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domenica 30 aprile 2023

Giovanni il Cappadoce e la rivolta di Nika

 Giovanni il Cappadoce e la rivolta di Nika

Nato probabilmente a Cesarea di Cappadocia da una famiglia di basso ceto, entrò nella pubblica amministrazione bizantina come scrinarius (archivista). Secondo alcuni storici conobbe Giustiniano prima della sua ascesa al trono, quando questi ricopriva la carica di magister militum praesentialis (520) e Giovanni fu assegnato al suo servizio, facendosi notare dal futuro imperatore soprattutto per le sue capacità in materia di esazione fiscale. Nel 531 – nonostante il fatto che fosse alquanto illetterato e soprattutto non parlasse latino, il che lo rendeva culturalmente estraneo al progetto giustinianeo della renovatio imperii, fu dapprima elevato al rango di vir illustris e quindi posto dall'imperatore a capo della prefettura del pretorio d'Oriente. Da questa carica diresse per circa un decennio – salvo una breve interruzione a seguito della rivolta di Nika – l'amministrazione statale, reperendo i fondi necessari alle campagne militari e alle grandiose opere pubbliche volute dall'imperatore.


La rivolta di Nika
Le due fazioni superstiti di tifosi delle corse all'Ippodromo all'epoca di Giustiniano avevano assunto quasi la forma di partiti politici. I Verdi erano monofisiti e raccoglievano consensi soprattutto tra l'aristocrazia e i legittimisti raccolti attorno ai nipoti di Anastasio, mentre gli Azzurri, a cui andava il favore della coppia imperiale, erano invece di credo calcedoniano e di estrazione popolare. Il livello di scontro tra le due fazioni crebbe enormemente durante il regno di Giustiniano, gli estremisti di ambo le fazioni giravano armati e non di rado ci scappava il morto. Nel gennaio del 532, la settimana precedente l'inizio delle corse, era già stata funestata da diversi omicidi. L'eparca di Costantinopoli, Eudemone, fece arrestare i responsabili, due verdi e due azzurri, e li fece condannare a morte. Il patibolo fu eretto il 12 gennaio a Sycae sulla riva del Corno d'oro ma dopo le prime due esecuzioni crollò, permettendo la fuga degli altri due condannati (un verde e un azzurro) che trovarono rifugio nel convento di San Conone che venne immediatamente circondato dai soldati.
Il giorno successivo, all'Ippodromo, prima dell'inaugurazione delle corse, il capo dei Verdi e quello degli Azzurri fecero un appello congiunto all'imperatore perché risparmiasse la vita ai due condannati. Giustiniano ignorò l'appello e questo diede fuoco alla rivolta. Al grido di “Nika! (Vinci!)”, lo stesso usato per incitare gli aurighi, la folla sciama nella città abbandonandosi ad atti vandalici e di violenza.
Il 18 gennaio, seguendo l'esempio di Anastasio I (491-518), Giustiniano si presenta all'Ippodromo con i Vangeli in mano nel tentativo di placare la folla. Viene ricoperto d'insulti ed è costretto a rinchiudersi nel Sacro palazzo mentre i rivoltosi danno fuoco finanche alla cattedrale di Santa Sofia (1) e proclamano Ipazio, un nipote di Anastasio che accetta a malincuore (2), imperatore. Iniziata come un torbido sportivo, la rivolta assume un colore più politico e pretende le teste di Eudimone, l'eparca di Costantinopoli responsabile della repressione, di Giovanni il Cappadoce, responsabile dell'intollerabile pressione fiscale, accusato di avidità e di condurre una vita dissoluta e del giurista Triboniano che ricopriva la carica di Questor sacri palatii (in pratica il ministro di Giustizia di Giustiniano a cui è in gran parte dovuto il Corpus iuris civilis) accusato anche lui di avidità e corruzione. Giustiniano sostituisce il Cappadoce con Foca, un conservatore colto e illuminato, e Triboniano con Basilide, un aristocratico di alta cultura. Ma questo non basta a placare la folla.
Alcuni senatori rimasti a Costantinopoli passano dalla parte dei rivoltosi, tra questi Origene che suggerisce una tattica attendista, insediando il nuovo governo in un altro palazzo. Bramosi di agire e forse su ordine di Ipazio gli insorti confluiscono invece nuovamente nell'Ippodromo. Nel frattempo nel Sacro Palazzo Giustiniano e i suoi fedelissimi valutano l'ipotesi di lasciare la città e proseguire altrove la lotta. L'imperatrice interviene con un appassionato discorso che conclude con una frase passata alla storia: il trono è un magnifico sepolcro e la porpora uno splendido sudario. Giustiniano e i suoi decidono quindi di restare e combattere. Non essendo certa la fedeltà della guardia palatina, si decide di puntare tutto sulle milizie personali di Belisario e Mundo rimasti fedeli all'imperatore.
Ipazio aveva preso posto sul palco imperiale, Belisario e i suoi uomini entrarono nell'Ippodromo dai carceres mentre i miliziani di Mundo entrarono dalla Porta della morte che si trovava dalla parte opposta. Presa in mezzo la massa confusa e disordinata dei rivoltosi, i veterani dei due generali ne fecero strage (Procopio parla di circa trentamila morti). I nipoti di Giustiniano, Giusto e Boraide, catturarono Ipazio e il fratello Pompeo e li consegnarono all'imperatore che li mise a morte il giorno dopo.

Non molto tempo dopo la conclusione della rivolta, nell'ottobre dello stesso anno, Giustiniano richiamò al governo sia Triboniano che il Cappadoce che riteneva indispensabili alla realizzazione del suo programma. Nonostante il fatto, ad esempio, che Giovanni fosse apertamente ostile alla campagna d'Africa – che giudicava eccessivamente dispendiosa - fino al punto di sabotare le derrate della spedizione. Il Cappadoce diresse l'amministrazione dell'impero fino al 541 quando cadde vittima di un tranello tesogli dall'imperatrice stessa per mano di Antonina, la moglie di Belisario. Profittando dell'ingenuità di Eufemia, l'unica figlia di Giovanni, Antonina lo attirò in un incontro riservato alle Rufinianae (2) in cui gli propose l'appoggio proprio e del marito in caso di rivolta contro Giustiniano. Giovanni accettò immediatamente mentre non visti Narsete e Marcello ascoltavano la conversazione. Non appena il Cappadoce dichiarò di aderire al progetto, i due generali ed i loro uomini si avventarono su di lui che fu però difeso dalle sue guardie private da cui – non fidandosi del tutto di Antonina – si era fatto scortare. Sottrattosi alla cattura, fu estromesso dal governo e costretto controvoglia a farsi sacerdote, prendendo il nome di Pietro. In un primo momento tutti i suoi beni furono sequestrati ma successivamente Giustiniano decise di restituirgliene una parte.
Non volendo in alcuna maniera esercitare le funzioni dell'ordine sacerdotale, onde non precludersi la possibilità di riottenere una carica civile importante, entrò in contrasto con il vescovo di Cizico – Eusebio -da cui dipendeva, sì che alla sua morte fu arrestato e processato per il suo assassinio. La sua colpevolezza non fu dimostrata ma l'imperatore lo esiliò in una località ancora più lontana, Antinoopolis in Egitto dove continuò ad essere perseguitato dall'odio di Teodora – che probabilmente temeva l'ascendente che il Cappadoce aveva sull'imperatore – e che cercò finanche di corrompere due falsi testimoni per farlo condannare per l'assassinio del vescovo. Giovanni, dal canto suo, non perse mai la speranza di poter rientrare nel gioco politico. Alla morte di Teodora (548) Giustiniano gli permise di tornare a Costantinopoli ma non di rinunciare all'abito talare né gli vennero affidati incarichi nella pubblica amministrazione. Morì in pace – come riporta lo storico Giovanni Malala – poco tempo dopo.


Note:

(1) Oltre alla chiesa di Santa Sofia, la furia dei rivoltosi ridusse in macerie anche la vicina Sant'Irene e la Magnaura (all'epoca sede del Senato). Fu anche gravemente danneggiata la Chalke e molte delle colonne dell'Augusteion vennero abbattute. 

(2) Pompeo e Ipazio erano figli di Cesaria, sorella dell'imperatore Anastasio I. Procopio riporta un accorato appello della moglie di Ipazio – Maria – che scongiura il marito di resistere alle pressioni della folla. L'incoronazione avvenne nel Foro di Costantino – l'unico che non era stato incendiato dagli insorti – e la corona venne sostituita da una catena d'oro spuntata fuori da chissà dove.

(2) Le Rufinianae erano un sobborgo di Costantinopoli – dava sul Mar di Marmara, poco a sud di Calcedonia - dove si trovava un palazzo residenziale di Belisario

(3) All'epoca dei fatti Marcello ricopriva la carica di comes excubitorum, comandava cioè la guardia palatina ed era un fedelissimo di Giustiniano.

domenica 28 ottobre 2018

Salomone

Salomone

Nato probabilmente tra il 480 ed il 490 nei dintorni della città di frontiera di Dara, Salomone non divenne eunuco a causa di una castrazione ma per un incidente occorsogli durante l'infanzia.
Compare per la prima volta nelle fonti nella Cronaca dello Pseudo-Zaccaria (568-569) come notarius del dux Mesopotamiae Felicissimo che ricoprì questa carica dal 505 al 506. Servì quindi sotto Belisario quando questi a sua volta ricoprì la carica di dux Mesopotamiae (527-531) guadagnandosene la stima.


Nella campagna d'Africa condotta da Belisario contro i Vandali, che fruttò all'Impero la riconquista dell'Africa proconsolare, fu scelto dal generalissimo come suo domestikos (1) ed è indicato da Procopio come uno dei due comandanti dei foederati.
Salomone, al comando dei foederati, prese parte al decisivo scontro di Ad Decimum (13 settembre 533, vedi scheda La Campagna d'Africa). Istallatosi a Cartagine, Belisario lo inviò a Costantinopoli per riferire all'imperatore sull'andamento della campagna. Qui si trattenne fino alla primavera del 534, quando l'imperatore richiamò il generalissimo nella capitale ed inviò Salomone in Africa affidandogli il comando militare della provincia (magister militum Africae). In autunno, Salomone prese anche il comando dell'amministrazione civile sostituendo il vecchio Archelao nella carica di prefetto del pretorio della restaurata provincia africana.
Nel frattempo i berberi che, dopo aver appoggiato Belisario contro i Vandali, premevano adesso ai confini cercando di strappare territori ai Romani, avevano invaso la Byzacena (2) massacrando il presidio romano comandato da Gainas e Rufino.
Ricevuti i rinforzi da Costantinopoli, Salomone marciò sulla Byzacena alla testa di un esercito di 18.000 uomini e sconfisse i berberi accampati nei pressi di una località chiamata Mammes (3) infliggendogli gravi perdite.
Rientrato a Cartagine, venne raggiunto dalla notizia che i berberi si erano riorganizzati ed avevano nuovamente invaso la Byzacena trincerandosi sul Monte Bourgaun (4).
Salomone riportò quindi l'esercito nella Byzacena e pose l'assedio al campo berbero, che si trovava su una balza, attendendo che questi lasciassero le loro postazioni e lo attaccassero in campo aperto. Trascorsi alcuni giorni, si rese però conto che il nemico non aveva alcuna intenzione di abbandonare la posizione di vantaggio in cui si trovava e al contempo di non poter proseguire oltre un assedio in pieno deserto. Decise quindi di prendere l'iniziativa.
Notato che i berberi avevano tralasciato di fortificare la parte del campo verso la montagna, valutando che nessun attacco potesse giungere da quella direzione, Salomone ordinò a Teodoro, comandante degli excubitores, di aggirare nottetempo il nemico scalando il pendio con 1000 uomini e attaccare all'alba contemporaneamente al resto dell'esercito. Presi tra due fuochi i berberi, nel tentativo di sottrarsi all'accerchiamento, s'infilarono in una stretta gola dove furono massacrati dai romani. Procopio – forse con qualche esagerazione – parla di 50.000 morti e di nessun soldato romano ferito. I superstiti ripiegarono in Numidia, arroccandosi sul massiccio dell'Aures (nell'attuale Algeria).

Sul fronte interno, l'eccessiva solerzia nell'applicare le direttive di Giustiniano aveva però reso il governatore inviso alla popolazione locale e ai suoi stessi soldati. Aveva infatti impedito ai soldati che avevano sposato le vedove dei vandali di ereditarne i beni e, sempre seguendo le indicazioni dell'imperatore, aveva anche impedito ai circa mille ariani che militavano tra le sue truppe di praticare liberamente la propria fede.
Il malcontento che serpeggiava tra i soldati sfociò in aperta rivolta il giorno di Pasqua del 536. Salomone, inseguito dai rivoltosi (tra cui una buona metà della sua guardia personale), riuscì miracolosamente ad imbarcarsi e a raggiungere Belisario a Siracusa. Il generalissimo salpò immediatamente alla volta di Cartagine portandosi dietro soltanto cento dei suoi migliori soldati e lasciando la moglie Antonina al comando della Sicilia appena riconquistata. Nel frattempo i ribelli avevano in un primo tempo lasciato Cartagine dopo averne saccheggiato la periferia, con l'intento di raggiungere i berberi arroccati sul massiccio dell'Aures. In un secondo tempo, essendosi notevolmente ingrossate le loro fila, anche per l'apporto di un migliaio di sbandati vandali, fino a raggiungere il numero di 8.000, eletto al comando un ex soldato romano di nome Stotzas, erano tornati indietro e avevano cinto d'assedio la città. Belisario sbarcò quando la guarnigione, al comando di Teodoro, era sul punto di capitolare e la sola notizia del suo arrivo bastò per indurre i rivoltosi a ripiegare verso l'Aures. Il generalissimo non perse tempo e raccolta una forza di circa 2.000 uomini si lanciò all'inseguimento raggiungendo i ribelli nei pressi della città di Membresa (l'attuale cittadina di Majaz al Bab in Tunisia), circa 60 km. a sud ovest di Cartagine.

 
Il giorno della battaglia, si alzò un forte vento contrario ai ribelli, Stotzas, giudicando che le loro frecce avrebbero avuto una gittata molto minore di quelle degli imperiali, cercò di manovrare per mettersi il vento alle spalle. Belisario seppe cogliere al volo l'occasione propizia e lanciò la carica contro il punto dello schieramento nemico che giudicò più debole mentre questi rompevano i ranghi per manovrare.
Nonostante la sconfitta, i ribelli, che non avevano subito grosse perdite giacchè la maggior parte dei caduti si contò tra i vandali, continuarono la ritirata verso la Numidia dove si unirono a loro anche le truppe del locale presidio romano.

Dopo questa battaglia, Giustiniano ordinò a Belisario di tornare in Italia per continuare la guerra contro i Goti mentre Salomone fu richiamato a Costantinopoli. Al suo posto l'imperatore inviò in Africa suo cugino Germano con il titolo di magister militum Africae e il compito di sedare la rivolta.
Nella primavera del 537, Germano sconfisse definitivamente i ribelli nella battaglia di Scalas Veteres a soli 6 km. da Cartagine.

Sedata la rivolta e ristabilito il controllo sull'esercito, Germano fu richiamato a Costantinopoli e Salomone – che nel frattempo Giustiniano aveva elevato al rango di patrizio e nominato console onorario – fu nuovamente inviato in Africa come comandante civile e militare della provincia.
Salomone rafforzò il controllo sull'esercito facendo trasferire gli elementi meno affidabili, espellendo i vandali dalla provincia ed iniziando un massiccio programma di fortificazioni.

L' arco di Caracalla (211-214) inglobato nella nuova cinta muraria della città di Theveste fatta ricostruire da Salomone, come attestato da un'iscrizione un tempo presente sulla tamponatura del fornice settentrionale e oggi rimontata su un lato dell'arco.
 
Nel 540 Salomone guidò l'esercito all'attacco delle roccaforti berbere dell'Aures. I berberi attaccarono il campo dell'avanguardia bizantina nei pressi di Bagai ma l'arrivo di Salomone con il grosso dell'esercito li costrinse a ripiegare su Babosis ai piedi del massiccio montuoso. Qui Salomone li attaccò a sua volta sconfiggendoli. Gran parte dei superstiti si ritirò verso sud mentre il loro capo, Iudas, si asserragliò dapprima nella fortezza di Zerboule a sud di Thamugadi (l'attuale Timgad in Algeria) e quindi in quella di Toumar. Lì una iniziale piccola schermaglia, per l'affluire di soldati di ambo le parti, si trasformò in una battaglia vera e propria da cui i bizantini uscirono vincitori. Questa vittoria diede a Salomone il controllo del massiccio dell'Aures rendendo sicure le provincie della Numidia e della Mauritania Sifitensis.

 
Sotto il governo di Salomone le provincie africane conobbero quindi un breve periodo di pace e prosperità che durò fino al 542-543 quando arrivò la grande peste che causò molte morti. Nel 544 inoltre, in segno di riconoscenza per il suo buon operato, Giustiniano nominò i suoi nipoti Sergio e Ciro governatori rispettivamente delle provincie di Tripolitania e Cirenaica. L'inutile assassinio di 80 delegati berberi ordinato da Sergio, determinò una riapertura delle ostilità con questa popolazione nonché la defezione della maggior parte delle tribù che appoggiavano Salomone tra cui quella dell'influente capo berbero Antalas. Sergiò uscì vincitore da un primo scontro con i rivoltosi nei pressi di Leptis Magna ma presto fu costretto a recarsi a Cartagine per richiedere l'intervento delle truppe di Salomone mentre la ribellione si estendeva dalla Tripolitania alla Byzacena. Affiancato dai suoi nipoti Salomone marciò contro il nemico che raggiunse nei pressi di Theveste. Fallito ogni tentativo di mediazione diplomatica, lo scontro ebbe luogo vicino a Cillium (l'attuale Kasserine in Tunisia) al confine tra la Numidia e la Byzacena.
 
 
I soldati di Salomone erano però molto riluttanti a battersi e l'improvviso abbandono della linea delle truppe di Guntharis, uno dei comandanti di Salomone, innescò una disordinata ritirata generale. Soltanto Salomone e la sua guardia personale continuarono a battersi con coraggio ma finirono anch'essi per dover ripiegare. Salomone fu disarcionato dal suo cavallo e, raggiunto dai berberi, trovò la morte.

Note:

(1) Nella fattispecie la carica corrispondeva a quella di capo di stato maggiore.
(2) Diocleziano aveva diviso l'Africa proconsolare in due provincie più piccole: la Zeugitana a nord e la Byzacena a sud di questa. Nel 395 - alla morte di Teodosio I - la Tripolitani si staccò dalla Byzacena andando a formare una terza provincia. La Byzacena corrispondeva grosso modo alla regione della moderna Tunisia nota come Sahel. Prima dell'invasione vandalica (430), inoltre, procedendo verso occidente si estendevano altre quattro provincie romane: Numidia, Mauretania Sitifensis, Mauretania Caesariensis e Mauretania Tingitana.
(3) Località dell'attuale Tunisia centrale, a sud del moderno abitato di Aïn Djeloula.
(4) Località non identificata con precisione, dovrebbe però trovarsi a poca distanza da quella precedente.

giovedì 21 novembre 2013

San Benedetto incontra Totila di Luca Signorelli

San Benedetto incontra Totila di Luca Signorelli


Il ciclo di affreschi che illustrano Le storie di San Benedetto nel Chiostro Grande dell'Abbazia di Monte Oliveto (Siena) venne commissionato dall'abate e generale degli Olivetani fra Domenico Airoldi a Luca Signorelli, che vi lavorò con la sua la bottega dal 1497 al 1498; chiamato alla più prestigiosa commissione della Cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto, abbandonò l'opera incompleta, che venne poi ultimata dal Sodoma, chiamato ancora dall'Airoldi - che nel frattempo era stato rieletto abate del monastero – nel 1505.
La narrazione dell'incontro tra San Benedetto e Totila si sviluppa in due lunette, entrambe opera di Luca Signorelli.

Papa Gregorio Magno (590-604) così descrive l'episodio nei suoi Dialogi (II,15)


«Al tempo dei Goti, il loro re Totila, avendo sentito dire che il santo era dotato di spirito di profezia, si diresse al suo monastero. Si fermò a poca distanza e mandò ad avvisare che sarebbe tra poco arrivato. Gli fu risposto dai monaci che senz’altro poteva venire.

Insincero però com’era, volle far prova se l’uomo del Signore fosse veramente un profeta. Egli aveva con sé come scudiero (spatarius) un certo Riggo: gli fece infilare le sue calzature, lo fece rivestire di indumenti regali e gli comandò di andare dall’uomo di Dio, presentandosi come fosse il re in persona. Come seguito gli assegnò tre conti tra i più fedeli e devoti: Vult, Ruderic e Blidin, i quali, in presenza del servo di Dio, dovevano camminare ai suoi fianchi, simulando di seguire veramente il re Totila. A questi aggiunse anche altri segni onorifici ed altri scudieri, in modo che, sia per gli ossequi di costoro, sia per i vestiti di porpora, fosse giudicato veramente il re.
Appena Riggo entrò nel monastero, ornato di quei magnifici indumenti, e circondato dagli onori del seguito, l’uomo di Dio era seduto in un piano superiore. Vedendolo venire avanti, appena fu giunto a portata di voce, gridò forte verso di lui: “Deponi, figliolo, deponi quel che porti addosso: non è roba tua!”. Impaurito per aver presunto di ingannare un tal uomo, Riggo si precipitò immediatamente per terra e, come lui, tutti quelli che l’avevan seguito in questa gloriosa impresa.
Poco dopo si rialzarono in piedi, ma di avvicinarsi al santo nessuno più ebbe il coraggio. Ritornarono al loro re e ancora sbigottiti gli raccontarono come a prima vista, con impressionante rapidità, erano stati immediatamente scoperti.
Totila allora si avviò in persona verso l’uomo di Dio. Quando da lontano lo vide seduto, non ebbe l’ardire di avvicinarsi: si prosternò a terra. Il servo di Dio per due volte gli gridò: “Alzati!”, ma quello non osava rialzarsi davanti a lui. Benedetto allora, questo servo del Signore Gesù Cristo, spontaneamente si degnò avvicinarsi al re e lui stesso lo sollevò da terra. Dopo però lo rimproverò della sua cattiva condotta e in poche parole gli predisse quanto gli sarebbe accaduto. “Tu hai fatto molto male – gli disse – e molto ne vai facendo ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità. Tu adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo morirai”.
Lo atterrirono profondamente queste parole, chiese al santo che pregasse per lui, poi partì. Da quel giorno diminuì di molto la sua crudeltà.
Non molto tempo dopo andò a Roma, poi ritornò verso la Sicilia; nel decimo anno del suo regno, per volontà del Dio onnipotente, perdette il regno e la vita».

L’esistenza storica dei tre conti (comites) ostrogoti di cui viene indicato il nome nel testo gregoriano (Vult, Ruderic e Blidin), è confermata da Procopio. Ruderic fu ucciso nel dicembre 546 (Procopio, De Bello Gothico, III,19) e ciò consente di stabilire un termine ante quem per l’incontro con San Benedetto nel monastero di Montecassino, che si ritiene avvenuto nel 542, mentre Totila, scavalcati gli Appennini, marciava su Napoli e si accingeva a riconquistare l'Italia meridionale.


Come Benedetto discopre la finzione di Totila
 
In primo piano Riggo, camuffato da Totila per ingannare Benedetto, in ginocchio di fronte alla figura del santo che lo invita a spogliarsi delle vesti non sue, esprime tutta la sua costernazione. Alle spalle di Riggo, alla testa del suo seguito, si distinguono i tre nobili ostrogoti riccamente vestiti mentre i soldati della scorta, dai tratti accigliati, sembrano sul punto di intervenire (uno di loro ha già la mano sull'elsa del pugnale). Sullo sfondo della scena Riggo riferisce al suo re l'accaduto.
 
Come Benedetto riconosce e accoglie Totila
 
San Benedetto si alza e solleva lui stesso da terra il vero Totila inginocchiato ai suoi piedi.
 
L'incontro tra San Benedetto e Totila s'inscrive appieno nella consolidata tradizione veterotestamentaria in cui il dono profetico di un vir Dei viene esercitato nei confronti di un re malvagio spingendolo ad un ravvedimento (cfr. ad es. l'incontro di Daniele con il re babilonese Baldassar in Daniele, V, 13-29).
Nel basso medioevo, la caratterizzazione di Totila come perfidus rex è infatti decisamente più accentuata che non nei cronisti contemporanei. Nella Chronica di Giovanni Villani (XIV sec.) gli viene ad esempio attribuito per due volte l'epiteto di Flagellum Dei, solitamente riferito ad Attila, sintomatico di una sovrapposizione dei due personaggi storici.


 
 




giovedì 29 agosto 2013

La fine del Regno dei Goti (550-553)


La fine del Regno dei Goti (550-553)

Nell'inverno del 550 Giustiniano conferì al fidato Narsete (1) il comando delle operazioni in Italia assieme ad un'ampia disponibilità di denaro. Narsete raggiunse a Salona Giovanni – lo storico rivale di Belisario che sarà l'ispiratore della sua strategia militare – ed in pochi mesi misero insieme la considerevole forza di trentamila uomini.
Nella primavera del 552 Narsete mosse alla testa dell'esercito per raggiungere l'Italia via terra. Giunto ad Aquileia dovette però fronteggiare una difficoltà imprevista: i goti del presidio di Verona, comandati da Teia, avevano danneggiato la strada che vi conduceva ed erano pronti ad ostacolare con ogni mezzo il passaggio dell'esercito imperiale. Narsete decise di proseguire lungo la costa, facendosi seguire da alcune navi per utilizzarne le scialuppe per scavalcare i numerosi corsi d'acqua che avrebbe incontrato lungo il tragitto, e in giugno raggiunse Ravenna congiungendosi alle truppe di Valeriano che comandava il presidio.
A differenza di Belisario, che avanzava lentamente senza lasciarsi alle spalle piazzeforti in mani nemiche, Narsete e Giovanni puntarono decisamente allo scontro risolutivo con l'esercito goto senza curarsi di assediarle. Totila, ricevute in rinforzo le truppe condotte da Teia, mosse da Roma contro di loro e i due eserciti si scontrarono a Busta Gallorum, nei pressi di Gualdo Tadino.

Battaglia di Tagina (Gualdo Tadino, 30 giugno 552)

La piana di Gualdo Tadino

La battaglia fu combattuta tra l'esercito imperiale (circa 20-25.000 uomini) guidato da Narsete e quello goto (16-18.000) guidato da Totila.
Totila, valutando le forze dell'avversario, si rende conto che le sue forze sono nettamente inferiori di numero rispetto a quelle di Narsete ed intravede un'unica possibilità per ribaltare le sorti di quella che sembra una sconfitta annunciata: giocare d'astuzia.
Quando dichiara di volersi arrendere infatti, l'esercito bizantino si rilassa, abbassando un po' la guardia. E commette un grave errore.
Totila sferra a sorpresa un attacco fulmineo, e conquista una collina dove si arrocca con i suoi uomini, nell'attesa dei rinforzi. Sa che stanno per raggiungerlo 2.000 soldati a cavallo guidati da Teia, il suo più fidato luogotenente, e vuole ritardare lo scontro fino a quel momento.
Per questo propone al nemico una sfida al singolare, e fa uscire dalle file dei suoi soldati Cocca, il combattente più forte e spietato, un disertore bizantino che si è fatto una reputazione per la sua potenza e crudeltà nei duelli. Risponde alla sfida Anzala, una delle guardie del corpo armene di Narsete. I due uomini si fronteggiano a cavallo. Tutto intorno c'è un silenzio irreale. Cocca parte veloce alla carica, ma Anzala rimane fermo al suo posto. Obbedendo ai suoi ordini, il cavallo che monta scarta di lato solo all'ultimo momento, quando il disertore bizantino gli è quasi addosso. Solo in quel momento l'arma di Anzala scatta fulminea, pugnalando mortalmente al fianco il nemico.
Totila non si perde d'animo. In sella al suo enorme destriero, inscena davanti ai bizantini una danza di guerra. La sua armatura dorata scintilla al sole e il mantello color porpora sbatte agitato dal vento, mentre esegue un complicato esercizio equestre che ha lo scopo di provocare un crollo nel morale degli avversari. Quando infine Teia lo raggiunge con i rinforzi, Totila volge le spalle al nemico, rompe le formazioni e pranza indifferente con tutti i suoi uomini, dimostrando una sfacciata sicurezza sull'esito dell'imminente battaglia. In realtà si augura di spiazzare gli antagonisti con il suo comportamento sprezzante, e aspetta paziente che i tarli del dubbio e della paura si facciano strada nella mente dei bizantini, minando il loro rendimento al momento dello scontro.
Ma nei suoi calcoli non ha tenuto conto delle capacità di Narsete. Il generale bizantino è un uomo duro ed esperto, che non si lascia ingannare dalle tattiche psicologiche del nemico. Ha più di sessant'anni ormai, ed è cresciuto fra gli intrighi di corte del palazzo imperiale di Costantinopoli, dove si è guadagnato l'illimitata fiducia dell'Imperatore Giustiniano e di sua moglie Teodora, portando a termine delicate missioni diplomatiche che hanno salvato più volte l'Impero Romano d'Oriente dalla disgregazione. Narsete è un eunuco, e forse il Totila lo ha sottovalutato per questo. Nonostante la superiorità numerica, Narsete schiera i suoi uomini in assetto fortemente difensivo, ammassando al centro una fitta falange di fanti longobardi ed eruli, e disponendo ai lati gli arcieri bizantini, con la cavalleria alle spalle ed un contingente di 1500 cavalieri disposto ad angolo con l'ala sinistra. Durante il pranzo dei nemici permette alle proprie truppe di rinfrescarsi, ma senza lasciare la propria posizione.



Totila invece dispone in prima linea la cavalleria di Teia e dietro di essa la fanteria.
Quando sferra l'attacco, lo fa lanciando i suoi uomini in massa verso il centro della formazione bizantina. Spera in una battaglia veloce, che colpisca subito al cuore il nemico, per evitare le pesanti conseguenze dell'azione degli arcieri bizantini. Ma Narsete è preparato. Ordina agli arcieri di inclinare il loro tiro verso il centro, in modo da proteggere i fanti falciando la prima linea ostrogota. In questo modo, anche l'attacco della cavalleria di Teia si fa più esitante, e i barbari subiscono altissime perdite. Verso sera, Narsete sferra l'attacco finale. Lo schieramento nemico è ormai caotico, completamente disorganizzato. Le file ostrogote si rompono, e gli uomini si disperdono, pensando a salvarsi più che a combattere. Alla fine, 6.000 Ostrogoti rimarranno sul campo. Totila stesso è ferito gravemente. I suoi fedelissimi lo conducono nei boschi. Morirà poco lontano da Gualdo Tadino (2).

I resti dell'esercito ostrogoto, scampati al disastro di Gualdo Tadino, si radunarono a Pavia dove elessero Teia loro re. Narsete lasciò Vitaliano a vigilare sui loro movimenti e con il grosso dell'esercito marciò su Roma, espugnando le piazzeforti umbre in mano nemica che incontrava lungo la sua strada.

Dopo un breve assedio Roma, malamente difesa dai goti, fu presa d'assalto nell'autunno del 552.

Buona parte del tesoro di Totila era custodita nella fortezza di Cuma al cui comando si trovava lo stesso fratello del defunto re. Narsete cinse d'assedio la città e Teia fu costretto a muovere in suo soccorso. Con un tortuoso percorso Teia riuscì ad aggirare lo sbarramento predisposto da Narsete in Toscana e raggiunse la Campania (3). Narsete a sua volta vi fece confluire il grosso delle sue truppe ed i due eserciti si accamparono sulle opposte rive del Sarno (su quella sinistra i goti e sulla destra gli imperiali) dove si fronteggiarono per circa due mesi riforniti via mare dalle rispettive flotte. Quando però gli imperiali riuscirono ad impossessarsi dell'intero naviglio goto grazie al tradimento del loro comandante, l'esercito rimase privo di rifornimenti.
Dopo questo avvenimento la situazioni per i Goti divenne drammatica. Impossibilitati a mantenere lo stallo nella valle del Sarno per mancanza di rifornimenti Teia e i suoi uomini decisero di ritirarsi verso sud in una posizione più sicura, visto anche il pericolo di eventuali sbarchi lungo la costa del golfo di Napoli con il rischio di essere presi alle spalle. Subito a sud del fiume Sarno si trovano i monti Lattari che rappresentano un baluardo naturale di difficile accesso. Parve questo ai Goti il punto migliore dove difendersi da un nemico preponderante, invece finirono per mettersi in trappola a causa della totale mancanza di provviste nella zona da loro scelta.
Narsete passando il Sarno sulla sua riva sinistra, all'inseguimento dei nemici, pose il suo campo lungo la strada tra Stabia e Nocera a sud ovest di Angri, dove si trovava un terreno pianeggiante. Il generale bizantino non volle attaccare il nemico arroccato sui monti Lattari, malgrado la sua superiorità numerica, si limitò invece ad assediarlo in attesa che commettesse qualche errore. Probabilmente nel giro di una sola giornata i Goti si resero conto di non poter fare altro che attaccare e lo fecero con la forza della disperazione.

Battaglia dei Monti Lattari (marzo 553)

Teia aveva deciso di prendere il nemico di sorpresa con un'azione di fanteria. Così, la mattina di quel marzo fatale, prima che sorgesse il sole, le forze ostrogote discesero dalle loro posizioni sul monte, dirigendosi a nord-est verso Angri. Il campo bizantino si trovava nel punto più stretto del pianoro limitato dal lato meridionale dai monti e da quello settentrionale dal fiumicello La Marna e dalle paludi. Qui, al sorgere del sole, le truppe bizantine vennero colte di sorpresa dai Goti. I soldati imperiali reagirono prontamente alla minaccia, senza ordini, senza essere guidati da alcun comandante e senza badare al reparto d'appartenenza, si fecero incontro al nemico a casaccio ma con decisione. I Bizantini lasciarono alle proprie spalle i loro cavalli. Lo spazio disponibile, per un uso efficace della cavalleria, era limitato dai monti a sud e dal fiume e le paludi a nord. La battaglia fu quindi uno scontro essenzialmente tra fanterie.
A differenza della battaglia di Tagina però lo scontro tra le due fanterie non avvenne con la tecnica della falange ma in formazioni più aperte, in modo da permettere un ricambio continuo tra le prime file che combattevano e i soldati più riposati delle retrovie. Questa formazione più aperta permetteva ai contendenti l'uso di tutte le armi da getto e dava spazio ai guerrieri delle prime file di utilizzare l'umbone dello scudo come arma offensiva, un modo di combattere in uso in quel periodo.
Nel corso dei furiosi combattimenti Teia, che combatteva in prima fila, fu trafitto a morte da un giavellotto.
Dopo la morte di Teia una furiosa battaglia dovette ingaggiarsi intorno al suo corpo con i Bizantini che tentavano di impossessarsene e i Goti che cercavano di sottrarlo al vilipendio del nemico. Alla fine i Bizantini riuscirono vincitori, impadronendosi del corpo di Teia a cui mozzarono il capo. La testa del re venne posta su una picca e portata in giro come trofeo nel campo imperiale e attraverso la città di Angri lungo quella via che ancora oggi porta il nome di via dei Goti. Tutto questo nel tentativo di risollevare il morale dei soldati Bizantini, già duramente provato nel corso di quella dura giornata.
Malgrado la grave perdita i Goti non si lasciarono prendere dallo sconforto e dalla disperazione, contrariamente a quanto avvenne a Tagina con Totila, i guerrieri goti continuarono a combattere con ancora più determinazione di prima, impedendo al nemico di aprire delle brecce nel loro schieramento. La battaglia proseguì violentissima fino al tramonto e anche dopo a notte inoltrata, poi nel buio notturno i combattimenti andarono scemando e lentamente i superstiti fecero ritorno ai rispettivi accampamenti, consapevoli delle difficoltà che li attendevano il giorno dopo. I soldati di ambo le parti trascorsero la notte in assetto di combattimento, pronti a respingere eventuali attacchi di sorpresa.

L'alba del giorno dopo vide riaccendersi la battaglia negli stessi luoghi e nelle stesse modalità del giorno prima. Questa volta però i Bizantini non si fecero prendere di sorpresa, ma si disposero ordinatamente ognuno nel proprio reparto d'appartenenza. Lo scontro fu ancora una volta frontale senza alcun tentativo di manovra che peraltro il terreno non concedeva. I Goti cercarono di aprire delle brecce nelle schiere nemiche con l'impeto disperato di chi combatte l'ultima battaglia, ma il numero dei nemici, anch'essi molto agguerriti, impedì qualsiasi sfondamento. Ancora una volta la battaglia andò avanti per tutta la giornata fino alla successiva notte.
Verso sera i Goti mandarono alcuni parlamentari a Narsete per trattare una resa. I Goti ormai consci di non poter più resistere alla pressione nemica chiesero a Narsete di lasciarli andare dove potessero vivere secondo le loro leggi, in cambio avrebbero consegnato i tesori in loro possesso, oltre alla promessa di non prendere più le armi contro Giustiniano, di cui però si rifiutarono ancora di riconoscerne l'autorità.

Con la sconfitta dei Monti Lattari e la morte di Teia il regno dei Goti cessò di fatto di esistere, rimasero solo alcune sacche di resistenza che furono progressivamente eliminate (Verona cadde solo tra il 561 e il 562).

Nel 553 Narsete dovette però fronteggiare l'attacco del corpo di spedizione franco-alemanno al comando dei fratelli Leutari e Butilino, a cui infine re Teodobaldo aveva ufficiosamente consentito di intervenire a sostegno delle ultime roccaforti gote. Attraversato il Po nell'estate 553, i franco-alemanni occuparono Parma e sconfissero un esercito bizantino condotto dall'erulo Fulcari. Quindi i due fratelli avanzarono nell'Italia centromeridionale giungendo fino al Sannio dove decisero di dividere le proprie forze. Leutari discese la penisola e saccheggiò la Puglia, quindi decise di rientrare in patria con il bottino. Sulla via del ritorno le sue avanguardie si scontrarono però con l'esercito imperiale al comando del generale Artabane che inflisse loro una sonora sconfitta nei pressi di Fano in cui persero gran parte del bottino.
Butilino condusse invece l'altra colonna in Campania dove fu convinto dai goti, con la prospettiva di divenire loro re, ad affrontare Narsete in una battaglia campale.  

Battaglia del Volturno (ottobre 554)

Lo scontro avvenne nell'ottobre del 554 sul Volturno, nei pressi di Capua dove Butilino aveva acquartierato il suo esercito. Narsete dispose le sue truppe (circa 18.000 uomini) con la fanteria al centro e la cavalleria sulle ali, i franco-alemanni, ridotti a 20.000 unità dalla dissenteria, schierarono la fanteria in colonna e caricarono il centro nemico pensando di penetrarlo come un cuneo ma furono presi in mezzo dal tiro incrociato dei cavalieri di Narsete, tutti armati di arco. Pochissimi franchi scamparono al massacro e lo stesso Butilino cadde in battaglia.

Narsete rimase in Italia con i poteri straordinari di cui Giustiniano lo aveva investito per riorganizzare la riconquistata provincia. Fu rimosso soltanto nel 568 dal successore di Giustiniano, Giustino II, che lo sostituì con Flavio Longino che ebbe il titolo di prefetto del pretorio per l'Italia (4).
 


Note:

(1) Nominare un eunuco al comando dell'esercito era un fatto senza precedenti. Narsete, dopo una brillante carriera nell'amministrazione imperiale, era stato nominato da Giustiniano generale all'età di sessant'anni e, nonostante i dissidi con Belisario, aveva dato una buona prova nella precedente campagna. Oltre alla sua provata fedeltà influirono sulla decisione di Giustiniano anche la considerazione che gli altri generali non si sarebbero messi di buon grado agli ordini di Giovanni che consideravano un loro pari e che, a causa della sua menomazione, Narsete non avrebbe comunque pouto proporsi come usurpatore. Procopio riferisce anche di una profezia nota all'epoca che diceva che un giorno un eunuco avrebbe sconfitto il signore di Roma (Procopio, Bellum Gothicum, libro IV, XXI).

(2) Così il testo di Procopio: Percorsi ottantaquattro stadi (circa 15 km. dal luogo della battaglia) giunsero a una località chiamata Capre (ad Capras); ivi posarono, e curarono la ferita di Totila, il quale poco dopo uscì di vita; ed il suo seguito, colà sotterratolo, sen partì. (…) Che Totila così fosse estinto, ignoraronlo i romani, finchè una donna gota lo disse loro, mostrandone anche il sepolcro. All'udir ciò, essi non credendo che la cosa fosse vera, recaronsi sul posto, e presto scavato il luogo della sepoltura, estrassero di là il cadavere di Totila, ed avendolo, come dicesi, riconosciuto e saziatisi di quello spettacolo, di nuovo lo sotterrarono, ed ogni cosa riferirono a Narsete.
Landolfo Sagace, che rielabora il testo dello storico longobardo dell'VIII secolo Paolo Diacono, aggiunge che il cadavere fu spogliato dell'armatura e della corona che furono inviate a Costantinopoli (Landolfo Sagace, Historia Romana, XVIII, 19)
Alle propaggini occidentali del comune di Gualdo Tadino, c'è una zona collinare lambita dal fiume Chiascio, caratterizzata da un antico nucleo abitato, che sorge nel punto più alto, e da numerose case sparse, disseminate lungo i pendii: il tutto è noto nella toponomastica come frazione di Caprara. In questa zona, in una località nota come Case Biagetti, una tradizione locale molto radicata identifica in un ipogeo che si trova al di sotto di un fabbricato rurale la tomba di Totila. 


Il fabbricato rurale al di sotto del quale si trova l'ipotetica tomba di Totila

Attraverso un arco si accede per mezzo di una scala ad un locale sotterraneo absidato e provvisto di colonne che potrebbe risalire al VI sec. Non vi è però alcuna prova che si tratti realmente della tomba del re goto.

La Tomba di Totila (?), interno

(3) La strada dell'esercito goto, lasciata la costiera adriatica, può forse identificarsi nel percorso tra Foggia e Avellino per poi raggiungere con successo Sarno a nord di Nocera. Qui il fiume Sarno o Drakon (dragone) scorre impetuoso lungo le pendici meridionali del Vesuvio.

(4) Il prefetto del pretorio era essenzialmente un funzionario civile, questo lascerebbe intuire il passaggio della provincia italica dall'amministrazione militare a quella civile. In alcuni casi ed in altre provincie il prefetto del pretorio aveva però assunto in precedenza anche il comando delle truppe e non si può escludere che questo sia avvenuto anche nel caso di Longino. Nel corso della guerra gotica, ad esempio, il senatore Massimino nominato da Giustiniano prefetto del pretorio per l'Italia tra il primo ed il secondo mandato di Belisario, aveva avuto anche il comando dell'esercito.


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La guerra greco-gotica: gli inizi (536-537)

La guerra greco-gotica: gli inizi (536-537)


Nel 534 alla morte del figlio Atalarico, Amalasunta diviene regina dei Goti a tutti gli effetti – precedentemente esercitava solo la reggenza per conto del figlio - e associa al trono il cugino Teodato, il quale però dopo poco la fa relegare nell’isola Martana (Lago di Bolsena) dove nell’aprile del 535 viene strangolata. Giustiniano, che pure aveva riconosciuto la legittimità del regno di Teodato, coglie questo assassinio come pretesto per dichiarare la guerra.
 
Teodato
raffigurato al dritto di un follis bronzeo da 40 nummi

Nell'estate del 535 Belisario sbarca presso Catania con circa diecimila uomini ed occupa la Sicilia praticamente senza incontrare resistenza, mentre Mundo al comando di un'armata che risale l'Illirico prende Salona.
La controffensiva gota in Illirico, guidata da Asinario e Grippa, infligge però gravi perdite ai bizantini che si ritirano da Salona. Lo stesso Mundo cade in combattimento.
Giustiniano invia Costanziano a Epidamno (l'attuale Durazzo) con l'ordine di raccogliere un esercito e riprendere Salona e contemporaneamente ordina a Belisario che sta svernando con l'esercito a Siracusa di attaccare i goti nell'Italia continentale.
La guarnigione di Reggio, comandata da Obrimuzio (Ebrimuth), genero di Teodato, si arrende senza combattere e Belisario risale fino a Napoli senza incontrare resistenza.

Nel giugno 536, Costanziano riprende Salona e i goti ripiegano su Ravenna.


In novembre Belisario con un colpo di mano (i suoi penetrano in città attraverso le condutture di un acquedotto) prende Napoli. La perdita della città costa il trono a Teodato che viene deposto e fatto uccidere da Vitige che per consolidare la propria posizione sposa Matasunta, la figlia di Amalasunta, legandosi alla dinastia di Teodorico il grande (cfr. La dinastia degli Amali).


Il 9 dicembre 536 Belisario entra a Roma senza combattere e subito mette mano al consolidamento delle mura; tra alterne vicende, vi rimarrà assediato per quasi un anno.
Contemporaneamente a questi preparativi, il generalissimo affidò a Costantino un contingente incaricandolo di conquistare Spoleto e Perugia. Vitige reagì mandando un esercito che marciò contro Costantino alla volta di Perugia, senza però riuscire a stringere d'assedio la città. Costantino attese l'arrivo delle truppe nemiche schierandosi nella pianura sottostante; sconfisse l'esercito goto in uno scontro in campo aperto e ne catturò i comandanti spedendoli in catene a Roma e rimettendoli al giudizio di Belisario.

Nel frattempo in Dalmazia Asinario e Uligisalo assediano Costanziano a Salona.


Vitige alla testa del grosso dell'esercito goto muove verso Roma. Belisario ordina a Costantino e Bessa di lasciare dei presidi a Spoleto, Perugia e Narni e di rientrare a Roma con il grosso dei loro contingenti.


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la guerra di guerriglia (540-549)

La guerra di guerriglia (540-549)
Nel giugno 540, dal momento che la caduta di Ravenna e la resa dei Goti avevano apparentemente posto fine alla guerra, in parte perchè cominciava a temere un suo pronunciamento ed in parte perchè aveva bisogno di lui contro i Persiani, Giustiniano richiamò Belisario a Costantinopoli dove il generalissimo giunse con al seguito come prigionieri Vitige e la moglie Matasunta nonché un nutrito gruppo di notabili goti e l'intero tesoro.
A differenza del suo ritorno dalla guerra d'Africa, l'imperatore non gli decretò alcun trionfo né riconoscimento pubblico.
Nel frattempo le cose nell'Italia riconquistata cominciavano a degenerare. I goti, sentendosi defraudati da Belisario, avevano eletto Ildibado loro re ed avevano cominciato a radunarsi intorno a lui a Pavia. Per sovrammercato, Giustiniano aveva inviato a Ravenna il logoteta Alessandro che, nel riordinare il sistema fiscale, aveva suscitato il malcontento delle popolazioni civili e dei soldati.
Nel giugno del 541 Ildibado viene assassinato da uno dei suoi ufficiali. Dopo il brevissimo regno di Erarico, eletto dai Rughi e assassinato dai Goti, nel novembre 541 Totila (Baduila), nipote di Ildibado e comandante della piazza di Treviso, viene eletto re.

Francesco Salviati, Totila, 1549 c.ca
Pinacoteca di Palazzo Volpi, Como

Rimproverati da Giustiniano per la loro inazione, i comandanti bizantini in Italia tengono un consiglio di guerra a Ravenna e decidono di muovere su Verona. Dodicimila uomini, al comando di ben undici generali, muovono sulla città veneta che non viene presa per i contrasti sorti tra i comandanti riguardo la futura spartizione del bottino. L'armata imperiale ripiega quindi su Faenza dove Totila, pur disponendo di forze molto inferiori di numero, la mette in rotta (primavera 542). In conseguenza della sconfitta i generali bizantini si ritirano alla spicciolata verso le loro piazzeforti.
L'esercito bizantino, guidato dai generali Bessa, Giovanni e Cipriano, viene quindi nuovamente sconfitto da Totila nella battaglia del Mugello e da questo momento i comandanti bizantini si chiuderanno nelle piazzeforti loro assegnate senza più affrontare il nemico in campo aperto.
Totila scavalca l'Appennino e porta la guerra nel Meridione che riconquista completamente lasciando agli imperiali la sola piazza di Otranto.
Nella primavera del 543, stremata dall'assedio si arrende Napoli.

Nel 544 Giustiniano inviò nuovamente Belisario in Italia in qualità di comandante in capo ma, dubitando della sua fedeltà, gli affidò pochissimi mezzi (il generalissimo dovette praticamente reclutare le truppe in Tracia e in Illirico a proprie spese). Verso la fine dell'anno Belisario arrivò comunque a Ravenna con la flotta. L'esiguità delle forze a sua disposizione non gli consentirà di affrontare il nemico in campo aperto e, per tutta la durata del suo secondo mandato, il generalissimo si limiterà a condurre una guerra di guerriglia spostandosi continuamente con la flotta là dove è più necessario intervenire.

Sul finire del 545, forte del possesso di Napoli da cui la flotta gota può intercettare i convogli inviati a rifornire la città, Totila assedia Roma. La guarnigione imperiale (circa 3.000 uomini) è al comando di Bessa, che si dimostrerà più occupato a lucrare denaro con la borsa nera rivendendo ai cittadini affamati le derrate alimentari accantonate per l'esercito che a difendere la città.
Quando una parte dei Goti si era già accostata alle mura, contro il volere di Bessa, Artasire e Barbacione – due bucellarii di Belisario che erano rimasti a Roma - uscirono dalle mura per combatterli: dopo averne uccisi molti, le truppe bizantine si misero all'inseguimento dei fuggitivi, ma caddero in un'imboscata subendo molte perdite, con i due comandanti che a stento riuscirono a salvarsi insieme a pochi altri. Da quel momento Bessa proibì tassativamente di effettuare altre sortite.
Nella primavera del 546, Belisario invia a rinforzare il presidio di Porto un piccolo contingente che tenta due sortite contro gli assedianti, entrambe fallite per la mancata collaborazione di Bessa.
La notte del 17 dicembre 546, approfittando del tradimento di quattro soldati isauri di guardia alla Porta Asinaria, l'esercito goto irrompe nella città eterna. La guarnigione bizantina, incluso il suo comandante, riesce comunque a trarsi in salvo per la gran parte abbandonando la città da un'altra porta.

Benedetto Bonfigli, La presa di Perugia da parte di Totila e sepoltura di Sant'Ercolano (1)
 Palazzo dei Priori, Perugia, 1461-1466.

Nell' aprile del 547, dopo che Totila si era spostato in Lucania con il grosso dell'esercito per contrastare l'azione di Giovanni, Belisario con un colpo di mano riprende Roma e vi si trincera con tutte le sue forze ricostruendo alla meglio le fortificazioni danneggiate dai goti (Procopio scrive che le mura erano state danneggiate per un terzo circa del perimetro e tutte le porte distrutte).
Raggiunto dalla notizia della caduta di Roma, Totila tornò precipitosamente indietro e tentò furiosamente di riprendere d'assalto la città venendo sempre respinto dai difensori e subendo gravi perdite. I goti ripiegano quindi verso la rocca di Tivoli tagliando tutti i ponti sul Tevere (eccetto ponte Milvio) per non essere inseguiti.
La guerra continuò senza azioni decisive per tutto l'anno successivo. Belisario inviò a Costantinopoli la moglie Antonina perchè attraverso la sua amicizia con l'imperatrice sollecitasse Giustiniano ad inviargli un congruo numero di rinforzi ma ella vi giunse quando l'imperatrice era già morta e riuscì solo ad ottenere che l'imperatore richiamasse il marito agli inizi del 549.

Mentre Giustiniano stentava a nominare un nuovo comandante in capo per l'Italia, nell'estate del 549 Totila cinse nuovamente d'assedio Roma.

Belisario vi aveva lasciato una guarnigione di 3.000 uomini al comando del suo bucellario Diogene. La città era ben preparata a resistere – Diogene aveva anche fatto seminare il grano all'interno delle mura per non soffrire la carestia – e per mesi gli assalti dei goti s'infransero contro le mura. La notte del 16 gennaio 550, la città fu nuovamente consegnata al nemico da traditori isauri che gli aprirono la Porta Ostiense e stavolta la guarnigione rimase intrappolata. Pochi riuscirono a trarsi in salvo e tra questi anche Diogene per quanto ferito. Paolo, il comandante della cavalleria, si asserragliò con 400 cavalieri nella Mole Adriana dove resistettero per i due giorni successivi. Poi Totila offrì loro di passare nell'esercito goto e tutti accettarono eccetto il comandante ed un soldato che furono lasciati liberi di andarsene dopo aver consegnato le armi e i cavalli.

Note:

(1) Dopo un lunghissimo assedio Totila conquista la rocca di Perugia probabilmente nel 548. Il vescovo Ercolano, che era stato il principale animatore della resistenza fu scorticato vivo, decapitato ed il suo corpo gettato fuori le mura. I suoi resti furono sepolti dai fedeli insieme a quelli di un fanciullo trovato morto nello stesso posto.

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La continuazione della guerra e la resa di Vitige (538-540)

La continuazione della guerra e la resa di Vitige (538-540)

Nel giugno del 538 Belisario mosse da Roma con il grosso dell'esercito e cominciò a risalire molto lentamente verso settentrione, fermandosi ad espugnare le piazzeforti nemiche che non voleva lasciarsi alle spalle. Quasi contemporaneamente sbarcò nel Piceno un contingente di 7000 uomini al comando dell'eunuco Narsete, fedelissimo di Giustiniano, nonché amico personale di Giovanni che, contro l'ordine del generalissimo di ritirarsi, aveva continuato a tenere Rimini finendo assediato dai Goti.

Secondo la Andreescu-Treadgold (1994) nelle fattezze di questo personaggio raffigurato alle spalle di Giustiniano nel mosaico della basilica di San Vitale (547) sarebbe ritratto Giovanni, il generale bizantino rivale di Belisario.
 
I contrasti di vedute tra Belisario ed i suoi generali determinarono un rallentamento delle operazioni che, nel marzo 539, causò la caduta e la distruzione di Milano (1) che non fu raggiunta in tempo dai rinforzi inviati da Belisario. Questo disastro convinse Giustiniano a richiamare Narsete a Costantinopoli riconfermando a Belisario il comando assoluto nella condotta della guerra.
Sul finire del 539, stabilito in qualche modo il controllo delle regioni cispadane, Belisario cinse d'assedio Ravenna, dove si era asserragliato Vitige.
Mentre era in corso l'assedio, giunsero da Costantinopoli i legati di Giustiniano, Domnico e Massimino, con la seguente offerta di pace: Vitige avrebbe potuto conservare la metà del tesoro reale e le regioni a nord del Po, lasciando all'imperatore quelle a sud di esso.
Belisario si rifiutò di sottoscrivere questa proposta ed i Goti rifiutarono di aderire ad un accordo che non fosse controfirmato dal generalissimo. Si avviò quindi una trattativa segreta in cui i Goti, stremati dalla carestia, offrirono a Belisario il trono d'Occidente. Belisario finse di accettare e nel maggio 540 gli furono aperte le porte della città.

Note:

(1) Nell'inverno del 537, mentre era ancora assediato a Roma ma vigeva la tregua di tre mesi firmata con Vitige, Belisario, in risposta ad un invito del vescovo di Milano Dazio, aveva fatto partire da Porto un contingente di un migliaio di uomini che, sbarcati in Liguria, si era impadronito di quasi tutta la regione transpadana, Milano compresa, pressochè senza incontrare resistenza. Vitige reagì assediando Milano, difesa da una guarnigione al comando di Mundila, con l'aiuto di 10.000 burgundi segretamente inviati dal re franco Teodeberto formalmente alleato di Giustiniano.
Stremata dalla fame Milano si arrese nel marzo del 539, la guarnigione imperiale fu risparmiata ma i milanesi maschi furono in gran parte trucidati, le donne cedute ai burgundi come schiave in cambio dell'aiuto prestato e la città rasa al suolo.

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domenica 2 giugno 2013

La Campagna d'Africa (533-534)

La Campagna d'Africa (533-534)

 
I Bizantini avevano ragioni sia politiche che strategiche per riconquistare le province dell'Africa proconsolare sottratte dai Vandali all'impero d'Occidente nel 435.
Nel 530 il re vandalo Ilderico, favorevole a Costantinopoli, era stato deposto e imprigionato dall'usurpatore Gelimero, fornendo a Giustiniano un pretesto legale per intervenire. In ogni caso Giustiniano voleva il controllo del territorio dei Vandali nel Nord Africa, vitale per garantire ai Bizantini l'accesso al Mar Mediterraneo occidentale.
Giustiniano chiese inizialmente la restaurazione di Ilderico, ma Gelimero ovviamente rifiutò. L'imperatore chiese quindi che almeno Ilderico venisse liberato e inviato in esilio a Costantinopoli, minacciando la guerra nel caso anche questa richiesta fosse stata rifiutata. Gelimero, non intendendo consegnare un rivale per il trono a Giustiniano, che lo avrebbe utilizzato per gettare discordia nel regno vandalico, e probabilmente sospettando che la guerra sarebbe scoppiata in ogni caso, rifiutò affermando che era una questione di politica interna del regno vandalico.



Gelimero raffigurato al verso di una moneta da 50 denarii


Poco dopo la sua ascesa al potere, la posizione di Gelimero cominciò comunque ad indebolirsi in quanto prese a perseguitare i suoi avversari politici  tra l'aristocrazia vandalica, confiscandone le proprie proprietà e giustiziando molti di essi. Queste azioni minarono la già dubbia legittimità del suo regno agli occhi di molti, e contribuirono allo scoppio di due rivolte nelle province remote del Regno vandalico: in Sardegna, dove il governatore locale, Godas, si autoproclamò re indipendente dell'isola, e, poco tempo dopo, in Tripolitania, dove la popolazione nativa si era rivoltata contro la dominazione vandalica sotto il comando di un certo Pudenzio, un romano lì residente.
Il fatto che entrambe le rivolte siano scoppiate proprio poco tempo prima della spedizione romana contro i Vandali, e che sia Godas che Pudenzio chiesero immediatamente rinforzi a Giustiniano, sembra suggerire un coinvolgimento diplomatico attivo dell'Imperatore nello scoppio delle rivolte.

Gelimero reagì alla rivolta di Godas inviando la maggior parte della sua flotta, 120 dei suoi migliori vascelli, e 5.000 uomini sotto il comando di suo fratello Tzazon (detto anche Zano o Zazo) per reprimerla. La decisione del re vandalo giocò un ruolo cruciale nell'esito finale della guerra, in quanto, con la potente flotta vandalica (insieme a parte dell'esercito) impegnata altrove a reprimere la rivolta in Sardegna, lo sbarco dei Romani in Africa poté procedere senza ostacoli.
Gelimero scelse inoltre di trascurare la rivolta in Tripolitania, in quanto era una rivolta molto meno seria e in una regione più remota. Giustiniano inviò invece dalla confinante Cirenaica un piccolo contingente di truppe per sostenere la rivolta di Pudenzio.
Nello stesso tempo l'imperatore si assicurò il sostegno del Regno ostrogoto d'Italia, il quale era in urto con i Vandali a causa dei maltrattamenti subiti della principessa ostrogota Amalafrida, sorella di Teodorico il grande e vedova del re vandalo Trasamundo (1). La corte ostrogota accettò quindi di buon grado di consentire alla flotta di invasione romana di adoperare il porto di Siracusa in Sicilia e aprì un mercato per l'approvvigionamento delle truppe romane in quel luogo.
 
Nella tarda estate del 533 Belisario - posto da Giustiniano al comando della campagna con il titolo di strategos autokrator - salpò da Siracusa per l'Africa al comando del corpo di spedizione bizantino e, dopo aver fatto scalo a Malta, sbarcò con l'esercito nei pressi di Caput Vada, sulla costa occidentale dell'attuale Tunisia a circa 162 miglia romane (240 km) a sud da Cartagine.
Secondo Procopio, che era al seguito del generale in qualità di suo segretario, il corpo di spedizione imperiale era formato da 10.000 fanti - in parte provenienti dall'esercito di campo (comitatenses) e in parte dai foederati, e da 5.000 cavalieri. Vi erano inoltre circa 1.500–2.000 dei soldati privati di Belisario (bucellarii), un reggimento d'élite (che potrebbe essere stato incluso nel totale di Procopio per la cavalleria). In aggiunta, facevano parte della spedizione anche due corpi di truppe alleate, con arcieri a cavallo, 600 Unni e 400 Eruli. L'esercito era condotto da ufficiali di esperienza, come l'eunuco Salomone, che fu scelto da Belisario come suo domesticus, e l'ex prefetto del pretorio Archelao, al quale fu affidato il compito di provvedere all'approvvigionamento dell'esercito. L'intera armata fu trasportata su 500 vascelli contenenti 30.000 marinai sotto la guida dell'ammiraglio Calonimo di Alessandria.
Da Caput Vada, Belisario marciò alla testa dell'esercito lungo la strada costiera che conduceva a Cartagine mentre la flotta risaliva a sua volta la costa fiancheggiando l'esercito.
Il generale distaccò 300 cavalieri al comando di Giovanni l'Armeno come avanguardia a circa 3 miglia (4,5 km) davanti all'esercito principale, mentre i 600 Unni coprivano il fianco sinistro. Belisario stesso con i suoi bucellarii condusse la retroguardia, per prevenire ogni attacco di Gelimero, che sapeva trovarsi nelle vicinanze.


Battaglia di Ad Decimum
Gelimero, con 11.000 uomini sotto il suo comando, inizialmente avanzò con decisione per posizionarsi in un punto favorevole posto sulla strada per Cartagine e da lì affrontare i 15.000 uomini di Belisario.
Divise quindi le proprie forze inviando 2.000 uomini sotto il comando del nipote Gibamondo nel tentativo di attaccare il fianco sinistro dell'esercito di Belisario, che in quel punto della strada era costretto ad avanzare in una stretta e lunga colonna.
Un altro contingente formato da altrettanti uomini e richiamato da Cartagine al comando del fratello di Gelimero, Ammata, ricevette il compito di contenere l'esercito nemico in una gola presso Ad Decimum (al decimo miglio della strada per Cartagine). Gelimero stesso, con il grosso dell'esercito, sarebbe arrivato alle spalle degli imperiali completando l'accerchiamento.
La mattina del 13 settembre, il decimo giorno dall'inizio della marcia a Caput Vada, l'esercito imperiale giunse nelle vicinanze di Ad Decimum, dove Gelimero aveva pianificato di preparare l'imboscata e accerchiarli.

 
Sviluppo del piano di accerchiamento predisposto da Gelimero
 
Il piano, tuttavia, fallì, in quanto i tre eserciti vandali non riuscirono a sincronizzare i loro movimenti in modo esatto: Ammata arrivò troppo in anticipo e fu ucciso mentre alla testa di un numero troppo esiguo di soldati si scontrava con l'avanguardia romana. Il distaccamento di Gibamundo fu intercettato dai mercenari unni posti da Belisario a difesa del fianco sinistro e annientato mentre lo stesso Gibamundo trovava la morte.
 
Ammata viene sconfitto dalla cavalleria di Giovanni l'Armeno (1) che insegue i superstiti che ripiegano su Cartagine (3); il distaccamento di Gibamundo viene messo in rotta dagli unni che proteggono il fianco sinistro dell'avanzata imperiale
 
Ignaro di questi avvenimenti, Gelimero marciò con l'esercito principale, e si scontrò con le truppe romane che avevano raggiunto Ad Decimum.
Il grosso delle truppe di Gelimero inflisse serie perdite alle truppe di Belisario: i foederati al comando di Salomone furono infatti messi in rotta dai Vandali che, anche se inferiori sul piano numerico, combattevano in maniera più efficace.
 
 
Quando tuttavia Gelimero raggiunse le posizioni di Ammata e scoprì che anche il fratello era stato ucciso, si perse d'animo e, perdendo tempo prezioso nel seppellirne il corpo sul campo di battaglia, non diede l'ordine finale d'assalto, che avrebbe probabilmente distrutto le fiaccate truppe romane e impedito ai mercenari Unni che poco prima avevano sconfitto Ammata e Gibamondo di ricongiungersi con l'esercito di Belisario.
Guadagnato del tempo prezioso, Belisario fu abile nel raggruppare le proprie forze a sud di Ad Decimium e a lanciare il contrattacco, che respinse i Vandali e li mise in fuga. Gelimero fu costretto allora ad abbandonare Cartagine.
 
 
Belisario si accampò vicino al campo di battaglia, non volendo avvicinarsi troppo alla città durante la notte.
Il mattino dopo marciò su Cartagine, ordinando ai propri uomini di non uccidere o ridurre in schiavitù la sua popolazione poiché riteneva i suoi abitanti cittadini romani sottoposti al giogo vandalo.
Domenica 15 settembre, con al fianco la moglie Antonina, fece solenne ingresso a Cartagine fra urla di giubilo di una popolazione provata dal duro giogo barbaro e stupefatta dalla generosità con la quale era stata ordinata alle soldatesche l'astensione da ogni razzia. Decise inoltre di ricostruire immediatamente le fortificazioni intorno a Cartagine.
Cacciato da Cartagine, Gelimero si stabilì a Bulla Regia in Numidia (le cui rovine sono poste oggi lungo il confine occidentale della moderna Tunisia), all'incirca 100 miglia a Ovest dalla capitale del Regno.
Consapevole di non potere far fronte da solo alle preponderanti forze di Belisario, inviò dei messaggeri al fratello Tzazon, ancora impegnato con le proprie truppe in Sardegna per reprimere la rivolta di Godas.
Non appena ricevuto il messaggio, quest'ultimo si affrettò a ritornare in Africa per unire le proprie truppe a quelle del fratello.
Nel frattempo Gelimero cercava con tutti i mezzi di dividere le forze alleate a Belisario. Offrì ricompense alle tribù berbere e puniche locali per ogni testa di soldato romano che queste gli avessero portato e inviò dei messaggeri a Cartagine cercando di portare nei propri ranghi con forti offerte di denaro i mercenari Unni al seguito del condottiero bizantino, decisivi nella battaglia di Ad Decimum.
Tzazon e le sue truppe si unirono a Gelimero nel dicembre.
Ritenendo il suo esercito abbastanza forte per sconfiggere il nemico, il re vandalo passò dunque all'offensiva distruggendo il grande acquedotto che riforniva di acqua potabile la città di Cartagine.
Nelle 12 settimane che erano trascorse da Ad Decimum Belisario aveva intanto fortificato la città ma, venuto a conoscenza dei piani di Gelimero e ritenendo di non potersi fidare per lungo tempo dei mercenari Unni, invece di aspettare un probabile assedio, uscì da Cartagine con il proprio esercito e con gli Unni in coda alla colonna.
 
Battaglia di Tricamarum
Il 15 dicembre i due eserciti si scontrarono a Tricamarum, 30 miglia ad ovest di Cartagine. 15.000 romani contro circa 50.000 vandali.
Le due forze si incontrarono appena fuori la città e la cavalleria catafratta romana, guidata da Giovanni l'Armeno, immediatamente ruppe le linee dei Vandali attaccando e ritirandosi per tre volte.
Durante la terza carica Tzazon fu ucciso sotto gli occhi di Gelimero che, come era già successo ad Ad Decimum, si perse d'animo e fece arretrare le truppe che in breve ripiegarono disordinatamente verso il campo fortificato.
Gelimero, compreso che tutto era perduto, fuggì con un piccolo seguito in Numidia, mentre i rimanenti Vandali cessarono di resistere e abbandonarono il loro accampamento al saccheggio dei Romani.

Gelimero si ritirò prima ad Hippo Regius (Ippona) e poi si asserragliò nella cittadina di Medeus sul Monte Papua, dei cui abitanti Mauri poteva fidarsi. Belisario inviò un distaccamento di 400 eruli al comando di Fara ad assediare la roccaforte. L'assedio si protrasse per tutto l'inverno, soltanto in marzo infatti, dopo aver ricevuto l'assicurazione che sarebbe stato risparmiato e trattato bene, il re dei Vandali accettò la resa.
Nell'aprile 534, venne restaurato il vecchio sistema provinciale romano con la ricostituzione della prefettura del pretorio d'Africa - a cui fu preposto l'eunuco Salomone - che perdurò fino al 590 circa quando l'imperatore Maurizio (582-602) la riorganizzò in Esarcato.

(1) La sorella di Teodorico il grande, Amalafrida, aveva sposato nel 500 Trasamondo, re dei Vandali - a cui aveva portato in dote la città siciliana di Lilibeo - nell'ottica di consolidare l'alleanza tra i due popoli. Alla morte del marito (523), quando il suo successore Ilderico diede seguito ad una politica filobizantina e richiamò dall'esilio i vescovi ortodossi, Amalafrida si pose a capo della fazione ariana che si ribellò anche con le armi a questa politica. Fu quindi arrestata e gettata in prigione dove morì.