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venerdì 27 settembre 2013

La Cappella dei Magi, Firenze


La Cappella dei Magi, Palazzo Medici-Riccardi, Firenze 1459

Palazzo Medici-Riccardi

Il palazzo Medici-Riccardi fu commissionato a Michelozzo Michelozzi nel 1444 dal patriarca dei Medici, Cosimo il Vecchio, e nacque in un luogo strategico all'incrocio fra la Via Larga (l'attuale via Cavour) e via de' Gori, vicinissimo alle chiese protette dalla famiglia (San Lorenzo e San Marco) ed al Duomo. Tutta la zona viene per questo chiamata Quartiere mediceo.
A metà del Seicento il Palazzo passò al granduca Ferdinando II il quale, ormai residente nello sfarzoso Palazzo Pitti, decise di venderlo, nel 1659, ad una ricca famiglia di banchieri amici, i Riccardi.
La famiglia dei Riccardi visse nel palazzo per circa due secoli. Nel 1810 fu venduto ai Lorena che l'adibirono a uffici amministrativi. Con l'unificazione dell'Italia il palazzo è passato, infine, al demanio statale.
Al piano nobile del palazzo si trova la cappella privata di famiglia, realizzata nel 1459, a forma originariamente quadrangolare (oggi un angolo è scantonato per via dei lavori seicenteschi allo scalone), con una piccola abside a pianta rettangolare (scarsella), senza finestre.
Sulle tre pareti maggiori si sviluppa il grandioso affresco realizzato da Benozzo Gozzoli che raffigura Il Corteo dei Magi, un soggetto religioso che fa da pretesto per rappresentare un evento politico che diede lustro alla casata dei Medici, cioè il corteo di personalità che arrivò a Firenze da Ferrara in occasione del trasferimento della sede conciliare nel 1439.


Il Concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439)

La diplomazia fiorentina aveva cominciato a brigare per ottenere il trasferimento del Concilio da Ferarra a Firenze praticamente fin dal giorno della sua apertura ufficiale (8 gennaio 1438). Nell'autunno dello stesso anno il sommarsi di vari fattori quali l'insorgere di un'epidemia di peste in Val Padana, la conquista dei territori pontifici in Emilia da parte delle truppe dei Visconti, nonché l'alto costo delle spese che l'amministrazione pontificia doveva sostenere per ospitare la rappresentanza greca spianò la strada all'azione diplomatica fiorentina.
Il 3 dicembre la Repubblica inviò a Ferrara come ambasciatore presso papa Eugenio IV, Lorenzo di Giovanni di Bicci de' Medici per offrire ospitalità al Concilio e ai suoi partecipanti e il finanziamento con ingenti somme di denaro stanziate. Sostenitori diretti del trasferimento erano i Medici, in particolare Cosimo il Vecchio, fratello maggiore di Lorenzo, divenuto arbitro indiscusso della situazione politica fiorentina dopo il rientro dall'esilio nel 1434.
Il 10 gennaio 1439, papa Eugenio IV chiuse l'ultima sessione conciliare a Ferrara e deliberò il trasferimento a Firenze.
Il 27 gennaio, giorno dell'arrivo a Firenze del papa, fu dichiarato festivo, affinché tutta la cittadinanza potesse assistere ai solenni festeggiamenti.
Il patriarca di Costantinopoli, l'imperatore Giovanni VIII e suo fratello Demetrio arrivarono a Firenze in tre tempi diversi, ciascuno alla testa del proprio seguito.
Il patriarca Giuseppe II, giunse a Firenze l'11 febbraio.
L'imperatore Giovanni VIII Paleologo giunse il 15 febbraio facendo un ingresso spettacolare. Il 4 marzo, a Concilio già riaperto, giunse infine Demetrio.
I rappresentanti della delegazione greca furono ospitati in eleganti dimore cittadine.
Il patriarca Giuseppe II prese dimora in Palazzo Ferrantini (1) in borgo Pinti; l'imperatore Giovanni VIII ebbe a disposizione l'insieme di Palazzo Peruzzi (2) e delle case attigue fra la piazza omonima e borgo de' Greci; il fratello Demetrio risedette nel Palazzo de' Castellani (3) nell'attuale piazza de' Giudici.
Il 26 febbraio si tenne la seduta iniziale che dette l'avvio ai lavori. Le sessioni, tenute nella sala grande del Palatium Apostolicum di Santa Maria Novella, iniziarono il 2 marzo. Cosimo il Vecchio de' Medici, il principale promotore privato e finanziatore del concilio, ottenne di poter presenziare alle sessioni.
Le sessioni conciliari furono turbate il 10 giugno dall'improvvisa morte del patriarca Giuseppe II che fu sepolto con onori solenni nella stessa chiesa di Santa Maria Novella, nel transetto destro (4).

Una bozza di accordo proposta dal papa fu discussa da 6 delegati greci e 6 latini e finalmente, redatta in greco e latino, fu firmata il 5 luglio dai delegati greci (a palazzo Peruzzi dove risiedeva l'imperatore) e da quelli latini (nel convento di S.Maria Novella dove risiedeva il papa).
Il 6 luglio fu promulgata la bolla papale Laetentur coeli che sanciva l'unione delle chiese.


La Cappella dei Magi

In origine, la cappella e il relativo vestibolo, che correva lungo tutta la parete di ingresso, costituivano un vano maggiore di formato rettangolare. L’insieme fu successivamente rimaneggiato dall’introduzione dello scalone secentesco.
La cappella è composta da due vani pressoché a pianta quadrata, uno maggiore e uno minore. Quest’ultimo è la scarsella con l’altare, leggermente sopraelevata rispetto all’aula principale. Il varco che mette in comunicazione la scarsella e l’aula è incorniciato da due paraste scanalate e rudentate con capitelli corinzi, realizzate in pietraforte e lumeggiate in oro e bianco. Ai lati della scarsella si aprono due piccole sagrestie, di cui solo quella di sinistra è ancora praticabile.
La geometria quadrangolare dell’aula è interrotta dalla sporgenza dell’angolo sud-ovest verso l’interno dell’ambiente, approntata a seguito delle trasformazioni seicentesche. Qui si apre l’ingresso attuale della cappella, anche se l’accesso originario era la porta (ora chiusa) al centro della parete meridionale, di fronte all’altare. Da tale punto di vista, si apprezza al meglio l’organizzazione simmetrica e prospettica dell’ambiente e dei suoi spazi.
Due oculi, l’uno di fronte all’altro, si aprono rispettivamente sopra l’altare e sulla antica porta di ingresso. A sinistra di quest’ultima si trova anche una finestra con i vetri a tondini.
Sulle pareti principali dell'aula si snoda Il corteo dei Magi che, partendo da Gerusalemme (raffigurata sullo sfondo del corteo di Gaspare), si dirige verso Betlemme rappresentata dalla pala di Filippo Lippi raffigurante l'Adorazione del bambino e collocata sulla parete nord della scarsella al di sopra dell'altare e che fu posta in opera prima della realizzazione della decorazione del Gozzoli. Sulle pareti laterali della scarsella si trovano due affreschi, sempre opera di Benozzo Gozzoli, raffiguranti angeli adoranti e cantori.

Nel 1494 la pala originaria, una delle pochissime opere firmate da Filippo Lippi, a seguito della cacciata dei Medici e in occasione del saccheggio del palazzo, venne trasferita in Palazzo della Signoria. Nel corso del XVI secolo, dopo l’istituzione del principato mediceo, tornò nella sua collocazione originaria, dove rimase fino al 1814 quando, venduta, lasciò definitivamente Palazzo Medici-Riccardi. Entrato nella collezione Solly, nel 1821 il quadro fu infine acquisito con l’intero lascito della raccolta dai Musei di Berlino, presso i quali si trova tuttora.
La pala attualmente posta sull'altare è una replica coeva talmente fedele all'originale da farla ritenere opera della bottega stessa di Lippi. L’anonimo autore utilizzò probabilmente gli stessi cartoni realizzati dal Lippi per la pala originale. Infatti le figure dei due dipinti sono pressochè sovrapponibili sia per il disegno che per le dimensioni (l’originale è più stretto di 9 cm. di larghezza, mentre la replica ha un formato quasi quadrato).

L'Adorazione del Bambino

A sinistra la pala originale di Filippo Lippi, oggi conservata nella Gemäldegalerie di Berlino, a destra la copia di bottega coeva attualmente collocata nella Cappella dei Magi. 
La copia fu prelevata dai depositi degli Uffizi nel 1915 e collocata al posto dell'originale ormai definitivamente alienato.


Il Corteo dei Magi
In questa sede viene illustrata soltanto l'interpretazione "bizantina" del ciclo pittorico.

Nella parete ovest è raffigurata la testa del corteo guidata dall'anziano Melchiorre, in quella meridionale la sezione guidata da Baldassarre ed in quella orientale la coda del corteo guidata da Gaspare.

Parete ovest (Corteo di Melchiorre)

Nella parete ovest apre il corteo dei Magi il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II nelle vesti di Melchiorre, a dorso di una mula bianca secondo l'uso ecclesiastico e la tradizione iconografica dell'Ingresso di Cristo a Gerusalemme. Lo precedono un diacono a cavallo con in mano la pisside d'oro dell'incenso (il dono di Melchiorre) ed uno spatario, più avanti il fratello minore di Lorenzo, Giuliano de' Medici, con un leopardo maculato sul cavallo (nell'interpretazione della Ronchey, nel giovane capocaccia sarebbe invece ritratto Tommaso Paleologo)*.
Ad accogliere il patriarca ed il suo seguito sono schierati nella parte destra dell'affresco, caratterizzati dai berretti rossi, dignitari e banchieri fiorentini.



 1. Francesco Sassetti (1420-1490), con la mano levata con le dita aperte ad indicare il numero 5000, secondo la conta del tempo. Nel 1447 direttore delle filiali del banco Medici a Ginevra e Lione, da 1458 vicedirettore generale a Firenze.
2. Roberto Martelli (1408->1469), fedelissimo di Cosimo il Vecchio, fu direttore della filiale di Roma dal 1439 al 1464. Su richiesta di Cosimo fu insignito del titolo di conte palatino da Giovanni VIII.
3. Antonio Averlino detto il Filarete (1400-1469 c.ca).
4. Altro autoritratto di Benozzo Gozzoli.
5. Agnolo Tani, direttore della filiale di Bruges dal 1450 al 1465.
6. Neri Capponi (1388-1457), insigne diplomatico e politico di spicco della Repubblica fiorentina.



Le due porzioni di parete dell’angolo sud-occidentale furono spinte verso l’interno della cappella, a seguito della costruzione dello scalone con il relativo pianerottolo nel 1688-1689. La traslazione muraria ha provocato importanti perdite delle pitture del Gozzoli: infatti, è sopravvissuta solo la parte inferiore sinistra della porzione di parete ovest (comprendente, fra l’altro, il posteriore della mula di Melchiorre). Per il resto, cioè la parte superiore di tale fascia e la porzione con i paggi di Baldassarre sulla parete sud, sono andate perdute. Negli anni della ristrutturazione Jacopo Chiavistelli ebbe ordine di integrare le mancanze irrecuperabili. L’artista lo fece dipingendo un paesaggio generico, privo di animali e uomini, con i caratteri ispirati al paesaggio quattrocentesco.


* Nel Chronicon Minus di Sfranze si legge che nel 1437, temendo un attacco di Khalil Pascià, il despota di Morea, il futuro imperatore Costantino XI Paleologo, a cui Giovanni VIII aveva lasciato la reggenza di Costantinopoli, inviò anche il fratello minore Tommasa presso Giovanni VIII che era appena partito per Ferrara. Anche il viaggiatore spagnolo Pero Tafur riferisce che il giovane Paleologo faceva parte della delegazione bizantina. Per la somiglianza con il giovane capocaccia cfr. anche Tommaso Paleologo.

Parete sud (Corteo di Baldassarre)

Nella parete successiva, il personaggio barbuto su un cavallo bianco raffigurato nei panni di Baldassarre è l'imperatore Giovanni VIII Paleologo; accanto a lui le tre ragazze a cavallo sarebbero le tre figlie di Piero il Gottoso, sorelle di Lorenzo e Giuliano: da sinistra Nannina, Bianca e Maria.
La decorazione soffre qui perdite ingenti: a sinistra per l’apertura della finestra e a destra per la traslazione della porzione della parete occidentale. La disastrosa operazione ha provocato l’abbattimento della fascia di parete dove erano raffigurati i paggi recanti il dono e la spada di Baldassarre.

Parete Est (Corteo di Gaspare)

Chiude il corteo la sezione del mago Gaspare ambientata in un paesaggio di gusto quasi tardogotico, ricco di dettagli come castelli, scene di caccia e piante fantastiche, ispirato probabilmente agli arazzi fiamminghi. Su una collina in alto sullo sfondo della scena è raffigurata Gerusalemme che mostra notevoli somiglianze con la villa medicea di Cafaggiolo come appare in questa lunetta di Giusto Utens del XVI secolo.
Il corteo è aperto dal mago Gaspare che monta un cavallo bianco, nelle cui fattezze Silvia Ronchey riconosce quelle di Demetrio, il fratello minore di Giovanni VIII. Tra le figure a cavallo che lo seguono si riconoscono nell'ordine da destra a sinistra: Piero de' Medici detto il gottoso, Carlo de' Medici, figlio illegittimo di Cosimo il Vecchio, lo stesso Cosimo il Vecchio e Galeazzo Maria Sforza e Sigismondo Pandolfo Malatesta, signori rispettivamente di Milano e Rimini, che furono in quegli anni ospitati dai Medici, e sono qui rappresentati per celebrare i successi politici della casata. In un certo senso le casate dei Malatesta e degli Sforza si erano recentemente imparentate con i Paleologi di Bisanzio, per questo essi sembrano fare da "garanti" al corteo dei partecipanti al concilio che si svolge dietro di essi, come se fossero dei protettori alleati ai Medici.
Dietro di loro si dispiega un corteo di filosofi platonici italiani, tra i quali gli umanisti Marsilio Ficino e i fratelli Pulci e lo stesso pittore Benozzo, riconoscibile perché guarda verso lo spettatore (secondo le istruzioni di Leon Battista Alberti) e per la chiara iscrizione sul tessuto del cappello rosso: Opus Benotii d.. Nella stessa fila, secondo la studiosa Silvia Ronchey, si troverebbe, girato di tre quarti, il vero ritratto di Lorenzo de' Medici adolescente.
Nel seguito di Gaspare si riconoscono inoltre alcuni dignitari bizantini (caratterizzati dalla lunga barba) che fecero parte della delegazione conciliare: Giorgio Gemisto Pletone, Giovanni Argiropulo, Isidoro di Kiev, Teodoro Gaza.
Nella fila successiva si scorge un con un berretto rosso e un ricco fregio dorato: quasi certamente si tratta di Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II, all'epoca ancora cardinale.


1. Cardinale Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II (1458-1464)
3. Giorgio Gemisto Pletone*
4. Teodoro Gaza
5. Giovanni Argiropulo
In questa figura all'estrema sinistra dell'affresco, la Ronchey ipotizza invece sia stato ritratto l'allora metropolita di Nicea, Bessarione.

Nell'interpretazione della Ronchey i tre cortei rispecchierebbero i tre tempi diversi in cui il Patriarca, l'Imperatore ed il fratello Demetrio raggiunsero realmente Firenze con i rispettivi seguiti (11 febbraio, 15 febbraio e 5 marzo).
 
Ad ulteriore conferma della lettura “bizantina” del Corteo dei Magi, viene riportato questo brano tratto da una lettera scritta da papa Pio II Piccolomini a Filippo di Borgogna nel 1461, in cui il pontefice utilizza la stessa allegoria di Benozzo Gozzoli:

Guarda, i Magi sono venuti dall'oriente verso la stella che hanno visto in occidente, non portando né oro, né argento, né mirra, che sono cose caduche, ma recando in dono qualcosa di ben più prezioso, e cioè dichiarando la pace e l'unione con la chiesa d'occidente ed esortando i cristiani alla comune difesa ed alla diffusione della nostra fede.

* La presenza del filosofo Pletone nel seguito di Demetrio è ricordata anche da Silvestro Syropoulos nelle sue Memorie.

Note:

(1) Palazzo Ferrantini, oggi Palazzo Marzichi-Lenzi, si trova in Borgo Pinti 27 ed è attualmente sede dell'hotel Monna Lisa.

Palazzo Ferrantini

(2) Palazzo Peruzzi, o Bourbon del Monte, si trova in Borgo dei Greci 3, con la facciata posteriore che da' su piazza Peruzzi.

Palazzo Peruzzi
(facciata su Borgo dei Greci)

Ospita attualmente la sede della Camera Generale del Lavoro.
La targa che ricorda il soggiorno di Giovanni VIII si trova però nell'androne dell'antistante Palazzo di Ubaldino Peruzzi (Borgo dei Greci 12).
 

Palazzo Peruzzi
 (facciata sulla piazzetta omonima)

(3) Palazzo Castellani, noto ai tempi di Dante come Castello d'Altafronte, dal nome della famiglia che ne fu proprietaria fino al 1180, quando passò nelle mani degli Uberti, il Castello era inserito nella più antica cinta muraria della Città. Dopo essere passato dagli Uberti ai Castellani nel secolo XIV, fu sede, dal 1574 al 1841, dei Giudici di Ruota, come ricordano ancora oggi le antiche insegne dei due magistrati murate nell'ingresso del Palazzo. Attualmente ospita il Museo Galileo.

Palazzo Castellani

(4) Giuseppe II, divenuto patriarca di Costantinopoli nel 1416, nel 1437 partì con l'imperatore Giovanni VIII Paleologo e altri 23 vescovi della Chiesa bizantina e un numero imprecisato di studiosi e teologi da Costantinopoli per l'Italia, dove prese parte al Concilio di Ferrara. Dopo che il papa stabilì il trasferimento della sede conciliare a Firenze, raggiunse la città accompagnato dal suo seguito l'11 febbraio 1439 dove prese dimora a Palazzo Ferrantini.
Morì a Firenze il 10 giugno dello stesso anno, dopo aver partecipato molto poco ai lavori conciliari che, per parte bizantina, vennero condotti principalmente da Bessarione e Isidoro di Kiev.
Giuseppe II venne sepolto nella basilica di Santa Maria Novella, dove la sua tomba è ancora oggi presente nel transetto destro, decorato da un affresco in uno stile ieratico semi-bizantino.
Il monumento funebre di Giuseppe II
S.Maria Novella

































sabato 21 settembre 2013

Licario

Licario

Secondo l'opinione di molti storici, Licario insieme a Giovanni Paleologo, fratello dell'imperatore, furono gli uomini d'arme al servizio di Michele VIII Paleologo (1259-1282) che arrecarono i più gravi danni alle Signorie latine della Grecia.
 
 
Licario nacque nel XIII secolo nella città di Karystos nel terziere meridionale dell'isola di Eubea (1), da padre vicentino e madre greca. Mentre serviva come cavaliere del Triarca di Chalkis Giberto II da Verona s'innamorò della sorella Felisa, rimasta vedova del Triarca di Karystos, Narzotto dalle Carceri. L'unione fu osteggiata dalla famiglia della donna ma i due si sposarono segretamente. Il matrimonio fu però annullato dai parenti della sposa e Licario fu costretto a rifugiarsi nella fortezza di Anemopylae sul promontorio di Kafireas nella parte sudorientale dell'isola da cui, insieme ad alcuni seguaci, cominciò ad effettuare razzie nei circostanti possedimenti dei nobili.
Tra il 1269 ed il 1270 la flotta bizantina, decisa a riprendere possesso delle isole dell'Egeo come preludio alla riconquista della Grecia continentale, al comando di Alessio Ducas Philantropenos, aveva espugnato la roccaforte di Oreos, capitale del terziere settentrionale.
Di fronte al persistente rifiuto dei baroni latini dell'isola di venire a patti con lui, Licario offrì i propri servigi all'ammiraglio bizantino.
L'imperatore Michele VIII Paleologo fu ben felice di prendere al suo servizio un corsaro che già si era fatto una certa fama e lo fece suo vassallo.

Nel 1272-1273, rafforzato da alcuni reparti bizantini inviatigli dall'imperatore, lanciò un'offensiva nel corso della quale strappò ai baroni latini numerose fortezze.
Tra il 1273 ed il 1275 fu inviato in Asia Minore dove riportò una vittoria contro i Turchi.
Nel 1276 riprese l'offensiva in Eubea assediando ed espugnando la sua città natale di Karystos, capoluogo del terziere meridionale. Per questa impresa l'imperatore lo compensò concedendogli in feudo l'intera isola di Eubea e dandogli in moglie una ricca nobildonna greca. Licario prese progressivamente il controllo del suo feudo e nel 1278 la sola roccaforte di Chalkis (Negroponte) era ancora nelle mani dai Latini.

Fu nominato dall'imperatore megas konostaulos (2), comandante di tutti i mercenari latini (1278) e successivamente megas dux, primo comandante straniero a ricoprire questa carica.
Al comando della flotta bizantina espugnò una dopo l'altra le isole di Skopelos, Skyros, Skiatos e Amorgos, che costituivano il feudo di Filippo Ghisi che fu catturato e inviato a Costantinopoli come prigioniero. Successivamente conquistò le isole di Citera e Anticitera e quindi Kea, Astypalia, Santorini e Lemnos.
Sul finire del 1279 fece ritorno in Eubea e, rafforzato da mercenari catalani, marciò su Negroponte. Il triarca Giberto II ed il duca di Atene Giovanni I de la Roche che si trovavano in città decisero di andargli incontro alla testa delle loro truppe. I due eserciti si scontrarono nei pressi del villaggio di Vatoundas, 7 miglia a nord est di Negroponte. Licario riportò una schiacciante vittoria e il duca ed il triarca furono catturati e portati a Costantinopoli come prigionieri dove, secondo quanto riferisce lo storico Niceforo Gregoras, il triarca, alla vista dell'odiato rinnegato acclamato dalla corte bizantina, morì sul colpo (3).
Dopo la vittoria di Vatoundas la città di Negroponte sembrava alla mercè dei bizantini ma il nuovo duca di Atene, Guglielmo I de la Roche e l'energico bailo veneziano Niccolò Morosini Rosso ne rafforzarono rapidamente le difese. Dinanzi alla prospettiva di un lungo ed estenuante assedio, Licario desistette e si dedicò ad eliminare le ultime sacche di resistenza latina nel resto dell'isola.
A questo punto, all'apice della sua fama, Licario scompare praticamente dalle fonti e si ignora quale fu il suo destino. Molto probabilmente si trasferì a Costantinopoli dove visse fino alla sua morte.

Le sue conquiste ebbero una durata effimera, già nel 1296 i veneziani ed i loro alleati latini avevano infatti ripreso il controllo di tutti i territori che Licario aveva occupato.

Note:

(1) Per la spartizione dell'isola di Eubea dopo la Quarta Crociata cfr. Ducato dell'Arcipelago, nota 1.


(2) Il titolo di megas konostaulos (gran conestabile) fu creato dall'imperatore niceno Giovanni III Vatatzes nel 1253 per designare il comandante dei mercenari latini al servizio dell'impero. Il primo a ricoprire questa carica fu il futuro imperatore Michele VIII Paleologo.

(3) Niceforo Gregoras, Bizantinae Historiae. Secondo lo storico veneziano Marino Torcello Sanudo (Istoria del Regno di Romania) Giberto II morì invece nel corso della battaglia.



venerdì 20 settembre 2013

Il Ducato dell'Arcipelago

Il Ducato dell'Arcipelago


Armi dei Sanudo

Il Ducato dell'Arcipelago o Ducato di Nasso venne creato nel 1207 da Marco Sanudo, uno dei partecipanti alla quarta crociata e nipote del Doge Enrico Dandolo.
Accompagnato da Marino Dandolo, Andrea e Geremia Ghisi, oltre che da Ravano delle Carceri, signore di Eubea, e Filocalo Navigajoso, duca di Lemno, con otto galee Sanudo sbarcò a Potamidides conquistando l'isola di Nasso: i Greci si ritirarono nella fortezza di Apalyros, sostenuti dai Genovesi, principali avversari di Venezia in Oriente, ma in breve anche quest'ultimo baluardo cadde.
Nel 1210, avuta ragione delle ultime sacche di resistenza, i Veneziani procedettero alla rapida occupazione del resto dell'arcipelago delle Cicladi, che venne spartito tra i partecipanti alla spedizione.



La spartizione delle Cicladi tra i partecipanti alla spedizione guidata da Marco Sanudo

 
Marco I Sanudo (1207-1227). Fondatore del Ducato. Nel 1210 divenne vassallo dell'imperatore latino di Costantinopoli che gli conferì il titolo di duca dell'Arcipelago. Dal canto suo Sanudo conferì agli altri partecipanti alla conquista delle Cicladi titoli di cavaliere e feudi in cambio del rispetto degli obblighi feudali ma contemporaneamente confermò la nobiltà greca (gli archontes) nei suoi titoli e proprietà.
Sull'isola di Nasso fondò una nuova città (l'attuale città di Nasso o Chora) che divenne la sua capitale. Sposò una donna della famiglia dei Laskaris - forse una sorella dell' imperatore niceno Teodoro I Laskaris (1208-1222) – da cui ebbe il figlio Angelo che gli successe alla sua morte nel 1227.

Angelo Sanudo (1227-1262). Nel 1235 inviò una squadra navale in aiuto dell'imperatore latino Giovanni di Brienne, assediato a Costantinopoli dall'esercito niceno. Sposò la figlia di un ufficiale francese dell'esercito latino, Macaire de Sainte-Ménéhould, morto combattendo i niceni nella battaglia di Poimanenon (1224), da cui ebbe tre figli. Alla sua morte gli successe il suo primogenito Marco.
 
Marco II Sanudo (1262-1303). Dovette fronteggiare l'aggressività della flotta del restaurato impero bizantino al comando dell'ammiraglio Licario e perse il controllo di numerose isole dell'arcipelago. Strinse un patto di vassallaggio (1263?) con Guglielmo II di Villerhardouin,Principe d'Acaia, che confermò nel 1278 a Carlo I d'Angiò quando questi prese possesso del Principato. Sul finire del suo regno riuscì comunque a riconquistare gran parte delle Cicladi. Ebbe due figli da una moglie di cui non si conosce il nome ed alla sua morte gli successe il maggiore, Guglielmo.

Guglielmo I Sanudo (1303-1323). Nel 1317 subì una violenta incursione da parte della Compagnia Catalana agli ordini del vicario generale del Ducato d'Atene Alfonso Federico di Sicilia che occupò l'isola di Melos come ritorsione per l'aiuto prestato dal Sanudo a Gualtiero V di Brienne. Ebbe sei figli da una moglie di cui non si conosce il nome ed alla sua morte gli successe il maggiore, Nicolò.

Niccolò I Sanudo (1323-1341). Nel 1311 comandò il contingente di Nasso che partecipò alla battaglia di Halmyros (15 marzo 1311) a fianco del duca di Atene, Gualtiero V di Brienne, e fu uno dei pochissimi cavalieri franchi a salvare la vita. Nel 1341 le isole dell'Arcipelago furono devastate dalla flotta del Gazi Umur Bey, l'emiro corsaro di Aydin che impose per la prima volta al Ducato il pagamento di un tributo annuo. Nel 1330 aveva sposato Giovanna di Brienne, figlia del conte di Lecce Ugo di Brienne e della sua seconda moglie Elena Comneno-Ducaina* e quindi sorellastra del duca di Atene Gualtiero V morto nella battaglia di Halmyros. Alla sua morte gli successe il fratello Giovanni.
* Elena Comneno Ducaina era figlia di Giovanni I Ducas Comneno - il figlio illegittimo del Despota d'Epiro Michele II che governò la Tessaglia e la Grecia centrale dal 1268 al 1289 - e della principessa valacca che aveva sposato e di cui si conosce solo il nome monacale di Hypomene.
 
Giovanni I Sanudo (1341-1362). Nel 1344 i Turchi occuparono parte dell'isola di Nasso prendendo 6.000 prigionieri. Si schierò dalla parte dei veneziani nella terza guerra veneto-genovese (1350-1355). Catturato dai genovesi nel 1354, fu rilasciato l'anno successivo dopo la firma del trattato di pace (giugno 1355). Ebbe una sola figlia, Fiorenza, da una moglie di nome Maria, che gli successe alla sua morte.

Fiorenza Sanudo (1362-1371). Sposò in prime nozze Giovanni delle Carceri, Signore di due terzieri dell'isola di Eubea, che morì nel 1358 e da cui ebbe un figlio di nome Nicolò. Dopo aver ereditato il ducato di Nasso, cercò di risposarsi prima con il genovese Pietro Recanelli Giustiniani, primo capo della Maona nuova di Chios, e poi con Neri I Acciaiuoli, il futuro duca di Atene, ma ne fu impedita dai veneziani. Catturata da agenti della Serenissima fu condotta a Creta e nel 1364 costretta a sposare il cugino Niccolò Sanudo detto Spezzabanda, uno dei figli di Guglielmo, che regnò come duca consorte fino alla morte di Fiorenza. Da lui ebbe due figlie, Maria ed Elisabetta Sanudo.

Niccolò III delle Carceri (1371-1383). Ereditò dal padre la Signoria di due terzieri dell'isola di Eubea (1) e dalla madre il ducato di Nasso. Ancora tredicenne alla morte della madre, governò inizialmente sotto la tutela del patrigno Niccolò Spezzabanda che morì nel 1374. Nel 1381 sposò Petronilla Tocco, figlia del conte di Cefalonia Leonardo Tocco e di Maddalena Buondelmonti, da cui non ebbe figli. Risiedette prevalentemente nell'isola di Eubea, nominando un suo parente, Jannuli Gozzadini, reggente dell'isola di Nasso. Cercò di espandere i suoi domini nell'isola di Eubea appoggiando l'azione della Compagnia di Navarra e progettando di conquistare il porto di Negroponte (Chalkis) con l'aiuto dei navarresi. Per la forte tassazione imposta suscitò il malcontento tra i suoi sudditi e fu ucciso nel corso di una rivolta probabilmente ispirata da Francesco Crispo che fu immediatamente accettato come nuovo duca.

Armi dei Crispo

Francesco I Crispo (1383-1397). Avendo sposato Fiorenza Sanudo, figlia del fratello minore del duca Giovanni I e Signore di Milos, era in ogni caso alla morte di Niccolò III, l'erede diretto del ducato. Nel giugno dello stesso anno la Serenissima lo riconobbe come duca ma occupò i terzieri dell'isola di Eubea che erano appartenuti al ducato. Nel 1385 diede in moglie sua figlia Petronilla a Pietro Zeno - Signore di Andros e Syros nonchè figlio del bailo veneziano di Negroponte - che divenne il più influente difensore dei suoi interessi presso la Serenissima.
Alla sua morte gli successe il figlio maggiore Giacomo. (Cfr. scheda Alberi genealogici).

Giacomo I Crispo (1397-1418). Gli inizi del suo governo furono caratterizzati dal conflitto con gli Ottomani e dai contrasti con i suoi fratelli che rivendicavano parte dell'eredità paterna. Risolse il primo accettando di pagare un tributo mentre dovette cedere ai fratelli la signoria di alcune isole dell'arcipelago per tacitarne le rivendicazioni.
Sposò Fiorenza Sommaripa, figlia di Gaspare Sommaripa e Maria Sanudo, da cui ebbe due figlie, Maria e Fiorenza.
Nel 1415 aderì alla lega antiturca di cui facevano parte anche Chio, Lesbo, Rodi e Cipro. Nel 1418 si recò a Venezia per discutere questioni di eredità che riguardavano la suocera Maria Sanudo. Da qui si diresse verso Mantova con l'intenzione di incontrarsi con il papa Martino V. Durante il viaggio, a Ferrara, cadde malato e morì dopo pochi giorni nel novembre del 1418.

Giovanni II Crispo (1418-1433). Fratello di Giacomo, e da questi designato suo erede nel testamento, assunse il governo del ducato e ottenne, grazie anche al sostegno del cognato Pietro Zeno, il riconoscimento di Venezia contro la pretesa di successione della vedova di Giacomo Fiorenza Sommaripa.
Riuscì a stabilire con Venezia rapporti più stretti di quanto non fosse stato capace suo fratello Giacomo. Ottenne, infatti, importanti privilegi commerciali soprattutto nei riguardi di Creta e sostegno militare contro i Turchi. Ciò nonostante nel 1426 fu costretto a pagare agli Ottomani un consistente tributo e nel 1432 non riuscì a difendere le isole di Nasso e di Andros dal saccheggio dei Genovesi. Nel 1418 aveva sposato la nobildonna veneziana Francesca Morosini da cui aveva avuto un figlio, Giacomo, e due figlie.

Giacomo II Crispo (1433-1447). Ereditò il ducato alla morte del padre quando aveva appena sette anni e lo governò sotto la reggenza della madre fino al 1444. Nello stesso anno sposò Ginevra Gattilusio, la figlia di Dorino I, Signore di Lesbo, da cui ebbe una figlia, Elisabetta*, ed un figlio, Giangiacomo, che nacque dopo la sua morte.
* Elisabetta sposò Dorino Gattilusio, ultimo signore di Ainos, dopo che questi si era rifugiato a Nasso a seguito della perdita dei suoi possedimenti ad opera di Maometto II (1456).

Giangiacomo Crispo (1447-1453). Ereditò il ducato alla sua nascita sotto la tutela degli zii paterni Guglielmo e Niccolò che avevano imprigionato la cognata e nonna del duca Francesca Morosini che aveva reclamato per sé la Reggenza.

Guglielmo II Crispo (1453-1463). Alla morte del nipote assunse formalmente il governo del ducato che già esercitava in qualità di reggente. Si sposò in tarda età con la nobildonna Elisabetta da Pesaro da cui ebbe una figlia di nome Fiorenza. Da un'amante di cui non si conosce il nome ebbe un figlio illegittimo di nome Giacomo.

Francesco II Crispo (1463). Nipote del precedente duca, morì l'anno stesso in cui ereditò il ducato. Aveva sposato in seconde nozze la nobildonna Petronilla Bembo che alla sua morte assunse la reggenza in nome del figlio Giacomo.

Giacomo III Crispo (1463-1480). Successe al padre ancora minorenne e si trovò coinvolto a fianco della Serenissima nella prima guerra turco-veneziana (1463-1479). Nel 1470, la caduta della roccaforte veneziana di Negroponte espose i possedimenti del ducato alle incursioni ottomane. La stessa Nasso fu razziata dai turchi nel 1475. Sposò Caterina Gozzadini da cui ebbe due figlie, Fiorenza e Petronella.
La firma del Trattato di Costantinopoli (25 gennaio 1479) che pose fine alle ostilità gli consentì di organizzare in pompa magna poco prima di morire il matrimonio della figlia maggiore Fiorenza con Domenico Pisani, signore di Santorini.

Giovanni III Crispo (1480-1494). Ereditò il ducato alla morte del fratello Giacomo che non aveva lasciato eredi maschi. Varò un inasprimento della politica fiscale che indusse alla rivolta la popolazione di Nasso che, guidata dalla nobiltà greca, lo assediò nella fortezza dell'acropoli della capitale. Riuscì a sedare la ribellione grazie all'intervento delle galee dei Cavalieri di S.Giovanni ma la spietatezza che mostrò nel reprimere la rivolta gli alienò ulteriormente il favore dei suoi sudditi. Morì, molto probabilmente avvelenato, nel 1494. Sposò una nobildonna veneziana della famiglia Morosini che ripudiò in quanto sterile. Da un amante di cui non si conosce il nome ebbe un figlio illegittimo di nome Francesco che aveva undici anni al momento della sua morte.

Governo diretto di Venezia (1494-1500 e 1510-1517). Alla morte di Giovanni III, una delegazione di cittadini del ducato si recò a Venezia per chiedere alla Repubblica di assumere il controllo diretto del ducato, anche perchè l'unico erede lasciato dal duca era un figlio illegittimo. La Repubblica acconsentì e nominò governatore dapprima Giacomo Crispo (1494-1496) e successivamente il figlio Antonio (1496-1500) sotto la supervisione di Pietro Contarini.
Nel 1500 fu però consentito a Francesco III Crispo (1500-1510) di entrare in possesso del ducato. Il suo governo fu così crudele e tirannico che nel 1507 fu richiamato dai veneziani e imprigionato a San Michele di Murano. Presto rilasciato tornò a Nasso nel 1509 dove l'anno seguente assassinò la moglie Caterina Loredan, che aveva sposato nel 1496, e tentò di uccidere il figlio Giovanni avuto da lei. Deposto ed incarcerato fu condotto dapprima a Santorini e successivamente a Candia dove morì nel 1518. Venezia nominò governatore il fratello di Caterina, Antonio Loredan, che resse il ducato fino alla maggiore età del nipote Giovanni (1517).

Armi di Antonio Loredan



Giovanni IV Crispo (1517-1564). Il suo lunghissimo regno fu caratterizzato dalla progressiva erosione dei suoi possedimenti ad opera dei Turchi e dalla crescente influenza esercitata da Venezia sul ducato. La caduta di Rodi nel 1522 lasciò infatti il ducato in prima linea nella lotta contro gli Ottomani.
Nell'estate del 1537 le isole dell'arcipelago vengono investite dalla flotta ottomana al comando del Barbarossa (Kheir-ed-Din). Cadono quasi senza opporre resistenza Schiros, Patmos, Egina, Stampalia e Nio. A Paros, il feudatario locale, Bernardo Sagredo, si rinchiude nella fortezza di Kephalos ma dopo pochi giorni è costretto ad arrendersi per mancanza di rifornimenti.
Le truppe del Barbarossa sbarcano quindi a Nasso devastandone le campagne e cingendo d'assedio la capitale. Giovanni IV, asseragliato nella fortezza di Epanokastro nell'entroterra, accetta l'offerta del Barbarossa e paga un tributo annuo di circa 5.000 ducati (pari a circa la metà delle rendite annue del ducato) e la flotta ottomana si ritira (2).

Ariadeno Barbarossa (Kheir-ed-Din)
scuola italiana del XVI secolo, 1580
Kunsthistorisches Museum, Vienna

Il ducato si trasforma così in un protettorato ottomano soggetto al pagamento del tributo, a restrizioni in materia di politica estera (divieto di intrattenere relazioni amichevoli con i nemici della Sublime Porta) ma conserva il diritto di trasmettere la successione per via ereditaria.
Per far fronte al tributo il duca dovette inasprire la pressione fiscale sui suoi sudditi, determinando lo spopolamento del ducato.
Secondo un diplomatico veneziano che visitò il ducato nel 1563 soltanto le isole di Nasso, Paros, Syros, Milos e Santorini erano ancora abitate; nel 1564 l'isola di Nasso aveva una popolazione di 6000 abitanti, 500 dei quali latini. Prima del 1517 Giovanni IV si era sposato con Adriana Gozzadini, da cui ebbe due figlie femmine, un maschio che morì (1550) prima di lui ed il figlio Giacomo che gli successe alla sua morte.

Giacomo IV Crispo (1564-1566). Nel 1566, a causa della sua dissolutezza, i cittadini di Naxos fecero appello al sultano Selim II perchè lo rimuovesse dalla carica. Giacomo si recò a Costantinopoli per perorare la sua causa ma fu spogliato del suo titolo e dei suoi beni ed imprigionato. Al suo posto il sultano nominò l'ebreo di corte Giuseppe Nasi (3) che mantenne il titolo fino alla sua morte (1579). I cittadini si appellarono nuovamente al sultano chiedendo il rilascio e la restaurazione di Giacomo giacchè non volevano essere governati da un ebreo. Giacomo fu rilasciato ma senza però essere reinsediato come duca. Si recò dapprima in Morea e quindi a Roma con la sua famiglia, il Senato veneziano gli riconobbe un appannaggio e morì a Venezia nel 1576.

Note:

(1) Nella spartizione dei possedimenti dell'impero bizantino che seguì la presa di Costantinopoli da parte della Quarta Crociata (1204), l'isola di Eubea toccò ai veneziani. Essi lasciarono però che un nobile fiammingo, Jacques d' Avesnes, la conquistasse e ne prendesse possesso in nome del re di Tessalonica, Bonifacio I di Monferrato, che ve lo insediò come feudatario. Alla morte di questi, nel 1205, l'isola fu divisa in tre settori (terzieri): quello settentrionale, con capitale Oros (Rio), in cui fu insediato Pecoraro da Marcanuovo, quello centrale, con capitale Chalkis (Negroponte), in cui fu insediato Giberto dalle Carceri e quello meridionale, con capitale Karystos (Clissura), in cui fu insediato Ravano dalle Carceri. Nel 1209 Ravano delle Carcerì riunì però tutta l'isola sotto il suo controllo e si riconobbe vassallo della Serenissima che nominò un bailo che risiedeva a Chalkis. Il sistema triarchico non fu però abolito, anzi alla morte di Ravano (1216), il bailo veneziano, richiesto di intervenire nella disputa tra gli eredi per la successione, divise addirittura ogni terziere in due (sestieri). Nel 1365 la Serenissima acquistò dalla Compagnia catalana che lo aveva conquistato nel 1317 il terziere meridionale ed alla morte degli ultimi due triarchi, Niccolò III dalle Carceri (1383) e Giorgio III Ghisi (1390) ricevette in eredità gli altri due terzieri ed assunse il controllo diretto di tutta l'isola.

(2) La scelta del duca fu dettata da considerazioni politiche più che da necessità militari. Le fortezze dell'acropoli di Nasso e quella di Epanokastro erano infatti ben munite e avrebbero potuto sostenere l'assedio, considerando anche che il Barbarossa non avrebbe potuto proseguire la campagna durante l'inverno. Il duca ritenne di non essere stato aiutato adeguatamente dalla Serenissima e scelse di salvare il ducato piuttosto che battersi fino alla fine per un alleato da cui si sentiva abbandonato.


(3) Giuseppe Nasi, un ebreo portoghese che svolse importanti incarichi diplomatici e amministrativi presso la corte ottomana sotto Solimano il magnifico (1520-1566) e Selim II (1566-1574), non si recò però mai a Nasso, amministrando il ducato dalla sua residenza sul Bosforo per mezzo di un altro ebreo di origini spagnole, Francesco Coronello, da lui nominato governatore. Alla morte di Nasi, il territorio del ducato passò sotto il diretto controllo dell'amministrazione ottomana.






domenica 15 settembre 2013

La guerra di san Saba (1255-1270)

La guerra di san Saba (1255-1270)

La guerra di San Saba fu combattuta tra il 1255 e il 1270 tra la Repubblica di Venezia e la Repubblica di Genova, per il controllo del commercio in Oriente. Il casus belli fu il possesso del monastero di San Saba, nella città di Acri.
Tra il 1260 e il 1265 il conflitto si estese all'Impero di Nicea e quindi al ricostituito Impero bizantino.
Genova, pur essendo rimasta esclusa dalla spartizione dell'impero bizantino del 1204 – in cui i veneziani avevano fatto la parte del leone - possedeva tuttavia alcune colonie commerciali, in particolare nelle città costiere della Siria e della Palestina, dove, a seguito del sostegno fornito nel corso delle Crociate agli Stati d'Outremer aveva ricevuto numerosi quartieri.

Le due repubbliche possedevano entrambe due ampi quartieri a San Giovanni d'Acri, capitale del Regno di Gerusalemme dopo la caduta della città santa.

I quartieri acritani di Venezia (9) e Genova (14) con il forte di Mongioia (11)
 
Nel 1255 nacquero ad Acri dei contrasti tra Veneziani e Genovesi per il possesso del Monastero di San Saba, rivendicato da ambo le parti.
Il console genovese Simone Vento esibiva al Patriarca una lettera del Priore degli Ospitalieri che riconosceva alla Superba il possesso della chiesa e del monastero, ma il bailo veneziano Marco Giustinian era rientrato ad Acri recando una missiva dello stesso pontefice Alessandro IV, nella quale si riconoscevano i diritti veneziani.
Lo scoppio di risse in città tra le due fazioni e l'arrivo di una nave genovese che i Veneziani sostennero essere frutto di un atto di pirateria fecero infine infiammare la situazione già di per sé esplosiva.

I Genovesi attaccarono le navi veneziane presenti in porto, rivolgendosi poi contro lo stesso quartiere veneto, che fu dato alle fiamme.
Venezia, informata dell'accaduto, pretese riparazione da Genova, ma, non ricevendo soddisfazione, strinse alleanza con Pisa e Marsiglia e le città della Provenza, affidando al futuro doge Lorenzo Tiepolo il comando di una flotta per portare la guerra nei mari del Levante.
I Genovesi dal canto loro ottennero il sostegno del Re di Gerusalemme, del Re d'Armenia Aitone e del Signore di Tiro Filippo di Montfort.


Nel 1256, le navi veneziane piombarono su Acri, forzarono il porto, spezzandone la catena che ne proteggeva l'accesso, e distruggendo tutte le navi genovesi presenti, in breve seguite dal quartiere genovese, che fu dato alle fiamme. Cadde infine anche il castello, detto del Mongioia.
A questo punto, i genovesi chiesero ed ottennero una tregua di due mesi.
Ne approfittarono per far giungere dieci galee da Cipro, al comando di Paschetto Mallone e altre dalle altre colonie, mentre allo stesso modo i Veneziani facevano affluire rinforzi da Candia. Nello scontro che ne seguì nelle acque di Tiro i genovesi persero quattro navi, tra cui la stessa ammiraglia, mentre un'altra flotta veneta prendeva Mesembria e attaccava tutte le navi genovesi lungo la rotta per Costantinopoli.

Nel 1257 Genova fu scossa dalle lotte interne che portarono al potere Guglielmo Boccanegra (1257-1262), il quale, nuovo Capitano del Popolo, provvide ad inviare immediatamente una nuova flotta in Oriente, al comando dell'anziano ammiraglio Rosso dalla Turca. Venezia rispose inviando ad Acri venti galee al comando di Paolo Falier e dieci al comando di Andrea Zeno, per unirsi alla flotta del Tiepolo.
La nuova battaglia ebbe luogo il 24 giugno 1258, nelle acque di Acri: venticinque galee genovesi vennero catturate, i magazzini e il quartiere genovese nuovamente saccheggiati e distrutti.
Sotto gli auspici di papa Alessandro IV si giunse infine alla tregua: i Genovesi accettarono di abbattere le fortificazioni del proprio quartiere in Acri e di rinunciare ai privilegi che avevano in quella città, ma quando il Patriarca di Gerusalemme pretese da Veneziani e Pisani la restituzione delle fortezze che essi possedevano in Acri, la guerra si riaccese.


In questa grande tavola, opera di Francesco Montemezzana (1540-1620), incassata nel soffitto della Sala dello Scrutinio nel Palazzo ducale di Venezia, è raffigurato l'imbarco del bottino sulle navi veneziane dopo il saccheggio del quartiere genovese del 1258. Sulla sinistra, sollevato da un paranco, si nota uno dei cosiddetti pilastri acritani, perché all'epoca in cui fu realizzato il dipinto era diffusa la credenza che provenissero dal sacco del quartiere genovese di Acri.

Nel 1259 il nuovo imperatore niceno, Michele VIII Paleologo, si mostrava fermamente intenzionato a riconquistare Costantinopoli e a porre fine all' Impero Latino, retto dal debole Baldovino II.
Venezia si sobbarcò quasi da sola la difesa del traballante impero, ma il 13 marzo 1261 Genova stipulò con Nicea il Trattato di Ninfeo, che consentì da una parte ai Bizantini di riconquistare con un colpo di mano Costantinopoli (25 luglio 1261), ponendo fine all'Impero Latino, con la protezione della flotta genovese, e dall'altra permise a Genova di trovarsi in una posizione di forza nei territori del restaurato impero bizantino. I Genovesi ottennero nella città un intero quartiere, al di là del Corno d'Oro, detto Galata.
La Serenissima reagì inviando una potente flotta a difendere i propri possedimenti nell'Egeo e trenta galee nel Mar Nero, al comando di Giacomo Dolfin. Una volta riunitesi le due flotte, l'armata veneziana, nell'estate del 1262, si presentò nelle acque di Tessalonica, dove si trovava la flotta greco-genovese forte di sessanta legni, ma questa non rispose alla provocazione e non ingaggiò battaglia. I liguri si ritirarono poi a svernare a Genova.
Venezia ne approfittò per istigare i Duchi dell'Arcipelago ad inviare navi per razziare la costa fino a Costantinopoli, ma la squadra navale venne intercettata sulla via del ritorno dalla flotta greca: fu una strage.


Battaglia di Settepozzi: nel maggio o nel giugno del 1263 una flotta greco-genovese forte di 38-39 galee e dieci navigli leggeri diretta a Monemvasia si scontrò con una squadra veneziana di 32 galee al comando dell'ammiraglio Gilberto Dandolo nelle acque dell'isola di Spetses nel golfo dell'Argolide. I greco-genovesi persero 4 galee e l'ammiraglio Pietro Grimaldi, affiancato al comando da Paschetto Mallone, rimase ucciso nel corso della battaglia ma riuscirono comunque a riparare su Monemvasia. Secondo gli Annales Ianuensis, la flotta greco-genovese ingaggiò battaglia in maniera disordinata e scomposta: quando venne dato il segnale di attacco solo 14 galee avanzarono contro il nemico.

 
Nello stesso anno Venezia schierò sul teatro di guerra altre cinquantaquattro galee agli ordini di Andrea Barozzi, il quale, dopo aver dato inutilmente la caccia alle forze genovesi, attaccò Tiro.
La squadra navale genovese di Simone Grillo, invece, assalì una muda (convoglio mercantile) veneziana di undici navi, ma le merci più preziose furono portate al sicuro a Ragusa, impedendo il saccheggio ai Genovesi.

Battaglia di Trapani: il 23 giugno del 1266 ebbe luogo, nelle acque tra Trapani e Ragusa, una battaglia decisiva. La flotta genovese forte di ventotto galee al comando di Lanfranco Borborino si scontrò con quella veneziana forte di ventiquattro galee al comando di Giacomo Dondulo e Marco Gradenigo.
Malgrado godesse di un lieve vantaggio numerico e trovandosi anche in favore di vento, Borborino preferì assumere una posizione strettamente difensiva, ponendo le sue galee l'una accanto all'altra e legandole fra loro a formare una fortezza galleggiante ancorata a breve distanza da terra. Questa misura si rivelò un grave errore perché Dondulo attaccò con decisione e, dopo due tentativi respinti, al terzo assalto riuscì a gettare lo scompiglio fra gli equipaggi genovesi, molti dei cui componenti, tra i quali numerosi erano i mercenari di scarsa affidabilità, si gettarono in mare cercando scampo sulla costa siciliana ed abbandonando al nemico le loro navi, che furono tutte catturate pressoché intatte, tranne tre che, staccatesi dalle altre, vennero raggiunte ed incendiate.

La sconfitta genovese mise l'Imperatore bizantino - Andronico II Paleologo - nella difficile condizione di dover affrontare da solo la flotta veneziana, così il basileus si risolse a firmare un accordo di tregua quinquennale con la Repubblica .

La guerra tra Genova e Venezia continuò a trascinarsi, ma senza episodi eclatanti.
Venezia, nel frattempo provvide a stabilizzare il proprio controllo del mare Adriatico creando una squadra navale permanente con il preciso compito di vigilare su tutte le navi in transito, riscuotere i dazi, impedire l'ingresso non autorizzato a navi armate e contrastare il contrabbando, sotto il comando del cosiddetto "Capitano del Golfo".
Infine, nel 1270, in prossimità dello scadere del quinquennio di tregua con Bisanzio, venne firmato il Trattato di Cremona (22 agosto 1270) per siglare la pace tra Venezia, Genova e Costantinopoli.


domenica 1 settembre 2013

Chiesa di S.Giorgio, Rodi città

Chiesa di S.Giorgio

La chiesa di S.Giorgio vista dall'alto.
Sullo sfondo si vedono le fortificazioni del bastione omonimo
 
Si trova al n.18 di Apollonian street nella città di Rodi, a ridosso del bastione di S.Giorgio.
E' una chiesa a tetraconco con quattro absidi semicircolari all’interno e tripartite all'esterno.
E' sormontata da una da un'alta cupola centrale ripartita in venti nicchie alte e strette, quattro delle quali traforate da finestre.
 
 
Risale alla fine del XIV secolo; nel 1447 fu annessa ad un convento francescano e furono aggiunti il nartece sostenuto da contrafforti sulla facciata occidentale e il portico voltato a croce sul lato nord.
Fu trasformata dai turchi in una medrese (scuola coranica) - prese il nome di Kourmali medrese (kourmali=vicino alle palme dei datteri) - di cui sono ancora visibili i resti del mihrab.
All'interno, resti di affreschi del XIV e del XV secolo.
 
La facciata occidentale del nartece aggiunto alla metà del XV secolo, sormontata da un frontone triangolare e a cui si appoggiano archeggiature di contrafforte.
 
Veduta dell'interno con le conche absidali Ovest, Nord e Sud