Visualizzazioni totali

Visualizzazione post con etichetta Africa bizantina. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Africa bizantina. Mostra tutti i post

giovedì 8 dicembre 2022

L'Esarcato d'Africa (591-711)

 L'Esarcato d'Africa (591-711)

Fu istituito probabilmente sotto l'imperatore Maurizio (582-602) nel quadro di una militarizzazione dell'apparato amministrativo volta a rendere le provincie d'Africa meno dipendenti dalla capitale per la propria difesa. Era formato dall'Africa settentrionale – eccetto la Tripolitania che fu accorpata alla diocesi d'Egitto – dalla Sardegna, dalla Corsica, dalle Baleari e dalla Spagna meridionale in mano ai bizantini. Capitale dell'esarcato divenne Cartagine.

L'antico porto di Cartagine come appare oggi

Il primo esarca di cui si ha notizia è Gennadio, a cui si rivolge con questo titolo papa Gregorio I in una lettera del 591. Già nel 578 ricopriva però la carica di Magister militum per Africam. Durante il suo mandato dovette fronteggiare la rivolta dei Mauri (598). Morì o fu rimosso dalla carica poco dopo.

Eraclio il vecchio (598-611): militare di carriera fu nominato dall'imperatore Maurizio (582-602). Nel 608, coadiuvato dal fratello Gregorio, si ribellò all'imperatore Foca, probabilmente a seguito del regime di terrore da lui instaurato. Il figlio Eraclio – detto il giovane – al comando della flotta fu mandato alla conquista di Costantinopoli mentre il nipote Niceta con l'esercito di terra invase la provincia egiziana. Nell'ottobre del 610 Eraclio il giovane sbarcò a Costantinopoli e rovesciò l'imperatore, che fu abbandonato anche dalla sua guardia personale, insediandosi al suo posto. Eraclio il vecchio morì poco dopo aver ricevuto la notizia dell'incoronazione del figlio.

Niceta (611-629): cugino di Eraclio, lo aiutò nella conquista del potere ricevendone in cambio il governo della provincia egiziana. Nel 612 fu messo al comando della guardia imperiale e fu a fianco dell'imperatore nella sfortunata campagna contro i persiani del 613 culminata con la sconfitta nella battaglia di Antiochia che determinò la perdita dell'intera Siria. I persiani conquistarono quindi anche la Palestina e l'Egitto, la cui capitale, Alessandria, cadde nel 619. E' quindi probabile che Niceta abbia effettivamente ricoperto la carica di esarca d'Africa a partire da questa data. Da una moglie di cui non si conosce il nome ebbe un figlio (Gregorio) e due figlie, la maggiore delle quali (Gregoria) fu moglie dell'imperatore Costantino III (641) (1) e madre di Costante II (641-668).

Gregorio il Patrizio (629-647): era molto probabilmente il figlio di Niceta. Di fiero credo calcedoniano entrò in contrasto con l'imperatore Costante II (641-668) a causa del suo appoggio al monotelismo. Nel 646, di fronte all'incapacità dell'impero di contrastare l'avanzata araba, decretò la secessione dell'esarcato e si autoproclamò imperatore. 


Quando gli arabi invasero la Byzacena (l'attuale Tunisia meridionale) li affrontò sotto le mura di Sufetula (647) - dove aveva spostato la capitale dell'esarcato - venendo rovinosamente sconfitto e perdendo la vita nel corso della battaglia.


Arco dei Tetrarchi, Sufetula, fine III secolo

Gennadio (648-665): militare di carriera, assunse la carica di esarca dopo la morte di Gregorio. Pagando un forte tributo riuscì ad ottenere il ritiro degli arabi dalla regione, che tornò, almeno formalmente, all'impero. Pur non essendo stato nominato da Costante II ne riconobbe infatti l'autorità e riprese ad inviare alla capitale l'eccedenza degli introiti annuali dell'esarcato. Nel 663, quando l'imperatore trasferì la corte a Siracusa e chiese un aumento del tributo annuale, rifiutò ed espulse il rappresentante dell'imperatore. La rivolta delle guarnigioni bizantine appoggiate dalla popolazione locale lo costrinse a riparare presso il califfo di Damasco a cui chiese truppe per riconquistare Cartagine. Morì ad Alessandria prima di poter tentare l'impresa.

Eleuterio il giovane (665-): guidò la rivolta contro Gennadio e s'insediò al suo posto. Nel 669 gli arabi invasero nuovamente la Byzacena e costruirono il primo nucleo della città di Kairouan - 50 km a sudovest di Hadrumetum (l'attuale Susa) - che divenne la capitale della provincia islamica dell'Ifrīqiya. Nel 683, il capo berbero Koceila (Caecilius), appoggiato da alcuni contingenti bizantini, sconfisse a Tahouda (l'attuale Sidi Okba) gli arabi guidati dal generale omayyade Oqba ibn Nafi e conquistò Kairouan riportando l'intera Byzacena sotto controllo dell'impero. Nel 688, l'armata berbero-bizantina guidata da Koceila si scontra con l'esercito del califfato nella piana di Memmes. L'esito della battaglia rimane a lungo incerto, ma alla fine prevalgono gli arabi e lo stesso Koceila rimane ucciso. Gli arabi saccheggiano la regione, riprendono Kairouan ma poi si ritirano nuovamente lasciando nella città un piccolo presidio che viene colto di sorpresa da un corpo di spedizione bizantino sbarcato a Barca.

Nel 695, pacificato il suo fronte interno, il califfato omayyade riprende l'offensiva con un esercito forte di 40.000 uomini al comando del generale Ḥassān ibn al-Nuʿmān, che risale la costa quasi senza incontrare resistenza fino a Cartagine che prende d'assalto.

Giovanni il Patrizio (695-698): Quando la notizia della caduta di Cartagine giunse a Costantinopoli suscitò una forte emozione e l'imperatore Leonzio (695-698) armò tutte le navi disponibili e inviò un corpo di spedizione al comando del patrizio Giovanni e del drongario Tiberio Apsimarus. Giovanni forza l'ingresso del porto a riprende la capitale dell'esarcato. Nel frattempo la regina berbera Khaina raccoglie sotto le sue insegne tutte le tribù locali di fede cristiana ed ebraica (2) e sconfigge Ḥassān ibn al-Nuʿmān in una sanguinosa battaglia nei pressi di Kenchela costringendolo ad abbandonare la Byzacena e ripiegare in Tripolitania.


 Ali Boukhalfa, Statua della Khaina, Baghai (Algeria), 2003

Nel 698 il generale musulmano invade nuovamente la Byzacena e attacca Cartagine da terra e da mare, costringendo Giovanni e Tiberio ad abbandonare la città con ciò che resta della flotta e della guarnigione. Cartagine viene rasa al suolo per la seconda volta e la popolazione si disperde nei territori ancora sotto controllo imperiale.

Giuliano (?): dopo la caduta di Cartagine in Africa rimanevano in mani bizantine la piazzaforte di Septem (l'attuale Ceuta) (3) e alcune fortezze nella Mauritania Tingitana che, assieme alla Sardegna e alle isole Baleari potevano ancora figurare come “esarcato d'Africa” sulla lista ufficiale dei possedimenti dell'impero. Il governatore di Septem, Giuliano, potrebbe quindi aver ricevuto il titolo di esarca. Si tratta di una figura controversa e in parte leggendaria. Non è ad esempio chiaro se fosse un funzionario bizantino o semplicemente un capo berbero riconosciuto obtorto collo dal governo centrale come governatore della piazzaforte. Sicuramente pagava un tributo ai Visigoti di Spagna (che erano comunque la popolazione cristiana a lui più vicina) e riuscì a mantenere la città in mani cristiane fino al 711 pur disponendo soltanto di una piccola guarnigione. Secondo fonti arabe tuttavia, nel 708, con l'esercito musulmano alle porte, rovesciò l'alleanza e fornì loro supporto logistico per l'invasione della Spagna. Dopo la sua morte cadde l'ultimo avamposto cristiano in Africa.


Note:

(1) Figlio di Eraclio I e della prima moglie Fabia Eudocia. Prima di morire di tubercolosi, Costantino III regnò per soli tre mesi nel 641 assieme al fratellastro Eracleona che morì poco dopo di lui nel corso dello stesso anno. Gregoria resse il trono per il figlio Costante II fino al 650.

(2) La stessa tribù berbera d'origine della Kahina – i Gerawa - era di religione ebraica.

(3) Il nome completo della città era Septem fratres, dai sette colli su cui era stata costruita. A tutt'oggi è un'enclave spagnola in Africa.

domenica 28 ottobre 2018

Salomone

Salomone

Nato probabilmente tra il 480 ed il 490 nei dintorni della città di frontiera di Dara, Salomone non divenne eunuco a causa di una castrazione ma per un incidente occorsogli durante l'infanzia.
Compare per la prima volta nelle fonti nella Cronaca dello Pseudo-Zaccaria (568-569) come notarius del dux Mesopotamiae Felicissimo che ricoprì questa carica dal 505 al 506. Servì quindi sotto Belisario quando questi a sua volta ricoprì la carica di dux Mesopotamiae (527-531) guadagnandosene la stima.


Nella campagna d'Africa condotta da Belisario contro i Vandali, che fruttò all'Impero la riconquista dell'Africa proconsolare, fu scelto dal generalissimo come suo domestikos (1) ed è indicato da Procopio come uno dei due comandanti dei foederati.
Salomone, al comando dei foederati, prese parte al decisivo scontro di Ad Decimum (13 settembre 533, vedi scheda La Campagna d'Africa). Istallatosi a Cartagine, Belisario lo inviò a Costantinopoli per riferire all'imperatore sull'andamento della campagna. Qui si trattenne fino alla primavera del 534, quando l'imperatore richiamò il generalissimo nella capitale ed inviò Salomone in Africa affidandogli il comando militare della provincia (magister militum Africae). In autunno, Salomone prese anche il comando dell'amministrazione civile sostituendo il vecchio Archelao nella carica di prefetto del pretorio della restaurata provincia africana.
Nel frattempo i berberi che, dopo aver appoggiato Belisario contro i Vandali, premevano adesso ai confini cercando di strappare territori ai Romani, avevano invaso la Byzacena (2) massacrando il presidio romano comandato da Gainas e Rufino.
Ricevuti i rinforzi da Costantinopoli, Salomone marciò sulla Byzacena alla testa di un esercito di 18.000 uomini e sconfisse i berberi accampati nei pressi di una località chiamata Mammes (3) infliggendogli gravi perdite.
Rientrato a Cartagine, venne raggiunto dalla notizia che i berberi si erano riorganizzati ed avevano nuovamente invaso la Byzacena trincerandosi sul Monte Bourgaun (4).
Salomone riportò quindi l'esercito nella Byzacena e pose l'assedio al campo berbero, che si trovava su una balza, attendendo che questi lasciassero le loro postazioni e lo attaccassero in campo aperto. Trascorsi alcuni giorni, si rese però conto che il nemico non aveva alcuna intenzione di abbandonare la posizione di vantaggio in cui si trovava e al contempo di non poter proseguire oltre un assedio in pieno deserto. Decise quindi di prendere l'iniziativa.
Notato che i berberi avevano tralasciato di fortificare la parte del campo verso la montagna, valutando che nessun attacco potesse giungere da quella direzione, Salomone ordinò a Teodoro, comandante degli excubitores, di aggirare nottetempo il nemico scalando il pendio con 1000 uomini e attaccare all'alba contemporaneamente al resto dell'esercito. Presi tra due fuochi i berberi, nel tentativo di sottrarsi all'accerchiamento, s'infilarono in una stretta gola dove furono massacrati dai romani. Procopio – forse con qualche esagerazione – parla di 50.000 morti e di nessun soldato romano ferito. I superstiti ripiegarono in Numidia, arroccandosi sul massiccio dell'Aures (nell'attuale Algeria).

Sul fronte interno, l'eccessiva solerzia nell'applicare le direttive di Giustiniano aveva però reso il governatore inviso alla popolazione locale e ai suoi stessi soldati. Aveva infatti impedito ai soldati che avevano sposato le vedove dei vandali di ereditarne i beni e, sempre seguendo le indicazioni dell'imperatore, aveva anche impedito ai circa mille ariani che militavano tra le sue truppe di praticare liberamente la propria fede.
Il malcontento che serpeggiava tra i soldati sfociò in aperta rivolta il giorno di Pasqua del 536. Salomone, inseguito dai rivoltosi (tra cui una buona metà della sua guardia personale), riuscì miracolosamente ad imbarcarsi e a raggiungere Belisario a Siracusa. Il generalissimo salpò immediatamente alla volta di Cartagine portandosi dietro soltanto cento dei suoi migliori soldati e lasciando la moglie Antonina al comando della Sicilia appena riconquistata. Nel frattempo i ribelli avevano in un primo tempo lasciato Cartagine dopo averne saccheggiato la periferia, con l'intento di raggiungere i berberi arroccati sul massiccio dell'Aures. In un secondo tempo, essendosi notevolmente ingrossate le loro fila, anche per l'apporto di un migliaio di sbandati vandali, fino a raggiungere il numero di 8.000, eletto al comando un ex soldato romano di nome Stotzas, erano tornati indietro e avevano cinto d'assedio la città. Belisario sbarcò quando la guarnigione, al comando di Teodoro, era sul punto di capitolare e la sola notizia del suo arrivo bastò per indurre i rivoltosi a ripiegare verso l'Aures. Il generalissimo non perse tempo e raccolta una forza di circa 2.000 uomini si lanciò all'inseguimento raggiungendo i ribelli nei pressi della città di Membresa (l'attuale cittadina di Majaz al Bab in Tunisia), circa 60 km. a sud ovest di Cartagine.

 
Il giorno della battaglia, si alzò un forte vento contrario ai ribelli, Stotzas, giudicando che le loro frecce avrebbero avuto una gittata molto minore di quelle degli imperiali, cercò di manovrare per mettersi il vento alle spalle. Belisario seppe cogliere al volo l'occasione propizia e lanciò la carica contro il punto dello schieramento nemico che giudicò più debole mentre questi rompevano i ranghi per manovrare.
Nonostante la sconfitta, i ribelli, che non avevano subito grosse perdite giacchè la maggior parte dei caduti si contò tra i vandali, continuarono la ritirata verso la Numidia dove si unirono a loro anche le truppe del locale presidio romano.

Dopo questa battaglia, Giustiniano ordinò a Belisario di tornare in Italia per continuare la guerra contro i Goti mentre Salomone fu richiamato a Costantinopoli. Al suo posto l'imperatore inviò in Africa suo cugino Germano con il titolo di magister militum Africae e il compito di sedare la rivolta.
Nella primavera del 537, Germano sconfisse definitivamente i ribelli nella battaglia di Scalas Veteres a soli 6 km. da Cartagine.

Sedata la rivolta e ristabilito il controllo sull'esercito, Germano fu richiamato a Costantinopoli e Salomone – che nel frattempo Giustiniano aveva elevato al rango di patrizio e nominato console onorario – fu nuovamente inviato in Africa come comandante civile e militare della provincia.
Salomone rafforzò il controllo sull'esercito facendo trasferire gli elementi meno affidabili, espellendo i vandali dalla provincia ed iniziando un massiccio programma di fortificazioni.

L' arco di Caracalla (211-214) inglobato nella nuova cinta muraria della città di Theveste fatta ricostruire da Salomone, come attestato da un'iscrizione un tempo presente sulla tamponatura del fornice settentrionale e oggi rimontata su un lato dell'arco.
 
Nel 540 Salomone guidò l'esercito all'attacco delle roccaforti berbere dell'Aures. I berberi attaccarono il campo dell'avanguardia bizantina nei pressi di Bagai ma l'arrivo di Salomone con il grosso dell'esercito li costrinse a ripiegare su Babosis ai piedi del massiccio montuoso. Qui Salomone li attaccò a sua volta sconfiggendoli. Gran parte dei superstiti si ritirò verso sud mentre il loro capo, Iudas, si asserragliò dapprima nella fortezza di Zerboule a sud di Thamugadi (l'attuale Timgad in Algeria) e quindi in quella di Toumar. Lì una iniziale piccola schermaglia, per l'affluire di soldati di ambo le parti, si trasformò in una battaglia vera e propria da cui i bizantini uscirono vincitori. Questa vittoria diede a Salomone il controllo del massiccio dell'Aures rendendo sicure le provincie della Numidia e della Mauritania Sifitensis.

 
Sotto il governo di Salomone le provincie africane conobbero quindi un breve periodo di pace e prosperità che durò fino al 542-543 quando arrivò la grande peste che causò molte morti. Nel 544 inoltre, in segno di riconoscenza per il suo buon operato, Giustiniano nominò i suoi nipoti Sergio e Ciro governatori rispettivamente delle provincie di Tripolitania e Cirenaica. L'inutile assassinio di 80 delegati berberi ordinato da Sergio, determinò una riapertura delle ostilità con questa popolazione nonché la defezione della maggior parte delle tribù che appoggiavano Salomone tra cui quella dell'influente capo berbero Antalas. Sergiò uscì vincitore da un primo scontro con i rivoltosi nei pressi di Leptis Magna ma presto fu costretto a recarsi a Cartagine per richiedere l'intervento delle truppe di Salomone mentre la ribellione si estendeva dalla Tripolitania alla Byzacena. Affiancato dai suoi nipoti Salomone marciò contro il nemico che raggiunse nei pressi di Theveste. Fallito ogni tentativo di mediazione diplomatica, lo scontro ebbe luogo vicino a Cillium (l'attuale Kasserine in Tunisia) al confine tra la Numidia e la Byzacena.
 
 
I soldati di Salomone erano però molto riluttanti a battersi e l'improvviso abbandono della linea delle truppe di Guntharis, uno dei comandanti di Salomone, innescò una disordinata ritirata generale. Soltanto Salomone e la sua guardia personale continuarono a battersi con coraggio ma finirono anch'essi per dover ripiegare. Salomone fu disarcionato dal suo cavallo e, raggiunto dai berberi, trovò la morte.

Note:

(1) Nella fattispecie la carica corrispondeva a quella di capo di stato maggiore.
(2) Diocleziano aveva diviso l'Africa proconsolare in due provincie più piccole: la Zeugitana a nord e la Byzacena a sud di questa. Nel 395 - alla morte di Teodosio I - la Tripolitani si staccò dalla Byzacena andando a formare una terza provincia. La Byzacena corrispondeva grosso modo alla regione della moderna Tunisia nota come Sahel. Prima dell'invasione vandalica (430), inoltre, procedendo verso occidente si estendevano altre quattro provincie romane: Numidia, Mauretania Sitifensis, Mauretania Caesariensis e Mauretania Tingitana.
(3) Località dell'attuale Tunisia centrale, a sud del moderno abitato di Aïn Djeloula.
(4) Località non identificata con precisione, dovrebbe però trovarsi a poca distanza da quella precedente.

domenica 2 giugno 2013

La Campagna d'Africa (533-534)

La Campagna d'Africa (533-534)

 
I Bizantini avevano ragioni sia politiche che strategiche per riconquistare le province dell'Africa proconsolare sottratte dai Vandali all'impero d'Occidente nel 435.
Nel 530 il re vandalo Ilderico, favorevole a Costantinopoli, era stato deposto e imprigionato dall'usurpatore Gelimero, fornendo a Giustiniano un pretesto legale per intervenire. In ogni caso Giustiniano voleva il controllo del territorio dei Vandali nel Nord Africa, vitale per garantire ai Bizantini l'accesso al Mar Mediterraneo occidentale.
Giustiniano chiese inizialmente la restaurazione di Ilderico, ma Gelimero ovviamente rifiutò. L'imperatore chiese quindi che almeno Ilderico venisse liberato e inviato in esilio a Costantinopoli, minacciando la guerra nel caso anche questa richiesta fosse stata rifiutata. Gelimero, non intendendo consegnare un rivale per il trono a Giustiniano, che lo avrebbe utilizzato per gettare discordia nel regno vandalico, e probabilmente sospettando che la guerra sarebbe scoppiata in ogni caso, rifiutò affermando che era una questione di politica interna del regno vandalico.



Gelimero raffigurato al verso di una moneta da 50 denarii


Poco dopo la sua ascesa al potere, la posizione di Gelimero cominciò comunque ad indebolirsi in quanto prese a perseguitare i suoi avversari politici  tra l'aristocrazia vandalica, confiscandone le proprie proprietà e giustiziando molti di essi. Queste azioni minarono la già dubbia legittimità del suo regno agli occhi di molti, e contribuirono allo scoppio di due rivolte nelle province remote del Regno vandalico: in Sardegna, dove il governatore locale, Godas, si autoproclamò re indipendente dell'isola, e, poco tempo dopo, in Tripolitania, dove la popolazione nativa si era rivoltata contro la dominazione vandalica sotto il comando di un certo Pudenzio, un romano lì residente.
Il fatto che entrambe le rivolte siano scoppiate proprio poco tempo prima della spedizione romana contro i Vandali, e che sia Godas che Pudenzio chiesero immediatamente rinforzi a Giustiniano, sembra suggerire un coinvolgimento diplomatico attivo dell'Imperatore nello scoppio delle rivolte.

Gelimero reagì alla rivolta di Godas inviando la maggior parte della sua flotta, 120 dei suoi migliori vascelli, e 5.000 uomini sotto il comando di suo fratello Tzazon (detto anche Zano o Zazo) per reprimerla. La decisione del re vandalo giocò un ruolo cruciale nell'esito finale della guerra, in quanto, con la potente flotta vandalica (insieme a parte dell'esercito) impegnata altrove a reprimere la rivolta in Sardegna, lo sbarco dei Romani in Africa poté procedere senza ostacoli.
Gelimero scelse inoltre di trascurare la rivolta in Tripolitania, in quanto era una rivolta molto meno seria e in una regione più remota. Giustiniano inviò invece dalla confinante Cirenaica un piccolo contingente di truppe per sostenere la rivolta di Pudenzio.
Nello stesso tempo l'imperatore si assicurò il sostegno del Regno ostrogoto d'Italia, il quale era in urto con i Vandali a causa dei maltrattamenti subiti della principessa ostrogota Amalafrida, sorella di Teodorico il grande e vedova del re vandalo Trasamundo (1). La corte ostrogota accettò quindi di buon grado di consentire alla flotta di invasione romana di adoperare il porto di Siracusa in Sicilia e aprì un mercato per l'approvvigionamento delle truppe romane in quel luogo.
 
Nella tarda estate del 533 Belisario - posto da Giustiniano al comando della campagna con il titolo di strategos autokrator - salpò da Siracusa per l'Africa al comando del corpo di spedizione bizantino e, dopo aver fatto scalo a Malta, sbarcò con l'esercito nei pressi di Caput Vada, sulla costa occidentale dell'attuale Tunisia a circa 162 miglia romane (240 km) a sud da Cartagine.
Secondo Procopio, che era al seguito del generale in qualità di suo segretario, il corpo di spedizione imperiale era formato da 10.000 fanti - in parte provenienti dall'esercito di campo (comitatenses) e in parte dai foederati, e da 5.000 cavalieri. Vi erano inoltre circa 1.500–2.000 dei soldati privati di Belisario (bucellarii), un reggimento d'élite (che potrebbe essere stato incluso nel totale di Procopio per la cavalleria). In aggiunta, facevano parte della spedizione anche due corpi di truppe alleate, con arcieri a cavallo, 600 Unni e 400 Eruli. L'esercito era condotto da ufficiali di esperienza, come l'eunuco Salomone, che fu scelto da Belisario come suo domesticus, e l'ex prefetto del pretorio Archelao, al quale fu affidato il compito di provvedere all'approvvigionamento dell'esercito. L'intera armata fu trasportata su 500 vascelli contenenti 30.000 marinai sotto la guida dell'ammiraglio Calonimo di Alessandria.
Da Caput Vada, Belisario marciò alla testa dell'esercito lungo la strada costiera che conduceva a Cartagine mentre la flotta risaliva a sua volta la costa fiancheggiando l'esercito.
Il generale distaccò 300 cavalieri al comando di Giovanni l'Armeno come avanguardia a circa 3 miglia (4,5 km) davanti all'esercito principale, mentre i 600 Unni coprivano il fianco sinistro. Belisario stesso con i suoi bucellarii condusse la retroguardia, per prevenire ogni attacco di Gelimero, che sapeva trovarsi nelle vicinanze.


Battaglia di Ad Decimum
Gelimero, con 11.000 uomini sotto il suo comando, inizialmente avanzò con decisione per posizionarsi in un punto favorevole posto sulla strada per Cartagine e da lì affrontare i 15.000 uomini di Belisario.
Divise quindi le proprie forze inviando 2.000 uomini sotto il comando del nipote Gibamondo nel tentativo di attaccare il fianco sinistro dell'esercito di Belisario, che in quel punto della strada era costretto ad avanzare in una stretta e lunga colonna.
Un altro contingente formato da altrettanti uomini e richiamato da Cartagine al comando del fratello di Gelimero, Ammata, ricevette il compito di contenere l'esercito nemico in una gola presso Ad Decimum (al decimo miglio della strada per Cartagine). Gelimero stesso, con il grosso dell'esercito, sarebbe arrivato alle spalle degli imperiali completando l'accerchiamento.
La mattina del 13 settembre, il decimo giorno dall'inizio della marcia a Caput Vada, l'esercito imperiale giunse nelle vicinanze di Ad Decimum, dove Gelimero aveva pianificato di preparare l'imboscata e accerchiarli.

 
Sviluppo del piano di accerchiamento predisposto da Gelimero
 
Il piano, tuttavia, fallì, in quanto i tre eserciti vandali non riuscirono a sincronizzare i loro movimenti in modo esatto: Ammata arrivò troppo in anticipo e fu ucciso mentre alla testa di un numero troppo esiguo di soldati si scontrava con l'avanguardia romana. Il distaccamento di Gibamundo fu intercettato dai mercenari unni posti da Belisario a difesa del fianco sinistro e annientato mentre lo stesso Gibamundo trovava la morte.
 
Ammata viene sconfitto dalla cavalleria di Giovanni l'Armeno (1) che insegue i superstiti che ripiegano su Cartagine (3); il distaccamento di Gibamundo viene messo in rotta dagli unni che proteggono il fianco sinistro dell'avanzata imperiale
 
Ignaro di questi avvenimenti, Gelimero marciò con l'esercito principale, e si scontrò con le truppe romane che avevano raggiunto Ad Decimum.
Il grosso delle truppe di Gelimero inflisse serie perdite alle truppe di Belisario: i foederati al comando di Salomone furono infatti messi in rotta dai Vandali che, anche se inferiori sul piano numerico, combattevano in maniera più efficace.
 
 
Quando tuttavia Gelimero raggiunse le posizioni di Ammata e scoprì che anche il fratello era stato ucciso, si perse d'animo e, perdendo tempo prezioso nel seppellirne il corpo sul campo di battaglia, non diede l'ordine finale d'assalto, che avrebbe probabilmente distrutto le fiaccate truppe romane e impedito ai mercenari Unni che poco prima avevano sconfitto Ammata e Gibamondo di ricongiungersi con l'esercito di Belisario.
Guadagnato del tempo prezioso, Belisario fu abile nel raggruppare le proprie forze a sud di Ad Decimium e a lanciare il contrattacco, che respinse i Vandali e li mise in fuga. Gelimero fu costretto allora ad abbandonare Cartagine.
 
 
Belisario si accampò vicino al campo di battaglia, non volendo avvicinarsi troppo alla città durante la notte.
Il mattino dopo marciò su Cartagine, ordinando ai propri uomini di non uccidere o ridurre in schiavitù la sua popolazione poiché riteneva i suoi abitanti cittadini romani sottoposti al giogo vandalo.
Domenica 15 settembre, con al fianco la moglie Antonina, fece solenne ingresso a Cartagine fra urla di giubilo di una popolazione provata dal duro giogo barbaro e stupefatta dalla generosità con la quale era stata ordinata alle soldatesche l'astensione da ogni razzia. Decise inoltre di ricostruire immediatamente le fortificazioni intorno a Cartagine.
Cacciato da Cartagine, Gelimero si stabilì a Bulla Regia in Numidia (le cui rovine sono poste oggi lungo il confine occidentale della moderna Tunisia), all'incirca 100 miglia a Ovest dalla capitale del Regno.
Consapevole di non potere far fronte da solo alle preponderanti forze di Belisario, inviò dei messaggeri al fratello Tzazon, ancora impegnato con le proprie truppe in Sardegna per reprimere la rivolta di Godas.
Non appena ricevuto il messaggio, quest'ultimo si affrettò a ritornare in Africa per unire le proprie truppe a quelle del fratello.
Nel frattempo Gelimero cercava con tutti i mezzi di dividere le forze alleate a Belisario. Offrì ricompense alle tribù berbere e puniche locali per ogni testa di soldato romano che queste gli avessero portato e inviò dei messaggeri a Cartagine cercando di portare nei propri ranghi con forti offerte di denaro i mercenari Unni al seguito del condottiero bizantino, decisivi nella battaglia di Ad Decimum.
Tzazon e le sue truppe si unirono a Gelimero nel dicembre.
Ritenendo il suo esercito abbastanza forte per sconfiggere il nemico, il re vandalo passò dunque all'offensiva distruggendo il grande acquedotto che riforniva di acqua potabile la città di Cartagine.
Nelle 12 settimane che erano trascorse da Ad Decimum Belisario aveva intanto fortificato la città ma, venuto a conoscenza dei piani di Gelimero e ritenendo di non potersi fidare per lungo tempo dei mercenari Unni, invece di aspettare un probabile assedio, uscì da Cartagine con il proprio esercito e con gli Unni in coda alla colonna.
 
Battaglia di Tricamarum
Il 15 dicembre i due eserciti si scontrarono a Tricamarum, 30 miglia ad ovest di Cartagine. 15.000 romani contro circa 50.000 vandali.
Le due forze si incontrarono appena fuori la città e la cavalleria catafratta romana, guidata da Giovanni l'Armeno, immediatamente ruppe le linee dei Vandali attaccando e ritirandosi per tre volte.
Durante la terza carica Tzazon fu ucciso sotto gli occhi di Gelimero che, come era già successo ad Ad Decimum, si perse d'animo e fece arretrare le truppe che in breve ripiegarono disordinatamente verso il campo fortificato.
Gelimero, compreso che tutto era perduto, fuggì con un piccolo seguito in Numidia, mentre i rimanenti Vandali cessarono di resistere e abbandonarono il loro accampamento al saccheggio dei Romani.

Gelimero si ritirò prima ad Hippo Regius (Ippona) e poi si asserragliò nella cittadina di Medeus sul Monte Papua, dei cui abitanti Mauri poteva fidarsi. Belisario inviò un distaccamento di 400 eruli al comando di Fara ad assediare la roccaforte. L'assedio si protrasse per tutto l'inverno, soltanto in marzo infatti, dopo aver ricevuto l'assicurazione che sarebbe stato risparmiato e trattato bene, il re dei Vandali accettò la resa.
Nell'aprile 534, venne restaurato il vecchio sistema provinciale romano con la ricostituzione della prefettura del pretorio d'Africa - a cui fu preposto l'eunuco Salomone - che perdurò fino al 590 circa quando l'imperatore Maurizio (582-602) la riorganizzò in Esarcato.

(1) La sorella di Teodorico il grande, Amalafrida, aveva sposato nel 500 Trasamondo, re dei Vandali - a cui aveva portato in dote la città siciliana di Lilibeo - nell'ottica di consolidare l'alleanza tra i due popoli. Alla morte del marito (523), quando il suo successore Ilderico diede seguito ad una politica filobizantina e richiamò dall'esilio i vescovi ortodossi, Amalafrida si pose a capo della fazione ariana che si ribellò anche con le armi a questa politica. Fu quindi arrestata e gettata in prigione dove morì.