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domenica 2 giugno 2013

La Campagna d'Africa (533-534)

La Campagna d'Africa (533-534)

 
I Bizantini avevano ragioni sia politiche che strategiche per riconquistare le province dell'Africa proconsolare sottratte dai Vandali all'impero d'Occidente nel 435.
Nel 530 il re vandalo Ilderico, favorevole a Costantinopoli, era stato deposto e imprigionato dall'usurpatore Gelimero, fornendo a Giustiniano un pretesto legale per intervenire. In ogni caso Giustiniano voleva il controllo del territorio dei Vandali nel Nord Africa, vitale per garantire ai Bizantini l'accesso al Mar Mediterraneo occidentale.
Giustiniano chiese inizialmente la restaurazione di Ilderico, ma Gelimero ovviamente rifiutò. L'imperatore chiese quindi che almeno Ilderico venisse liberato e inviato in esilio a Costantinopoli, minacciando la guerra nel caso anche questa richiesta fosse stata rifiutata. Gelimero, non intendendo consegnare un rivale per il trono a Giustiniano, che lo avrebbe utilizzato per gettare discordia nel regno vandalico, e probabilmente sospettando che la guerra sarebbe scoppiata in ogni caso, rifiutò affermando che era una questione di politica interna del regno vandalico.



Gelimero raffigurato al verso di una moneta da 50 denarii


Poco dopo la sua ascesa al potere, la posizione di Gelimero cominciò comunque ad indebolirsi in quanto prese a perseguitare i suoi avversari politici  tra l'aristocrazia vandalica, confiscandone le proprie proprietà e giustiziando molti di essi. Queste azioni minarono la già dubbia legittimità del suo regno agli occhi di molti, e contribuirono allo scoppio di due rivolte nelle province remote del Regno vandalico: in Sardegna, dove il governatore locale, Godas, si autoproclamò re indipendente dell'isola, e, poco tempo dopo, in Tripolitania, dove la popolazione nativa si era rivoltata contro la dominazione vandalica sotto il comando di un certo Pudenzio, un romano lì residente.
Il fatto che entrambe le rivolte siano scoppiate proprio poco tempo prima della spedizione romana contro i Vandali, e che sia Godas che Pudenzio chiesero immediatamente rinforzi a Giustiniano, sembra suggerire un coinvolgimento diplomatico attivo dell'Imperatore nello scoppio delle rivolte.

Gelimero reagì alla rivolta di Godas inviando la maggior parte della sua flotta, 120 dei suoi migliori vascelli, e 5.000 uomini sotto il comando di suo fratello Tzazon (detto anche Zano o Zazo) per reprimerla. La decisione del re vandalo giocò un ruolo cruciale nell'esito finale della guerra, in quanto, con la potente flotta vandalica (insieme a parte dell'esercito) impegnata altrove a reprimere la rivolta in Sardegna, lo sbarco dei Romani in Africa poté procedere senza ostacoli.
Gelimero scelse inoltre di trascurare la rivolta in Tripolitania, in quanto era una rivolta molto meno seria e in una regione più remota. Giustiniano inviò invece dalla confinante Cirenaica un piccolo contingente di truppe per sostenere la rivolta di Pudenzio.
Nello stesso tempo l'imperatore si assicurò il sostegno del Regno ostrogoto d'Italia, il quale era in urto con i Vandali a causa dei maltrattamenti subiti della principessa ostrogota Amalafrida, sorella di Teodorico il grande e vedova del re vandalo Trasamundo (1). La corte ostrogota accettò quindi di buon grado di consentire alla flotta di invasione romana di adoperare il porto di Siracusa in Sicilia e aprì un mercato per l'approvvigionamento delle truppe romane in quel luogo.
 
Nella tarda estate del 533 Belisario - posto da Giustiniano al comando della campagna con il titolo di strategos autokrator - salpò da Siracusa per l'Africa al comando del corpo di spedizione bizantino e, dopo aver fatto scalo a Malta, sbarcò con l'esercito nei pressi di Caput Vada, sulla costa occidentale dell'attuale Tunisia a circa 162 miglia romane (240 km) a sud da Cartagine.
Secondo Procopio, che era al seguito del generale in qualità di suo segretario, il corpo di spedizione imperiale era formato da 10.000 fanti - in parte provenienti dall'esercito di campo (comitatenses) e in parte dai foederati, e da 5.000 cavalieri. Vi erano inoltre circa 1.500–2.000 dei soldati privati di Belisario (bucellarii), un reggimento d'élite (che potrebbe essere stato incluso nel totale di Procopio per la cavalleria). In aggiunta, facevano parte della spedizione anche due corpi di truppe alleate, con arcieri a cavallo, 600 Unni e 400 Eruli. L'esercito era condotto da ufficiali di esperienza, come l'eunuco Salomone, che fu scelto da Belisario come suo domesticus, e l'ex prefetto del pretorio Archelao, al quale fu affidato il compito di provvedere all'approvvigionamento dell'esercito. L'intera armata fu trasportata su 500 vascelli contenenti 30.000 marinai sotto la guida dell'ammiraglio Calonimo di Alessandria.
Da Caput Vada, Belisario marciò alla testa dell'esercito lungo la strada costiera che conduceva a Cartagine mentre la flotta risaliva a sua volta la costa fiancheggiando l'esercito.
Il generale distaccò 300 cavalieri al comando di Giovanni l'Armeno come avanguardia a circa 3 miglia (4,5 km) davanti all'esercito principale, mentre i 600 Unni coprivano il fianco sinistro. Belisario stesso con i suoi bucellarii condusse la retroguardia, per prevenire ogni attacco di Gelimero, che sapeva trovarsi nelle vicinanze.


Battaglia di Ad Decimum
Gelimero, con 11.000 uomini sotto il suo comando, inizialmente avanzò con decisione per posizionarsi in un punto favorevole posto sulla strada per Cartagine e da lì affrontare i 15.000 uomini di Belisario.
Divise quindi le proprie forze inviando 2.000 uomini sotto il comando del nipote Gibamondo nel tentativo di attaccare il fianco sinistro dell'esercito di Belisario, che in quel punto della strada era costretto ad avanzare in una stretta e lunga colonna.
Un altro contingente formato da altrettanti uomini e richiamato da Cartagine al comando del fratello di Gelimero, Ammata, ricevette il compito di contenere l'esercito nemico in una gola presso Ad Decimum (al decimo miglio della strada per Cartagine). Gelimero stesso, con il grosso dell'esercito, sarebbe arrivato alle spalle degli imperiali completando l'accerchiamento.
La mattina del 13 settembre, il decimo giorno dall'inizio della marcia a Caput Vada, l'esercito imperiale giunse nelle vicinanze di Ad Decimum, dove Gelimero aveva pianificato di preparare l'imboscata e accerchiarli.

 
Sviluppo del piano di accerchiamento predisposto da Gelimero
 
Il piano, tuttavia, fallì, in quanto i tre eserciti vandali non riuscirono a sincronizzare i loro movimenti in modo esatto: Ammata arrivò troppo in anticipo e fu ucciso mentre alla testa di un numero troppo esiguo di soldati si scontrava con l'avanguardia romana. Il distaccamento di Gibamundo fu intercettato dai mercenari unni posti da Belisario a difesa del fianco sinistro e annientato mentre lo stesso Gibamundo trovava la morte.
 
Ammata viene sconfitto dalla cavalleria di Giovanni l'Armeno (1) che insegue i superstiti che ripiegano su Cartagine (3); il distaccamento di Gibamundo viene messo in rotta dagli unni che proteggono il fianco sinistro dell'avanzata imperiale
 
Ignaro di questi avvenimenti, Gelimero marciò con l'esercito principale, e si scontrò con le truppe romane che avevano raggiunto Ad Decimum.
Il grosso delle truppe di Gelimero inflisse serie perdite alle truppe di Belisario: i foederati al comando di Salomone furono infatti messi in rotta dai Vandali che, anche se inferiori sul piano numerico, combattevano in maniera più efficace.
 
 
Quando tuttavia Gelimero raggiunse le posizioni di Ammata e scoprì che anche il fratello era stato ucciso, si perse d'animo e, perdendo tempo prezioso nel seppellirne il corpo sul campo di battaglia, non diede l'ordine finale d'assalto, che avrebbe probabilmente distrutto le fiaccate truppe romane e impedito ai mercenari Unni che poco prima avevano sconfitto Ammata e Gibamondo di ricongiungersi con l'esercito di Belisario.
Guadagnato del tempo prezioso, Belisario fu abile nel raggruppare le proprie forze a sud di Ad Decimium e a lanciare il contrattacco, che respinse i Vandali e li mise in fuga. Gelimero fu costretto allora ad abbandonare Cartagine.
 
 
Belisario si accampò vicino al campo di battaglia, non volendo avvicinarsi troppo alla città durante la notte.
Il mattino dopo marciò su Cartagine, ordinando ai propri uomini di non uccidere o ridurre in schiavitù la sua popolazione poiché riteneva i suoi abitanti cittadini romani sottoposti al giogo vandalo.
Domenica 15 settembre, con al fianco la moglie Antonina, fece solenne ingresso a Cartagine fra urla di giubilo di una popolazione provata dal duro giogo barbaro e stupefatta dalla generosità con la quale era stata ordinata alle soldatesche l'astensione da ogni razzia. Decise inoltre di ricostruire immediatamente le fortificazioni intorno a Cartagine.
Cacciato da Cartagine, Gelimero si stabilì a Bulla Regia in Numidia (le cui rovine sono poste oggi lungo il confine occidentale della moderna Tunisia), all'incirca 100 miglia a Ovest dalla capitale del Regno.
Consapevole di non potere far fronte da solo alle preponderanti forze di Belisario, inviò dei messaggeri al fratello Tzazon, ancora impegnato con le proprie truppe in Sardegna per reprimere la rivolta di Godas.
Non appena ricevuto il messaggio, quest'ultimo si affrettò a ritornare in Africa per unire le proprie truppe a quelle del fratello.
Nel frattempo Gelimero cercava con tutti i mezzi di dividere le forze alleate a Belisario. Offrì ricompense alle tribù berbere e puniche locali per ogni testa di soldato romano che queste gli avessero portato e inviò dei messaggeri a Cartagine cercando di portare nei propri ranghi con forti offerte di denaro i mercenari Unni al seguito del condottiero bizantino, decisivi nella battaglia di Ad Decimum.
Tzazon e le sue truppe si unirono a Gelimero nel dicembre.
Ritenendo il suo esercito abbastanza forte per sconfiggere il nemico, il re vandalo passò dunque all'offensiva distruggendo il grande acquedotto che riforniva di acqua potabile la città di Cartagine.
Nelle 12 settimane che erano trascorse da Ad Decimum Belisario aveva intanto fortificato la città ma, venuto a conoscenza dei piani di Gelimero e ritenendo di non potersi fidare per lungo tempo dei mercenari Unni, invece di aspettare un probabile assedio, uscì da Cartagine con il proprio esercito e con gli Unni in coda alla colonna.
 
Battaglia di Tricamarum
Il 15 dicembre i due eserciti si scontrarono a Tricamarum, 30 miglia ad ovest di Cartagine. 15.000 romani contro circa 50.000 vandali.
Le due forze si incontrarono appena fuori la città e la cavalleria catafratta romana, guidata da Giovanni l'Armeno, immediatamente ruppe le linee dei Vandali attaccando e ritirandosi per tre volte.
Durante la terza carica Tzazon fu ucciso sotto gli occhi di Gelimero che, come era già successo ad Ad Decimum, si perse d'animo e fece arretrare le truppe che in breve ripiegarono disordinatamente verso il campo fortificato.
Gelimero, compreso che tutto era perduto, fuggì con un piccolo seguito in Numidia, mentre i rimanenti Vandali cessarono di resistere e abbandonarono il loro accampamento al saccheggio dei Romani.

Gelimero si ritirò prima ad Hippo Regius (Ippona) e poi si asserragliò nella cittadina di Medeus sul Monte Papua, dei cui abitanti Mauri poteva fidarsi. Belisario inviò un distaccamento di 400 eruli al comando di Fara ad assediare la roccaforte. L'assedio si protrasse per tutto l'inverno, soltanto in marzo infatti, dopo aver ricevuto l'assicurazione che sarebbe stato risparmiato e trattato bene, il re dei Vandali accettò la resa.
Nell'aprile 534, venne restaurato il vecchio sistema provinciale romano con la ricostituzione della prefettura del pretorio d'Africa - a cui fu preposto l'eunuco Salomone - che perdurò fino al 590 circa quando l'imperatore Maurizio (582-602) la riorganizzò in Esarcato.

(1) La sorella di Teodorico il grande, Amalafrida, aveva sposato nel 500 Trasamondo, re dei Vandali - a cui aveva portato in dote la città siciliana di Lilibeo - nell'ottica di consolidare l'alleanza tra i due popoli. Alla morte del marito (523), quando il suo successore Ilderico diede seguito ad una politica filobizantina e richiamò dall'esilio i vescovi ortodossi, Amalafrida si pose a capo della fazione ariana che si ribellò anche con le armi a questa politica. Fu quindi arrestata e gettata in prigione dove morì. 



 






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