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mercoledì 12 ottobre 2011

Isola di Chios (Scio), Introduzione

ISOLA DI CHIO (SCIO).


1124-1173 L'isola di Chios viene concessa ai veneziani che l'abbandonano nel 1173 giudicandone l'occupazione economicamente svantaggiosa.
1173-1204 Impero bizantino. 

1204-1225 Con la fondazione dell'Impero latino d'Oriente l'isola passa sotto il suo controllo fin quando nel 1225 non viene riconquistata dall'Impero niceno.

Signoria degli Zaccaria (1304-1329)

Armi degli Zaccaria

Benedetto I Zaccaria (1304-1307). Avventuriero genovese, signore di Focea. Nel 1304 conquista l'isola di Chio.
Durante la crisi di Focea (la città era da tempo assediata dai corsari musulmani) l’ammiraglio Benedetto Zaccaria - ancora all’apice della gloria dopo essere stato determinante, insieme all'ammiraglio Oberto Doria,  nella vittoria della flotta genovese su quella pisana nella battaglia della Meloria (6 agosto 1284) - si accorse che l'isola di Scio era indifesa, facile preda di chi volesse occuparla: quindi, con un colpo di mano, se ne impadronì e la sistemò a difesa.
L'imperatore Andronico II, seppure a malincuore, la concesse in feudo all’ammiraglio per dieci anni, senza nessun altro vincolo che quello di inalberare sulle mura il vessillo imperiale e dichiararsi vassallo dell’Impero. Cosí Scio cambiava il suo destino, nel pugno saldo degli Zaccaria divenne un baluardo e un punto di scorta contro i pirati e i devastatori di ogni popolo e d’ogni religione.

Benedetto II Zaccaria detto “Il Paleologo” (1307-1314). Figlio di Benedetto I e della moglie il cui nome non è noto, pur dovendosi trattare di una donna legata in qualche modo alla famiglia dei Paleologi. Succede al padre alla sua morte. Sposa Giacomina Spinola. Alla sua morte gli succedono congiuntamente i figli Benedetto III e Martino.

Martino Zaccaria e Benedetto III (1314-1329)
L’imperatore Filippo "il Bello" di Francia aveva fatto delle isole di Chios, Tenedo, Samo, Marmora, Mitilene, ecc. e dei porti anatolici di Focea vecchia e Focea nuova un piccolo Regno, investendo Martino Zaccaria e tutti i suoi successori del dominio di queste terre.
A Martino Zaccaria venne conferito il titolo di Re e di Despota, alla greca, titolo che egli poteva trasmettere a tutti i suoi discendenti
utriusque sexus, cioè maschi e e femmine.
Martino Zaccaria, strinse una proficua alleanza con il suo primo matrimonio. Sposò infatti Maria Ghisi, la figlia maggiore di Bartolomeo Ghisi, gran conestabile di Morea che oltre alla castellania di Tebe, aveva il possesso di uno dei terzieri dell'Eubea e la Signoria di Tinos, Myconos e delle Sporadi settentrionali, allacciando stretti rapporti con la nobiltà della Romania Latina.
In questo contesto, ben radicato a Chios, ottenne la baronia di Chalandritsa da Aymon de Rans, il cavaliere al quale era stata donata da Luigi di Borgogna dopo l'estinzione della casata dei Tremolay.
Martino Zaccaria (a sn.) e S.Isidoro (a ds.) mentre sorreggono lo stendardo di Chio raffigurati sul dritto di un grosso da lui fatto coniare
 
In seconde nozze Martino sposò Jaqueline de La Roche, ultima erede del ramo cadetto della casa dei duchi di Atene che gli portò in dote le baronie di Veligosti in Messenia e di Damala in Argolide. Nonostante l'ampliamento dei suoi domini, Martino Zaccaria concentrò le sue forze soprattutto su Chios e sul mantenimento della supremazia navale dell'area che culminò con la conquista e l'occupazione della fortezza e del porto di Smirne nel 1317.
Nel 1318 fronteggiando vittoriosamente, con il sostegno dei Cavalieri di Rodi, un attacco turco, riuscì ad imporre agli Ottomani un pesante tributo di passaggio per i loro mercanti.
Martino riuscì quindi a volgere a suo favore le simpatie pontificie conducendo una lotta senza quartiere ai mercanti di schiavi e guadagnandosi in questo modo l'esenzione dai divieti vigenti sul commercio con l'Oriente islamico.
Nel frattempo era riuscito ad allontanare il fratello Benedetto III da Chios garantendogli un cospicuo vitalizio.
L'accresciuta potenza di Martino Zaccaria attirò anche le attenzione degli Angioini di Napoli e della Repubblica di Venezia che speravano di avere da lui un aiuto per l'espansione in Oriente.
Martino Zaccaria ottenne così da Filippo I d'Angiò, principe di Taranto, che aveva ereditato i titoli nominali di principe d'Acaia e imperatore di Costantinopoli, la nomina, il 26 giugno 1315, a "
Re e despota dell’Asia Minore" con i possedimenti delle isole di Scio, Enussa, Marmara, Tenedo, Lesbo, Samo, Nicaria, Co e i castelli di Damala e Calanuzza che insieme al regno di Tessalonica ed al despotato di Romania costituivano una delle chimeriche dipendenze dell'Impero Latino.
Per sdebitarsi, Martino, concesse 500 armati all’imperatore titolare per i suoi tentativi di riconquistare i perduti possedimenti dell'Impero Latino.
Oltre agli introiti derivanti dal possesso delle miniere di allume di Lesbo, già in parte controllate da Cattaneo, l’aspetto più importante era la concessione del dominio di Tenedo e Marmara. Queste due isole presidiavano infatti l’accesso allo Stretto dei Dardanelli che assicurava il controllo su tutto il Mar Nero. Chiunque desiderava commerciare con l’area Pontica doveva accordarsi con Martino Zaccaria.
Ma l’iniziale favore imperiale si tramutò presto in gelosia ed antagonismo con l'ascesa al trono del nuovo e più tenace imperatore Andronico III.
La rovina di Martino Zaccaria fu il tradimento del fratello Benedetto III che, nel 1324, si presentò all’imperatore reclamando contro l’operato del fratello.
L’imperatore proclamò la decadenza di Martino Zaccaria da tutti i suoi diritti in Oriente ed inviò una flotta di 105 navigli per riprendersi l’isola di Scio (1329).
Martino fu fatto prigioniero e tradotto a Costantinopoli, i suoi figli, Bartolomeo e Centurione, a stento ebbero salva la vita e parte dei loro tesori.
A Benedetto III, per il suo "tradimento", fu offerto il titolo di prefetto di Scio sotto la bandiera imperiale. Non soddisfatto, tentò nel 1330 di impadronirsi dell’isola, senza riuscirci. Morì poco dopo senza prole. Scio rimase in mano bizantina. Successivamente anche Focea fu riconquistata dai Greci.


Nel 1337, le pressioni del papa e di Filippo VI di Francia indussero Andronico III a liberare Martino Zaccaria dalla prigionia. Tornato a Genova, fu nominato ambasciatore della Repubblica presso la Santa Sede e nel 1343 gli fu affidato il comando delle quattro galere pontificie che parteciparono alla cosiddetta crociata di Smirne volta ad occupare la base principale della flotta pirata dell'emiro di Aydin Umur Bey.
Il 28 ottobre 1344, dopo alcuni vittoriosi scontri navali, le forze crociate occuparono il porto di Smirne (Liman kalesi) e la città bassa, mentre le forze dell'emiro continuavano a tenere l'acropoli (Kadifekale).
Il 17 gennaio 1345 il legato pontificio Enrico di Asti - patriarca latino titolare di Costantinopoli - contro il parere di Martino e degli altri comandanti crociati, volle celebrare la messa nell'edificio dell'antica cattedrale cittadina trasformata dai turchi in stallaggio che si trovava nella terra di nessuno tra le linee dei due schieramenti. Umur Bey in persona guidò l'attacco sferrato dai turchi durante la funzione. Mentre i crociati ripiegavano confusamente verso il porto, Martino Zaccaria, lo stesso patriarca e Pietro Zeno, comandante del contingente veneziano, furono trucidati nella chiesa. 

 
La Maona vecchia (1346-1363)
I Giustiniani di Genova più che da antiche discendenze, “nascono” a Genova il 27 febbraio 1347, come “nome” di una società: la “Maona” (la parola deriva probabilmente dal genovese mona che significa unione), la prima società per azioni documentata nella storia, sorta per lo sfruttamento per conto della Repubblica Genovese dell’Isola di Chios nell'Egeo nord orientale, ricca di un albero, il lentisco, che solo qui, produce una sostanza resinosa: il mastice, fonte all'epoca d'enorme ricchezza.
Ben presto i “Maonesi”, appartenenti a famiglie già in vista nella Genova di allora, assunsero tutti il nome di Giustiniani perdendo il proprio.

Armi dei Giustiniani di Chios

   Nel 1345, più o meno in concomitanza della perdita dei possedimenti di Chios e Focea nel Dodecaneso, il doge Giovanni De Murta indice un concorso per formare un armata di navigli per espugnare Roccabruna e Monaco divenuti il covo dei fuoriusciti avversari della Repubblica.
In quei tempi Genova versava in una profonda crisi finanziaria. Il Doge, sostenuto dal popolo decise di resistere, ma viste le ridotte disponibilità di cassa, affidò la costruzione della flotta a privati cittadini, il cui credito sarebbe stato garantito o con titoli del debito pubblico oppure con concessioni territoriali o finanziarie.
Ciascun partecipante doveva armare una nave e versare la somma di 20.000 lire a titolo di prestito a Genova. Di contro la Repubblica s’impegnava a restituire il prestito concedendo i bottini di guerra a titolo di risarcimento di questa spedizione. Parteciparono al concorso 7 “nobili” e 37 “popolani”, di cui solo 29 di loro riuscirono ad armare una nave (altri dicono 25). Questo gruppo si costituì attorno alla famiglia Giustiniani. La flotta fu armata da ben 6.000 uomini di cui 1.500 balestrieri. Un cronista dell’epoca nota che tutti gli armati erano vestiti dello stesso panno, costituendo quindi una formazione militare regolare.
Il comando fu affidato, il 19 gennaio 1346, al popolano Simone Vignoso con il titolo di Precettore o di comandante in capo della flotta.
La flotta era pronta ad essere utilizzata contro gli avversari della Repubblica, ma gli stessi intimoriti dalla poderosa flotta si rifugiarono a Marsiglia sotto la protezione del Re di Francia. Decisione non fortunata in quanto gli stessi furono invitati a partecipare alla guerra contro gli inglesi che li annientarono a Crecy.
La flotta si trovò quindi disoccupata ancor prima di cominciare, anche se a questo punto, si era già accumulato un credito per il suo allestimento ed il suo mantenimento.
Viste le necessità della Repubblica di tutelare i suoi possedimenti in medio oriente, la flotta fu inviata nel maggio dello stesso anno nel Levante, per difendere gli interessi commerciali genovesi tra cui gli ex possedimenti di Focea Vecchia e Focea Nuova, governati dagli Zaccaria con il titolo di Re e Despoti dell’Asia Minore, che erano stati ripresi dall’Imperatore Andronico II nel 1325. A queste si aggiunse anche l’isola di Chios, non più posseduta dagli Zaccaria dal 1329 ma di cui avevano conservato il titolo di Principi.
L’eventuale conquista di questi territori, avrebbe poi permesso di saldare il debito contratto con i Giustiniani per l’allestimento della flotta con una concessione ventennale sugli stessi attraverso “tutti i comodi e le utilità di tutti i luoghi e le terre che sarebbero state acquistate dall’ammiraglio, dai capitani e dagli uomini delle galee” per l’intera somma dovuta loro come compenso pari a 203.000 lire genovesi. Doveva essere quindi un rapporto di carattere feudale, una investitura provvisoria delle conquiste future.

Il 16 giugno del 1346, dopo un inutile tentativo diplomatico con i Greci che cercavano di mantenersi indipendenti, Vignoso entrò nel porto di Chios ed occupò l’isola in tre giorni. Ne assunse però il pieno controllo soltanto il 12 settembre quando, dopo tre mesi di eroica resistenza della guarnigione greca asserragliata  nel capoluogo dell'isola, il governatore bizantino Colajanni Cibo (Ziffo) accettò di firmare la capitolazione (1). 
Quattro giorni dopo, Vignoso riconquistò anche Focea Vecchia sulla costa anatolica. Il 20 dello stesso mese viene occupata Focea Nuova con un corpo di spedizione comandato da Pietro Recanelli Giustiniani.
Mentre si appresta a riconquistare Tenedo e Lesbo, il Vignoso deve tornare a Chios minacciata dagli imperiali.
Il 9 novembre 1346, torna a Genova acclamato dalla folla.
il 27 febbraio 1347 il doge, non avendo risorse per ripagare il debito contratto con i nuovi ammiragli, cede ai 29 armatori (“Mahonenses”) la giurisdizione civile e delle imposte di Chios (“dominum”) e il monopolio del commercio del mastice per 20 anni.
La difesa e l’amministrazione delle colonie furono affidate esclusivamente ai Maonesi, il Comune di Genova si riservò solo l’alta sovranità.
Questa è la prima formazione della Maona (detta poi la “vecchia”) che nel 1359 assunse il nome di Giustiniani per dare un suono esplicito al consorzio famigliare da loro creato.

   Nel 1348, il nuovo imperatore Giovanni VI Cantacuzeno chiese al Comune la restituzione di Chios e Focea, il Doge, astutamente emanò un provvedimento a riguardo ben consapevole che la Maona non gli avrebbe ubbidito. Il Dodecaneso infestato dai pirati, è ora minacciato dai mongoli. Genova cerca la protezione imperiale, senza troppo penalizzare i suoi traffici. Impone un dazio alla Maona a favore dell’imperatore che la obbliga ad innalzare la bandiera imperiale. In realtà tale provvedimento rimarrà, di fatto, inapplicato.

Con l’aiuto del genovese Giovanni Cybo, gli imperiali muovono per riprendersi il possesso dell’isola. Il Cantacuzeno favorito dalla popolazione riesce a riprendere le due Focee, ma fallisce la presa di Chios. Poco dopo i Maonesi riconquistano le due Focee per opera del condottiero Andrea Petrila.

L’8 marzo 1362 fu stabilito che si formasse una nuova “società” cui sarebbe andato il governo e lo sfruttamento commerciale di Chios per dodici anni fino al 14 febbraio 1374 e che la “vecchia” Maona fosse liquidata dalla medesima mediante il pagamento del debito residuo vantato con la Repubblica nel 1347.
Tale contratto aveva validità fino a quando a Genova fosse rimasto il governo popolare.
La Repubblica si riservò il diritto di risolvere il contratto anticipatamente, fino al 27 febbraio 1367, con il pagamento del debito delle 203.000 lire genovesi ai Giustiniani.
Il 14 novembre 1362 nasce la “nuova” Maona dei Giustiniani sotto la direzione di Pasquale Forneto e Giovanni Oliviero. I soci fondatori erano dodici: Nicolò de Caneto de Lavagna, Giovanni Campi, Francesco Arangio, Nicolò di S.Teodoro, Gabriele Adorno, Paolo Banca, Tommaso Longo, Andriolo Campi, Raffaello de Forneto, Luchino Negro, Pietro Oliverio e Francesco Garibaldi.
I soci si uniscono in “albergo” abbandonando il loro cognome, escluso Gabriele Adorno. Gli Adorno lo tramutarono in Pinelli, nel 1528, con la riforma degli “alberghi” famigliari assunsero poi quello di Giustiniani. A questi dodici si aggiunge successivamente un tredicesimo: Pietro di S.Teodoro.

Note:

(1) Per indurlo a capitolare furono offerte a Colajanni Cibo condizioni particolarmente vantaggiose: sarebbe divenuto cittadino di Genova e avrebbe continuato a governare l'isola in nome della Superba, avrebbe mantenuto tutte le sue proprietà al pari di tutti i greci di Chios e avrebbe ricevuto uno stipendio di 7.000 iperperi all'anno.


mercoledì 3 agosto 2011

Nea Moni, Chios

Nea Moni, situata all'interno dell'isola a circa 15 km da Chios città.

1. Katholikon 2. Refettorio 3. Cisterna 5. Celle  7. Cappella di S.Pantaleimon 8. Cappella della S.Croce 9. Casa di accoglienza per gli ospiti del monastero

Fu fatto edificare verso la metà dell'XI sec. da Costantino IX Monomaco e dall'imperatrice Zoe.
Secondo la leggenda fu fondato nel luogo dove tre monaci trovarono appesa ad un ramo di mirto un'icona della Vergine Maria.
A quell'epoca, Costantino Monomaco era stato esiliato a Chio da Michele IV per la sua eccessiva intimità con Zoe. I tre monaci si recarono da lui a riferirgli la scoperta e gli dissero di aver avuto una visione che sarebbe divenuto imperatore. Costantino promise che se questo fosse avvenuto avrebbe fatto costruire una chiesa.
Nel 1042, divenuto imperatore, mantenne la promessa.
Nel 1049 fu inaugurato il katholikon ma fu terminato soltanto nel 1055, dopo la morte di Costantino, sotto l'imperatrice Teodora alla cui committenza si deve la realizzazione dell'esonartece, che rappresenta quindi l'ultima opera della dinastia macedone.
Il monastero, dotato di cospicue rendite, prosperò anche sotto la dominazione genovese fino al massacro di Chio del 1822.
Il terremoto del 1881 determinò il crollo della cupola, che è stata rifatta in modo un po' differente dall'originale, e del campanile cinquecentesco. Nel 1952, a causa della carenza di monaci, fu trasformato in convento femminile. Nel 2001 risultava abitato da sole tre monache.

Oltre al katholikon, dedicato alla Dormizione della Vergine, il complesso comprende anche due chiese più piccole, dedicate alla Santa Croce e a San Pantaleimon, il refettorio (trapeza), la sala delle adunanze, una grande cisterna sotterranea e le celle; è completamente circondato da un muro (quello originale è però crollato nel terremoto del 1822) al cui angolo NE è appoggiata una torre difensiva usata anche come biblioteca. Al di fuori della cinta muraria prossima al cimitero monastico, c'è una cappella funebre dedicata a S.Luca.
Oltre al katholikon, eccezion fatta per la cupola, risalgono all XI sec. anche la cappella di S.Luca, i resti della torre, la cisterna e parte del trapeza, le celle sono invece state rifatte in epoca genovese.

Cappella della S.Croce, custodisce le ossa dei martiri del 1822

 
Cisterna, ingresso


 Torre all'angolo NE


 
Celle monastiche, ricostruite in epoca genovese


Katholikon (Chiesa della Dormizione della Vergine): l'architetto e le maestranze, come chiaramente documentato, sono costantinopolitani. La pianta è a croce greca inscritta ma la chiesa è sopravanzata da nartece ed esonartece e da un atrio allungato (stenopo, 7 x 3.50 m.) costruito in epoca successiva per collegare la torre campanaria (1512) alla chiesa.


La leggenda vuole che quando i tre monaci si recarono a Costantinopoli dall'imperatore per ricordargli la promessa, questi suggerì loro di scegliere una chiesa della capitale come modello e che questi scelsero i Santi Apostoli. E' invece evidente che il modello a cui si rifà la Nea Moni è piuttosto la chiesa costantinopolitana dei SS.Sergio e Bacco (527-536) con cui condivide il nucleo centrale ottagonale.
Il grande vano centrale su cui una cupola ottagonale quasi fuori scala s'imposta sulle trombe angolari definiscono l'innovazione codificando il tipo di chiesa “ottagonale insulare” che ritroveremo in altre chiese di Chio.
Nartece e presbiterio tripartito rimangono ambienti bassi e oscuri che contrastano con la luminosità del vano centrale, mentre lo spazio torna a dilatarsi nell'esonartece, nei nicchioni laterali e nelle tre cupolette.

 
Campanile e stenopo

Nel nartece sono raffigurate scene della vita del Cristo.
Il ciclo inizia nella campata nord con: la Resurrezione di Lazzaro e l'Ingresso in Gerusalemme, segue la Lavanda dei piedi, collocata sulla parete nord. Più in alto è preceduta da una scena articolata in tre parti che raffigura la preparazione del rito. Cristo è ritratto tre volte nell'atto di togliersi il manto, infilarsi il grembiule e preparare il bacile dell'acqua.
Nella scena sottostante Cristo e Pietro si trovano alla estrema sinistra e verso destra si snodano gli apostoli in un concatenato e ritmico alternarsi di gesti.





Il ciclo prosegue nella parete meridionale con la Preghiera nell'orto dei Getzemani ed il Tradimento di Giuda e con Ascensione e Pentecoste nelle pareti est e ovest.

 
Bacio di Giuda (parete sud): a destra S.Pietro taglia l'orecchio a Malco, il servo del grande sacerdote  (Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Giovanni, 18,10)
Da notare che i soldati romani che stanno per procedere all'arresto di Gesù impugnano tutti l'ascia da battaglia dal manico lungo, l'arma caratteristica della Guardia Variaga che, all'epoca in cui venne realizzato il mosaico, formava la guardia personale dell'imperatore (cfr. la voce "La Guardia Variaga" nella scheda Mosaico d'ombre di Tom Harper).
 
Note stilistiche:
. drammaticità e tensione emotiva, accentuata da atteggiamenti dinamici e vigorosi delle figure
. presenza di sia pur stilizzati inserti di paesaggio
. uso di forti contrasti tra luci e ombre che staccano prepotentemente i corpi dallo sfondo
. uso di tessere molto scure, serrate in ampie fasce compatte attorno agli occhi, nei contorni dei volti e lungo le linee dei panneggi.

 
Abside, Maria orante

Nei catini delle absidi laterali gli Arcangeli Michele e Gabriele, nella volta del diaconikon si notano i resti di una croce gemmata a otto bracci.


Nelle otto conche del naos si trovavano altrettante scene della vita di Cristo. Alcune molto danneggiate

 
Conca sud, Battesimo di Cristo: a sinistra, alle spalle di Giovanni, forse due suoi discepoli, più indietro forse due farisei, più in basso altri catecumeni che si spogliano in attesa di ricevere il battesimo. Immersa nell'acqua la personificazione del Giordano nelle fattezze di un giovane. Sulla sponda opposta due angeli.

 
Nella conca nord-ovest è raffigurata una scena meno frequente nei cicli più antichi, La Deposizione, con Nicodemo che schioda il Cristo dalla croce e Giuseppe di Arimatea che ne accoglie il corpo tra le braccia.

 
Conca nord, Anastasis. Cristo rompe le porte degli inferi e ne trae fuori i Progenitori. Sulla sinistra, davanti ad altri Giusti, Davide e Salomone, quest'ultimo, stranamente raffigurato in età matura e con barba scura potrebbe costituire un richiamo fisionomico al committente, Costantino IX Monomaco, che fu anche restauratore del Santo Sepolcro.

 
A ds, Costantino IX Monomaco come raffigurato nel mosaico di Santa Sofia.


Conca ovest, Crocefissione. Sulla sinistra il gruppo delle tre Marie con in testa la Vergine, a destra San Giovanni e dietro di lui, il buon centurione (Allora il centurione che gli stava accanto, vistolo spirare in quel modo, disse "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!", Marco, 15, 39).























Chiese di Chios

Panaghia Krina
 
Da Halikio procedendo verso sud dopo pochi chilometri si incontra il villaggio di Vavyli (dal cognome di origine genovese Avila).
La tradizione vuole che il villaggio sia stato edificato dai servi della gleba dei signorotti genovesi proprietari di castelli della zona (Krina, Kardamada, Anemonas e Sklavia) che avevano concesso loro la libertà e l’uso agricolo degli appezzamenti di quest'area.
Nei pressi del villaggio si trova la chiesa bizantina del XII secolo, la Panaghia Krina, con notevoli affreschi ed una ricca decorazione esterna. Alcuni affreschi sono però stati rimossi e trasferiti al Museo bizantino (ex Moschea Mecidiye) in piazza Vounaki nel capoluogo di Chio.


La Panagia Krina è una delle repliche più caratteristiche del katholikon della Nea Moni.
Nel nartece sormontato da cupola si notano numerose sepolture del periodo genovese.
 

La parte originaria della chiesa (quella antistante risale invece al XVIII sec) fu fatta edificare da Eustathios Kordatos e da sua moglie Irene Doukena Pagomeni, dignitari della corte costantinopolitana.
La decorazione parietale interna presenta il succedersi di varie epoche e stili.
Le pitture più antiche sono coeve alla fondazione della chiesa (1197, come da iscrizione), ad un secondo periodo (fine XIV sec.) appartengono invece le figure dei dodici apostoli oggi conservate al museo di Chio.
Un terzo periodo più tardo è visibile lungo le pareti nord e sud.
Gli affreschi sull'altare sono invece postbizantini.
Nel 1734 la chiesa fu interamente riaffrescata da Michele Homatza mentre la cupola, crollata nel terremoto del 1881, è stata successivamente ricostruita e ridipinta.

 

 

Panaghia Sinkelia

 Nei pressi di Kalamoti - anche esso un villaggio fortificato con la sua torre chiamata Zyvos parzialmente distrutta dal terremoto del 1881 - si trova la chiesa bizantina della Panaghia Sinkelia (o chiesa di Santa Maria), una basilica a navata unica voltata a botte e sormontata da cupola orientaleggiante con affreschi all'interno e squisiti decori in ceramica del XIII secolo, uno dei più importanti monumenti dell'isola, con la Madonna "tou Aghrelopou".
 
 
Genericamente databile al XII-XIII secolo, combina in realtà una pianta longitudinale a navata unica con una centrica a croce greca, in cui però il vano maggiore sottostante la cupola non proietta i bracci laterali all'esterno del prisma rettangolare che forma il corpo principale dell'edificio. Il tamburo ottagonale della cupola è traforato sugli assi maggiori da quattro finestre che illuminano a forza il vano maggiore mentre la navata, sprovvista di finestre, rimane buia. Esternamente la muratura si presenta a corsi alterni di mattoni e blocchi di pietra squadrata.
Era il katholikon dell'omonimo monastero.



 

Panaghia Aghrelopousaina
Situata sempre nei pressi del villaggio di Kalamoti. Era il katholikon di un piccolo insediamento monastico nominato come monasterium Agrilipi in Calamati in un documento genovese del 1381.
Presenta una pianta a navata unica voltata a botte con un endonartece sormontato da una cupoletta emisferica impostata su pennacchi.
La decorazione parietale risale alla prima metà del XIV secolo.


cupola del nartece, Pentecoste

parete nord del nartece: nel registro superiore, la Natività di Maria, in quello inferiore sono raffigurati i donatori nell'atto di offrire il modellino della chiesa

parete sud del nartece: nel registro superiore, Presentazione di Maria al tempio


Chiesa dei SS.Apostoli

Situata nel villaggio di Pyrgi. Originariamente era possibile accedere alla chiesa solo da un sottarco. Gli edifici contigui sono stati abbattuti in epoca recente per valorizzarne l'architettura.
Un'iscrizione posta al di sopra dell'ingresso principale informa che il monaco Simeone, che divenne successivamente arcivescovo di Chios, fece restaurare la chiesa nel 1564. La tipologia della chiesa, che mostra un impianto a croce greca inscritta con cupola ottagonale, consente infatti di riferirne la fondazione alla metà del XIV secolo.
 
 
La decorazione esterna (cornici a dente di sega, inserti ceramoplastici, etc.) è particolarmente ricca ed articolata. La decorazione parietale interna è invece tarda e postbizantina e fu realizzata dal pittore cretese Antonio Domestichos nel 1665.






 
 
 


 




Villaggi e castelli di Chios

Volissos

Secondo Strabone l'antica Volissos, una colonia ionica, sorgeva in prossimità della località di Elida sulla costa occidentale dell'isola. L'insediamento attuale risale invece al medio evo, quando gli abitanti si spostarono verso l'interno per difendersi dalle incursioni dei pirati.
Il castello, posto sulla sommità dell'altura chiamata Amani, secondo la leggenda fu costruito da Belisario, giunto a Chios dopo essere stato esiliato dall'imperatore.
Secondo Geronimo Giustiniani, Volissos fu, in epoca precedente l'arrivo dei genovesi, l'antica capitale dell'isola, nonché roccaforte della famiglia Foca che godette di molti privilegi durante la dominazione genovese.
Il castello ha pianta trapezoidale ed è munito da sei torri circolari, un passaggio sotterraneo lo collegava alla spiaggia.
In epoca mediovale Volissos era la seconda città dell'isola e fungeva da quartier generale per il settore settentrionale, anche se la totale assenza di scritte in latino e di toponimi di origine genovese si accorda con la molto minore influenza esercitata dalla dominazione genovese nella parte nordoccidentale dell'isola.

Torre di Dotia
 
E' una torre quadrata di tre piani posta al centro di un perimetro fortificato a forma di quadrilatero con gli angoli rinforzati da torrette.
La torre dovrebbe risalire al periodo dell'occupazione latina (1204-1225, data in cui l'isola fu riconquistata dai niceni.) mentre il perimetro fortificato che la circonda fu più probabilmente costruito in epoca genovese. La presenza di un camino al primo piano, che appare suddiviso in due ambienti voltati a botte, indica infatti la conoscenza di costumi nordeuropei. Un ulteriore indizio in questo senso è rappresentato inoltre dal rinvenimento nella muratura di frammenti di ceramiche del XII-XIII secolo.
La torre riposa su un basamento piramidale, elemento che fu introdotto molto precocemente nell'architettura del mediterraneo orientale atto a prevenire i danni da terremoto. Presenta infine significative analogie con la Torre di Dona Urraca a Covarrubias (Spagna settentrionale) che però è antecedente (950).
 
Dotia era un piccolo insediamento nei pressi di Emborios e qui veniva raccolta la produzione di mastice dei villaggi circostanti. Sono state ritrovate diverse tombe ed una dedica ad Apollo Agreti (dio della caccia), a significare che questa era una delle migliori zone dell'isola per la caccia.



 a destra, una delle torri d'angolo del perimetro difensivo.




Mesta
 
Come la maggior parte dei villaggi fortificati dai genovesi a Chio, anche Mesta non aveva mura vere e proprie ma queste erano formate dalle pareti esterne delle case costruite una a ridosso dell'altra senza soluzione di continuità, le finestre che si aprono adesso su queste pareti non esistevano ed erano rimpiazzate da feritoie. Ai quattro angoli del villaggio si trovavano altrettante torri difensive.
Il villaggio ha una forma quadrangolare con una punta triangolare a NO che culmina con la Torre Militas. Dalla piazza principale partono due strade che convergono davanti alla torre Militas (nel punto in cui convergono sono visibili i resti di un'altra torre) formando così una sorta di ulteriore ridotto interno.


    1. Piazza principale 2. Meghas (Big) Taxiarchis (recente) 3. Muro perimetrale della torre principale 4. Porta "tou Kapetaniou" 5. Porta Ovest e pozzo (Torre Militas) 6. Torre di NE 7. Palaios (Old) Taxiarchis 8. Ingresso moderno al villaggio 9. Resti della Torre di SO
(4). La porta del capitano – così chiamata perchè probabilmente la casa sovrastante e quella vicina erano la residenza del Governatore - costituiva l'unico accesso al villaggio e veniva chiusa dal tramonto all'alba anche in tempo di pace per controllare il flusso delle merci e la loro tassazione.


(7) Antica chiesa dei Taxiarchi. Costruita nel 1412, si presentava originariamente a navata unica.
Nel 1794 fu aggiunta la navata nord.
L'originario ingresso della chiesa è la piccola porta adesso a destra dell'attuale ingresso principale.
Esternamente la parte originaria è riconoscibile per la muratura e per le absidi cieche. Purtroppo le decorazioni parietali furono completamente distrutte dai Turchi nel 1822.



 
(5) Torre Militas. Così chiamata dalla parola italiana “militare”, perchè probabilmente era sede del corpo di guardia. Costituiva la prima linea di difesa oltre a difendere il pozzo che si trova sotto di essa, comunque collegato da un canale sotterraneo alla torre principale (demolita nel 1858 per far posto alla nuova chiesa dei Taxiarchi) posta nella piazza centrale.

 
Pozzo della Torre della Milizia


 
Porta Ovest
 
(6) Torre di NE
 
Kampos

L'abitato di Kampos, situato circa a 6 km a sud della città di Chios, era il quartiere residenziale dei notabili e dei nobili genovesi. Qui, passeggiando in un dedalo di strade e viuzze, si incontrano numerosi Archonticà (Palazzi) costruiti tra il XIV ed il XVI secolo con la pietra rossa estratta dalle vicine cave di Thymiana e circondati da alti muri di cinta.
Ogni residenza aveva giardini lussureggianti con rigogliose coltivazioni di agrumi – alla cui coltivazione il clima temperato della zona si prestava in maniera particolare - abbellite da pergolati in fiore e vasche sulle quali galleggiavano ninfee.
Le lussuose residenze genovesi erano circa 200: molte furono distrutte dai Turchi nel 1822, la gran parte parte dal terremoto del 1881.
 
Palazzo Argenti, portone d'ingresso
 
Tra gli antichi palazzi rimasti, le dimore meglio conservate e restaurate in epoca più o meno recente sono: il palazzo di Filipos Argenti, databile alla metà del XVI secolo e restaurata dall’architetto A. Smith nel 1937-39, con il suo magnifico portone. La casa, trasformata in albergo e arredata con oggetti e mobili antichi, è gestita ancora oggi dalla stessa famiglia, presente sull'isola da più di sei secoli; la dimora dei Kasanova (vicino al torrente Kokkalàs); palazzo Mavrokordatos, anch'essa trasformata in guest house - il cui portale d'ingresso è sormontato dallo stemma dei Giustiniani ed un altro ben conservato si trova vicino alla piscina - nella sua forma attuale (recentemente restaurata) risale al 1736; la dimora dei Lacanos (in zona Frangovouni) e quelle delle famiglie Zygomatàs.

Palazzo Mavrokordatos, corte 
 
Sklavia

Proseguendo verso sud, oltrepassato il villaggio di Vavyli e piegando verso l’interno, si incontra l’abitato di Sklavia (sklavia = schiavi), toponimo che potrebbe derivare dalla presenza in questa zona della prigione dei Giustiniani o dal fatto che agli schiavi liberati fu consentito di coltivare queste terre, la zona ha infatti un clima sempre abbastanza mite tale da consentire la coltivazione di molte primizie. L'area è punteggiata da importanti resti medievali di residenze e chiese dell'epoca dei Giustiniani circondati da una folta pineta. In particolare, sono ancora visibili i resti della chiese latine dedicate a S.Giovanni e San Nicola. Una delle ville ormai in rovina, attualmente di proprietà comunale, è nota come Villa Giustiniani de Forneto.

Chiesa di S.Giovanni
 
Villa Giustiniani de Forneto, portale d'ingresso