabilmente separava il clero dalla congregazione. Presenta due ingressi sui lati lunghi ed un monumentale portale gotico – chiuso in epoca successiva e di cui residua parte della mostra - sulla facciata occidentale. Fotografie scattate prima del 1940, quando le pareti della chiesa furono abbattute dai tedeschi, mostrano la presenza di ampie finestre gotiche (due delle quali sono attualmente visibili nel Museo di Chlemoutsi).

Aspetto attuale del santuario

La chiesa ospitava numerose sepolture, ad arcosolio lungo le pareti e ad altre a fossa che si aprivano sul pavimento. Le pareti erano interamente ricoperte almeno da due strati di affreschi.

La tomba da cui proviene l'affresco

Sopra la tomba inserita nello spessore della muratura di fronte alla cappella settentrionale, è stato recuperato un affresco raffigurante un santo militare a cavallo attualmente conservato nel Museo di Chlemoutsi.

Particolare dell'affresco recuperato

Il fatto che la tomba sia inserita nello spessore della muratura - quindi coeva alla costruzione della chiesa - ha fatto pensare che possa trattarsi della tomba del fondatore.

Sepoltura addossata all'esterno del fianco meridionale della chiesa

Dopo il collasso del monumento, al suo interno, nella parte occidentale, venne costruito un complesso di tre stanze mentre, in epoca recente, nel santuario venne costruita una cappella.

I tre ambienti ricavati all'interno della chiesa, a ridosso della facciata occidentale

Note:

(*) Il Ministro Provinciale francescano per la Romània risiedeva a Clarentza.