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lunedì 7 dicembre 2015

Le Voyage d'Outre-Mer di Bertrandon de la Broquière

Le Voyage d'Outre-Mer di Bertrandon de la Broquière

Bertrandon de la Broquière nacque presumibilmente alla fine del XIV secolo in un paesino alle falde dei Pirenei francesi – La Broquière – in una famiglia appartenente alla nobiltà locale.
Nel 1421 entrò al servizio del duca di Borgogna Filippo il Buono (1419-1467) con il titolo di écuyer tranchant (il nobile incaricato di tagliare la carne durante i banchetti ufficiali) divenendo due anni dopo premier écuyer tranchant.
Nel febbraio del 1432 partì da Gand, dove di trovava la corte del duca, per intraprendere un lungo viaggio in Oriente. Imbarcatosi l'8 maggio a Venezia, insieme ad un gruppo di pellegrini diretti in Terrasanta, raggiunse Jaffa dopo aver fatto scalo a Corfu, Creta, Rodi e Cipro.
Dopo aver visitato Gerusalemme ed altri luogi santi della Palestina, si recò a Damasco dove si aggregò ad una carovana diretta a Bursa, la prima capitale dell'impero ottomano, che raggiunse dopo aver attraversato tutta l'Asia Minore. Da qui si recò a Costantinopoli che lasciò nel gennaio del 1433 per tornare in patria via terra attraversando Bulgaria, Ungheria, Austria e Germania.

L'assedio di Costantinopoli
una delle sei miniature realizzate da Jean Le Tavernier per l'edizione di lusso del Voyage d'Outre-Mer donata al duca Filippo nel 1457.
Biblioteca Nazionale Francese, Parigi

Per tutta la durata del suo viaggio Bertrandon de la Broquière non viene mai accolto o accompagnato da personalità dell'amministrazione ottomana, né gli vengono mai tributati gli onori usualmente riservati agli ambasciatori ufficiali. Sembra comunque viaggiare su incarico del duca di Borgogna con compiti di intelligence al fine di raccogliere informazioni militari in vista di una ipotetica, quanto improbabile, crociata contro i Turchi (1).
A Costantinopoli incontra Bernard Carmer, un mercante catalano già conosciuto a Bruges , che lo ospita per tutta la durata del suo soggiorno.
A Pera incontra invece ed entra in rapporti confidenziali con Benedetto Folchi da Forlì, ambasciatore del duca di Milano Filippo Maria Visconti, accreditato sia presso l'imperatore bizantino che presso il sultano, ed incaricato di trattare la pace tra quest'ultimo ed il nuovo alleato del duca, l'imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo. Il gentiluomo borgonone si aggrega di fatto alla delegazione milanese che lascia Costantinopoli il 18 gennaio diretta ad Adrianopoli, dove Benedetto Folchi incontra il sultano Murad II senza conseguire i risultati sperati, e quindi attraverso la Bulgaria, la Serbia e l'Ungheria dove a Buda si separò dai suoi occasionali compagni di viaggio.
Il racconto del suo viaggio, Le Voyage d'Outre-Mer, redatto soltanto molti anni dopo il suo ritorno in patria (1455-1457) su richiesta del duca e sulla base degli appunti che gli aveva già consegnato, è quindi composto come una sorta di relazione al suo signore.
Bertrandon de la Broquière morì a Lille nel 1459.

Il testo completo del Voyage d'Outre-Mer è consultabile qui.

Note:

(1) Anche la grande disponibilità di denaro di cui sembra poter costantemente usufuire e che traspare in vari passi del suo resoconto di viaggio, depone nel qualificarlo come una missione svolta su incarico del duca più che un pellegrinaggio privato.





mercoledì 21 ottobre 2015

Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto: la navata sinistra

Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto: la navata sinistra

Il mosaico pavimentale della cattedrale idruntina di Santa Maria dell'Annunziata si deve all'iniziativa di Gionata, arcivescovo di Otranto dal 1163 al 1195, e fu realizzato da Pantaleone (il cui nome appare nella parte inferiore del mosaico in corrispondenza dell'entrata principale della cattedrale), monaco pittore dell'abbazia di Casole, tra il 1165 ed il 1166.
Il mosaico originario ricopre interamente il pavimento della navata centrale e di quelle laterali in corrispondenza del transetto occupando complessivamente un'area di oltre 600 mq., le rimanenti parti risalgono invece al XIX secolo.
Viene qui descritta la superficie musiva che si trova nella navata sinistra, premettendo che alcune percettibili differenze di stile (le linee di contorno appaiono più rigide, piatte e incerte le figure, prive di quelle vibrazioni di colore che caratterizzano il mosaico della navata centrale) hanno fatto ipotizzare ad alcuni critici l'ntervento di una mano diversa da quella di Pantaleone se non addirittura una sua realizzazione in epoca successiva.

Il tema raffigurato è usualmente identificato come una rappresentazione del Giudizio Universale, che appare però priva della sua figura principale, quella del Cristo Giudice assiso in trono nella gloria dei cieli. Anche qui, come nella navata centrale, un tronco d'albero, le cui radici affondano nella groppa di un toro, partisce in due la superficie musiva per tutta la sua lunghezza: a destra dell'albero è raffigurato l'Inferno ed a sinistra il Paradiso.
Ad eccezione di un passo del Vangelo di Matteo (XII, 40) - in cui Gesù dice Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'Uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra - non c'è altra traccia nei sinottici della Discesa agli Inferi.
Nell'iconografia bizantina lo svolgimento di questo tema, detto dell'Anastasis, segue usualmente la descrizione dell'episodio tratta dal Vangelo di Nicodemo. Cristo, all'interno di una mandorla, solleva per i polsi i Progenitori per condurli in Paradiso. Ai suoi piedi le porte bronzee dell'Ade divelte si dispongono in croce. A volte compare la figura di Satana vinto e incatenato come nella narrazione del Vangelo di Nicodemo:

Ed ecco il Signore Gesù Cristo venire nello splendore di una luce eccelsa, mansueto, grande ed umile, portando in mano una catena: la avvinse al collo di Satana, gli legò le mani dietro la schiena, lo scaraventò all'indietro nel Tartaro e gli mise il suo santo piede sulla gola, dicendogli: "Per tutti i secoli hai fatto tanti mali, non ti sei arrestato in alcun modo. Oggi ti affido al fuoco eterno".
E chiamato immediatamente l'Inferno, gli ordinò: "Prendi questo pessimo e perverso soggetto e tienilo in custodia fino al giorno in cui te lo indicherò io". (Nicodemo, XXIV, 2-3)

Nel mosaico di Otranto all'ingresso dell'Inferno figurano, particolare del tutto inconsueto in ambito bizantino, entrambi i rappresentanti del Regno degli Inferi – indicati esplicitamente come Infernus e Satanas – con un'inversione rispetto al testo: Satana con la testa coronata (altra anomalia) siede su un trono di vipere mentre ad essere legato e incatenato è l'Inferno.
 
Infernus e Satanas
 
Nella zona sottostante c'è una donna nuda morsa alla bocca da un serpente (una calunniatrice) affiancata dal ricco Epulone avvolto dalle fiamme che si porta la sinistra alla bocca chiedendo dell'acqua mentre con la sinistra indica Lazzaro seduto in Paradiso nel grembo di Abramo.

La calunniatrice ed il ricco Epulone
 
Giacobbe, Abramo (con in grembo l'anima di Lazzaro) ed Isacco
 
Più in basso stanno, uno accanto all'altro, tre dannati nudi che indossano strani cappucci adorni di nastri e vengono tormentati dai serpenti.


Ancora più in basso è raffigurata la pesa delle anime che, solitamente effettuata dall'arcangelo Michele, è qui invece affidata ad un diavolo alato.

La pesa delle anime

Più in basso, al margine inferiore dell'Inferno, nell'uomo nudo che guarda verso l'alto ed impugna un tridente con la sinistra dovrebbe identificarsi Caronte e, sotto di lui, nell'animale con testa e orecchie di cane e corpo di serpente, Cerbero.

Caronte e Cerbero

Nel Paradiso, in posizione speculare rispetto a quella occupata dalla coppia Satana-Inferno, si dispongono i tre Patriarchi, Abramo con in grembo l'anima di Lazzaro e Isacco e Giacobbe (quasi scomparso) con quelle degli altri beati.
Sopra di loro un cervo - identificato da un cartiglio - che volge la testa verso il fogliame della cima dell'albero, simbolo di salvazione (Come il cervo anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio, Salmo 41).


 


domenica 18 ottobre 2015

La chiesa di San Giovanni Battistà, Patù

La chiesa di San Giovanni Battistà, Patù


L'edificio, a pianta basilicale, è costruito, nella sua parte originale, con megaliti di pietra calcarenitica (tufo) ed è di difficile datazione (1).
La facciata doveva originariamente presentarsi con un basso tetto a spiovente a capriate lignee (come lasciano intuire i fori sotto le finestre per l’alloggio delle travi), l'attuale portale architravato (così risistemato nel 1523) sormontato da un arco di scarico e da un'ampia bifora, mentre la parte retrostante presentava solo l'attuale abside bassa e profonda. La struttura dell'edificio doveva perciò essere simile a quella della vicina chiesa di Sant'Eufemia a Specchia.


L'interno è a tre navate, divise da pilastri a sezione rettangolare che sostengono archi a tutto sesto. Sopra le arcate vi sono monofore che originariamente dovevano dar luce all'ambiente.


L'edificio è stato più volte rimaneggiato in epoca mediovale e integrato con una terminazione superiore a terrazze digradanti dei tetti (che si può ancora riconoscere dalle forme diverse dei laterizi utilizzati nelle parti superiori delle pareti), con una volte a botte lunettata al di sopra della navata centrale, con volte rampanti sulle navate laterali e con un grande occhio al di sopra dell'abside.

Facciata absidale

Nel corso dei restauri del 1905, commissionati dall'allora sindaco di Patù, tutte le pareti furono ricoperte di intonaco e la maggior parte degli  affreschi, che un tempo decoravano l’interno andarono in gran parte perduti (2).  L’unico ad essersi conservato meglio, sul pilastro di sinistra vicino l’altare,  rappresenta probabilmente proprio San Giovanni Battista e risale al XIII-XIV secolo.

San Giovanni Battista

Altri brani di affresco – riferibili a tre diverse campagne decorative - sono reperibili nella zona absidale. Allo strato più recente sono da attribuire i due santi vescovi a destra (XIV secolo), mentre spostandoci al centro compaiono i resti di un Cristo (identificato dal nimbo crucigero), databile al XII secolo, a sinistra del quale si scorgono tracce del ciclo decorativo più antico probabilmente databile alla seconda metà del X secolo.
A sinistra dell'ingresso, è conservato nella sua originaria posizione, un basamento di una statua di epoca romana (I-II sec), probabilmente proveniente dal sito dell'antica Vereto, eretta dai genitori a ricordo del figlio morto. Il basamento è costituito da un alto zoccolo e da un coronamento. Sul piano superiore si conservano gli incavi d'orma per i piedi della scultura. Sul basamento si legge la seguente epigrafe:

FADIO M.F. – VALERINO – POST MORTEM – M. FADIUS VALERIANO PATER – ET MINA VALERIANA MATER – L.D.D.D. (Locus datus decreto decurionum).
    A Marco Fadio - Valerino - dopo la morte - Marco Valeriano padre - e Mina Valeriana madre - posero -( Luogo concesso per decreto dei decurioni) (3)
Sull'architrave che sormonta il portale d'ingresso è invece incisa una lunga iscrizione (purtroppo gravemente danneggiata), riferibile ad i restauri operati nel 1523, che è stata così ricostruita:

Presidio divi hic Karolus rex agmine multo
Viribus afflixit Mauria bella duce
Tum struxit Templum ad sancti decus ipse Joannis
Sexcentis decimus septimus annus erat
Reliquias hic clausas dic cui scire licebat
Per longum tempus nullibi rumor erat
Vicarius Francisco Antonio praesule digno
Primum Antonius reperit ipse tamen

Guidato dalla protezione del Santo, qui re Carlo, con un esercito numeroso,
umiliò nella potenza le orde dei Mori.
Quindi, egli stesso fece costruire la chiesa in onore di San Giovanni.
Correva il seicentodiciassettesimo anno.
Annunzia, (o pietra), a chi pur doveva sapere, che le reliquie erano
nascoste qui; per lungo tempo era girata la voce che esse non si trovassero in nessun luogo.
Tuttavia lo stesso Vicario Antonio, al tempo del degno
Vescovo Francesco Antonio, le ha per primo ritrovate. (4)
 
Particolare dell'architrave con l'iscrizione
 
 
Note:
 
(1) La Falla Castelfranchi propone addirittura una datazione al VI secolo (M.Falla Castelfranchi, La Chiesa di San Giovanni Battista e le Cosiddette "Centopietre" a Patù in Puglia preromanica. Dal V secolo agli inizi dell'XI, 2004, pagg. 269-273), mentre secondo P. Arthur non si rilevano evidenze archeologiche antecedenti al XIII secolo.

(2) L'intonacatura venne successivamente rimossa nel corso di un nuovo intervento di restauro effettuato negli anni Cinquanta.

(3) Questa epigrafe è la prova più evidente della istituzione municipale in Vereto in epoca romana, con la particolarità dello statuto noto come decurionato. I tre personaggi dell’epigrafe (padre, madre e figlio) recano lo stesso cognome, Valerianus: evidentemente i genitori erano dei liberti che in onore del benefattore avevano assunto quel cognome all’atto dell’emancipazione, per poi imporlo anche al figlioletto.

(4) Secondo la leggenda, la fondazione della chiesa sarebbe da porsi in relazione con la vittoria riportata sugli arabi da Carlo il calvo il 24 giugno dell'877 (festa di san Giovanni Battista) in uno scontro nei pressi di patù, nella piana ancora oggi nota come Campo re.Vedi anche scheda Le Centopietre di Patù.





domenica 11 ottobre 2015

Il castello di Morciano di Leuca

Il castello di Morciano di Leuca (castello Valentini-Castromediano)


Fu fatto costruire da Gualtieri VI di Brienne (cfr. scheda La contea di Lecce e la casa dei Brienne) nel 1335 per difendere la parte meridionale dei suoi possedimenti dalle mire espansionistiche del conte di Caserta Filippo de la Rath (1).
Presentava originariamente una pianta quadrangolare rinforzata agli angoli da quattro massicci torrioni circolari.
La torre di NO fu fatta abbattere nel 1507 dall'allora proprietario, il barone Rodolfo Sanbiasi, per far posto al convento dei Carmelitani da lui fondato. Sempre in quel periodo, quella stessa parte del castello fu ulteriormente rimaneggiata al fine di consentire l’addossamento della chiesa del Carmine, anche questa appartenente, come il convento, ai Padri Carmelitani.
Altri due torrioni non sono più visibili perchè successivamente inglobati nella muratura.


L'unico torrione superstite nella sua struttura originaria, si presenta suddiviso in tre piani: tra il piano terra e il primo piano si nota un cordone orizzontale che ne delimita all’esterno le rispettive altezze; mentre il primo piano è suddiviso dal secondo da una serie di beccatelli (mensolette che accanto ad una finalità decorativa avevano anche una funzione architettonico-militare di sostegno ad alcune bertesche, cioé a delle postazioni lignee indispensabili alla difesa e al contrattacco con armi quali archi, balestre, lance, acqua e olio bollente). In alto il torrione termina con un altro cordone cilindrico e un tamburo rientrante. Le pareti verticali e l'assenza di scarpatura rendono evidente che fu costruito prima dell'avvento delle armi da fuoco.
Elementi caratterizzanti del castello sono i merli della cortina di coronamento la cui forma è quella del giglio di Francia (che fu aggiunto allo stemma dei Brienne dopo il matrimonio di Gualtieri VI con Beatrice di Taranto, nipote di Roberto d'Angiò, nel 1321).

La particolare merlatura vista dalla corte
 
L'adeguamento della fortificazione all'introduzione delle armi da fuoco – operato soprattutto dai feudatari ch tennero il castello tra il XVI ed il XVII secolo (de Nantolio, Capece e Castromediano) (2) – ha riguardato essenzialmente il rifacimento delle cortine esterne e delle piazze d'armi delle torri, lasciando quasi intatto l'alloggio baronale interno che mostra ancora la particolare merlatura originale.
Portale d'ingresso
 
Il portale d'ingresso, difeso da un machicolio, è sormontato da stemmi gentilizi che fungono da ornamento. Attraverso il portone si accede ad un ampio cortile interno intorno al quale si distribuiscono grandi stanzoni adibiti a fienili, scuderie, legnaia, cucine, officine, botteghe artigianali, forno e deposito d'armi. Sul lato destro è addossato uno scalone che conduce ai piani superiori occupati dagli alloggi degli ospiti e dalle stanze del feudatario.

Nel XVI secolo, quando il pericolo da fronteggiare non erano più le mire espansionistiche dei de la Rath ma le incursioni dei pirati arabi, immediatamente nei pressi del castello si sviluppò il cosiddetto Rione delle Torri, formato da abitazioni-fortilizio edificate dai cittadini più abbienti che riproducevano in scala minore la struttura architettonica del castello (portone d’ingresso, cortiletto centrale, magazzino e stalla, scala scoperta per l’accesso al primo piano con un modesto alloggio e una torre quadrata munita di feritoie e scalatoie). Questi minuscoli fortilizi, strettamente addossati gli uni agli altri a ridosso del castello, formavano una linea difensiva capace di resistere agli scorridori arabi.


Note:


(1) Nel 1335 Filippo de la Rath, conte di Caserta, sposando Caterina d'Auney, era venuto in possesso della ricca contea di Alessano e mirava ad espandere i propri possedimenti nel Capo di Leuca a scapito di Gualtieri VI di Brienne.

(2) I Valentini acquistarono nel 1848 il castello dai Castromediano, duchi di Morciano, con i quali si imparentarono grazie al matrimonio tra Valentino Valentini e Adelaide Castromediano, sorella del famoso duca Sigismondo. Da tale matrimonio nacque solo una figlia, Teresa, che sposò il cugino Vito Valentini, i cui figli assunsero il doppio cognome Valentini Castromediano ed i cui eredi sono ancora proprietari del castello


domenica 4 ottobre 2015

La cattedrale di Santa Maria dell'Annunziata, Otranto

La cattedrale di Santa Maria dell'Annunziata, Otranto


La cattedrale di Otranto fu edificata su insediamenti preesistenti tra il 1080 ed il 1088 – anno in cui venne ufficialmente consacrata e dedicata a Santa Maria dell'Annunziata dal Legato pontificio Roffredo, vescovo di Benevento – per volontà di Roberto il Guiscardo. L'originario impianto normanno ha subito però numerosi rimaneggiamenti nel corso del tempo.
La facciata romanica a doppio spiovente è oggi movimentata da un imponente rosone quattrocentesco e dal portale barocco (1674) voluto dal vescovo spagnolo Gabriel Adarzo di Santander (1).
L’interno presenta una pianta basilicale a tre navate al termine delle quali si aprono tre absidi. Le navate sono divise tra loro da 14 colonne di granito levigato intervallate da archi a tutto sesto. I capitelli, realizzati in stili e fatture diversi, testimoniano l’utilizzo di materiali di spoglio.


Da notare il quarto capitello del colonnato di sinistra, l'unico figurato.
Il soffitto a capriate della navata centrale, nel 1698, è stato coperto da un altro a cassettoni in legno dorato e smaltato su fondo bianco e nero per volere del vescovo Francesco Maria de Aste (2); quello della navata sinistra è dipinto a fresco, in corrispondenza del coro, con false architetture di età barocca raffiguranti pilastri che si slanciano verso il cielo; quello della navata destra presenta un Trionfo della Croce.
In fondo alla navata di destra si apre la Cappella degli 800 martiri, edificata nel 1524, ha forma ottagonale, le colonnine istoriate da Gabriele Riccardi che sostenevano il ciborio cinquecentesco sono esposte sulla parete destra della navata (3). All'interno di armadi di legno, visibili attraverso le ante di vetro, sono custoditi i resti dei martiri. L’altare e le decorazioni sono del XVII secolo. Dietro l’altare si custodisce, come una reliquia, un cippo di pietra che, si dice, sia stato quello usato per decapitare i martiri.

La cripta
Planimetria della cripta
 
Ha tre absidi ed è divisa da 42 colonne marmoree (a cui se ne aggiungono 30 in pietra leccese addossate alle pareti laterali), collegate tra loro da voltini a crociera, in nove navate, ognuna delle quali è suddivisa in cinque campate. Le colonne di marmo sono prive di base, tutte monolitiche e di marmi diversi. Alcune sono molto sottili, ventinove hanno il fusto liscio e su cinque di esse è incisa e sopraelevata una croce latina. Sette colonne hanno il fusto scannellato, sei lo hanno per un terzo scannellato e per i restanti due terzi istoriato con volute di fogliame.
 
 
Le opinioni degli studiosi circa la data di costruzioni della cripta sono discordi, c'è chi pensa che sia un'inserzione posteriore alla cattedrale e chi la ritiene precedente. Due scalinate, ricavate nella roccia, ne permettono l'accesso. La cripta è piuttosto luminosa e non è scavata sotto la cattedrale, ma sfrutta la pendenza naturale del terreno.
La tipologia di cripta ad oratorio suddivisa da colonnati si diffonde nell'Italia centrosettentrionale già agli inizi dell'XI sec., compare in area campana (cfr. la cripta della cattedrale di Salerno) nella seconda metà del secolo mentre non se ne conosce un antecedente in area pugliese.
Si ritiene che la cripta sia stata eseguita e progettata in un arco di tempo relativamente breve, reimpiegando una serie di elementi preesistenti. Un buon numero di capitelli è stato però eseguito da maestranze locali sotto la guida di capomastri di formazione bizantina. I capitelli non appaiono disposti casualmente ma secondo un itinerario che, dall'ingresso a sud, conduce il visitatore all'altare maggiore e quindi, dopo una tappa presso l'abside di sinistra, lo indirizza verso l'uscita. Lungo questo itinerario si dispongono i capitelli di migliore qualità – tardoantichi o bizantini di reimpiego – e quelli figurati.
Capitello figurato della cripta
 
La tomba ad arcosolio nella cripta (n.1 nella planimetria)

Si trova sulla sinistra della gradinata che dalla navata meridionale conduce alla cripta ed è scavata nella parete rocciosa. Lungo la gradinata che scende dalla navata nord se ne trovava un'altra (attualmente non visibile) solo sbozzata nella parete tufacea e mai completata (n.2).
E' costituita da una cassa con cuscino ed alveolo cefalico sovrastata da un arcosolio. All'interno una croce è raffigurata su tre lati mentre nell'arcosolio si notano lacerti di affresco in cui si riconosce un motivo a girali vegetali gialle su fondo bruno-rossastro.


La tomba risale sicuramente alla riqualificazione normanna della cripta (1088), mostra infatti delle similitudini con i sepolcri degli Altavilla a Venosa (4), ed anche l'analisi paleografica dei frammenti d'iscrizione ancora leggibili sul lato di testa esclude che possa essere antecedente all'anno 1000.

Note:

(1) Gabriel Adarzo di Santander fu vescovo di Otranto dal 1657 al 1674, anno della sua morte.

(2) Francesco Maria d'Aste fu vescovo di Otranto dal 1690 al 1719.

(3) La data (1524) e l'attribuizione all'architetto-scultore leccese sono ricavate da un'iscrizione presente sul fusto di una delle colonne. Si tratta della sua prima ed unica opera firmata rinvenuta.

(4) Cfr. scheda Il complesso della SS.Trinità di Venosa: la chiesa vecchia.




sabato 3 ottobre 2015

La Guglia di Raimondello, Soleto

La Guglia di Raimondello, Soleto


E' una torre a pianta quadrata molto slanciata (il lato di base misura appena 5,2 metri) e non è rastremata nei suoi cinque ordini archietettonici. Per il cedimento delle fondazioni poggiate su argilla rossa presenta una inclinazione verso il lato sud.
Fu fatta costruire da Raimondello Orsini del Balzo (vedi scheda La contea di Lecce e la casa di Brienne) forse al fine di comunicare otticamente, dall'alto dei suoi oltre 40 metri, sia con la riva del mare Adriatico (Otranto) sia con quella del mar Ionio (Gallipoli), in realtà come puro simbolo del suo controllo sul territorio ed affermazione di potere. Fu completata nel 1397 ad opera di Francesco Sulaci da Surbo come attestato da un'iscrizione sul parapetto terminale. Costruita nel punto più alto di Soleto, rimase isolata per quasi quattrocento anni fin quando, nel 1793, le venne addossata la facciata della chiesa matrice.

Il piano terra ed il primo ordine sono privi di finestre ed inglobano al loro interno una torre preesistente. Il secondo e terzo ordine sono riccamente decorati con 4 bifore finemente scolpite in pietra leccese, ogni bifora è divisa da una colonnina tortile che termina in una decorazione a forma di cuore innestata in un arco gemino trilobato. L’ultimo ordine è costituito da un tiburio ottagonale con una finestra bifora su ogni lato, sormontata da frontoni trapezoidali e colonnine angolari sostenenti leoni alati; è coperto da un cupolino ogivale rivestito di maioliche colorate che risale però al 1750 e poggia su una balaustra finemente lavorata. Il cupolino originale, di forma piramidale, crollò infatti nel terremoto del 1734. Tutte le bifore e gli angoli dei piani superiori sono ricchi di grifoni, leoni e maschere antropomorfe. Sulla balaustra e sulla cornice ottagonale su cui poggia il cupolino sono visibili alcune ciotole di pietra rozzamente intagliate che contenevano l'olio per l'illuminazione notturna.
Secondo un'antica leggenda Matteo Tafuri, considerato dai suo compaesani mago e alchimista, avrebbe convocato e diretto una schiera di diavoli e streghe per edificare la Guglia in una sola notte (1). Al sorgere dell'alba quattro grifoni, creature mitologiche diaboliche, sarebbero rimasti intrappolati nella pietra e come si può notare spiccano ancora ai quattro angoli della cornice che separa il terzo dal quarto ordine (2).

Uno dei quattro grifoni

La maschere antropomorfe e le gargoyle che decorano la guglia ne ribadiscono la già accennata funzione di affermazione del potere e del controllo sul territorio esercitato dai Del Balzo Orsini.
A guardia delle bifore troviamo infatti molti leoni, simbolo di vigilanza in virtù della loro capacità di dormire ad occhi aperti, così come i cani, posti a sostegno degli archi trilobati, simboleggiano fedeltà e vigilanza. Una testa coronata, infine, con orecchie di dimensioni esagerate, simboleggia il potere del principe di ascoltare tutto e tutti (3).

Cerchiata in rosso la testa coronata con le grandi orecchie. In alto, al centro della balaustra, le armi dei Del Balzo Orsini

Su due lati della balaustra posta tra il quarto ed il quinto ordine sono scolpite le armi dei Del Balzo Orsini, mentre una croce gerosolimitana figura scolpita nel sesto archetto della cornice di divisione, a est, tra il secondo e terzo ordine.

Note:

(1) Matteo Tafuri nacque in realtà più di un secolo dopo l'edificazione della guglia (8 agosto 1492) e fu uno studioso molto apprezzato dai suoi contemporanei. Laureatosi in Medicina e Filosofia alla Sorbona, dopo aver viaggiato per mezza Europa, ritornò nella natia Soleto per trascorrervi gli ultimi anni della sua vita esercitando la professione di medico. Ma i suoi concittadini, più che apprezzarne le doti di medico e di studioso, lo considerarono e temettero soprattutto come un potente mago capace di chissà quali oscuri prodigi. Tanto che egli, per porre fine alle dicerie, fece scolpire su un architrave della sua casa – che si trova al civico 72 di via Matteo Tafuri - il motto: Humile so et humiltà me basta. Dragon diventerò se alcun me tasta.

(2) La presenza dei grifoni sembra riecheggiare l'episodio descritto nel Romanzo di Alessandro attribuito allo Pseudo-Callistene (III sec). Secondo il racconto, Alessandro il Grande, arrivato con l'esercito presso il mar Rosso e salito su una montagna così alta da sentirsi "quasi in cielo", fece costruire un ingenium, vi fece incatenare due grifoni e, poste davanti a loro aste munite in cima di carne, prese a salire al cielo. Ma una divinità, avvolgendoli con la sua ombra, li fece ricadere a terra incolumi. Questo episodio è raffigurato anche nel celebre mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto (1165-1166).


(3) vedi scheda Il castello di Lagopesole, nota 1.


mercoledì 30 settembre 2015

Piazza Sant'Oronzo (già Piazza dei Mercanti), Lecce

Piazza Sant'Oronzo (già Piazza dei Mercanti), Lecce


Sino agli ultimi anni del XIX secolo la piazza era occupata sul lato meridionale dalla cosiddetta isola del Governatore dove insisteva il Palazzo del Governo (un unico palazzo che comprendeva la residenza del Governatore, il Tribunale e l’antico Sedile o sala del Parlamento generale in cui avevano luogo le assemblee del pubblico reggimento) nonchè quello del console veneziano.
Ai primi del 1900, la costruzione del Palazzo della Banca d'Italia, opera in stile neorinascimentale fiorentino dell'architetto ferrarese Giovanni Travagli, alterò completamente la planimetria e la morfologia della piazza che fu ridedicata al santo patrono. Durante i lavori di costruzione del palazzo furono scoperti i resti dell'anfiteatro romano. Per far posto al primo e dar luce al secondo, fu demolita l'intera isola del Governatore nonchè le capande ossia le numerose botteghe dei mercanti veneziani che punteggiavano i portici degli edifici che affacciavano sul lato meridionale della piazza.

Il Palazzo del Sedile

Il Sedile e la chiesetta di San Marco

L'attuale Palazzo del Sedile fu fatto costruire dal sindaco Pietro Mocenigo nel 1592 in luogo del precedente demolito nel 1588 (*).
Posto nell’angolo settentrionale dell’isolato e rivolto verso il centro della piazza, l’antico Sedile o Tocco quattrocentesco era sormontato da una torretta dotata di campana per convocare il popolo e il reggimento.
La planimetria originaria del monumento era composta, oltre che dalla loggia esistente a pianta quadrata, da alcune stanze che si sviluppavano sul retro e da una soprastante alle stesse, utilizzate come armeria e demolite nel 1937 in seguito agli scavi che portarono alla luce l’Anfiteatro Romano.
Ognuno dei quattro prospetti del Sedile è definito da pilastri angolari – forati da cinque grandi ovuli - che inglobano, in una efficace invenzione architettonica, lo stelo di una colonna, come imprigionata al loro interno.
La volumetria del Sedile è quella di un parallelepipedo caratterizzato da due grandi archi gotici che si aprono sulle due facciate principali e che, con il verticalismo proprio di quello stile, conferiscono all’impianto ariosità e leggerezza.
Sulle due chiavi di volta degli archi ogivali sono scolpiti lo stemma di Filippo III di Spagna e quello della Città con la lupa sotto il leccio, rappresentata per la prima volta senza l’antica torre di Santa Irene.


Ai lati degli stemmi, su ambedue le facciate, si sviluppano ricche panoplie che raffigurano corazze, armi e scudi, richiamo alle armature e alle munizioni che venivano custodite nelle stanze retrostanti la loggia.
Nella parte superiore un sistema d'archi a tutto sesto forma un'altana di gusto rinascimentale a coronamento dell'edificio.
All’interno la loggia presenta un’alta volta acuta, a spigoli costolonati, decorata a festoni di foglie di quercia e mascheroni. La volta, così come le pareti, in origine era ricoperta da affreschi. Un’epigrafe in pietra leccese, collocata su una parete laterale interna, sovrastata dal volto di Carlo di Borbone, ricorda l’omaggio, reso al re dalla Città nel 1743, consistente in caraffe d’oro e d’argento contenenti l’olio della lampada di Sant’Oronzo e, di seguito, il suo ringraziamento in lingua spagnola.
Recenti lavori di restauro hanno svelato, ma solo sulla volta - non sulle pareti - e tra tante lacune, quanto è rimasto di superfici affrescate, che in origine dovevano conferire al monumento un aspetto fastoso. Oggi, dopo il restauro, sugli spigoli della volta sono visibili figure allegoriche - inserite in cornici che simulano il marmo e che seguono le linee architettoniche della stessa volta - Dazio, Frode, Onore, Virtù quelle di cui si riesce a ricostruire la dicitura sui cartigli che, molto probabilmente, fanno riferimento alla funzione di borsa svolta un tempo all’interno del Sedile.


Sulla crociera, s'intravedono i resti di un ciclo pittorico composto da una serie di episodi che, molto probabilmente, rappresentano la vita di Santa Irene, protettrice della Città.


Utilizzato come armeria, fu successivamente sede del Municipio fino al 1851 e quindi della Guardia Nazionale. Dopo i restauri terminati nel 2011, è stato adibito a sede espositiva.

(*) Il progetto del nuovo Sedile, per quanto non si abbiano notizie certe in proposito, dovrebbe essere opera di Alessandro Saponaro. Un coinvolgimento nella progettazione di Gabriele Riccardi – chiamato in causa per l'adozione della soluzione architettonica delle "colonne inglobate" che compaiono anche nella facciata della basilica di Santa Croce – appare improbabile, giacchè il celebre architetto leccese morì presumibilmente prima del 1574 (cfr. M. Cazzato, La prima attività di Gabriele Riccardi: le colonne dell'altare dei martiri nella cattedrale di Otranto (1524), pag. 85).
 
La "colonna inglobata" che figura nella facciata della basilica di Santa Croce

La chiesetta di San Marco

La colonia veneziana a Lecce, probabilmente già attiva agli inizi del XIV secolo, conobbe un'ulteriore espansione durante il regno di Maria d'Enghien (cfr. scheda La contea di Lecce e la casa i Brienne).
Nel 1543, su istanza presentata dal console veneziano Giovanni Cristino, il vescovo di Lecce, Giovanbattista Castromediano, concesse alla colonia la chiesetta dedicata a San Giorgio in piazza dei Mercanti (come attestato dall'iscrizione riportata sul portale laterale) che fu ricostruita e ridedicata a San Marco e alla quale nel 1592 si ritiene venisse addossato il nuovo Sedile.
Il rifacimento della chiesa è stato per lungo tempo considerato opera di Gabriele Riccardi.
La chiesa si presenta come un unico blocco cubico, con una facciata schematicamente geometrica la cui ricchezza ornamentale è impostata sull'asse centrale formato dal portale e dal rosone.


Agli inizi del ‘900 era ormai un rudere (ne venne anche proposta la demolizione per allargare ulteriormente la piazza), con le parti ornamentali corrose e con uno dei portali deturpato da un incendio che per fortuna era stato domato prima che arrecasse altri danni.
Nel 1930 si procedette al restauro. Purtroppo non si poterono restaurare i due portali in quanto dei fregi di cui erano ornati era rimasto ben poco perché erosi dal tempo e dalla incuria, ma a questo si ovviò riproducendo in calchi il portale della chiesetta di San Sebastiano (costruita da Riccardi nel 1520) e da questi si potè ricavare il modello delle due colonne laterali e del fregio.
Oggi quindi non si ammira il portale originale della chiesetta di San Marco ma la riproduzione di quello di San Sebastiano.
Recenti lavori di restauro hanno però dimostrato che le decorazioni ellittiche dei pilastri del sedile erano già presenti in quello demolito nel 1588. Il vec­chio Sedile (costruito non molti anni prima del 1543) aveva, quindi, già, al­meno nel pilastro destro, le decorazio­ni ellittiche, e furono proprio queste ul­time a essere riproposte nella facciata (terminata nel 1582) della chiesa lecce­se di Santa Croce, e non il contrario co­me finora ritenuto (cfr. paragrafo precedente). Al momento della ricostruzione del Sedile, il pilastro destro del Sedile precedente (alla cui base è stata ritrovata la data del 1582) fu conser­vato per necessità strutturali e per­ché questa era evidentemente la solu­zione più rapida ed economica.
La chiesetta di S.Marco fu quindi addossata al vecchio Sedile (e non il nuovo costruito a fianco ad essa come sino ad oggi ritenuto) e molto probabilmente non fu costruita in un unico tempo.

La colonna di Sant'Oronzo


Fu eretta per volontà della cittadinanza nel 1681, come ex-voto dopo la funesta epidemia di peste che aveva colpito la città nel 1656. L'architetto barocco Giuseppe Zimbalo reimpiegò il fusto in marmo cipollino d'Africa dell'antichissima colonna che segnava, insieme a una sua gemella, la fine dell'antica via Appia presso il porto di Brindisi.
Nel 1684 giunse a Lecce la statua di Sant’Oronzo di rame, fusa a Venezia, che fu posta sulla sommità della colonna. Nel 1737 durante i festeggiamenti in onore del Patrono, un dei fuochi d’artificio andò a conficcarsi sotto il braccio della statua che, realizzata sostanzialmente in legno ricoperto di rame, prese fuoco e si sgretolò rapidamente. La testa del santo, pur cadendo da quell’altezza, rimase intatta apparendo tale fatto un miracolo. Così la gente raccolse le ceneri e i tizzoni ritenendoli delle reliquie miracolose. Il giorno dopo la testa della statua fu esposta nel Sedile e la gente numerosa si recò in adorazione.
Due anni dopo fu posta in opera la nuova statua, sempre fusa a Venezia.

L'Anfiteatro romano

Trasformato in fortezza in epoca medioevale, rimase successivamente completamente interrato fino ai primi del '900, quando venne riscoperto durante i lavori di costruzione del palazzo della Banca d'Italia.
Ne è stato riportato alla luce circa un terzo, perchè sulla parte non scavata insistono importanti edifici.
 
Presentava una cavea a pianta ellissoidale che misurava circa 100 metri sul diametro maggiore e 83 su quello minore e poteva ospitare circa 25.000 spettatori. E' generalmente considerato di età traiano-adrianea (II sec), anche se non si può escludere una datazione più antica dell'edificio che potrebbe essere stato soltanto restaurato e rinnovato nel periodo indicato.
E' in parte scavato in un banco tufaceo ed in parte eretto su imponenti arcate di sostruzione.
Il perimetro esterno è delimitato da pilastri pressochè quadrati che presentano una lesena sulla faccia esterna. Sui pilastri s'impostano arcate a tutto sesto e attraverso questi fornici si accede all'ambulacro esterno coperto da una volta a botte la cui chiave è posta a circa 6 metri di altezza.

L'ambulacro esterno

Dall'ambulacro esterno comode rampe di discesa ad ampi gradoni introducono all'ambulacro interno – la cui volta a botte è alta alla chiave circa 4 metri – da cui delle scale si aprono in forma di vomitoria (ne sono attualmente visibili sette) nel parapetto (balteus) che separa l'ima dalla media cavea. Della parte più alta della cavea (summa cavea), a cui esternamente corrispondeva un secondo ordine di fornici e che probabilmente culminava con una galleria colonnata, non è purtroppo rimasta traccia.


I due ingressi principali – uno dei quali portato alla luce - erano posti alle estremità dell'asse maggiore del'ellisse ed introducevano all'arena per mezzo di un ampio corridoio.
L'arena è separata dalla cavea da un muro abbastanza alto decorato sul parapetto da fregi marmorei che raffigurano scene di combattimento fra uomo e animale (venationes).

Particolare del fregio marmoreo: un gladiatore armato di gladio affronta un leone

Nel Museo Castromediano di Lecce si conserva inoltre una statua di Atena Hephasteia (*), replica di un originale greco del V secolo a.C., proveniente dall'anfiteatro.

(*) Il tipo dell'Atena Hephasteia prende il nome dalla statua vista da Pausania (II secolo) nel tempio di Efesto (Hephaisteion) ad Atene ed attribuita ad Alcamene (seconda metà del V secolo a.C.). E' caratterizzato dalla cesta contenente Erittonio – frutto dell'amore tra Atena ed Efesto - che la dea tiene in braccio.







venerdì 25 settembre 2015

Le Centopietre, Patù

Le Centopietre, Patù


L'edificio detto delle Centopietre sorge nella zona ovest dell’abitato di Patù, in prossimità di piazza Marco Pedone e a una decina di metri dalla chiesa di San Giovanni Battista.
La costruzione si presenta come un parallelepipedo (con i lati rispettivamente di 7,25 e di 5,50 metri e l’altezza di 2,20 metri), con l'asse maggiore orientato in direzione NS, composto da enormi blocchi squadrati connessi a secco e inframezzati da inserimenti di colonne, capitelli ed altri elementi architettonici, probabilmente di recupero.
La copertura è formata da un tetto a doppio spiovente di 26 lastre tufacee megalitiche di m 2,40 l’una.
All'interno l'architrave che sostiene i lastroni di copertura è composta da tre blocchi parallelepipedi che poggiano su due colonne che dividono lo spazio interno in due navate.


Spicca il contrasto tra l'accurata fattura dei blocchi dell'architrave che, laddove l'intonacatura è caduta, rivelano la presenza di un fregio a metope e triglifi, e la rozzezza dei blocchi che formano le pareti ed il tetto.

Particolare del fregio dell'architrave

La porta che si apre sul lato meridionale costituisce probabilmente l'ingresso originario, mentre quella che si apre sul lato orientale sembra esser stata aperta successivamente scavando col piccone i blocchi di pietra.
L'edificio sembra essere stato costruito in epoca altomedievale (VIII-IX secolo) riutilizzando materiali provenienti da edifici preesistenti dell'antica Vereto.

Secondo la tradizione locale, l'edificio sarebbe stato eretto come sepolcro del cavaliere Geminiano. Tra l'875 e l'877, negli anni in cui fu re d'Italia, Carlo II detto il Calvo, su richiesta di papa Giovanni VIII, sarebbe sceso nel Salento con un esercito per contrastare la penetrazione araba. Dopo una serie di scaramucce, Geminiano sarebbe stato inviato per trattare una tregua nel campo nemico dove sarebbe stato catturato e trucidato. L'indomani, il 24 di giugno, festa di San Giovanni Battista, si sarebbe svolta nella località detta Campo Re una cruenta battaglia, nel corso della quale i cristiani avrebbero recuperato le spoglie dello sfortunato cavaliere e successivamente avrebbero quindi eretto l'edificio per tumularlo. Nei secoli successivi, sarebbe avvenuta la trasformazione del sepolcro in chiesa.
Di tutta questa storia, a partire dalla supposta spedizione in Salento di Carlo il Calvo, non c'è però alcuna traccia nelle fonti scritte.
Una cinquantina di tombe terragne sono però state rinvenute in una campagna di scavo condotta dal Prandi negli anni Cinquanta dentro e in prossimità del complesso e nel fondo adiacente, che ancora porta la denominazione di Campo Re, cinque delle quali, scavate nella roccia, sono tuttora visibili.
Un'altra ipotesi identifica nell'edificio un'antica laura basiliana, trasformata successivamente in oratorio e quindi decorata con pitture murali.
Nella sua Guida ai luoghi misteriosi d'Italia (Edizioni Piemme, 1996) infine, Cordier riporta una ipotesi raccolta in loco secondo la quale la costruzione sarebbe una delle più antiche della Magna Grecia, originariamente consacrata al dio Sole, sarebbe stata assorbita dal culto cristiano soltanto nel X secolo e dedicata a San Gimignano. Il culto solare si sarebbe perpetuato anche in epoca cristiana con la costruzione nello stesso sito della chiesa dedicata a San Giovanni Battista, la cui festa ricorre il 24 giugno in coincidenza con il solstizio d’estate.  

Affreschi:

All'interno dell'edificio, la Falla Castelfranchi ha rilevato nella decorazione parietale, anche se siamo di fronte a tracce ormai decisamente evanescenti, la stesura di 3 strati pittorici, il più antico dei quali riferibile al XIII secolo.
Si tratta di un ciclo di istanza votiva, tipico della decorazione degli ambienti rupestri: l’unica scena cristologica distinguibile è una Crocefissione posta sul muro nord e riferibile allo strato pittorico più tardo; allo stesso strato è riconducibile un san Giorgio presente sullo stesso muro settentrionale ma nella navata occidentale.

Frammento della mano e del braccio destro del Cristo nella Crocefissione
sul muro settentrionale

Le impronte pittoriche più chiare sono ubicate lungo la parete occidentale, con una teoria di tredici di santi inquadrati da arcatelle rette da colonnine: sono riconoscibili san Basilio, un probabile santo monaco e un gruppo di cinque sante, tra cui Lucia e Tecla; un’altra santa sembrerebbe somigliare a santa Caterina.

 
 
Parete occidentale: Tre santi
 
 
Parete occidentale: Il gruppo delle sante
 
Sulla stessa parete occidentale, ma in prossimità dell’innesto con il muro meridionale, è probabilmente dipinto San Giuliano con la sua tipica lunga capigliatura.
Alba Medea, nel 1939, ha potuto ancora individuare, sempre sulla parete occidentale, tracce di una Madonna che tiene in braccio il Bambino da un lato e di un'altra Madonna con il Bambino, di fronte. Quest'ultima, con le mani protese, potrebbe essere la Sant' Anna vista dal Diehl (1), rappresentata seduta in trono con la Vergine sulle ginocchia che porta a sua volta il Bambino e considerata “sia per la rarità del tema iconografico sia per la qualità dell'esecuzione che deve risalire all'XI secolo” di particolare importanza (A. Medea, Gli affreschi nelle cripte eremitiche pugliesi, 1939, pagg. 271-272).

Note:

(1) C. Diehl, L'art Byzantine dans l'Italie meridionale, Parigi, 1894, pag.87.


sabato 19 settembre 2015

La chiesa di San Pietro, Otranto

La chiesa di San Pietro, Otranto


Una leggenda vuole la chiesa legata al passaggio da Otranto dell'apostolo Pietro in viaggio verso Roma. Secondo alcune fonti sarebbe inoltre stata la prima sede della cattedra vescovile idruntina.
Ha una pianta a croce greca inscritta quasi quadrata ed è presumibilmente databile tra la fine del IX e la metà del X secolo, comunque molto prima della conquista normanna della città (1068).
In origine presentava anche un ingresso laterale ubicato sulla destra al quale era addossata una struttura absidata (costruito non molto tempo dopo l'edificio originario) in funzione di parekklesion.
Il santuario è tripartito con absidi semicircolari aggettanti all'esterno. La cupola centrale – priva di tamburo - è impostata su quattro colonne ed è traforata da quattro aperture (modificate in età barocca). Il pulvino è ricavato semplicemente scolpendo le estremità delle arcate sovrastanti, dando comunque slancio alle colonne.

La decorazione parietale originaria sopravvive soltanto nella volta della prothesis nelle scene dell'Ultima cena e della Lavanda dei piedi e, forse, nelle due figure superstiti degli evangelisti raffigurati nei pennacchi della cupola.
Ultima cena: da notare la prospettiva gerarchica, le proporzioni delle figure diminuiscono di grandezza a partire dal Cristo fino a Giuda che è quella più piccola ed il parapetasma – la tenda attorcigliata al bastone - che fa da sfondo alla scena.

L'Ultima cena

Lavanda dei piedi: l'iscrizione in caratteri greci riporta – pur con molti errori – il passo di Giovanni (XII, 8-9): Pietro gli disse: «Non mi laverai mai i piedi!» Gesù gli rispose: «Se non ti lavo, non hai parte alcuna con me». E Simon Pietro: «Signore, non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo!».
Da notare l'apostolo rannicchiato a terra come se si stesse slacciando i calzari.

La Lavanda dei piedi
 
Secondo alcuni studiosi questi affreschi mostrerebbero delle forti affinità stilistiche con quelli realizzati dal pittore Teofilatto nella cripta di Santa Cristina a Carpignano (959).

La vergogna dopo il peccato: nell'imbotte del braccio settentrionale della croce è raffigurato in forma abbreviata il ciclo della Genesi. L'albero con il serpente attorcigliato allude all'antefatto della scena della Vergogna dopo il peccato, con i Progenitori nudi davanti a Dio padre, che è invece rappresentata per esteso.

 
Battesimo: è rappresentato nell'imbotte del braccio meridionale. Cristo è dritto quasi fosse in croce (prefigurazione della morte e resurrezione) mentre la figura del Battista, oggi scomparsa, doveva probabilmente trovarsi a sinistra del Cristo. Gli angeli hanno le mani velate del velo omerale (la stola liturgica che copre spalle e braccia e che il sacerdote usa quando benedice il popolo con il Santissimo a significare l'impossibilità di toccare con mani impure ciò che è santo).
 
 
Secondo la Falla Castelfranchi questi affreschi sarebbero riconducibili allo stile comneno del tardo XII secolo (1).

Nel catino absidale è dipinta la Vergine in posizione di orante che tiene il Bambino benedicente tra le ginocchia ed è affiancata da due angeli inginocchiati. L'affresco è da attribuire al 1540, come recita la data dipinta sotto di esso, ma ripete probabilmente uno schema iconografico già presente in precedenza. Dunque non una Theotokos, cioè una Vergine con Bambino, bensì un’orante: questa precisa scelta va forse posta in relazione alla presenza di un’icona della Vergine attestata dalla fine dell’XI sec. nelle Vite di S.Nicola Pellegrino che, a giudicare da un sigillo dell’arcivescovo di Otranto, Gionata, lo stesso menzionato nel celebre pavimento musivo della cattedrale, presentava probabilmente l’immagine di una Vergine orante, iconografia mariana d’origine paleocristiana che ebbe grande fortuna anche in epoca mediobizantina.


Lungo l'arco absidale scorre un'iscrizione in caratteri pseudo cufici bianchi su fondo azzurro lapislazzuli (2). Ai lati dell'abside, ricoperti da strati di pittura più recente, si notano i resti dell'Annunciazione che apriva il ciclo cristologico.

Parete ed emivolta sinistra del bema
 
Sulla parete sinistra del bema è raffigurata l'Anastasis e sui due versanti della volta gli Apostoli a gruppi di sei per lato (raffigurazione della Pentecoste?). Sulla parete destra del bema, molto deteriorata, è raffigurata la scena della Natività.
Questi affreschi mostrerebbero l’adesione ai canoni della pittura bizantina d’epoca paleologa, in particolare, secondo la Falla Castelfranchi (La Chiesa di san Pietro ad Otranto, in Puglia preromanica: dal V secolo agli inizi dell'XI, pagg. 181-192, Milano 2004) la supposta Pentecoste, con le sue figure monumentali avviluppate in panneggi volumetrici antichizzanti, presenterebbe significative assonanze con il celebre ciclo di affreschi del monastero della SS. Trinità di Sopočani in Serbia (1265).

A sn. gli Apostoli dipinti nella chiesa di San Pietro, a ds., particolare della Dormizione della Vergine dipinta nella chiesa di Sopočani
 

Note:
 
(1) Questa fase tardocomnena della decorazione parietale potrebbe essere attribuita ad un pittore idruntino, Paolo, di cui riporta significative notizie un carme di Nicola-Nettario, il celebre igumeno (1220-35 ca.) del monastero bizantino di S.Nicola di Casole, ubicato a breve distanza dalla città, che aveva dipinto la phiale (fontana liturgica posta nell’atrio) di uno dei più importanti monasteri di Costantinopoli, quello della Theotokos Evergetis, intorno al 1200.

(2) L'iscrizione, rimasta leggibile solo in parte, non sembra comunque avere un senso compiuto ma soltanto un mero valore decorativo (cfr. Franco dell'Aquila, Il cufico in Puglia).