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giovedì 7 agosto 2025

Anello nuziale detto di Costante II

 Anello nuziale detto di Costante II

Conservato nel museo archeologico di Palermo, questo anello nuziale risale al VII secolo ed è di straordinaria fattura.
Fu ritrovato a Siracusa nei pressi dei Bagni di Dafne in un tesoro formato da gioielli e monete d’oro rinvenuto casualmente nel 1872.



E’ in oro massiccio, col lato esterno sfaccettato a ottagono, a replicare la forma della corona imperiale. Su sette facce sono raffigurate scene cristologiche (Annunciazione, Visitazione, Natività, Adorazione dei Magi, Battesimo di Cristo, Crocifissione, Marie al Sepolcro,) sull’ottava faccia è saldato il castone rotondo con un’iscrizione - Della tua benevolenza, come uno scudo ci hai incoronato (cfr. Salmi V, 13) - che circonda una scena figurata: Cristo, al centro, abbraccia due figure coronate, un uomo e una donna. Le figure, alte al massimo 5 mm., sono rese a niello (una lega metallica di colore nero che include zolfo, rame, argento e spesso anche piombo, usata come intarsio nell'incisione di metalli) e agemina (incastro di piccole parti di uno o più metalli di vario colore con lo scopo di ottenere una colorazione policroma).

Le scene sono molto articolate, alcune sono piene di figure minuscole e costellate di dettagli microscopici. Per esempio nell’Annunciazione c’è un’ancella, la Vergine e l’angelo e tra loro un cesto e una grande matassa di porpora; nella Crocifissione ci sono Cristo, i due ladroni e due soldati piccoli piccoli, ai piedi della Croce.
E' databile al VII secolo, probabilmente opera di una bottega costantinopolitana. Il luogo del ritrovamento – nei pressi delle terme dove fu assassinato Costante II – ha fatto pensare che appartenesse ad un membro di alto rango della corte che lo nascose spaventato dai tumulti che seguirono la morte dell'imperatore. Meno probabile, come da altri sostenuto, che sia appartenuto allo stesso imperatore.

venerdì 3 maggio 2024

L'avorio di Romano

 L'avorio di Romano

L'avorio detto di Romano, cm. 24x15
X secolo
Cabinet des Medailles, BNF, Parigi

Questa placca d'avorio ornava la legatura di un evangeliario dell'XI secolo conservato nella cattedrale di Besancon. Nel 1805 fu acquistata per il Cabinet des Medailles dell'allora Biblioteca imperiale dal barone de Roujoux. Originariamente il cosiddetto Avorio di Romano non fu creato per
ornare una rilegatura, poiché la sua forma rimanda a quella della parte centrale di un trittico, tuttavia nessuna traccia di cerniera o di un sistema che permetta di fissare delle ante è individuabile sulla sua superficieAl centro è raffigurato il Cristo su un piedistallo finemente intarsiato mentre incorona una coppia imperiale. L'imperatore indossa lo scaramargion – la lunga tunica decorata con cerchi e perle – e sopra questa il loros decorato da un motivo a quadri bordati di perle. Sulla fodera dello strascico del loros che ricade dal braccio sinistro dell'imperatore s'intravede ricamata una croce. La corona dell'imperatore è sormontata da una croce e provvista di perpendulia. L'imperatrice anzichè il loros indossa sopra la tunica una clamide decorata a motivi circolari e orlata da un filo di perle e fermata sulla spalla destra. Il mantello è impreziosito sul petto dal tablion con riquadri e foglie d’edera.

Nonostante il fatto che le didascalie identifichino la coppia come Romano ed Eudocia, due diverse ipotesi sono state avanzate per l'identificazione della coppia imperiale incoronata da Cristo.
La prima è che si tratti di Romano II e Berta, figlia naturale di Ugo di Provenza, conte di Arles e re d'Italia, che quando sposò l'imperatore Romano II nel 944 assunse il nome di Eudocia. Romano II fu incoronato coimperatore il 6 aprile 945 mentre la moglie Berta (Eudocia) morì nel 949. Se dovesse trattarsi di questa coppia, la placca sarebbe stata realizzata a Costantinopoli entro questo intervallo di tempo.
La seconda ipotesi identifica la coppia con Romano IV Diogene e Eudocia Macrebolitissa. Il matrimonio tra Romano IV e la vedova di Costantino X fu celebrato nel 1068 mentre Romano IV morì nel 1071.

domenica 9 settembre 2018

La corona di Santo Stefano

La corona di Santo Stefano

Corona di Santo Stefano, parte anteriore

La cosiddetta corona di Santo Stefano – oggi conservata nel Palazzo del Parlamento di Budapest - risulta dall'assemblaggio di due parti distinte, che differiscono tra loro per epoca e stile.
La parte inferiore, composta da una fascia d'oro, piegata a cerchio e coronata da elementi triangolari e a semicerchio è un manufatto di oreficeria bizantina dell'epoca (o poco prima) dell'Imperatore Michele Dukas VII (1071-1078). A parte la sostituzione di alcune gemme e di cinque pendenti, appare nel suo stato originale.
La fascia d'oro contiene incastonate a griffe otto placchette di smalti cloisonnè di forma quasi quadrata.
Al centro anteriore della corona si eleva il semicerchio principale che contiene un Cristo Pantocrator a figura intera seduto su un trono ingioiellato, con ai lati due cipressi stilizzati e due campi circolari con le iniziali del nome. Nelle placchette sottostanti, ai lati del Pantocrator, gli arcangeli Michele e Gabriele a mezzo busto; seguono i Santi guerrieri Giorgio e Demetrio, e i Santi medici Cosma e Damiano.

Corona di Santo Stefano, parte posteriore

Sul retro della corona sono invece ritratti i tre personaggi storici legati probabilmente al suo arrivo in Ungheria. Sono tutti riconoscibili dalle epigrafi.

Michele VIII

In alto l'Imperatore Michele VII Dukas (1071-1078), al vertice della gerarchia terrena, come Cristo lo è di quella celeste. La placchetta è infatti posta specularmente a quella del Cristo. Quali simboli di regnante reca il labaro e la spada.

Costantino o Costanzo Porfirogenito

Sulla fascia si trovano invece i ritratti del co-imperatore Costantino Porfirogenito e di Géza I re d'Ungheria (1074-1077), definito dalla didascalia "re dei Turchi" come allora i bizantini chiamavano gli ungheresi (1). Il suo rango, leggermente inferiore rispetto agli imperatori, è sottolineato dal fatto che mentre i caratteri delle loro epigrafi sono colorate in rosso porpora, l'epigrafe di Géza è in smalto blu e la sua testa, a differenza degli altri due, non è avvolta dall'aureola. Inoltre il suo sguardo non è perfettamente frontale, come quelli di Michele VII e di Costantino, bensì è chiaramente rivolto a destra, verso l'imperatore.

Geza I d'Ungheria

Questa parte inferiore della corona inoltre, di fattura bizantina, somiglia molto a quelle usate dalle imperatrici bizantine. Geza I d'Ungheria sposò una nobildonna bizantina, la figlia di Teodulo Synadeno, cognato del futuro imperatore Niceforo III Botaniate, anche se non si conoscono né il nome - è nota soltanto come Synadene - né la data precisa del matrimonio (Scilitze Continuato). La cosiddetta parte greca della corona potrebbe quindi essere un dono inviatole dalla corte costantinopolitana. Non si tratterebbe inoltre di un manufatto realizzato ex novo, ma del riadattamento – eliminando i soggetti ritenuti inappropriati ed aggiungendo i ritratti dei regnanti – di una corona proveniente dal Tesoro imperiale (2).

Corona di Santo Stefano, parte superiore 

La parte superiore della corona ha invece una forma a croce che interseca la corona bizantina con angoli di 90°. Le quattro bande auree che la compongono sono state fissate con delle griffe lungo i lati del rettangolo centrale su cui è raffigurato un Cristo Pantocrator visibilmente dipendente da quello della corona greca, ma che presenta i simboli del sole e della luna. Lungo i bracci della croce si trovano le immagini in smalto policromo di otto Apostoli a figura intera: Pietro, Paolo, Giovanni, Giacomo, Bartolomeo, Filippo, Tommaso e Andrea. I lati delle loro placchette, le cui cornici sono bordate da perle e almandine entro alti castoni a fascia, sono decorati con motivi zoomorfi. Le didascalie che accompagnano le figure sono inoltre tutte in latino. Nel complesso appare di fattura più tarda e meno raffinata, dovrebbe risalire al tardo XII secolo ed essere opera di artigiani locali.
La croce d'oro che sormonta la corona è infine un'aggiunta del XVI secolo ed è inclinata a causa di una caduta.

L'assemblaggio delle due corone è avvenuto in maniera alquanto rozza, senza modificare le parti a contatto, tramite l'uso di chiodi le cui teste sono ancora visibili sulla superficie liscia della fascia aurea. Questo assemblaggio avvenne probabilmente durante il regno di Béla III (1171-1196) per il quale fu forse anche realizzata la corona latina.

Nel suo insieme la corona è detta “di Santo Stefano” perchè si riteneva fosse quella inviata intorno al 1000 da papa Silvestro II per incoronare il giovane re Vajk (ribattezzato Stefano e dopo la sua morte canonizzato) primo re d'Ungheria. Tutte le considerazioni sopra esposte portano però ad escludere che possa trattarsi della stessa corona. Questa in oggetto entrò probabilmente in uso per incoronare i re d'Ungheria con Bela III e fu sempre usata fino all'incoronazione dell'ultimo re, Carlo IV, nel 1916 (secondo il diritto ungherese infatti detiene legalmente il potere soltanto chi fisicamente possiede questa corona).
Dal 2000 è conservata nel Palazzo del Parlamento ungherese.

Note:
(1) La didascalia recita precisamente: ГєωβιτzаˇсПιсτосΚρаλңсΤоυрхιас (Geza fedele re dei Turchi).

(2) Secondo Eva Kovacs (1980) anziché il figlio di Michele VII, Costantino, il personaggio denominato dall'epigrafe “Kon. Porphyrogennetos ” sarebbe invece suo fratello minore Costanzo. La corona risalirebbe quindi al periodo compreso tra la morte del padre Costantino X Dukas (22 maggio 1067) e l'ascesa al trono di Romano IV Diogene (1 gennaio 1068) quando i due fratelli regnarono insieme sotto la Reggenza della madre Eudocia Macrebolitissa. Niceforo Botaniate comandò le truppe bizantine lungo la frontiera con l'Ungheria tra il 1064 ed il 1067, il matrimonio tra Geza e sua nipote Synadene potrebbe essere quindi stato combinato proprio in questo periodo a cui risalirebbe anche l'invio della corona. Ipotesi suffragata anche dal fatto che nello smalto della corona Geza, per quanto impugni uno scettro, non è però cinto da corona (diventerà re d'Ungheria soltanto nel 1074).


mercoledì 1 agosto 2018

L'avorio di Treviri

L'avorio di Treviri

L'avorio di Treviri
museo del Tesoro del Duomo, Treviri

Si tratta della parete laterale di un reliquiario, probabilmente destinato ad accogliere la reliquia del braccio destro di Santo Stefano protomartire, realizzato a Costantinopoli e proveniente dalla chiesa dedicata al santo che è raffigurata nella composizione.
Nell'avorio è rappresentato il cerimoniale dell'adventus, l'ingresso trionfale in città riservato all'imperatore ma anche ad alti prelati o alle sacre reliquie come sembra questo il caso.
Parte prominente dell'adventus è la synantesis, il gioioso incontro della popolazione salmodiante e acclamante con il corteo trionfale alle porte della città. A questa fase, nel caso delle reliquie, segue la propompe, la processione all'interno della città con cui vengono portate nel luogo dove saranno custodite. La terza e conclusiva fase del cerimoniale (apothesis o katathesis) consiste nella deposizione delle reliquie all'interno della chiesa deputata.
La fase del cerimoniale raffigurata nell'avorio sembra essere quella della propompe. Il corteo si trova infatti all'interno della città e le reliquie, affidate alla custodia di due vescovi (in dalmatica e omophorion) procedono su un carro tirato da una coppia di muli, davanti a cui incedono quattro chlamydati che tengono in mano un cero, nel primo dei quali è riconoscibile un imperatore.
La chiesa che accoglierà le reliquie – a pianta basilicale, con abside aggettante e paraekklesion – appare ancora da ultimare, come si evince dagli operai affaccendati sul tetto. Davanti all'ingresso è in attesa una donna che, a giudicare dall'abbigliamento, è un'imperatrice e tende la destra per ricevere le reliquie mentre nella sinistra tiene una croce, probabilmente un attributo del cerimoniale.
A dispetto delle sue dimensioni ridotte, questa figura è al centro della composizione, catalizzando gli sguardi e l'attenzione degli astanti. Ciò fa pensare che sia stata lei la promotrice della traslazione delle reliquie nonché la fondatrice della chiesa.
Lo sfondo è occupato da una costruzione a tre ordini di arcate (1), al cui interno si dispongono personaggi esclusivamente maschili. I nove che occupano il secondo ordine, che hanno nella destra un incensiere e tengono la sinistra accostata all'orecchio, sembrano cantare o acclamare come un solo uomo, guidati da un invisibile direttore e sono quindi probabilmente degli psaltai (cantori professionisti). Nel terzo e nel primo ordine si dispongono numerosi busti maschili molto simili a quelli del secondo ordine.

Particolare della Chalke

Il tetrapylon che si trova all'estrema sinistra della composizione rappresenta quindi la Chalke, il monumentale ingresso al Palazzo Imperiale, sormontato – come almeno dagli inizi del VIII secolo - da un'immagine del Cristo, riconoscibile per il nimbo crociato. Il corteo, che lo ha appena oltrepassato, si trova quindi all'interno del recinto palaziale.

La Chalke, ricostruzione virtuale

In base al seguente passo della Chronographia di Teofane Confessore – uno storico bizantino che scrive nel IX secolo – relativo ad un traslatio di reliquie avvenuta durante il regno di Teodosio II, Kenneth Holum and Gary Vikan (K.G. Holum and G.Vikan, The Trier Ivory, "Adventus" Ceremonial, and the Relics of St.Stephen, Dumbarton Oaks Papers, vol. 33, 1979, pp. 115-133) hanno avanzato l'ipotesi che l'avorio raffiguri un evento storicamente avvenuto (2):

Su insistenza della benedetta Pulcheria, il pio Teodosio inviò una ricca donazione all'arcivescovo di Gerusalemme perchè la distribuisse ai poveri, nonché una croce d'oro tempestata di pietre preziose da erigere sul Golgota. In cambio di questi doni, l'arcivescovo mandò a Costantinopoli, affidandola alla custodia di San Passarione, la reliquia del braccio destro di Santo Stefano Protomartire. La notte in cui il sant'uomo raggiunse Calcedonia, alla benedetta Pulcheria apparve in sogno Santo Stefano che le diceva: “vedi, le tue preghiere sono state ascoltate ed il tuo desiderio esaudito, sono arrivato a Calcedonia. Ed ella si alzò, chiamò il fratello ed insieme andarono adaccogliere le sante reliquie. Accogliendole a palazzo, (Pulcheria) fece costruire una splendida cappella dedicata al santo protomartire ed in quella le depositò (Teofane Confessore, Cronographia).

Secondo i due studiosi la figura femminile al centro della scena andrebbe quindi identificata con Pulcheria, la sorella dell'imperatore Teodosio II, riconoscibile alla testa del corteo, mentre i due vescovi che portano la reliquia del braccio di Santo Stefano sarebbero rispettivamente San Passarione (3) e Atticus che fu arcivescovo di Costantinopoli dal 406 al 425.
La chiesa ancora in costruzione sarebbe quella fatta costruire ad hoc da Pulcheria nel Palazzo di Dafne (la parte più antica del Palazzo Imperiale) e nota appunto come chiesa di Santo Stefano in Dafne, in seguito spesso utilizzata per celebrare i matrimoni degli imperatori.

Pianta del Palazzo di Dafne (ricostruzione).
La chiesa di Santo Stefano Protomartire è contrassegnata dalla lettera d.

Alla luce di questa chiave interpretativa alcuni particolari assumono una nuova luce. L'incensiere che tengono in mano i nove cantori appare come un ulteriore rimando al santo protomartire, spesso raffigurato in abiti diaconali con il turibolo in mano. La croce che impugna l'Augusta rimanda alla cosiddetta croce di Costantino – probabilmente un frammento della Vera Croce riportato a Costantinopoli dalla Terrasanta dalla madre Sant'Elena (4) – che proprio sotto Teodosio II venne trasferita nel Palazzo imperiale e successivamente compare tra le reliquie conservate nella chiesa di Santo Stefano in Dafne.

Pulcheria (?)

La cassetta che portano i due vescovi, inoltre, appare sicuramente più compatibile per le dimensioni con la reliquia di un braccio anziché dell'intero corpo di un santo.
Correggendo di qualche anno Teofane, infine, i due autori datano l'arrivo delle reliquie di Santo Stefano al 421.

Questa interpretazione, tra le molte che sono state avanzate, è oggi ritenuta la più plausibile. Molto più incerta rimane invece la datazione dell'avorio. Si può infatti escludere che sia coevo all'evento
rappresentato. La prima versione della Chalke – sulla cui identificazione tutti gli studiosi concordano - fu infatti costruita durante il regno di Anastasio (491-518) mentre il busto bronzeo del Cristo nella lunetta al di sopra dell'ingresso vi fu istallato soltanto sotto Giustiniano II (685-695 e 704-711), data che costituisce quindi un indiscutibile termine post quem.
Il busto di Cristo venne fatto rimuovere dall'imperatore iconoclasta Leone III nel 726 e venne quindi ripristinato sotto l'imperatrice Irene (780-802). Nuovamente rimossa e sostituita con una croce sotto un altro imperatore iconoclasta, Leone V (813-820), venne rimpiazzata con un'immagine del Cristo a figura intera dopo il definitivo ripristino del culto delle immagini (843) e infine – durante il regno di Romano I Lecapeno (920-944) - dal mosaico che si vede nella ricostruzione (vedi sopra).
Un'ipotesi suggestiva di datazione, fa risalire il manufatto proprio alla committenza dell'imperatrice Irene che, sfruttando una vicenda storica in cui una donna svolgeva una funzione preminente, avrebbe così inteso celebrare la vittoria sull'iconoclastia ed il restauro da lei promosso della chiesa di Sant'Eufemia all'Ippodromo (796). Sotto Costantino V, questa chiesa, nell'imperversare della furia iconoclasta, era stata trasformata in magazzino militare e la cassa con le reliquie della santa gettata nelle acque del Bosforo. Miracolosamente ritrovate da due pescatori, erano state fatte ricollocare da Irene nella chiesa ad ella dedicata che provvide anche a restaurare. Da sottolineare anche il legame di Irene con la chiesa di Santo Stefano in Dafne, dove nel 769 furono celebrate le sue nozze con Leone IV.

Dal 1844 l'avorio fa parte del tesoro della cattedrale di Trevi nel cui museo è attualmente custodito.


Note:

(1) Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di una facciata del Palazzo imperiale o di arcate che racchiudono una corte interna (una sala ipetrale), secondo altri si tratterebbe invece dell'ultimo tratto della mese che terminava alla Chalke e che era fiancheggiata da un porticato a due ordini.

(2) Teofane Confessore scrive però circa 400 anni dopo l'ipotetico evento per cui non cita alcuna fonte né esso ricorre in altre fonti precedenti la Cronographia. Questo lascia non pochi dubbi sulla sua veridicità storica.

(3) Figura di spicco del monachesimo in Palestina nella prima metà del V secolo. E' noto per mezzo della Vita di Eutimio di Cirillo di Scitopoli (VI secolo) in cui è definito chorepiscopos (vescovo rurale, una sorta di vicario che affiancava il vescovo nelle diocesi più estese) e archimandrita.

(4) vedi scheda La leggenda della Vera Croce nella basilica francescana di Arezzo.



venerdì 21 aprile 2017

La crisobolla di Andronico II

La crisobolla di Andronico II

Crisobolla di Andronico II, cm.195x26,5, 1301
Museo cristiano-bizantino
Atene

E' composta da quattro fogli di pergamena incollati insieme e fu emanata nel 1301 da Andronico II Paleologo per confermare i privilegi garantiti al metropolita di Monemvasia, Nicola (1283-1325). Il documento si apre - cosa assolutamente non comune - con una miniatura in cui Andronico è raffigurato in piedi su un cuscino rosso decorato dall'aquila paleologa di fronte al Cristo a cui porge la crisobolla, ha il capo circondato da aureola ed indossa il kaumelakion (la corona ad elmetto arricchita dai praependulia).

 
Nonostante il fatto che la crisobolla sia esplicitamente diretta al metropolita di Monemvasia la figura del Cristo non è in alcun modo connotata come Elkomenos (in vincoli) a cui pure era dedicata la mitropolis (cattedrale) della città (cfr. scheda). Indossa una tunica blu scura ed un himation purpureo, tiene il libro nella mano sinistra mentre la destra è benedicente.

particolare della firma di Andronico II
 
Il documento riporta la data del 1301 ed in calce la firma di Andronico vergata con inchiostro purpureo.
E' attualmente conservata nel Museo cristiano-bizantino di Atene.


martedì 4 aprile 2017

Il cassone con dipinta la Caduta di Trebisonda

Il cassone con dipinta la Caduta di Trebisonda


E' un cassone nuziale fiorentino del XV secolo – oggi conservato nel Metropolitan Museum di New York - che, nella parte frontale, mostra dipinta la Caduta di Trebisonda.
E' segnalato per la prima volta in un articolo del Weisbach del 1913 come proveniente da casa Strozzi per la presenza delle insegne araldiche della famiglia (1). E' considerata opera della bottega fiorentina di Apollonio di Giovanni e Marco del Buono Giamberti.
In una variopinta scena di battaglia sono raffigurate due città: a sinistra Costantinopoli, identificabile dalla legenda e dall'accurata resa della topografia; in alto a destra Trebisonda, anch'essa identificata dalla legenda e, per la maggiore contiguità alla scena di battaglia, considerata come fulcro dell'azione.
Il tema raffigurato suggerisce quindi un termine post quem per la datazione (1461, caduta di Trebisonda) mentre la morte di Apollonio di Giovanni (1465) ne stabilisce uno ante quem.


Come già osservato la topografia costantinopolitana è molto accurata, sulla sponda opposta di un dilatato Corno d'Oro si distingue il sobborgo di Pera e più a nord, indicata come chastelo novo dalla didascalia, la fortezza di Rumeli Hisari fatta costruire nel 1452 da Maometto II sul versante europeo del Bosforo.
L'accuratezza topografica della ricostruzione della fortezza risulta evidente dal confronto con un suo schizzo realizzato da una spia veneziana all'incirca nel 1453.

Cod.membr.641, 1453 c.ca,
Biblioteca Trivulziana, Milano

Ben riconoscibile, sulla sponda asiatica, è anche il sobborgo di Scutari (l'antica Crisopoli) indicato dalla didascalia come Loscuterio).
 
Particolare della raffigurazione di Costantinopoli

All'interno delle mura di Costantinopoli si distinguono chiaramente la colonna di Giustiniano – priva della statua equestre dell'imperatore, come appariva già poco tempo dopo la conquista ottomana - e l'obelisco di Thutmosi III nella spina dell'Ippodromo. Ancora, in primo piano Santa Sofia, con la cupola e le due semicupole e, davanti ad essa e più bassa, la cupola di Sant'Irene. All'angolo nordoccidentale della città l'edificio a tre piani addossato alle mura è il palazzo delle Blacherne sul cui tetto sembra di veder sventolare il vessillo dei Paleologi,


a sinistra di questo un altro edificio coperto da cupola e a cui è addossato un porticato rappresenta molto probabilmente il katholikon del monastero di San Giovanni Battista nel quartiere di Petrion (2) mentre di più incerta identificazione è la chiesa a pianta basilicale con un tetto a doppio spiovente, eretta su un basamento a cui da accesso una scalinata di tre gradini. La chiesa presenta inoltre una facciata in cui si aprono tre portali, quello centrale dei quali sormontato da rosone e la didascalia la indica chiaramente come dedicata a San Francesco.

Nella rappresentazione di Trebisonda non si riscontra invece una altrettanta accuratezza topografica, sì che essa sembra corrispondere piuttosto ad un modello immaginario.
L'abbigliamento e l'armamento degli eserciti che si scontrano appaiono molto simili, differendo soltanto per la foggia dei copricapo: conici e, in alcuni casi, forniti di una falda ripiegata alla base o ornati da una piuma, per i trapezuntini; bassi ed ornati da una fascia bianca, a ricordare la forma di un turbante, per i turchi.
L'esito della battaglia è evidenziato dai prigionieri tapezuntini inginocchiati con le mani legate dietro la schiena nei pressi del campo nemico.

Andrea Paribeni (2001) ha però rilevato una serie di incongruenze in questa interpretazione:
1. L'ultimo imperatore di Trebisonda, Davide II Comneno, si arrese a Maometto II senza combattere. Non vi fu quindi alcuna battaglia (cfr. scheda L'impero di Trebisonda);
2. Maometto marciò su Trebisonda da Costantinopoli - quindi da ovest - e non da oriente come nel dipinto.
Ma è soprattutto la parola tanburlana che compare, appena sbiadita, nei pressi del carro che trasporta il comandante dell'esercito vincitore, a fargli avanzare l'ipotesi che l'esercito vittorioso proveniente da oriente sia quello dei mongoli di Tamerlano mentre gli sconfitti siano i turchi del sultano Beyazit I nella battaglia di Ankara (1402).
La presenza della città di Trebisonda – che comunque appare nel dipinto estranea alla battaglia (ad esempio non si notano soldati sulle mura) – andrebbe ricercata nella committenza che Paribeni fa risalire a Vanni degli Strozzi come dono nuziale per il matrimonio del fratello Ludovico con la figlia di Bertoldo Corsini e collega ad i suoi recenti interessi economici nella città di Trebisonda.
Il riferimento alla battaglia di Ankara alluderebbe inoltre ad una adesione del committente al progetto politico elaborato da papa Pio II Piccolomini intorno al 1458 di formare un'alleanza antiottomana tra i regni cristiani orientali e Unzun Hasan, il beg dei turcomanni di Ak Koyunlu (il Montone bianco) che aveva sposato Teodora Grande Comnena, figlia dell'imperatore trapezuntino Giovanni IV. Unzun Hasan, tra l'altro, aveva mutuato per sè proprio l'appellativo di nuovo Tamerlano.


In quest'ottica interpretativa, T.Braccini (2024) nella parte destra della scena identifica come Tamerlano la figura seduta nella tenda che colloquia con l'imperatore Davide II in sella al cavallo nero mentre sul carro trionfale siederebbero di nuovo Tamerlano e Unzun Hasan. La scena raffigurerebbe quindi uno scontro, auspicato ma storicamente mai avvenuto, tra la lega antiottomana guidata da Unzun Hasan e l'esercito ottomano di Maometto II per sottrarre alla conquista Trebisonda. La figura di anacronistica di Tamerlano sarebbe presente come auspicio di vittoria in memoria della battaglia di Ankara (3).


Note:

(1) Quando, circa un anno dopo l'articolo del Weisbach, il cassone venne acquistato dal Metropolitan Museum era però già privo di queste insegne. La provenienza da casa Strozzi sembra però confermata dall'impresa dipinta sulle fiancate laterali, un falcone ad ali spiegate appollaiato su un trespolo. Strozziere significa infatti falconiere.
 
 
(2) Sul monastero di San Giovanni Battista in Petra vedi scheda la chiesa di San Nicola al Bogdan saray, nota 2.

(3) Paribeni osserva che se da un lato un oggetto destinato ad un uso privato come un cassone può apparire poco adatto a veicolare un messaggio politico, dall'altro questo durante l'esposizione dei doni nuziali viene visto da tutti, ben prestandosi quindi al "doppio gioco" di un mercante fiorentino come Vanni Strozzi il cui animo si divideva tra gli interessi commerciali delle nuove relazioni che andava stringendo con gli ottomani e l'adesione allo spirito crociato. A questo Baccini aggiunge l'osservazione che  essendo l'alleanza antiottomana auspicata nata come conseguenza del matrimonio tra Unzun Hasan e Teodora, ciò rendeva il soggetto rappresentato appropriato per un dono nuziale



mercoledì 23 marzo 2016

L'icona della Vergine Hodighitria in Santa Maria Nova a Roma

L'icona della Vergine Hodighitria in Santa Maria Nova a Roma

L'icona bizantina

Nell'850, tre anni dopo il seppellimento della chiesa di Santa Maria Antiqua sotto le macerie del palazzo di Domiziano crollato a seguito di un terremoto, papa Leone IV fece costruire per rimpiazzarla, tra le rovine del tempio di Venere e nel punto dove secondo la leggenda Simon Mago avrebbe sfidato San Pietro, la chiesa detta di Santa Maria Nova (oggi dedicata a Santa Francesca Romana) e vi fece traslare l'icona della Theotokos che precedentemente era custodita nella chiesa sepolta dalle macerie.
Alta 132 cm. e larga 97, l’icona è realizzata con due brani di pittura a encausto su tela incollata su tavola. Sulla superficie del supporto ligneo convivono infatti l’uno accanto all’altro brani pittorici diversi. Il busto della Vergine e il corpo del Bambino sono dipinti a tempera e la loro esecuzione è moderna, probabilmente degli inizi del Cinquecento. Diversamente il volto e il collo della Theotokos, come pure quel che resta del volto del Bambino, sono brani assai più antichi e sono dipinti a encausto (1). I busti cinquecenteschi furono dipinti per altri visi di epoca medioevale, sovrapposti a quelli visibili oggi. Nel 1950 Pico Cellini si accorse che sotto la prima si trovava un'immagine più antica e procedette al distacco delle due tele. I brani così recuperati risultano essere ritagliati da un’opera perduta e incollati al supporto attuale. Presentano, specie nel volto del Bambino, segni evidenti di bruciature, da addebitare forse agli effetti di un incendio. Definiscono il tipo della Theotokos Hodighitria (Maria tiene il Bambino con il braccio destro e lo indica con la sinistra) e si ritiene probabile che risalgano alla seconda metà del VI secolo, quando l'icona fu dipinta in concomitanza con la trasformazione in chiesa (S.Maria Antiqua) dell’edificio che ospitava il corpo di guardia ai piedi del Palazzo di Domiziano, avvenuta sotto Giustino II (565-578) - l'ellenismo della sua fattura, nonchè la monumentalità, fanno propendere in ogni caso per una datazione alta - si tratterebbe quindi della più antica immagine su tavola della Vergine rinvenuta a Roma.
Una volta disgiunte, le due opere hanno preso strade diverse. L’icona bizantina venne sistemata nella sagrestia della basilica, quella medievale fu ricollocata sull’altare.

L'icona medievale fino al 1950 sovrapposta a quella bizantina

In occasione della riapertura al pubblico della chiesa di Santa Maria Antiqua (marzo 2016), l'icona bizantina è stata riportata in processione solenne alla sua antica collocazione.

Note:

(1) La stessa tecnica impiegata nella maggior parte dei cosiddetti Ritratti di Fayyum, un corpo di circa 600 ritratti funebri realizzati nell'Egitto romanizzato tra il I sec. aC ed il III secolo. Nella pittura a encausto i pigmenti vengono mescolati a cera punica (che ha funzione di legante), mantenuti liquidi dentro un braciere e stesi sul supporto con un pennello o una spatola e poi fissati a caldo. In questo modo si rendono i colori molto più vividi, creando un forte effetto impressionistico.


domenica 21 febbraio 2016

Il sarcofago di Stilicone

Il sarcofago di Stilicone


Il cosiddetto Sarcofago di Stilicone si trova nella basilica di Sant'Ambrogio a Milano ed oggi è inglobato in un ambone costruito in epoca medievale. Fu scolpito molto probabilmente nella seconda metà del IV secolo.
 
Il sarcofago originale nella sua collocazione attuale all'interno dell'ambone (*)
 
Appare come una cassa di pietra massiccia, sufficientemente larga per contenere i resti di diverse persone, e sembra risultare dall'assemblaggio di due pezzi eterogenei, il coperchio ed il cassone. Il motivo è che la volta di Sant' Ambrogio cadde nel 1196 e l’opera che possiamo vedere oggi è stata composta cinque anni dopo utilizzando i migliori frammenti recuperabili.
E' generalmente attribuito a due diversi intagliatori di area milanese, al primo dei quali viene attribuito il coperchio, mentre al secondo i rilievi sui fianchi del sarcofago.
Stilicone può essere o non essere mai stato sepolto qui (il sarcofago cominciò ad essergli attribuito solo nel XVIII secolo, secondo altri conteneva invece i resti dell'imperatore Graziano), ma questo ingarbugliato palinsesto di scultura, metà pagano e metà cristiano, di incerta provenienza, difficile da decifrare, di caratteristiche nobili e in definitiva con qualcosa di strano all' apparenza, ne rappresenta abbastanza bene la figura storica.

Il suo orientamento, identico a quello dei resti tardoantichi del presbiterio, indica che si trova nella posizione attuale fin dal IV secolo, mentre l'ambone, costruito sopra successivamente, segue l'orientamento dell'edificio medioevale.
E' un sarcofago “a porte di città” con scena di Traditio Legis sul lato anteriore e con la raffigurazione del collegio apostolico sul lato posteriore. Si tratta di due temi allegorici, nati nella seconda metà del quarto secolo, che hanno spesso come sfondo mura e porte di città che, nella fattispecie, corrono lungo tutti e quattro i lati del cassone.

Lato A
 
La fronte (lato A) del sarcofago è divisa in due parti orizzontali. Al centro della parte superiore è Cristo, stante, con i cappelli lunghi e la barba; indossa tunica e pallio, ha la mano destra sollevata e stringe un rotolo con la mano sinistra. Alla sua sinistra si trova Pietro, che tiene una croce sulla spalla sinistra e riceve il rotolo con la destra; alla destra di Cristo sta invece Paolo, che compie il gesto dell’acclamatio. Queste tre persone formano la scena della Traditio Legis ai cui lati si dispongono gli altri apostoli. Inginocchiati ai piedi del Cristo, quelli che sono stati ritenuti Stilicone e Serena, soprattutto in virtù degli abiti di foggia militare indossati dall'uomo.
L’origine della scena si trova nell’arte imperiale; quando l’imperatore manda un suo funzionario in una provincia, gli consegna il rotolo chiuso, che il funzionario riceve con le mani coperte da un velo (cfr. il Missorio di Teodosio, 388-393); tale atto sancisce il passaggio del diritto dall’imperatore al funzionario. La sua diffusione a partire dalla seconda metà del IV secolo ed in particolare a Roma (cfr. scheda Il complesso di S.Costanza a Roma), sembra porla in relazione con la volontà di sottolineare il primato di Pietro – e quindi del Papa suo successore - all’interno della Chiesa.

Lato B, coperchio

Sul lato verso l'altare (lato B) del coperchio si trova una delle prime Natività conosciute, Gesù è raffigurato in fasce con il volto da adulto adagiato in un sarcofago che fa da culla, immagine che richiama il tema della vita e della morte ricorrente nell'iconografia cristiana, soprattutto nell'ambito battesimale; ai lati del Bambino vi sono un bue ed un asino che, secondo alcuni, sono immagine dei profeti Isaia e Osea, altri interpretano l'asino come simbolo di Israele e il bue dei Gentili; a fianco dei due animali sono poi rappresentati due uccelli che mangiano un grappolo d'uva, uno si nutre con convinzione, l'altro appare più dubbioso, anche in questo caso sembra che il primo sia immagine del popolo d'Israele, più pronto a credere e a "nutrirsi" della fede, mentre l'altro starebbe ad indicare le maggiori difficoltà dei Gentili nell'accogliere il nascente messaggio cristiano.


Lato B, cassone

Nella faccia del cassone sottostante alla Natività, Elia rapito dal carro di fuoco lascia il mantello ad Eliseo (2 Re, II, 1-12) ; alla sua destra, Mosè e Noè; in basso e più piccoli, Adamo ed Eva.

Lato C
 
Sul lato lungo rivolto verso i fedeli (lato C) vediamo Gesù raffigurato come un giovane imberbe che manda i discepoli a proclamare il Vangelo (Missio apostolorum).
L’immagine principale è costituita, anche nel lato posteriore, dalla raffigurazione del collegio apostolico; al centro sta Cristo, senza barba e con capelli lunghi, seduto in trono; tiene un libro nella mano sinistra e con la mano destra fa il gesto della parola.
I discepoli hanno i piedi sovrapposti l'uno con l'altro come a formare una catena che indica simbolicamente la continuità del messaggio della Chiesa con il Cristo. Ai piedi del Cristo sarebbero inginocchiati Stilicone e la moglie Serena. Sopra, sul coperchio, in un clipeo sono scolpiti i volti dei due committenti e, di lato, a destra una Natività classica composta da Giuseppe e Maria ai lati del Bambino e i Re Magi a porgere omaggio, a sinistra del clipeo è raffigurata una scena che ha quale elemento principale l’immagine di una statua a mezzo busto poggiata sopra una colonna, a destra della quale stanno tre uomini con il berretto frigio e a sinistra altri due uomini; si tratta dell’episodio nel quale i tre giovani ebrei rifiutano di adorare la statua del re babilonese Nabucodonosor e vengono gettati nella fornace (Daniele, III, 1-56)
Lato D
 
L’estremità sinistra del lato destro del cassone (lato D) è definita da un pilastrino ornato di girali vegetali. Presso il pilastro è raffigurata la scena del sacrificio di Isacco; a destra di questa stanno quattro uomini stanti, uno dei quali tiene un rotolo chiuso e un altro un libro aperto. Non è chiaro chi siano questi personaggi, che sembrano procedere verso il collegio apostolico raffigurato sulla fronte del sarcofago.
 
(*) A causa della difficoltà di fotografare il sarcofago nella sua collocazione attuale, le immagini utilizzate nella scheda sono tratte dal suo calco in gesso attualmente conservato presso il Museo della civiltà romana a Roma.






sabato 12 luglio 2014

La corona di Costantino IX Monomaco


La corona di Costantino IX Monomaco


La cosiddetta corona di Costantino IX Monomaco - attualmente conservata nel Museo Nazionale Ungherese di Budapest - ha sempre suscitato negli studiosi delle forti perplessità fino al punto di farla ritenere un falso realizzato in epoca moderna (cfr. N.Oikonomides, La couronne dite de Constantin Monomaque, Travaux et Mémories 12, 1994).
La corona è costituita da sette placche oblunghe a terminazione semicircolare nella parte superiore, sulle quali è ritratta la triade degli imperatori bizantini - Costantino IX Monomaco (1042-1055), la sua consorte Zoe e la sorella Teodora - con danzatrici e personificazioni di virtù; due apostoli sui medaglioni di smalto e un'incastonatura in vetro che però molto probabilmente non appartengono al manufatto originario. L'imperatore tiene con la destra il labaro imperiale e con la sinistra l'akakia (1).



Le sette placche della corona furono ritrovate nel 1860 da János Huszár, un nobile proprietario terriero di Nyitraivánka (oggi Ivánka pri Nitre, Slovacchia). Gli studiosi non si sono mai soffermati troppo sul luogo del ritrovamento, eppure nella stessa città nel 1914 fu rinvenuta una moneta di Costantino IX Monomaco e, a distanza di venti chilometri, a Tild (oggi Cifare-Telince, Slovacchia) ne furono trovate altre sette.
Sui bordi delle placche sono saldate sottili lamine di metallo che seguono perpendicolarmente l'andamento del contorno delle placche; tali lamine presentano fori posti lungo il sottile margine ripiegato delle placche e pertanto esse non potevano essere inserite in una cornice metallica, bensì dovevano essere cucite su qualche materiale più morbido, per esempio tessile, con alla base una fila di perle.
A giudicare dalle dimensioni, possiamo infine considerare completo il gruppo delle placche di smalto della corona, soltanto ai bordi si può pensare che potesse completarsi con altri pezzi.


Una danzatrice e la personificazione dell'Umiltà

Uno degli argomenti forti della tesi di Oikomenos che considera il manufatto un falso è il fatto che le incisioni sullo smalto delle placche presentano un gran numero di errori, in totale 13. Gli errori si dividono in due tipi: le vocali scritte in maniera errata e gli accenti messi in modo anch'esso non corretto. Per quanto possa apparire singolare che un maestro greco incorra in queste inesattezze, in particolare nei clamorosi errori nei nomi dell'imperatore Costantino e della moglie Zoe, tale fenomeno non è del tutto infrequente nell'età mediobizantina.
Ai lati delle tre placche raffiguranti la triade imperiale si dispongono le figure di due danzatrici e le personificazioni di due virtù l'Umiltà (Η ΤΑΠΙΝΟΣΙΣ) e la Verità (Η ΑΛΙΘΗΑ).

La presenza di figure femminili - tra cui danzatrici - in scene raffiguranti l'imperatore è un motivo trionfale originario dell'antichità. Nel periodo medio bizantino nella rappresentazione imperiale divenne invece centrale la raffigurazione della religiosità dell'imperatore, del suo essere prescelto da Dio. Per questo le figure della corona vengono in prevalenza collegate con la prefigurazione veterotestamentaria del dominio imperiale. Inoltre il ballo della sorella di Mosè, Miriam, e delle sue danzatrici dopo il passaggio del mar Rosso appare connesso alla celebrazione del trionfo come la danza delle virtù, dopo il superamento dell'attrazione per le passioni: Allora Miriam, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di danze (Esodo, XV, 20-21).
Altri elementi che suscitano perplessità sono la scarsa opulenza del manufatto (non vi sono incastonate gemme o perle) e la sua circonferenza (32 cm.) che appare troppo stretta anche per una testa femminile.
Una possibile spiegazione potrebbe essere che si tratti di una di quelle corone che venivano offerte al condottiero che tornava in città da una campagna vittoriosa al momento in cui veniva celebrato il trionfo. Costantino VII Porfirogenito, nel De cerimoniis, nel descrivere il protocollo dell'ingresso trionfale, dice che questa corona veniva presentata dall'Eparca di Costantinopoli e veniva infilata al braccio del condottiero. Si trattava quindi di una corona che doveva essere utilizzata una sola volta e per breve tempo.
Nell'arco di regno di Costantino IX, la Kiss individua inoltre nel trionfo decretato a Stefano Pergameno per la vittoria sul generale ribelle Giorgio Maniace (1043) il frangente più probabile (2). Pare infatti che l'imperatore decise di tributare il trionfo al condottiero eunuco solo all'ultimo momento, il che spiegherebbe ulteriormente con la fretta di realizzarlo la scarsa qualità del manufatto e le imprecisioni linguistiche presenti nelle didascalie. Nella sua descrizione del corteo trionfale, Michele Psello dice tra l'altro che l'imperatore vi assistette da un palco posto alla porta Chalke del palazzo imperiale, seduto su un trono tra le due imperatrici Zoe e Teodora, esattamente la stessa immagine riproposta nella corona.
In questa chiave, l'inserimento nel programma iconografico della corona della personificazione dell'Umiltà suonerebbe come un monito al condottiero vincitore a non ribellarsi a sua volta (3).


Nell'immagine trionfale di Basilio II, riprodotta sul frontespizio di un salterio databile al 1019 e conservato presso la Biblioteca marciana di Venezia, l'imperatore indossa all'avambraccio due bracciali, indipendenti dall'armatura, che potrebbero essere corone trionfali del tipo ipotizzato per la corona di Costantino IX.

Note:

(1) L'akakia era un sacchetto contenente una manciata di terra. Serviva a ricordare all'imperatore che anche lui era mortale.


(2) Cfr. Catepanato d'Italia, nota 2.

(3) Nonostante l'ipotetico avvertimento, poco dopo il suo trionfo, nel luglio del 1043, Stefano Pergameno fu coinvolto in una congiura per rovesciare l'imperatore. Privato di tutti i suoi beni, fu costretto a prendere l'abito monacale e successivamente accecato.













giovedì 19 giugno 2014

Gli Ardaburi

Gli Ardaburi

Per quasi cinquant'anni nel corso del V secolo gli Ardaburi, una famiglia di militari di origine alana che servirono per tre generazioni nell'esercito orientale ricoprendone le cariche più alte, giocarono un ruolo chiave nella lotta per il potere in entrambe le metà dell'impero.

Nel 424-425 Ardaburio Aspar ed il padre Ardaburio - che ricopriva la carica di magister militum - guidarono la spedizione che rovesciò dal trono d'Occidente l'usurpatore Giovanni Primicerio e v'insediò il giovane Valentiniano III sotto la reggenza della madre Galla Placidia. Nel 431 fu inviato in Africa, probabilmente con il grado di comes e magister militum, per sostenere il comes Bonifacio nella guerra contro i Vandali di Genserico. Nel 434, mentre si trovava ancora in Africa, in compenso per le vittorie riportate sui Vandali e per il ruolo svolto nel rimettere sul trono il ramo occidentale della dinastia teodosiana, nonostante fosse un generale dell'esercito d'Oriente, fu designato da Galla Placidia come console per la pars occidentis (1).
Nel 441, giudicando l'Africa proconsolare ormai perduta, Aspar fu inviato in Illirico – probabilmente come magister militum per Illyricum – dove cercò di opporsi senza successo all'avanzata di Attila. Nel 447 il figlio Ardaburio Iunior fu designato per il consolato per la pars orientis. Nel 450, alla morte di Teodosio II, Aspar giocò un ruolo decisivo nel favorire l'ascesa al trono di Marciano (450-457) che era stato un giovane ufficiale sotto il suo comando in Africa. Alla morte di Marciano nel 457, Aspar ricopriva la carica di magister militum praesentalis e favorì la successione di Leone I (457-474) che era un suo sottoposto e che riteneva di poter manovrare a suo piacimento. Nel 459 ottenne il consolato orientale Giulio Patrizio, il secondo figlio di Aspar. L'imperatore aveva promesso ad Aspar di dare in sposa a quest'ultimo la propria figlia maggiore Ariadne ma continuava a procrastinare la data delle nozze per un motivo o per l'altro. Nel 465 Ermenerico, il terzo figlio di Aspar, fu nominato console per la pars occidentis ma l'anno seguente il fratello Ardaburio Iunior, che occupava la carica di magister militum per orientem fu accusato di collusione con il re persiano. Un ufficiale isaurico della guardia imperiale, Tarasis, era venuto in possesso di lettere inviate da Ardaburio Iunior al sovrano sasanide Peroz I, con le quali lo sollecitava a prendere le armi e a invadere il territorio romano, promettendogli al contempo sostegno in questa impresa. Tarasis consegnò queste lettere all'imperatore che destituì Ardaburio Iunior dalla carica a cui elevò il cognato Basilisco, riducendo in questo modo l'influenza che il padre Aspar, che pure si dissociò apertamente dalla condotta del figlio, aveva a corte. Come premio per la sua lealtà, Tarasis ottenne la carica di comes domesticorum (comandante della guardia imperiale). Verso la metà del 466, sempre con l'intento di controbilanciare l'influenza di Aspar e della componente germanica dell'esercito, Leone I diede in sposa Ariadne a Tarasis che, probabilmente, cambiò in questa occasione il proprio nome in Zenone. Nel 467 Basilisco fu elevato alla carica di magister militum praesentialis, la più alta carica dell'esercito. In questa veste nel 468 guidò la disastrosa spedizione contro i Vandali, a seguito della quale venne punito dall'imperatore con l'esilio. Nel frattempo Aspar aveva tentato di far assassinare Zenone che, sfuggito ai sicari, riparò a Serdica. Con i suoi due principali antagonisti lontani dalla capitale, Aspar vide rafforzata la sua posizione e nel 470, sembra dopo aver rinunciato alla fede ariana e abbracciato il credo calcedoniano – precondizione necessaria per poter accedere al trono – suo figlio Giulio Patrizio sposò Leonzia, la figlia minore di Leone I, e fu nominato cesare. Aspar sembrava a un passo dal coronamento dei sogni imperiali che aveva nutrito per la sua dinastia (2). L'imperatore era però sempre più sospettoso nei confronti degli Ardaburi e nel 472 in una congiura ordita dall'imperatore stesso con l'appoggio di Zenone furono trucidati Aspar e Ardaburio Iunior seguiti poco dopo da Giulio Patrizio. Al solo Ermenerico, giudicato ininfluente, fu fatta salva la vita.

Il missorio di Ardaburio




Fuso in argento per un peso di 3600 gr ed un diametro di 42 cm, il missorio fu realizzato nel 434 per commemorare il consolato di Flavius Ardaburio Aspar.Venne rinvenuto nel 1769 in provincia di Grosseto ed è attualmente conservato nel Museo archeologico nazionale di Firenze (Inv. 2588).
Lungo il bordo esterno del piatto corre un'iscrizione che recita:
FL(avius) ARDABUR ASPAR VIR INLUSTRIS COM(es) ET MAG(ister) MILITUM
ET CONSUL ORDINARIUS
Al centro della composizione, su un trono con le gambe a forma di teste di leone, è seduto il console, accanto a lui, in piedi sta il figlio indicato dalla didascalia come ARDABUR IUNIOR PRETOR. Il console siede impugnando nella destra la mappula (una specie di fazzoletto da tasca usato dai nobili romani in certi costumi di gala) e nella sinistra uno scettro che termina in alto con i busti dei due imperatori d'Oriente e d'Occidente, Teodosio II e Valentiniano III. Il figlio con la destra saluta il padre mentre tiene la mappula nella sinistra.
Sopra di loro, entro due clipei, Ardaburio, padre del console e console a sua volta nel 427, e Plinta, un suo parente che fu console nel 419. Le due figure nei clipei impugnano lo stesso scettro del console e tra loro è tesa una cortina ad indicare che erano morti all'epoca della realizzazione del missorio.
Rispettivamente a destra e a sinistra del console stanno, nella funzione di littori, le personificazioni di Costantinopoli (3) e Roma. La seconda indossa un elmo a tre creste e un corto chitone mentre tiene nella sinistra un globo e nella destra il fascio littorio, la prima porta una corona di rose e foglie, impugna il fascio littorio con la destra e nella sinistra tiene un fiore ed una spiga di grano.

Lo schema compositivo del missorio riflette il tentativo da parte di Ardaburio Aspar di fondare una dinastia che si ponesse sullo stesso piano di quella regnante e ben esprime le ambizioni imperiali che questi nutriva per la sua famiglia (lui stesso non poteva accedere al soglio imperiale in quanto di fede ariana).

La cisterna di Aspar





Cisterna di Aspar, particolare del muro perimetrale a ridosso della moschea di Selim

Il nome degli Ardaburi è legato anche ad una delle più grandi cisterne a cielo aperto di Costantinopoli. Fatta costruire sul fianco del quinto colle da Aspar nel 459, presenta una pianta quasi quadrata con i lati lunghi di 152 metri e la muratura spessa 5 metri mentre la sua profondità superava i 10 metri. Conosciuta anche con il nome di Xerokipion, fu abbandonata dopo la conquista crociata.
Fino ai primi anni '80 ospitava al suo interno una sorta di piccolo insediamento agricolo con case di legno, orti e giardini in sostituzione del quale si trovano oggi impianti sportivi ed un centro commerciale.


fotografia del luglio 1982



Note:

(1) Nel tardo impero veniva nominato un console per la pars orientis ed uno per la pars occidentis dell'impero. Nei discorsi e nei documenti ufficiali della pars occidentis veniva nominato per primo il console occidentale, in quelli della pars orientis l'ordine veniva invertito.


(2) Leonzia era sì la figlia minore di Leone I ma, a differenza della sorella maggiore Ariadne, era porfirogenita, nata cioè dopo l'ascesa al trono del padre.


(3) Mentre l'identificazione della Tyche di Roma è evidente, quella di Costantinopoli appare più incerta. Il fiore e la spiga non sono infatti attributi usuali di questa personificazione. Meglio si adatterebbero invece a quella di Cartagine – la capitale del granaio dell'impero – la città dove Aspar fu nominato console.










mercoledì 19 febbraio 2014

L'icona dell'Incredulità di Tommaso nel Monastero della Trasfigurazione a Meteora

L'icona dell'Incredulità di Tommaso nel Monastero della Trasfigurazione a Meteora


In questa icona dove è rappresentato l'episodio dell'Incredulità di Tommaso – conservata nel Monastero della Trasfigurazione a Meteora – nel gruppo di apostoli radunati sulla sinistra, alle spalle di Tommaso è raffigurata la donatrice, la basilissa Maria Angelina Dukaina Paleologina – figlia di Simeone Uros (Dukas Paleologo) e Thamais Orsini (Comnena Angelina) - e quindi legittima erede del despotato d'Epiro.
Maria Angelina sposò in prime nozze, a Trikkala nel 1359, Tommaso Preljubovic che fu insediato nel 1367 come despota di Giannina dal suocero Simeone Uros e riconosciuto come tale dall'imperatore Manuele II nel 1382.
E' l'unica figura femminile presente sulla scena e porta una veste purpurea riccamente decorata da un loros dorato mentre una corona le cinge la testa. E' identificabile in base alla somiglianza con altre sue due raffigurazioni – accompagnate da didascalia - presenti una in un evangelario – il cosiddetto Dittico di Tommaso Preljubovic, attualmente conservato nel Tesoro della cattedrale di Cuenca in Spagna e l'altra in un'icona della Vergine Hodeghitria conservata nello stesso Monastero della Trasfigurazione. In entrambe – la prima è considerata una replica della seconda – la basilissa è raffigurata ai piedi della Vergine nell'atto della proskynesis.

Dittico di Tommaso Preljubovic
(tavola di sinistra)
Tesoro della cattedrale di Cuenca
Spagna

Secondo Xyngopoulos – che ha scoperto questa icona nel 1963 – nel personaggio la cui testa si trova compresa tra quelle di Tommaso e Maria Angelina dovrebbe identificarsi lo stesso despota Tommaso Preljubovic. Gli argomenti che lo studioso adduce a favore di questa ipotesi sono essenzialmente il fatto che il viso del personaggio è tratteggiato come un ritratto e che il suo sguardo è rivolto verso lo spettatore nonché l'osservazione che si tratterebbe del dodicesimo apostolo presente nella composizione mentre solitamente in quest'epoca nelle scene evangeliche ne vengono rappresentati undici.
Il fatto che Tommaso Preljubovic sia raffigurato privo di paramenti regali fa datare l'icona a Xyngopoulos tra il 1373, l'anno in cui il fratello di Maria si fece monaco nel monastero della Trasfigurazione con il nome di Joasaph, ed il 1382 quando a Tommaso Preljubovic venne riconosciuto il titolo di despota da Manuele II Paleologo.

Icona dell'incredulità di Tommaso
particolare dei volti di Maria Angelina e di Tommaso Preljubovic (?) 

La presenza della figura del donatore nel contesto della rappresentazione di una scena biblica non è molto consueta fino a questo periodo nell'iconografia dell'arte bizantina (1), ancor meno consueto è inoltre il fatto che questa interagisca attivamente con la scena: il braccio destro del Cristo scavalca infatti la testa dell'apostolo Tommaso con una posa innaturale per andare a toccare la corona posta sul capo di Maria in un gesto che ne legittima lo status regale (2).
In questa prospettiva, la Gargova (3) ipotizza la condensazione nella stessa rappresentazione di due diversi temi narrativi. San Tommaso, arrivato in ritardo alla morte della Vergine, non fu testimone come gli altri apostoli della sua Assunzione al Cielo e ne richiese una prova. La Vergine gli apparve in sogno e gli consegnò la cintura che si sfilò dai fianchi. La basilissa Maria Angelina presterebbe quindi i suoi tratti alla Madre di Dio e la figura del Cristo che la incorona Regina Coeli (Incoronazione di Maria) risponderebbe nella scena alla doppia incredulità di Tommaso chiudendo in questo modo il circolo narrativo (4).


Note:
 
(1) L'usanza di inserire le figure dei donatori come parte integrante dell'episodio biblico rappresentato sembra svilupparsi prima in ambito occidentale (cfr. ad esempio la presenza di re Janus di Cipro e della moglie Carlotta di Borbone nell'affresco della Crocefissione nella Cappella reale di Pyrga e quella del fratello del re, Ugo, arcivescovo di Nicosia, nella scena della Sepoltura del Cristo sempre nella stessa cappella).

(2) Il gesto ricorda l'imposizione della corona sul capo dei regnanti da parte del Cristo raffigurato in alcuni avori bizantini (cfr. ad esempio Cristo incorona Ottone II di Sassonia e la moglie Teofano imperatori del Sacro Romano Impero o l'avorio Romano).

(3) F.Gargova, The Meteora Icon of The Incredulity of Thomas Reconsidered, 2014.

(4) Un precedente a questo tipo di raffigurazione del donatore nei panni di un personaggio della storia sacra è quello di Costantino IX Monomaco raffigurato nelle vesti di Salomone nel mosaico dell'Anastasis nella Nea Moni di Chios (metà XI secolo).