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venerdì 17 gennaio 2014

L'icona della Vergine Hodighitria nel santuario della Madonna di San Luca a Bologna

L'icona della Vergine Hodighitria nel santuario della Madonna di San Luca a Bologna

Icona della Madonna di San Luca
cm. 65x57

L'origine leggendaria dell'icona della Vergine Hodeghitria, custodita nel Santuario della Madonna di San Luca sul colle bolognese della Guardia, è narrata per la prima volta nell'Historicus contextus (1459), opera di un notabile bolognese, Graziolo Accarisi, a cui si deve anche la prima processione in città della sacra immagine.
Secondo questo racconto, un eremita greco, visitando la chiesa costantinopolitana di Santa Sofia, notò questa icona e la scritta che l'accompagnava: Questa è opera fatta da San Luca cancelliere di Cristo, che deve essere portata alla Chiesa di San Luca sopra il Monte della Guardia costrutta, ed ivi sopra l’altare collocata. L'eremita – a cui in un testo più tardo viene dato il nome di Teocle Kmynia – ricevette l'icona in affidamento dai canonici della chiesa con l'incarico di trovare il luogo dove doveva essere collocata.
Giunto a Roma, Teocle incontrò l'ambasciatore di Bologna – Pascipovero de' Pascipoveri - che gli svelò dove si trovava il Monte della Guardia e dove l'icona fu portata in processione per essere riposta in una chiesetta dedicata a S.Luca.
Da un punto di vista storicamente accertabile, in un documento datato 30 luglio 1192 la nobildonna bolognese Angelica Bonfantini stabilì di prendere i voti e darsi alla vita eremitica sul Monte della Guardia, donando tutti i suoi beni per costruirvi un romitorio ed una chiesa. Con un documento che porta la data dell'anno successivo, papa Celestino III da' mandato a Gerardo di Gisla, vescovo di Bologna, di porre la prima pietra dell'edificio, benedetta dallo stesso pontefice come richiesto da Angelica. Con tutta probabilità, l'icona della Vergine Hodighitria faceva parte delle proprietà della famiglia della nobildonna.

Descrizione
La Vergine - del tipo detto della Hodighitria (che indica la Via), cioè il Bambino che è la via la verità la vita (Giovanni, XIV, 6) - tiene in braccio Gesù benedicente. La Vergine porta una veste di colore blu-verde, sotto la quale si intravede una sottoveste rossa. I tratti del viso sono allungati, le dita della mano affusolate. Il Bambino, dalla testa piccola rispetto al corpo, ha il braccio destro atteggiato nel gesto di benedizione, mentre la mano sinistra è chiusa a pugno. La tunica del Bambino è dello stesso colore rosso della sottoveste della Vergine. Sullo sfondo si notano filari di piccole foglie d'edera, inseriti l'uno nell'altro ed intervallati da piccole perle. Due fasce laterali di circa 4 cm. decorate con motivi floreali contornano la tavola, mentre la parte superiore appare tagliata.
L’ immagine oggi visibile non corrisponde in tutto a quella dipinta originariamente sulla tavola, risulta infatti dal rimaneggiamento di una analoga ad essa sottostante. Le indagini radiografiche e stratigrafiche eseguite nel 1991 hanno infatti accertato che al di sotto dell'immagine attuale ne esiste un'altra più antica che farebbe anticipare al IX-X secolo la datazione della tavola, ed i caratteri stilistici riscontrati ne avvallerebbero l'origine orientale.

Il volto della Vergine nell'immagine sottostante come appare nella radiografia

Il viso ha contorni più morbidi e plastici che sembrano bene accordarsi nell'accentuato arrotondamento del mento. Il naso allungato ha il setto sottile e la narice piccola e rialzata; la bocca ben equilibrata, con entrambe le labbra carnose, ed ha solo vagamente accennata la prosecuzione del labbro superiore. L'occhio è grande, moderatamente allungato ma equilibrato rispetto agli altri elementi del volto, ha la pupilla accentuata rispetto al globo e collocata in modo da dirigere lo sguardo verso l'osservatore. Il volto è innestato su un collo leggermente corto rispetto al viso, con una leggera zona d'ombra sotto il mento.

Un ulteriore elemento a sostegno di una provenienza orientale sarebbe inoltre l'uso dell'indaco, con cui è dipinto il manto della Vergine: pigmento molto utilizzato in Asia Minore ma poco diffuso in Italia, dove storicamente gli si preferivano l'oltremare e l'azzurrite.
La tavola potrebbe quindi essere stata dipinta in ambito bizantino, portata in Italia intorno al periodo di fondazione della prima chiesa sul Colle della Guardia (1192) forse da pellegrini o crociati bolognesi, ed in seguito ridipinta (XII-XII sec.) seguendo le linee del precedente modello, ma con caratteristiche più marcatamente occidentali che appaiono ancor più evidenti dopo il recente restauro che ha restituito all'icona colori più vivi e brillanti - nell'azzurro del marphorion e nel giallo-oro del fondo - nonchè alcuni dettagli, come il piede del Bambino, coperti da interventi precedenti .

L'icona dopo il recente restauro






sabato 4 gennaio 2014

San Michele al foro, Rimini

San Michele (San Michelino) al foro

Abside

Della chiesa di San Michele in foro - così detta perché, prima che fosse costruito l'isolato con la Torre dell'orologio (XVI sec), affacciava con il suo prospetto principale sul foro cittadino (l'odierna Piazza Tre Martiri) - è attualmente visibile solo l'esterno dell'abside poligonale, sulla quale si distingue il succedersi nel tempo di diversi interventi: vi si trovano, benché murate o parzialmente cancellate, quattro grandi finestre e gli archetti pensili che le sormontano. È evidente, nella parte bassa della struttura, il richiamo alle costruzioni ravennati del VI secolo nella tecnica, nella pianta dell'edificio e in alcuni elementi reimpiegati (sono visibili i tubi fittili impiegati nella costruzione delle volte degli edifici religiosi nel territorio ravennate). Più difficile valutare i diversi successivi interventi anche a causa degli sconvolgimenti della struttura interna e della mancanza di un intervento strutturale complessivo.
Ai lati dell'abside sono collocate delle iscrizioni frammentarie ritrovate nel sito e nelle sue vicinanze, evidente reimpiego dal vicino teatro romano.


Transetto

Nonostante la scarsità di fonti, l'edificio deve essere uno tra i più antichi edifici di culto riminese, posizionato a ridosso del foro della città. Esso è ubicato al centro di un'area particolarmente interessata dalla devozione locale: entro il X secolo infatti a pochi metri a nord e a sud sorsero altre chiese, rispettivamente S. Giorgio in Foro e S. Innocenza, abbattuta nel 1919 e il cui perimetro è stato evidenziato nei più recenti lavori di riqualificazione della zona.
La chiesa di S. Michele ebbe particolare fortuna tra XII e XIV secolo quando appartenne all'Ordine dei Templari prima e poi – dopo il 1312 – a quello giovannita. La chiesa rimase di proprietà dell'Ordine fino alla sua sconsacrazione nel 1809 quando fu ceduta a privati ed adibita a granaio e quindi a magazzino per il vino.
Agli inizi del XIX secolo l’edificio venne disegnato dal Cav. Seraux D’Agincourt e pubblicato nella sua "Histoire de l'art par les monuments", TAV. LXXIII, n.6 (1811), e datato al V secolo come uno dei primi esempi noti di chiesa a croce latina. Si nota in particolare come nel disegno del D’Agincourt, i bracci del transetto siano separati rispetto alla navata da pareti.


Le parti dell’edificio di San Michele in Foro distinguibili dall’omonimo vicolo sono state pressoché tutte completamente intonacate oltre che soggette a trasformazioni notevoli (come la recente brutale apertura di un garage in facciata); ciò che si può semplicemente rilevare è la pianta a croce dell’edificio.
Entrando invece in un cortile condominiale posto sul retro del vicolo è possibile osservare la zona absidale e la parte terminale del transetto.
L’abside, vagamente semicircolare, è tuttavia esternamente suddivisa in cinque settori da altrettante lesene.In parte i settori dell’abside sono ancora intonacati in rosso e in blu: l’intonaco pare essere piuttosto antico, forse non successivo al XVII secolo.
La finestre che attualmente si aprono a destra dell’abside sono certamente recenti, mentre tra esse si notano i resti di una più antica, piuttosto strombata, posta all’estremo margine dell’abside e quindi pressoché allineata alla navata, perciò da essa quasi invisibile.
Interessante appare la parte terminale del transetto sinistro che mostra un grande arco tamponato in antico ed una finestra a tutto sesto anch’essa tamponata.
Poiché si notano mattoni sbrecciati ai margini dell’apertura nonché fondazioni di muri sporgenti e curvi che partono dalla base dell’apertura stessa, Carlo Valdameri (I resti della chiesa di San Michelino in foro di Rimini, osservazioni, ipotesi) ha avanzato l' ipotesi che dai due bracci dei transetti originariamente sporgessero altrettante absidiole.


In questo caso non ci si troverebbe in presenza di un edificio impostato a croce latina, almeno nel senso che in generale si attribuisce a questa definizione. Ci si troverebbe altresì davanti ad una chiesa a navata unica, con ai lati due piccole cappelle (protesis e diakonikon) separate dalla navata - vedi la pianta disegnata da D’Agincourt. Questi potrebbe essere stato tratto in inganno da un allungamento della nave operato in epoca successiva su un originario impianto a croce greca simile a quello del mausoleo di Galla Placidia.

All'interno si nota la distruzione della cupola (forse impostata su pennacchi piani), avvenuta nel dopoguerra, nonché le numerose alterazioni delle strutture che sono state adattate ad uso civile.
All’ultimo quarto del XIII secolo va ricondotta (F.Zeri) anche l’unica decorazione parietale ancora conservata nella chiesa: una pittura murale raffigurante una santa dipinta nell’abside.


L’immagine riaffiorata qualche anno fa mostra i segni della martellatura e dal punto di vista iconografico rappresenta un piccolo enigma. Infatti, la figura sembra stringere nella mano destra una pietra, un attributo che potrebbe suggerirne l’identificazione con Emerenziana, una delle compagne di Agnese che venne appunto lapidata. Altre identificazioni proposte sono quelle con S.Elisabetta d'Ungheria (C.Valdameri) e con una Madonna Annunciata (G.Rimondini e A.Peroni, secondo questa interpretazione la figura femminile avrebbe in mano non una pietra ma la matassa di filo con cui Maria tessette il velo del Tempio, Protovangelo di Giacomo X,2)*.
La pittura murale, al di là delle valutazioni di ordine qualitativo, si configura come una testimonianza di notevole importanza proprio per la rarità delle opere superstiti di sicura committenza templare.

* Cfr. Il mosaico dell'Annunciazione nella Basilica Eufrasiana di Parenzo.

Bibliografia:
- Carlo Valdameri, La chiesa di San Michelino in Foro a Rimini. L'Histoire de l'art per les monuments di J. B. Seroux D'Agincourt e la tradizione della pianta a croce latina in Parola e tempo, 13/2014, Annuale dell'Istituto Superiore Scienze Religiose A. Marvelli, Diocesi di Rimini, Pazzini Editore, pp. 325 - 343.





venerdì 3 gennaio 2014

Porta Montanara e Porta Galliana, Rimini

Porta Montanara

 
La costruzione della Porta Montanara - detta anche in epoca medioevale Porta di Sant'Andrea dal nome di una chiesa che sorgeva nelle sue vicinanze - risale al I secolo a.C. e si inserisce in un organico programma di riassetto del sistema difensivo cittadino, attribuito a Silla. La porta rientrerebbe nell’ambito delle ricostruzioni che seguirono alle rappresaglie nei confronti della città, schieratasi dalla parte dei populares di Mario nel corso delle guerre civili (87-82 a.C.)
Indagini archeologiche hanno appurato l’esistenza di un’ampia corte di guardia con una controporta interna, a conferma della complessità del sistema difensivo.

 
L’arco a tutto sesto attualmente visibile costituiva una delle due aperture della porta che consentiva l’accesso alla città per chi proveniva dai colli lungo la via aretina (da cui il nome di Porta Montanara), percorrendo la valle del Marecchia. Il doppio fornice agevolava la viabilità, incanalando in passaggi paralleli, il percorso in uscita da Rimini, attraverso il cardo massimo, e quello in entrata.
Strutturalmente, la porta era costituita da blocchi di arenaria squadrati regolarmente di colorazione giallastra. Originariamente era formata da due fornici speculari costituiti da un doppio giro di cunei di 3,45 metri di larghezza e 5,90 di altezza. I piloni laterali raggiungevano una larghezza di 2,60 metri e quello centrale un metro in meno dei corpi più esterni. Il complesso monumentale aveva una profondità di 2,20 metri e raggiungeva una larghezza massima complessiva di 12 metri e mezzo.
Forse già sotto il regno di Antonino Pio (138-161), a causa dell’innalzarsi del piano stradale, il fornice di sinistra fu chiuso e l’arcata dell’altro fornice rialzata.
La porta, così ridimensionata ad un solo fornice e successivamente raccordata alle abitazioni limitrofe (il complesso fortificato delle Case Rosse dei Malatesta prima, poi Palazzo Graziani), continuò a segnare l’ingresso alla città fino alla seconda guerra mondiale nel corso della quale fu gravemente danneggiata.

 
Al termine del conflitto, nella convulsa fase ricostruttiva, il monumento fu distrutto nella parte rimasta in vista per tanti secoli, mentre fu recuperata la parte inglobata nelle murature delle case adiacenti.
L’arco venne inizialmente rimontato a fianco del Tempio Malatestiano, prima di essere ricomposto, nel 2004, circa 40 metri a sud della sua collocazione originaria.
 
 
Porta Galliana
 
 
La Porta Galliana (popolarmente nota come Arco di Francesca) fa parte della cinta muraria duecentesca, e deriva il suo nome dal fatto di sorgere in quella che al tempo era un proprietà della famiglia Galliani. Interrata per la gran parte, si riconosce la cuspide dell'arco a sesto acuto, in pietra, frutto di lavori di restauro e abbellimento voluti da Sigismondo Pandolfo Malatesta. Dal bassorilievo di Agostino di Duccio (databile tra il 1449 ed il 1455) nella cappella dei Pianeti nel Tempio Malatestiano possiamo desumere come si presentasse all'epoca la porta.
 
 
Presto tuttavia la struttura decadde a favore di altre porte oggi a loro volta scomparse, e subì un degrado che la ridusse all'interramento e, in seguito, ad ospitare all'interno del varco un condotto fognario risalente probabilmente al XVII secolo.




 

giovedì 2 gennaio 2014

L'Arco di Augusto, Rimini

L'Arco di Augusto

Fronte esterno
 
L’ Arco di Augusto segna l'ingresso alla città ed il termine della via Flaminia tracciata dal console Flaminio nel 220 a.C. per collegare Roma a Rimini.
Eretto nel 27 a.C. come porta onoraria, esprimeva la volontà del Senato di celebrare la figura di Ottaviano Augusto e la sua munificenza per aver restaurato a proprie spese la via Flaminia, così come manifestato dall'epigrafe in lettere dorate una volta posta sopra l'arcata (attualmente molto danneggiata).

Resti dell'epigrafe sul fronte esterno

Il monumento si inseriva nella cinta muraria più antica - della quale, ai suoi lati, sono visibili i resti, in blocchi di pietra locale – sostituendo la Porta Romana di età repubblicana che venne demolita, spianata e ricoperta da una colata di 3 metri di calcestruzzo .

 
L'arco si presenta oggi isolato, a seguito dell'intervento di demolizione dei corpi adiacenti eseguito nel 1937. La costruzione originaria - in muratura a sacco rivestita da pietra d’Istria - era invece inglobata tra due torri poligonali di cui rimangono poche tracce e sormontata da un attico che doveva completarsi con una statua marmorea dell'imperatore alla guida di una quadriga (1). Il netto sviluppo verticale dell'arco (17,50 m. di altezza contro c.ca 15 di larghezza e 4 di profondità) è spiegabile con la necessità di inserirlo all'interno di una struttura (mura e torri) preesistente.
L'arco è inquadrato da coppie di colonne corinzie sormontate da un frontone triangolare: la sommità, forse crollata per i terremoti, venne orlata da una merlatura in epoca medioevale (X sec) a formare un camminamento di ronda.

Fronte interno
 
L'architettura è esaltata da un ricco apparato decorativo carico di significati politici e propagandistici: un'apertura talmente ampia da non poter essere chiusa da porte, ricordava la pace raggiunta dopo un lungo periodo di guerre civili (2); Le divinità rappresentate nei 4 clipei ai lati dell'arco esaltavano la grandezza di Roma e la potenza di Augusto: nel lato esterno Giove, con il fascio di folgori, espressione del potere imperiale, e Apollo, protettore di Augusto e della sua famiglia, con la cetra e il corvo, simboli del suo legame con la musica e della sua facoltà di parlare attraverso gli oracoli; verso la città Nettuno, con il tridente e il delfino, e Roma, con la spada e il trofeo, immagini del dominio sui mari e sulla terra. Mentre la testa di bue scolpita nel cuneo di chiave dell'arco interno simboleggia lo status di colonia romana della città di Rimini.
 
Nettuno

Note:

(1) Nella collezione Anguissola di Piacenza si trova la testa di un cavallo che si pensa facesse parte della quadriga, la cui presenza è attestata da uno scritto di Cassio Dione.

(2) Quando, in epoca successiva, si rese necessario chiudere l'arco per ragioni difensive, furono erette due porte di fortuna all’interno delle due fronti.











 

mercoledì 1 gennaio 2014

Il ponte di Tiberio, Rimini

Il ponte di Tiberio

 

Costruito interamente in pietra d'Istria, il Ponte di Tiberio scavalca con cinque arcate a tutto sesto e con una leggera incurvatura a schiena d'asino il Marecchia, l'antico Ariminus, il fiume che alla città ha dato il nome e il porto, costituendone per secoli il limite settentrionale.
Il ponte viene detto di Tiberio ma in realtà è stato iniziato nel 14 d.C. per decreto dell’imperatore Ottaviano Augusto e terminato nel 21 d.C. dal suo successore, il figlio adottivo Tiberio, come attestato dall'iscrizione scolpita al centro delle due fronti interne dei parapetti:
 

IMP. CA(E)SAR DIVI F(ILIUS) AUGUSTUS, PONTIFEX MAXIM(US), CO(N)S(UL) XIII, IMP(ERATOR) XX, TRIBUNIC(IA), POTEST(ATE), XXXVII, P(ATER) P(ATRIE); TI (BERIUS) CAESAR DIVI AUGUSTI F(ILIUS),DIVI JULI N(EPOS), AUGUSST(US), PONTIF(EX) MAXIM(US), CO(N)S(UL) III, IMP(ERATOR) VIII, TRIB(UNUCIA) POTEST(ATE) XXII DEDERE

La straordinaria solidità del ponte e la sua resistenza alle piene del fiume, molto frequenti e violente, sono dovute all’ottima tecnica impiegata dai suoi costruttori ed ai sottili accorgimenti a cui hanno fatto ricorso i suoi progettisti (secondo alcuni studiosi il disegno del ponte sarebbe da attribuirsi a Vitruvio).
I sei piloni di sostegno sono obliqui rispetto all’asse del ponte, per assecondare la corrente del fiume. Dalle basi di tali piloni sporgono per 2 metri speroni lapidei che servivano come frangiflutti. Le fondamenta dei singoli piloni formano inoltre un'unica fondazione, tale da assicurare la stabilità più completa.
Il ponte misura in lunghezza m. 62,60 senza contare le testate, in parte interrate.
La larghezza del ponte è di 8,65 m. La sede stradale è larga 4,91m.
Le arcate non sono tutte delle stesse dimensioni, quella centrale ha luce di 10,50 e le altre variano dai 8,70 m. ai 8.80 m.
Sul fronte mare i pilastri appaiono decorati da edicole che probabilmente alloggiavano originariamente delle statue. Alcuni emblemi in onore di Augusto si notano inoltre scolpiti in alcune chiavi di volta delle arcate.
Il ponte costituiva infine il punto di origine – da cui venivano calcolate le milia segnate sui miliari – della via Emilia e della via Popilia.

Nel 552, durante la guerra greco-gotica, il comandante del presidio goto Usdrila, nel tentativo di sbarrare la strada verso Roma alle truppe di Narsete, fece tagliare l'arcata settentrionale verso borgo S.Giuliano che appare infatti tutt'oggi diversa dalle altre.
In epoca medioevale la testa del ponte verso la città venne rinforzata da una torre, fortificazione della porta e barriera daziaria, ricordata dalle fonti prima della sua distruzione durante il XVIII secolo.