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domenica 22 ottobre 2017

La via Appia: la Torre Selce

La via Appia: la Torre Selce


La Torre Selce si trova all'altezza dell'VIII miglio della via Appia e deve il suo nome o alle scaglie di selce con cui è rivestita o alla presenza di un’antica via (una silex traversa) nelle sue immediate vicinanze, forse da identificare con la strada (citata in un documento del 1140) che conduceva a un abbeveratoio pubblico (il Lacus domini Papae) fatto allestire da Callisto II (1119-1124).
La torre, che sembrerebbe risalire alla prima metà del XII secolo, s'innesta sui resti di un grande mausoleo (1) – in relazione al quale non è stato rinvenuto alcun frammento d’iscrizione utile a identificarlo - con un sistema di pilastri disposti a stella sui muri divisori interni del tamburo. Su questi pilastri venne impostata una serie di archi in laterizio, alcuni dei quali sono ancora ben conservati. L’alzato si presenta in opera incerta in blocchetti di peperino e selce su cui spicca una larga fascia bianca realizzata con frammenti di travertino. Nonostante i robusti contrafforti, della torre oggi rimangono in piedi soltanto due lati e mezzo. Le pareti presentano nicchie e fori per le travature lignee; una volta a crociera in muratura sosteneva l'ultimo piano. Sono ancora conservate alcune finestre prive di stipiti.
Il rivestimento a fasce e la notevole altezza fanno scorgere la Torre Selce anche da grandi distanze e dovevano permettere una facile comunicazione con altre torri e fortificazioni della zona.
In un disegno del Catasto di Alessandro VII (sec. XVII) Torre Selce è raffigurata come una costruzione merlata racchiusa da un alto recinto (che fu presumibilmente eretto utilizzando i massi di peperino del tumulo antico), munito di feritoie e coronato da merli: questo antemurale, oggi pressoché completamente scomparso, contribuiva certamente a rendere la torre difficilmente espugnabile.

 
Poche sono le notizie storiche su questa piccola fortezza. Sulla base dell'identificazione di Torre Selce con la Turris de Arcionibus - così detta in relazione agli archi dell'acquedotto della villa dei Quintili - si è voluto ricondurre la proprietà di questa torre alla famiglia Astalli (2).
In un atto dell’Archivio di S. Maria Nuova del 4 gennaio 1040 Pietro di Astaldo de Colosseo viene indicato come proprietario di una torre all’ottavo miglio, fuori porta San Giovanni.
Circa un secolo dopo, da un atto redatto il 1° novembre 1131, risulta che un certo Grisottus de Baruntio, cognato di un Astallus, vendette al monastero di S. Gregorio al Celio la sesta parte della turris de Arcionibus.
L’identificazione di Torre Selce con la Turris de de Arcionibus è ad ogni modo tutt'altro che certa. In realtà la prima indubbia citazione di Torre Selce è in un documento del 1150 in cui l'imperatore Corrado III cedette la Turris de Sclaceis (evidente corruzione di silicis) ai monaci di S. Gregorio al Celio. Questi ultimi rimasero a lungo proprietari del luogo: ne sono conferma le bolle papali di Innocenzo IV (12 luglio 1243) e di Bonifacio VIII (17 giugno 1299) dove compare come Turrem de Arcione.

 
Note:

(1) Del mausoleo originario rimane un ampio basamento quadrato di 22 m. di lato su cui s'impostava il tamburo che raggiungeva un'altezza di circa 9 m. I numerosi frammenti di marmo che si osservano nei pressi della torre appartenevano molto probabilmente alla ricca decorazione originale.

(2) La famiglia romana degli Astalli ha probabilmente origini altomedioevali. Il cognome è stato infatti posto in relazione con la carica di gastaldo dell'amministrazione longobarda.


sabato 21 ottobre 2017

Il Triopio di Erode Attico: introduzione, ninfeo di Egeria e cisterne


Il Triopio di Erode Attico: introduzione, ninfeo di Egeria e cisterne

Erode Attico, cittadino romano, era figlio di Vibullia Alcia Agrippina e di Tiberio Claudio Attico, un banchiere ateniese arricchitosi anche grazie all'esercizio dell'usura. Filosofo e letterato insegnò con notevole successo ad Atene, e raggiunse una fama tale che l'imperatore Antonino Pio (138-161) lo scelse quale precettore dei suoi due figli adottivi, Marco Aurelio e Lucio Vero.Trasferitosi a Roma ricoprì importanti cariche politiche (nel 143 ottenne il consolato e gli fu affidato il governo della Grecia e di parte dell'Asia Minore) e sposò la ricca e nobile Annia Regilla (140) - nonchè imparentata con la moglie di Antonino Pio, Faustina - ricevendone in dote i possedimenti tra il II e il III miglio della via Appia. Sparsi nell'attuale parco della Caffarella si trovano ancora i resti del complesso di edifici che egli fece costruire in luogo della villa di famiglia, in memoria della moglie, morta in Grecia nel 160 mentre era incinta, e che fu accusato di aver fatto assassinare da un suo liberto. Trascinato in giudizio dal cognato Annio Attilio Bradua ne uscì prosciolto da ogni accusa – probabilmente anche grazie all'intervento dello stesso Marco Aurelio – ma l'opinione pubblica continuò a ritenerlo colpevole. Anche perchè Erode non faceva nulla per nascondere la passione che provava per Polideuce, il giovane figlio di un suo liberto. Probabilmente per per ostentare il proprio amore per la moglie e fugare ogni sospetto dalla sua persona trasformò la residenza sull'Appia in una sorta di sacrario dedicato alla sua memoria.

Busto di Erode Attico
proveniente da Probalinthos (Grecia)
Museo del Louvre
 
Al nuovo complesso – che alla sua morte (170) fu assorbito nel demanio imperiale per essere successivamente inglobato nella residenza suburbana di Massenzio – diede il nome di Pago Triopio (1), che richiamava quello del santuario eretto a Cnido in onore di Demetra per ricordare la punizione inflitta dalla dea al figlio del re tessalo Triopa, Eresittone, che per aver tagliato il bosco a lei sacro fu condannato alla fame eterna.
La valle, pur suddivisa in diversi appezzamenti, continuò ad essere coltivata fino agli inizi del XV secolo, quando l'insalubrità del fondovalle, il timore di briganti e di invasori, ed il generale progressivo spopolamento della campagna romana, determinarono l'abbandono delle attività agricole.
Nel 1547 i Caffarelli entrarono in possesso della tenuta acquistandone i terreni da diversi proprietari e bonificarono la valle ridando slancio all'agricoltura e costruendo il casale detto della Vaccareccia. Ancora oggi la valle in cui si estende la tenuta è conosciuta come valle della Caffarella. Nel 1695 la tenuta fu venduta ai Pallavicini e nel 1816 venne infine rilevata dai Torlonia che la bonificarono per l'ultima volta restaurando e ampliando la rete idrica.
La valle della Caffarella è sempre stata ricchissima d'acqua. E' infatti attraversata dal fiume Almone (2), che nasce sui colli Albani e un tempo si gettava nel Tevere all'altezza del gazometro - nel dopoguerra venne deviato nel depuratore di Roma sud - raccogliendo le acque delle numerose sorgenti che ancora sgorgano nella valle (tra cui la Fonte Egeria da cui proviene l'omonima acqua minerale).
Su entrambi i versanti della valle si trovano i resti delle cisterne che servivano per l'irrigazione del fondovalle.

Il ninfeo di Egeria (3)


Si trova nel fondovalle, lungo la riva sinistra dell'Almone. L'edificio consiste attualmente in un grande ambiente rettangolare, con una nicchia centrale nella parete di fondo e tre nicchie più piccole che si aprono sulle pareti laterali. Questo ambiente è sopravanzato da un avancorpo con due vani laterali, anch’essi ornati da nicchie. La muratura è in opus mixtum. L'interno era riccamente rivestito di marmi: le pareti erano di Verde antico, un marmo pregiato proveniente dalla Tessaglia, mentre il pavimento era di Serpentino, un porfido d'intenso colore verde proveniente dalla Grecia.
Le nicchie erano rivestite in marmo bianco ed infine, tra esse e la volta, vi era una fascia decorata con mosaici.

La statua acefala del dio Almone nella nicchia di fondo

L'ambiente centrale è coperto da una volta a botte, sulla quale aderiva uno strato di pietra pomice allo scopo di far attecchire il capelvenere. Dalla nicchia di fondo, dove ancora è collocata una statua acefala della divinizzazione del fiume Almone distesa su un fianco e dove è ancora visibile il segno lasciato da un'altra statua - probabilmente raffigurante la ninfa Egeria (3) - oggi scomparsa, sgorgava l'acqua della fontana. L'acqua era incanalata in tubature di terracotta e scendendo lungo le pareti formava giochi d'acqua nelle nicchie laterali arricchite a loro volta da altre statue; inoltre l'umidità condensando nella volta, creava uno stillicidio che, insieme alla ricca vegetazione che scendeva dall'alto, rendeva l'ambiente fresco e suggestivo.


Nel complesso i marmi verdi del pavimento e delle pareti, con la volta coperta di capelvenere che lasciava gocciolare l'acqua condensata, dovevano dare l'idea un po' barocca di grotta artificiale, dove Erode Attico poteva recarsi nei periodi di calura estiva per passeggiare al fresco chiacchierando e banchettando piacevolmente con i suoi ospiti.


Ricostruzione schematica
 
Il ninfeo si affacciava originariamente sul fiume con un quadriportico, oggi non più conservato, che delimitava una piscina rettangolare di raccolta, che a sua volta si immetteva in un più vasto bacino lacustre, da identificare forse nel Lacus Salutaris noto dalle fonti antiche, in cui confluivano le acque del fiume Almone.

Il ninfeo di Egeria in un'incisione di Giovanni Battista Piranesi del 1766
In alto sullo sfondo si nota raffigurata la chiesa di sant'Urbano (Tempio di Cerere e Faustina) 

Scavi recenti hanno messo in luce una fase di restauro dell'edificio, originariamente fatto costruire da Erode Attico, che risale probabilmente alla costruzione della residenza suburbana di Massenzio.
Nel '600 il ninfeo ospitò una osteria mentre nel secolo successivo venne trasformato in lavatoio.


La cisterna nei pressi della chiesa di Sant'Urbano (5)


Si tratta di un edificio che all'esterno appare rettangolare (m. 21,4 x 8,6) mentre all'interno le pareti dei lati corti sono semicircolari; in origine era incassato nel terreno, e per questo costruito in scaglie di selce senza paramento (opus signinum) con uno spessore di 60 cm. Il pavimento è in cocciopesto, la volta è a due spioventi che formano un angolo quasi retto.

L'interno della cisterna

Sopra la volta il tetto era originariamente piano, ma vi fu costruito in un secondo tempo un muro perimetrale che infatti aderisce male; questa sopraelevazione deve essere stata eretta poco dopo la fondazione dell'edificio, visto che la tecnica edilizia è la stessa del resto della costruzione. L'insieme permette di datare l'edificio ai primi anni dell'impero (44 a.C.-40 d.C.)
E' molto probabile che lo sbancamento del terreno circostante, che portò la cisterna allo scoperto, sia avvenuto al tempo dell'imperatore Massenzio (305-312) per prelevare i materiali con cui realizzare la grande piattaforma su cui poggiano il circo e il Palazzo; i blocchi di tufo che si vedono ai piedi della cisterna devono essere stati collocati dopo lo sbancamento, per rinforzare la base dell'edificio.


La cisterna-ninfeo (12)

 
La cosiddetta Cisterna-Ninfeo si trova sul versante opposto della valle, a pochi metri dall'ingresso di Largo Pietro Tacchi Venturi. Era in realtà un serbatoio, alimentato da un acquedotto o da un serbatoio più grande. La struttura presenta una pianta rettangolare di metri 7,10 x 9.15, rivestita di cortina laterizia, ed è conservata per un’altezza massima di m. 3.50 circa. La copertura originaria è crollata ed era costituita da una volta a botte. La tecnica edilizia è riferibile al III sec.



La parte sud-orientale è caratterizzata da una sistemazione monumentale costituita da quattro pilastri aggettanti, uniti da tre archi.
Su entrambi i lati brevi erano presenti aperture per l’accesso all’interno della cisterna, realizzate in età moderna quando il manufatto fu usato come abitazione.


La cisterna-fienile (13)

 
Si tratta di un ambiente a pianta rettangolare costruito con laterizi di reimpiego e materiali moderni, al di sopra della vasca di una cisterna romana in opera cementizia in scaglie di lava, di m. 14 x 5.5. Si ipotizza che la cisterna facesse parte della villa romana di tarda età repubblicana - che presenta attività  edilizie chesi protraggono fino al IV sec.- i cui resti si trovano nell’area del Casale Tarani, situato in via Carlo de Bildt.
 
 
Tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, nel corso dei lavori di ristrutturazione del Casale Tarani, la struttura fu trasformata in fienile dalla famiglia Torlonia, proprietaria della tenuta della Caffarella, in particolare fu costruito il piano superiore come deposito per il foraggio secco.


La cisterna monumentale (15)
 

Sul poggio dominante la valle della Caffarella, al termine del sentiero che prosegue l'allineamento di via Bitinia, si riconosce il sito di una villa romana affacciata verso la valle sottostante.
Pertinente alla villa è un grande serbatoio munito di otto possenti contrafforti sul fronte a valle, che funge anche da sostruzione della scarpata naturale. La struttura realizzata scavando in parte nel banco di tufo, è impostata su un terreno in forte pendenza da nord a sud e raggiunge un'altezza di circa 8 metri e una superficie di circa 450 metri quadri (37x12). Presenta una pianta rettangolare, articolata in due navate longitudinali coperte da volta a botte, comunicanti attraverso cinque aperture ad arco aperte nel muro divisorio, e due camere perpendicolari sui lati brevi. Solo la navata nord e la camera ortogonale occidentale conservano integralmente la copertura con volta a botte. Lungo la volta della navata settentrionale si notano le aperture rettangolari che consentivano l'accesso per la manutenzione.

La navata settentrionale
 
La muratura in opera cementizia a scapoli di lava basaltica fa propendere per una datazione del manufatto alla prima età imperiale romana, da ascrivere alla categoria dei "serbatoi a camere parallele comunicanti", che accantonano acqua proveniente da un acquedotto. Nella parete esterna della camera ortogonale occidentale è infatti visibile l'ampio forame circolare – oggi tamponato – attraverso il quale l'acqua dell'acquedotto (4) si scaricava nella cisterna. Il volume d’acqua che questa poteva contenere è di circa 1500 metri cubi.

L'ingresso aperto lungo il lato meridionale
 
Dismesso come cisterna, l'edificio venne successivamente utilizzato come abitazione, come testimoniano l'apertura di un ingresso lungo il lato meridionale e la realizzazione di una cucina nella camera occidentale.
 
Note:
 
(1) Nel lessico amministrativo romano, il termine pago indicava una circoscrizione rurale posta al di fuori delle mura cittadine.
 
(2) Il fiume prende il nome da un giovane e focoso cortigiano del re Latino che fu il primo italico a cadere nella guerra combattuta dai nativi contro i troiani di Enea (Eneide, Libro VII, vv. 531-534). Ha quindi un carattere sacro giacchè legato alle origini mitiche della città eterna. A partire dal 204 a.C. inoltre, nelle sue acque il 27 marzo di ogni anno si svolgeva il rito purificatorio della Lavatio Matris Deum. Come descritto da Ovidio (Fasti, Libro IV, vv. 335-340), la statua della dea Cibele (la Magna Mater), custodita nel tempio a lei dedicato sul Palatino, veniva condotta in processione fino al punto dove l' Almone confluiva nel Tevere, qui il sacerdote supremo la immergeva e lavava, asciugandola e cospargendola di cenere. La cerimonia si tenne fino al 380 quando i riti pagani furono proibiti dall'Editto di Tessalonica promulgato da Teodosio I.
 
(3) La leggenda vuole che Egeria - una delle quattro ninfe Camene - fu prima amante e successivamente moglie di Numa Pompilio che consigliò e guidò nella promulgazione delle leggi. Nelle Metamorfosi (Libro XV) Ovidio racconta che alla morte del re la ninfa fu colta da disperazione tale che non smetteva più di piangerlo, sì che Diana, commossa, la trasformò in fonte.

Bertel Thorvaldsen, Numa Pompilio conversa con la ninfa Egeria nella sua grotta
bassorilievo in gesso, 1792
Thorvaldsen Museum, Copenaghen 
 
(4) Molto probabilmente si trattava del ramo antoniniano dell'acquedotto Marcio, fatto costruire da Caracalla nel 212-213 per alimentare il grandioso impianto termale che porta il suo nome (cfr. scheda Porta Appia, nota 1).

 
 









lunedì 16 ottobre 2017

La via Appia: La Berretta del prete

La Berretta del prete


La cosiddetta Berretta del Prete è un sepolcro romano che prende nome dalla sua caratteristica forma circolare con copertura a cupola. L'edificio si trova tra l'VIII e il IX miglio della via Appia, lungo il suo lato sinistro, preceduto a pochi metri di distanza da una tomba a edicola in opera laterizia molto ben conservata. Il mausoleo ha un diametro di 12,50 m ed è ornato sia esternamente che all’interno da nicchie semicircolari alle pareti. Un ambulacro concentrico (probabilmente a due livelli, con quello superiore periptero come sembra potersi dedurre dai numerosi frammenti di colonne rinvenuti nelle vicinanze) un tempo coperto da una volta a botte circondava l’edificio, mentre un corridoio rettangolare ne costituiva l’accesso monumentale dalla strada (entrambe le strutture non sono più visibili).
Il monumento raffigurato insieme alla tomba ad edicola che lo precede in un acquerello di Carlo Labruzzi (1789)

All'esterno si notano tre grandi archi di scarico ed un arco d'ingresso giustificati dalla presenza all'interno delle nicchie semicircolari. L'unico ingresso è costituito da una porta larga 90 cm. con soglia e stipiti in grossi blocchi di peperino. Il paramento murario, conservatosi soprattutto nella parte superiore, è in opera listata a corsi di cubetti di selce (generalmente due, ma a volte anche uno o tre) alternati ad un filare non sempre continuo di laterizi di reimpiego. Questa particolare tecnica muraria consente di datare il manufatto tra la fine del III e gli inizi del IV secolo.


Il monumento compare come annesso al Casale Palombaro (così detto perchè forse destinato all'allevamento dei piccioni) in un documento del 950, relativo alla cessione del fondo al monastero di San Gregorio al Celio che ne manterrà ininterrottamente la proprietà fino al 1828. In questo documento viene indicata all'interno del fondo la presenza di una chiesa dedicata a S.Maria Dei Genitriciis segnalata però come già deserta.
In passato la chiesa citata è stata interpretata come un riutilizzo del mausoleo ma da questo testo sembra di poter evincere che si tratti piuttosto di due edifici distinti (ecclesia cum monumento suo quod est crypta rotunda) oltre al fatto che non si rilevano evidenze archeologiche pertinenti a questa trasformazione d'uso.


domenica 15 ottobre 2017

La via Appia: Il mausoleo di Gallieno

Il Mausoleo di Gallieno


Al IX miglio e sul lato destro della Via Appia, circa 500 m. a sud dell'incrocio con via Fioranello, si trovano i resti di un grande mausoleo in opera laterizia originariamente rivestito in marmo. Il monumento è costituito da un basamento rotondo di circa 13 m, su cui poggia un tamburo circolare a due piani scandito da una serie di nicchie e coperto a cupola.
La pianta dell’edificio è particolare: il piano inferiore consiste in un corridoio centrale che interseca due ambienti rettangolari che terminano con un'abside semicircolare.

Il corridoio centrale. Sul pavimento uno dei capitelli delle colonne che ornavavano l'edificio
 
L'ambiente absidato di destra
 
Il piano superiore mostra invece una serie di grandi absidi semicircolari alternate a absidi rettangolari. Intorno al corpo centrale correva un colonnato anulare, di cui si ha testimonianza dai frammenti marmorei rinvenuti e da un’incisione seicentesca, che riproduce 18 colonne corinzie di grandi dimensioni. Poiché da un passo dell’Epitome de Caesaribus (1) è noto che Gallieno fu sepolto al IX miglio della Via Appia, è comunemente accettato che questo mausoleo sia da identificarsi con quello dell’imperatore morto nel 268 (2).

L'edificio prima dei restauri
 
fotografia del 1892-1896
 
 
Note:

(1) Opera storica redatta da un autore anonimo sul finire del IV secolo. Contiene una breve descrizione dei regni da Ottaviano Augusto (27 a.C-14) a Teodosio I (379-395).
 
Gallieno
Museo Nazionale Romano, Roma

(2) Publio Licinio Egnazio Gallieno salì al potere insieme al padre Valeriano nel 253 e quando questi fu catturato dai Sasanidi (260) rimase l'unico imperatore fino al 268, quando cinquantenne fu probabilmente assassinato da una congiura (secondo altri morì invece a seguito di una ferita riportata in battaglia). Fu divinizzato dal Senato per volontà del suo successore Claudio II il Gotico.




La via Appia: il mausoleo di Casal Rotondo

 Il mausoleo di Casal Rotondo


Al VI miglio dell'Appia Antica si trova un grande mausoleo chiamato Casal Rotondo a causa di un piccolo casale, ora trasformato in villa, che vi fu costruito sulla sommità in epoca medioevale. Il sepolcro, di età augustea, è formato da un corpo cilindrico del diametro di 35 m., originariamente rivestito di travertino, con un anello di base decorato da un fregio di grifi e un tetto conico a squame. Nella parte inferiore del cilindro il rivestimento offriva una sorta di piani di seduta per la sosta.

Particolare del fregio che corre lungo il basamento
 
 
Un'iscrizione frammentaria con il nome di Cotta fece credere all'archeologo Luigi Canina che si trattasse del monumento funebre eretto per Messalla Corvino, console nel 31 a.C., dal figlio Marco Aurelio Cotta Massimo Messalino, adottato da uno zio materno, Aurelio Cotta, che gli avrebbe trasmesso il gentilizio ed il cognomen, e console ordinario nel 20 d.C.

 
L'archeologo fece murare questa iscrizione, insieme ad altri frammenti marmorei ritrovati nell'area circostante e che riteneva appartenessero ad un'edicola circolare situata sulla cima del sepolcro, in una quinta in laterizi che fece erigere di fianco al mausoleo tra il 1830 e il 1840.

La struttura in laterizi fatta costruire da Canina nel XIX sec.

Studi più recenti hanno però escluso la pertinenza dell’epigrafe e dei frammenti architettonici al mausoleo di Casal Rotondo; si tratterebbe invece di quanto resta di un altro sepolcro, molto più piccolo, che doveva sorgere nelle immediate vicinanze. Tale sepolcro è stato ipotizzato come un’edicola circolare di circa m. 4 di diametro e m. 4,40 di altezza, poggiante su una base di tre gradini, ornata all’esterno da lesene corinzie, sormontata da un tetto conico a scaglie, su cui si elevava un cippo a pigna.
Ipotesi ricostruttiva del sepolcro scomparso

 In base alla decorazione, suggerita dai frammenti superstiti e dalle caratteristiche paleografiche e stilistiche dell’iscrizione, esso risalirebbe ai primi anni del principato augusteo, e precisamente tra il 36 a.C. ed il 28 a.C. e sarebbe appartenuto ad un membro della famiglia degli Aureli Cotta di cui non si conosce il nome.


Nel XIII secolo sulla spianata alla sommità del mausoleo venne fatta costruire dai Savelli una torre rotonda con piccoli rettangoli di peperino. Quando nel 1485 la proprietà passò agli Orsini, il fortilizio fu convertito in casale agricolo e successivamente nell'abitazione che ancora è visibile.