Visualizzazioni totali

domenica 3 novembre 2013

La leggenda della Vera Croce nella basilica francescana di Arezzo

La leggenda della Vera Croce nella basilica francescana di Arezzo

Interno della basilica di San Francesco di Arezzo

Nel 1417 era morto Baccio di Maso Bacci, un ricco mercante appartenente a un'importante famiglia aretina, che nelle sue disposizioni testamentarie aveva previsto un generoso lascito per la decorazione del coro della basilica francescana, patronato dalla famiglia stessa. Iniziative del genere non erano infrequenti nei testamenti tra Medioevo e Rinascimento, ed erano una sorta di riconciliazione religiosa di individui di successo che si erano arricchiti in maniera non del tutto tollerata dalla Chiesa, come il prestito e il cambio, che all'epoca erano considerati peccato di usura.
Le disposizioni testamentarie vennero messe in pratica dagli eredi solo trent'anni dopo, quando nel 1447 Francesco Bacci vendette una vigna per pagare i lavori che vennero affidati all'attempato artista fiorentino Bicci di Lorenzo, maestro di una delle più attive botteghe della città toscana, ma dallo stile piuttosto ancorato al passato, che non abbracciò mai, se non in questioni superficiali, le novità dell'arte rinascimentale.
Il programma iconografico del ciclo sarà incentrato su una storia diffusa in età medievale e cara alla predicazione francescana: la Leggenda della Vera Croce, raccolta da Jacopo da Varagine nella sua Legenda aurea, la summa dell'agiografia compilata dal frate domenicano nel XIII secolo.
Nei primi anni cinquanta del Quattrocento, dunque, Bicci di Lorenzo si mette all'opera nella chiesa francescana di Arezzo. Ma già nel 1452 l'artista muore, lasciando le pareti della cappella ancora spoglie, a eccezione dei quattro evangelisti nelle vele della copertura a crociera, i dottori della Chiesa nel sottarco e il Giudizio Universale sopra l'arco trionfale.
Nello stesso anno Piero della Francesca viene chiamato – presumibilmente da Giovanni Bacci, figlio di Francesco - a mettere mano al lavoro incompiuto del pittore da poco deceduto. Il programma iconografico è già definito e la famiglia Bacci preme per ottenere che la decorazione sia completata nel minor tempo possibile.

La Leggenda della Vera Croce

La fortuna della leggenda della Vera Croce è collegata al culto di Sant'Elena, madre di Costantino (Legenda aurea, cap. LXVIII).

I. La vicenda narrata in questa fabula cristiana affonda le sue radici nell'epoca dei progenitori dell'umanità, Adamo ed Eva: Seth, figlio di Adamo, riceve da un angelo un seme che pone nella tomba del padre. Secoli dopo dal seme cresce un grande albero, il cui tronco però non si adatta a nessun uso, e viene quindi gettato a mo' di ponte sopra un fiumiciattolo; quando la Regina di Saba in visita a Salomone gli profetizzerà che quello stesso legno deciderà del declino della religione ebraica, il tronco viene seppellito.
Il legno ricompare in modo misterioso proprio qualche giorno prima della condanna a morte di Cristo e presta il suo materiale alla Croce del Golgota.

II. Il giorno prima della battaglia di Ponte Milvio (28 ottobre 312), Costantino vede stagliarsi in cielo, al di sopra del sole, il segno luminoso di una croce accompagnata dalla scritta Εν Τουτῳ Νικα (In Hoc Signo Vinces nella vulgata latina). Durante la notte gli appare in sogno un angelo che gli ordina di adottare il segno visto in cielo come suo vessillo. All'alba del giorno della battaglia, Costantino fa sovrapporre al labaro imperiale il monogramma di Cristo (Chi-ro) e sconfigge Massenzio (Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, 337 c.ca).

III. Nel 326 l'imperatrice madre, l'augusta Elena, si reca in pellegrinaggio in Terrasanta. A Gerusalemme riesce a scovare l'unico ebreo a conoscenza dell'esistenza del prezioso legno e lo sottopone a torture finché non rivela il suo nascondiglio.
Dopo avere recuperato il legno, Elena stessa ne verifica l'autenticità (il cadavere di un uomo viene disteso sul sacro legno e questi resuscita) e lo consacra come preziosa reliquia. La croce – a parte alcuni frammenti che l'imperatrice madre invia a Roma (dove sono a tutt'oggi conservati nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme) e Costantinopoli – verrà conservata nella basilica del Santo Sepolcro fatta erigere da Costantino ed inaugurata nel 335.

IV. Nei 614 i Persiani conquistano Gerusalemme e la croce è predata dal re Cosroe II e portata in Persia.
Il 12 dicembre 627 l'imperatore Eraclio (610-641) sconfigge l'esercito di Cosroe nella decisiva battaglia di Ninive. Cosroe viene deposto e ucciso ed il suo successore, Kavadh II, accettò nel 628 la pace proposta da Eraclio e si ritirò dai territori occupati dai Sasanidi nel corso della guerra, restituendo la reliquia della vera croce.
Nello stesso anno Eraclio, dopo essersi spogliato della sontuosa veste imperiale, entra in Gerusalemme dalla Porta d'oro – la stessa da cui aveva fatto il suo ingresso Gesù il giorno della Domenica delle Palme - e riporta la reliquia presso il Santo Sepolcro (restitutio Sanctae Crucis).

V. L'esistenza di una stauroteca che contenesse la reliquia è attestata per la prima volta dal racconto della pellegrina Egeria (Itinerarium Egeriae), che si fermò tre anni a Gerusalemme (la data più comunemente accettata è 381-384), che la descrive come un cofano (loculus) d'argento dorato in cui la vera croce era conservata.
Da una fonte più tarda (Teofane, Chronographia, IX secolo) sappiamo invece per certo che negli anni venti del V secolo Teodosio II (408-450) fece innalzare sul Golgota una croce gemmata, prototipo di una lunga serie di raffigurazioni.

VI. Nel 1099, quando il governatore fatimide di Gerusalemme, Iftikhar al-Dawla, all'approssimarsi dell'esercito crociato espulse tutti i cristiani dalla città santa, alcuni preti ortodossi nascosero la preziosa reliquia. Essa fu ritrovata dopo la conquista della città (15 luglio 1099) da Arnolfo di Roeux – il primo patriarca latino di Gerusalemme – che fu costretto a ricorrere alla tortura per farsi rivelare il nascondiglio dai riluttanti preti ortodossi, e divenne la più preziosa reliquia del regno.

VII. Della Vera croce e della stauroteca che la conteneva si perdono completamente le tracce nel 1187, quando condotta in battaglia dal vescovo di Acri al seguito dell'esercito crociato, cade nelle mani dei musulmani nel corso della battaglia di Hattin (4 luglio 1187). Il cronista arabo, Imàd ad-Din, che era presente al seguito di Saladino alla battaglia, scrive che i crociati l'avevano incastrata in una teca d'oro, e coronata di perle e di gemme, e la tenevan preparata per la festività della passione, per la solennità della ricorrente lor festa. Quando i preti la cavavan fuori, e le teste (dei portatori) la trasportavano, tutti accorrevano e si precipitavano verso di lei, nè ad alcuno era lecito rimanere indietro, nè chi si attardasse a seguirla poteva più disporre di sè. La sua cattura fu per loro più grave che la cattura del Re, e costituì il maggior colpo che subirono in quella battaglia.

Cronologia di esecuzione del ciclo pittorico

Il lavoro di Piero nella chiesa aretina di San Francesco si protrae però con tutta probabilità per alcuni anni: la datazione del ciclo è a oggi ancora incerta, e l'arco di tempo interessato dalle ipotesi di datazione dei diversi critici abbraccia quasi un quindicennio dal 1452 (data della morte di Bicci di Lorenzo) al 1466 (anno in cui Piero riceve un'altra commissione per la città di Arezzo e dal documento si deduce che il ciclo nella chiesa di San Francesco è completato). Nel corso degli anni cinquanta Piero si reca a Roma, una o forse più volte: la critica è concorde nel datare un viaggio nell'inverno 1458-1459 presso Pio II, ma Vasari riferisce di un primo viaggio alla corte papale già nel 1453, su invito di Niccolò V.
Carlo Ginzburg (1981 e 1994) propende per un'esecuzione del ciclo dilatata nel tempo, in un arco ampio che arriva fino al 1466. Viene proposta quindi una cronologia interna degli affreschi secondo una articolazione in due fasi distinte (pre e post soggiorno romano).
Roberto Longhi (1963) analizza il ciclo di Arezzo in base a considerazioni squisitamente stilistiche e ipotizza per esso una cronologia compresa tra il 1452 e il 1459. La tesi longhiana si fonda tra l'altro sul confronto tra gli affreschi aretini e l'affresco riminese del Tempio malatestiano che raffigura Sigismondo Malatesta in preghiera davanti a San Sigismondo (1451): Longhi riconosce una parentela stilistica tra le due opere e, in base a questa, sostiene che l'artista subentrò attivamente in San Francesco immediatamente a ridosso della morte di Bicci di Lorenzo.
Sempre Longhi stabilisce una cronologia interna al ciclo: prima sarebbero state dipinte le due lunette con gli episodi della Morte di Adamo e della Riconsegna della Croce a Gerusalemme da parte di Eraclio, per ultimo il riquadro posizionato in basso lungo la parete sinistra, raffigurante la Disfatta e la decapitazione di Cosroe. Dall'esame dell'evoluzione interna al ciclo di Arezzo, lo stesso Longhi ipotizza che negli stessi anni 1452-1458 Piero avrebbe realizzato sia la Madonna del parto di Monterchi che la Resurrezione di Sansepolcro. Secondo Roberto Longhi, dunque, il ciclo sarebbe stato concluso prima del viaggio a Roma alla corte di Pio II del 1458-1459, dove Piero realizza il San Luca in Santa Maria Maggiore, accostabile stilisticamente agli episodi della fascia mediana della cappella (il riquadro con la Regina di Saba e Salomone e quello con Sant'Elena).

Schema iconografico e cronologia narrativa del ciclo
 
 
1. Morte di Adamo
2. Salomone e la regina di Saba
3. Innalzamento e sepoltura del legno
4. Sogno di Costantino
5. Battaglia di Ponte Milvio
6. Tortura dell'ebreo
7. Ritrovamento e verifica delle tre croci

8. Battaglia di Eraclio contro Cosroe

9. Esaltazione della Croce
 
1. La morte di Adamo (1460)
 
All'estrema sinistra sono rappresentati due giovani, che assistono con costernazione alla prima morte nella storia dell'uomo.
Sulla destra, seduto a terra e circondato dai suoi figli, il vecchio Adamo manda Seth presso l'arcangelo Michele. Nello sfondo si vede l'incontro tra Seth e Michele, mentre a sinistra, all'ombra di un grande albero, il corpo di Adamo viene sepolto alla presenza dei familiari. Ponendo tutte e tre le scene della rappresentazione nello stesso paesaggio, Piero si mantiene negli schemi narrativi tradizionali già usati da Masaccio nella Cappella Brancacci.
L'affresco occupa l'intera lunetta della parete destra e racconta di come Adamo, ormai anziano, è morente (gruppo di destra), assistito dall'anziana Eva e da altri discendenti. Il giovane ignudo di spalle è una citazione classica del Pothos di Scòpa (visto probabilmente in un disegno proveniente da Roma).

Photos
copia di età adrianea dell'originale di Scòpa (330 a.C. c.ca)
Museo Montemartini, Sala delle caldaie, Roma
 
Sullo sfondo del dipinto Seth è a colloquio con l'Arcangelo Michele, per chiedergli l'Olio della Misericordia. Ne riceve invece il germoglio dell'Albero della Conoscenza, che sarebbe cresciuto fino "ai tempi di Salomone".
Nella parte centrale avviene la morte di Adamo, con una donna che apre le braccia urlando di disperazione (e richiamando l'attenzione dello spettatore sul centro del dipinto), mentre Seth (quasi completamente cancellato dal cattivo stato di conservazione) sta piantando nella bocca di Adamo il germoglio dell'Albero.
All'estrema sinistra si trovano due giovani, dei quali uno è insolitamente estraneo all'evento e guarda fuori dallo spazio del dipinto, verso il Profeta sulla parete adiacente. Si tratta forse di una connessione tra l'evento narrato e la profezia della venuta del Salvatore che vincerà la morte.
 
2. Salomone e la regina di Saba (1452)
 
Due episodi sono mostrati nello stesso affresco, separati l'uno dall'altro dalla colonna del palazzo reale. L'elemento architettonico, la colonna, è il centro della composizione e il punto di vista dell'intero affresco. L'episodio sulla sinistra è tratto dalla leggenda, mentre quello sulla destra è un elemento iconografico aggiunto da Piero.
La Regina di Saba, nel suo viaggio per incontrare Salomone e in procinto di attraversare quel ponte, ha la visione che il Salvatore verrà crocifisso con quel legno. Invece di attraversarlo si inginocchia ad adorare quel legno. Quando Salomone scopre la natura del messaggio divino ricevuto dalla Regina di Saba ordina che il ponte venga rimosso e il legno sepolto. Ma il legno viene ritrovato e, dopo un secondo messaggio premonitore, diventa lo strumento della Passione.
 
3. Innalzamento (o sepoltura) del Legno
 
Sul muro frontale della cappella, nel lato destro della finestra e sotto un Profeta, è stato posto l'Innalzamento (o sepoltura) del Legno. Questa storia fu dipinta dal principale assistente di Piero, Giovanni da Piemonte.
Qui la pesante modellazione di Giovanni da Piemonte disegna le rigide pieghe dei vestiti dei portatori e i loro capelli raccolti. Sulla Croce la venatura del legno, come un elegante motivo decorativo, forma un alone attorno alla testa del primo portatore, che appare così come una prefigurazione di Cristo sul Calvario. Il cielo occupa metà della superficie dell'affresco e le bianche nuvole irregolari appaiono come intarsi nell'azzurro.
 
4. Il sogno di Costantino (1455)
 
Al di sotto del riquadro precedente, è raffigurata la scena in cui un angelo appare in sogno all'imperatore la notte che precede la battaglia di Ponte Milvio e gli intima di combattere nel segno della croce. 
La scena è ambientata in piena notte. Costantino dorme dentro la sua grande tenda. Seduto su un piano bagnato dalla luce, un servitore fissa l'osservatore in una silenziosa conversazione. Con una audace innovazione, che sembra anticipare il moderno concetto di luce di Caravaggio, le due sentinelle rimangono nell'ombra contornate solo dalla luce proveniente dall'angelo sopra di loro.
 
5. Battaglia di Ponte Milvio (1458?)
 
Nella Battaglia di Costantino contro Massenzio, Ginzburg ravvede nell'insistenza sulla figura di Costantino (figura assente nel ciclo di Agnolo Gaddi in Santa Croce a Firenze, che invece dà spazio unicamente alla figura di Eraclio) un dichiarato manifesto politico antiturco.
Il vessillo che portano i soldati 'romani' di Costantino reca infatti l'aquila monocipite, l'insegna imperiale romana che proprio Giovanni VIII prima e Costantino XI poi adottarono al posto della precedente aquila bicipite. Le insegne dell'esercito nemico di Massenzio, una testa di moro e un drago, sono un chiaro riferimento all'esercito turco: il drago è la bestia musulmana che assalta la cristianità, la testa di moro non ha bisogno di decrittazione.
Secondo altra interpretazione l'affresco, oltre a raffigurare genericamente la lotta contro il Turco, alluderebbe più specificamente alla vittoria del voivoda di Transilvania Giovanni Hunyadi contro l'esercito di Maometto II sotto le mura di Belgrado nel luglio 1456.
Secondo Ginzburg, inoltre, l'inserimento nel dipinto del ritratto di Giovanni VIII Paleologo nelle vesti di Costantino il Grande sarebbe una chiara prova della volontà della committenza di celebrare la figura del penultimo imperatore di Bisanzio: Giovanni Bacci, subentrato dopo la morte del padre Francesco nel 1459 alla 'guida' della committenza aretina, avrebbe intessuto rapporti molto stretti con Bessarione, e quindi richiesto esplicitamente a Piero di inserire nell'affresco il profilo dell'imperatore, forse anche passandogli, per conto dello stesso Bessarione, la medaglia pisanelliana come modello.
 
Raffronto del profilo di Costantino con quello di Giovanni VIII ritratto da Pisanello nella medaglia di bronzo realizzata in occasione del Concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439) 
 
L'intervento del cardinale sarebbe stato mirato a glorificare l'ultima dinastia imperiale bizantina nella figura di Giovanni VIII al seguito del quale era venuto in Italia per il Concilio di Ferrara-Firenze del 1438-1439 e grazie al quale era entrato in possesso del prezioso reliquiario che conteneva un frammento del legno della Vera Croce.
Al di là dell'allegoria, la battaglia tra Costantino e Massenzio è dipinta come una splendida parata dalla quale il fragore delle armi è stato definitivamente eliminato. L'assenza di movimento immortala i cavalli nell'atto di saltare, i guerrieri che gridano con le bocche aperte, tutti fissati dall'inflessibile struttura compositiva imposta dalla prospettiva lineare.
 
6. La tortura dell'ebreo
 
Sul muro frontale della cappella, nel lato sinistro della finestra e sotto un Profeta, è stata posta la scena della Tortura dell'Ebreo, dipinta da Giovanni da Piemonte.
 
7. Ritrovamento e verifica delle tre croci (1460)
 
Questa è una delle più complesse e monumentali composizioni di Piero.
L'artista dipinge sulla sinistra la scoperta delle tre croci in un campo arato, fuori delle mura di Gerusalemme, mentre sulla destra, in una via della città, avviene il riconoscimento della Vera Croce. Il suo grande genio, che gli permetteva di trarre ispirazione dal semplice mondo della campagna, come dall'atmosfera sofisticata delle corti, così come dalla struttura urbana di città come Firenze e Arezzo, raggiunge in questo affresco le vette della varietà visiva.
La scena sulla sinistra descrive una scena di lavoro nei campi e la sua interpretazione del lavoro umano come atto di epico eroismo è ulteriormente sottolineata dai gesti solenni delle figure, immobilizzate nella loro fatica rituale. Oltre le colline sullo sfondo, bagnata da una luce pomeridiana, Piero ha dipinto la città di Gerusalemme. E', di fatto, una delle più indimenticabili viste di Arezzo, racchiusa tra le sue mura e abbellita dalla varietà dei suoi edifici colorati, dalle pietre grigie ai rossi mattoni. Questo senso del colore, che permette a Piero di rendere la diversa natura dei materiali e con l'uso di tonalità differenti permette di far distinguere le stagioni e l'ora del giorno, raggiunge le massime vette in questo affresco, confermando il distacco dai pittori fiorentini contemporanei. Sulla destra, davanti al tempio di Minerva, la cui facciata in marmi di diverso colore è molto simile agli edifici progettati da Leon Battista Alberti, l'imperatrice Elena e il suo seguito sono attorno alla barella su cui giace il giovane morto; improvvisamente, toccato dal Sacro Legno, questi risorge. La Croce inclinata, lo scorcio del busto del giovane col suo profilo appena accennato, il semicerchio creato dalle dame di compagnia di Elena, e anche le ombre proiettate sul terreno, ciascun elemento è attentamente studiato per ottenere una profondità spaziale che mai prima, nella storia della pittura, era stata resa in maniera così fortemente tridimensionale.
 
Nel volto del camerlengo che, nella scena del ritrovamento, sta in piedi tra la croce e l'imperatrice, l'artista ha ritratto se stesso. 
 

All'estrema destra del dipinto, l'ultimo personaggio di un gruppetto di astanti che indossano copricapo di foggia bizantina, e che ricorre anche nel successivo pannello dell'Esaltazione della Croce, appare vestito allo stesso modo del cardinale Bessarione nel celebre dipinto della Flagellazione (Ronchey), con una sorta di sovramantella che cala lateralmente alle maniche e con un colletto floscio.
 
 
 
8. La battaglia di Eraclio contro Cosroe (1460)
 
L'imperatore Eraclio (610-641) dichiara guerra al re persiano Cosroe e, dopo averlo sconfitto, ritorna a Gerusalemme con il Legno Sacro. Ma la Volontà Divina impedisce all'Imperatore di fare il suo ingresso trionfale in città. Così Eraclio, abbandonate tutte le insegne del potere e della magnificenza, entra a Gerusalemme portando la Croce in un gesto di umiltà, seguendo l'esempio di Cristo.
Pienamente godibile è la concertazione dei dettagli, che sono di per sé dei capolavori fruibili anche indipendentemente. Celebri dettagli sono quelli del trombettiere con il cappello alla bizantina (che spicca chiaro per contrasto sulle figure scure attorno), le armature rinascimentali perfettamente ritratte nei lustri metallici, la cura meticolosa nella rappresentazioni delle più disparate armi.
Difficile è però coordinare con precisione l'insieme, per la mancanza di riferimenti spaziali precisi. Tutto appare infatti condensato e tutti gli spazi intermedi sono occupati da altre figure o parti di figure. Numerosi sono gli scambi di colori "a scacchiera" tra figure vicine, che rendono impossibile la distinzione tra amici e nemici. Per esempio la scena della pugnalata al collo vede due figure con corazza verde o bruna o le maniche o il cappello del colore opposto; il soldato con lo scudo sotto Eraclio porta nelle brache gli stessi colori che ha nello scudo (rosso, verde e bianco).
In alto si dispiega una selva di lance e spade intrecciate, con bandiere simboliche sventolanti. L'aquila simboleggia il potere imperiale ed è aggressivamente rivolta verso i nemici, col becco aperto. Vi è poi la bandiera dell'oca, simbolo di vigilanza, e il leone, emblema della forza e del coraggio; tra le bandiere dei nemici, ormai già lacerate, si riconoscono lo scorpione, simbolo del giudaismo, la testa di moro e la mezzaluna calante. Al centro della composizione campeggia intatto lo scudo crociato: esso simboleggia l'annuncio della vittoria, non ancora conseguita ma ormai inevitabile.
Un quarto circa della scena è occupato nell'estremità destra dal baldacchino sotto il quale si sta svolgendo l'esecuzione dello sconfitto Cosroe. L'ambiente, nonostante mostri un episodio successivo alla battaglia, è rappresentato in maniera continua, con le gambe di un cavallo al galoppo che invadono la parte inferiore.
Il baldacchino è quello che il re persiano usava per farsi adorare su di un trono, a fianco della Croce (issata a destra del trono) e di un gallo sulla colonna. In basso egli è raffigurato in ginocchio, circondato da un semicerchio di funzionari, mentre due guardie si avvicinano minacciose: quella di destra ha già la spada alzata nel braccio destro, che sfora di una porzione oltre il confine della scena. Gli uomini abbigliati alla moderna sono rappresentanti della famiglia Bacci, i committenti dell'opera, la cui presenza li pone simbolicamente tra i difensori del cristianesimo (quello di profilo a sinistra di Cosroe dovrebbe essere Giovanni Bacci).
 
9. L'Esaltazione della croce (1466)
 
La scena che chiude le Storie mostra la finale esaltazione delle Croce, cioè il suo rientro a Gerusalemme dove può essere issata di nuovo per la devozione. L'imperatore Eraclio (la sua figura è quasi completamente perduta) dopo aver ripreso la Croce a Cosroe si appresta a riportarla in città, ma un angelo lo interrompe sulla via e ferma la sua parata trionfale: il vescovo Zaccaria lo esorta allora a un atteggiamento d'umiltà, infatti solo entrando scalzo, come Cristo sul Golgota, l'imperatore può riportare la Croce a Gerusalemme.
L'affresco mostra quindi la parata del rientro della Croce, mentre dalla città un gruppo di fedeli si fa incontro e si inginocchia in adorazione. Questo episodio era ricordato dalla cerimonia religiosa dell'Esaltazione.
Dietro l'imperatore si trovano una serie di dignitari con vesti e mantelli all'antica e con vistosi cappelli che erano in uso nella corte bizantina e che vennero visti da Piero e da altri artisti durante il concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439). Il secondo dopo Eraclio, con la mitria di profilo, è il vescovo Zaccaria, il terzo è nuovamente il personaggio (Bessarione?) già visto nella scena del Ritrovamento della Vera Croce.
La parte destra, all'ombra delle imponenti mura della città dove si levano due torri fortificate, ha il carattere di un'istantanea, infatti non tutti i personaggi sono arrivati: alcuni sono già inginocchiati, con la testa fasciata come si usava portare sotto i copricapo, uno si sta per inginocchiare togliendosi il vistoso cappello alla bizantina (un motivo essenzialmente geometrico), mentre un altro sta accorrendo. L'allineamento degli oranti o dei partecipanti alla processione convoglia l'attenzione dello spettatore sui singoli volti, che sono ritratti con varie inclinazioni in ossequio al principio della Varietas.
Gli alberi sul fondale riempiono la parte verticale della lunetta e si ricollegano all'altra lunetta con la Morte di Adamo, ambientata anch'essa all'aperto in uno scenario simile. Le nuvole sfumate a cuscinetto sono una caratteristica tipica dell'arte di Piero della Francesca. Un tramonto, tenuemente sfumato all'orizzonte, chiude il ciclo sullo sfondo.
 
 
A e B. I due profeti (1452)
 
Ai lati della finestra, in alto, l'artista ha posto due giovani profeti, quasi due solidi guardiani.
La maggiore qualità del profeta sulla destra indica che sicuramente fu dipinto da Piero, mentre l'altro fu eseguito da un assistente su un cartone dello stesso Piero.
Nel programma iconologico dei cicli di affreschi dell'epoca è usuale trovare anche la rappresentazione di un certo numero di profeti dell'Antico Testamento, che però di solito si trovano in cornici o zone marginali, di dimensioni spesso più piccole. Piero invece li rappresentò a grandezza uguale a quella delle altri figure del ciclo, posti su uno sfondo neutro monocolore e appoggiati su un gradino marmoreo.
L'identificazione dei profeti è incerta poiché mancano attribuiti specifici o cartigli che ne stabiliscano inequivocabilmente l'identità o il contenuto delle loro profezie.
L'identificazione di Ezechiele con il profeta a sinistra della finestra si basa sul riscontro della sua posizione al di sopra dell'Annunciazione, per via della sua visione della porta clausa (Ez 44,1) che nel medioevo era identificato come uno dei più popolari simboli di Maria: nella scena sottostante infatti una porta chiusa si trova dietro l'Angelo.
La veste del profeta è rossa, con mantello verde, mentre nell'altro profeta il rosso sta sul mantello, secondo un'alternanza di colori frequente nell'arte pierfrancescana.
 
L'identificazione di Geremia con il profeta a destra si basa sul riscontro della sua posizione accanto alla Morte di Adamo, verso la quale guarda ed è riguardato da un personaggio all'estremità sinistra. Geremia infatti aveva profetizzato un discendente di Davide che Jahvé farà crescere come il germoglio piantato nella bocca di Adamo, interpretato come allusione al Cristo che lega la scena della nascita dell'Albero della Conoscenza al resto delle storie della Croce.
Il profeta è raffigurato in piedi, su uno sfondo scuro, in mano tiene un cartiglio svolazzante, dove però non c'è iscrizione o non si è conservata. L'elemento più spettacolare è l'illuminazione sperimentale che proviene da dietro a sinistra, dalla finestra cioè che illumina naturalmente la cappella. In questo senso il profeta è come se fosse sbalzato in avanti sul gradino, proiettandosi verso lo spettatore quel tanto che basta per lasciarsi la finestra e la luce alle spalle.
In base alla somiglianza con il giovane scalzo che figura nella Flagellazione di Piero, la Ronchey riconosce in questo personaggio le fattezze di Tommaso Paleologo, fratello minore di Giovanni VIII ed ultimo despota di Morea.
 
 



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 

 



 

 



 



 


 
 
 

 



     

     

     



    Nessun commento:

    Posta un commento