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lunedì 7 maggio 2012

La guerra di Morea (1684-1699)



La guerra di Morea (1684-1699)

Leone di San Marco, Leone di Venezia, l'arma
cristiana è al varco dell'Oriente... (F.Guccini, Asia)

Rappresenta l'ultima avventura espansionistica della Serenissima Repubblica di Venezia protesa alla riconquista dei vecchi possedimenti in Dalmazia e in Grecia. Il conflitto si inserisce nel contrattacco vittorioso della Lega Santa formatasi per liberare Vienna dall'assedio turco e per dare modo alle forze cristiane di cominciare una guerra offensiva e di conquista nei territori del declinante Impero Ottomano.
Le campagne del Peloponneso alimentarono vittoria dopo vittoria l'esaltazione e la curiosità dei veneziani per la guerra. Si creò un clima che la crescente circolazione di informazioni tratte dai documenti provenienti dal fronte fomentava fino a forme di vera e propria isteria collettiva, le cui più fortunate espressioni sono le grandi feste barocche e le apoteosi in vita e in morte del generale doge ed eroe massimo Francesco Morosini.
La fine del '600 coincise quindi con l'ultimo momento di gloria militare della Serenissima.

Il 25 aprile del 1684 la Repubblica, che ad un invito identico rivoltole pochi anni prima aveva risposto con un saggio rifiuto, non seppe questa volta resistere alle sollecitazioni del papa Innocenzo XI; si illuse di poter riconquistare Candia, Cipro e Negroponte, ricostituire il suo impero coloniale e le sue fortune e aderì alla Lega Santa.
Il 16 giugno il segretario di delegazione Giovanni Cappello che fungeva da bàilo consegnò alla Sublime Porta la dichiarazione di guerra. Così, dopo quattordici anni di pace, si riaccendeva la guerra con il Turco, alla direzione della quale furono messi Francesco Morosini come capitano generale, il conte Niccolò di Strassoldo quale comandante delle truppe da sbarco, e Antonio Zeno con la carica di provveditore della Dalmazia e dell'Albania.

Bartolomeo Nazzari, Ritratto del doge Francesco Morosini (1690 c.ca)
Museo Correr, Venezia
 
La fortuna, fin dal principio, arrise ai Veneziani. Mentre Zeno si spingeva vittorioso fino a Castelnuovo, il Morosini con la flotta pontificia, toscana e maltese investiva con grande vigore l'isola di Santa Maura, tra Corfù e Cefalonia, e dopo sedici giorni, nel luglio del 1684, la costringeva alla resa. Di là il conte di Strassoldo sbarcava sulla terraferma, occupava nei primi giorni dell'autunno Preveza (29 settembre) mentre cominciavano a ribellarsi al turco l' Epiro, l'Albania e la Morlacchia, stanchi dell'oppressione ottomana.
Allora il Morosini volse le armi contro le fortezze di Corone, Modone e Navarino che dovevano aprirgli la via alla conquista della Morea.
Prima ad esser conquistata fu Corone, che assediata da novemila cinquecento soldati, dopo quarantasette giorni di assedio capitolò (11 agosto 1685); si arresero poi Sarnata, Calamata, Kelefa, Passavas, il forte di Mistrà e proseguendo di vittoria in vittoria, nel 1685 e nel 1686, conquistò Navarino, Modone, Argo e Nauplia (29 agosto 1686), ne mise in stato di difesa le fortificazioni, rinnovò le milizie e si preparò a nuove imprese.
La campagna del 1687 registrò nuove vittorie e nuove conquiste. Il grande ammiraglio veneziano, che aveva impiegate tutte le sue ricchezze per allestire una flotta, espugnò Patrasso, Corinto e Lepanto; riconquistando così in tre anni di vigorosa guerra quasi tutta la Morea alla Serenissima, la quale ebbe notizia dell' importante conquista mentre il Consiglio Maggiore era adunato per l'elezione dei magistrati cittadini. La vittoria fu celebrata con un solenne ufficio divino in San Marco, e il Senato decretò che nella sala del Consiglio dei Dieci fosse conservato lo stendardo tolto al Serraschiere e venisse collocato un busto in bronzo del Morosini con l'epigrafe: Francisco Mauroceno Peloponnesiaco adhuc viventi Senatus.

Francesco Morosini intanto non riposava sugli allori. Conquistata la Morea, portava le armi nelle regioni vicine, occupava Sparta e Mistrà e con il conte Otto Wilhelm Von Konigsmark, che nel 1686 aveva sostituito il conte di Strassoldo al comando delle truppe da sbarco, si volgeva contro Atene.
Il 21 settembre le truppe della Serenissima sbarcano al Pireo - allora noto come Porto Leone - senza incontrare resistenza. I turchi si asserragliano sull'Acropoli e respingono la richiesta di arrendersi.
Il 23 le artiglierie veneziane cominciano a battere la rocca. I Turchi, fidando nella resistenza offerta dal tetto di pietra e nel fatto che i cristiani non avrebbero bombardato quella che era stata una chiesa (il tempio era infatti stato convertito già in epoca bizantina nella chiesa di Nostra Signora Atheniotissa), ripongono all'interno del Partenone tutte le munizioni e le loro famiglie. Un disertore ne mette al corrente i veneziani.
Il 26 entrano in azione i mortai veneziani e la sera stessa una bomba centra in pieno il tempio causando l'esplosione della polveriera e trecento morti.
Il 28 settembre, la guarnigione turca, dopo aver visto la cavalleria di Konigsmark sbaragliare la colonna di aiuti inviata da Tebe, innalza la bandiera bianca sulla torre dei Franchi ed il giorno successivo viene firmata la resa.
Il Morosini, che dopo la morte del doge Marcantonio Giustiniani, era stato nell'aprile del 1688, chiamato a succedergli nell'altissima carica, mosse contro Negroponte, ma per la prima volta dopo l'inizio di questa guerra, la fortuna volse le spalle alle armi veneziane: la resistenza ostinata dei Turchi, le malattie (il 15 settembre morì lo stesso Konigsmark, vittima della peste) e l'azione poco concorde delle milizie mercenarie frustrarono i tentativi del Morosini e malgrado qualche scontro favorevole ai veneziani, la spedizione fallì. I Turchi cercarono di trarre profitto da questo insuccesso del nemico ed avanzarono proposte di pace, ma le condizioni imposte dalla repubblica furono così onerose che le trattative vennero interrotte e la guerra continuò.
Nel 1689 Francesco Morosini espresse il desiderio di ritentare l' impresa di Negroponte, ma l'insufficienza delle forze di cui disponeva e l'opposizione degli altri capitani, lo costrinsero a rinunziarvi. Allora egli si volse contro Malvasia (Monemvasia) per condurre a termine la conquista della penisola greca e già le operazioni contro questa piazza ne facevano prevedere prossima la caduta, quando il Morosini si ammalò e dovette tornarsene a Venezia, cedendo il comando delle operazioni a:

Girolamo Cornaro: Questi si mostrò degno successore del grande doge: stretta maggiormente Malvasia, la costrinse sul finire dell'agosto del 1690 alla resa. Né questo fu il suo unico trionfo; avendo saputo che la flotta turca era uscita per difendere la piazza, le corse incontro e nelle acque di Mitilene la sbaragliò, quindi, piombato fulmineamente su Valona, se ne impadronì di sorpresa. Venezia non riuscì a godere a lungo dei suoi successi, i quali vennero rattristati dalla morte di Cornaro.
Al suo posto venne nominato al comando:

Domenico Mocenigo: che deliberò di tentare il riacquisto di Candia, cosa - scrive il Battistella - che stava sempre in cima ai desideri della Repubblica e a cui non aveva creduto di cimentarsi lo stesso Morosini, ben sapendo come i Turchi l'avessero messa in ottimo stato di difesa e vi facessero buona guardia.
L'armata veneta fece rotta pertanto verso la Canea nella speranza di poterla avere al primo impatto, ma il colpo non riuscì e si dovette disporre in un regolare assedio. Pareva che la fortuna assecondasse le armi veneziane, tanto che, in breve si erano avviate trattative con gli abitanti favorevoli alla resa della città, allorché il Mocenigo, impensierito per certe voci sparse nel campo che i Turchi si accingevano a sbarcare in Morea e ad assalirla durante l'assenza della flotta, nonostante il consiglio e le esortazioni di alcuni ufficiali diffidenti, senza curarsi di appurare la verità, volle improvvisamente levare l'assedio e partire per contrastare quell'assalto immaginario. Fu destituito e punito: ma il male commesso per la sua inettitudine e sconsideratezza era irrimediabile e l'occasione di riacquistare Candia andò perduta per sempre .

La Repubblica si rivolse ancora al Morosini e tornò a nominarlo capitano generale. Il glorioso vecchio accettò quel gravoso incarico lieto di poter giovare ancora alla patria e la moltitudine dei suoi concittadini andò sul lido a salutarlo commossa e ad augurargli nuove vittorie (24 maggio 1693).

Gregorio Lazzarini, Il doge Morosini offre la Morea riconquistata a Venezia, olio su tela, 1694
Palazzo ducale, sala dello Scrutinio, Venezia

Ma il grande condottiero era stanco e in là con gli anni e non poteva sostenere lle fatiche di una nuova campagna; tuttavia non lievi vantaggi ottenne sul mare contro il nemico e strappò ai Turchi alcune isole fra cui Salamina. Erano questi gli ultimi suoi trionfi: nuovamente ammalatosi a Nauplia, vi morì settantacinquenne nel gennaio del 1694.
La sua salma venne trasportata a Venezia e venne accolta con grandi manifestazioni e cordoglio da quel medesimo popolo che otto mesi prima gli aveva rivolto il saluto augurale. Il doge fu tumulato nella chiesa di santo Stefano dove riposa tutt'ora.
Al Morosini successe nel comando Antonio Zeno, che nel settembre del 1694 riprese agli ottomani l'isola di Chio: ma la sua titubanza gli impedì di conseguire una maggiore vittoria: infatti non osò affrontare una flotta turca che incrociava in quelle acque e quando questa prese il largo alla volta di Smirne egli la inseguì così da lontano da lasciarla fuggire senza recarle alcun danno.
I Turchi tornarono all'attacco nell' inverno del 1695 con una forte flotta comandata da Hussein pascià e dal corsaro Hassan Mezzomorto, i quali nelle vicinanze di Chio costrinsero Zeno alla battaglia. Questa si svolse con grande accanimento dall'una e dall'altra parte.
Singoli atti di valore non mancarono fra i Veneziani, ma mancò loro l'energia e la sapienza del comando e questa sola fu la causa della sconfitta. La vittoria dei Turchi mise Chio in grave pericolo, che però si sarebbe potuto scongiurare se Zeno fosse rimasto a difenderla o ne avesse affidata la difesa al provveditore Giustino Riva che si era offerto di difendere l'isola dal nemico. Ma Zeno volle abbandonarla e Chio poco dopo ricadde in potere dei Turchi. Richiamato a Venezia e messo in carcere per questa sua dannosa condotta, nel 1699 Antonio Zeno vi morì mentre si istruiva il processo contro di lui.

Nel 1697 il provveditore Antonio Molin respinse uno sbarco dei Turchi sulle coste della Morea e, scontratatosi con la flotta ottomana nelle acque di Chio, le infliggeva una dura sconfitta vendicando l'onta patita dallo Zeno.
L'anno dopo, il provveditore straordinario Girolamo Dolfin, mandato a vuoto un tentativo contro l' isola di Tine, inseguì la flotta nemica fin dentro i Dardanelli, dove il 30 settembre del 1699 si combattè una furiosa battaglia nella quale gli Ottomani riportarono danni considerevoli.
Questa battaglia fu seguita da altri scontri vittoriosi per le armi della Repubblica che, con il blocco dei Dardanelli effettuato da Dolfin, si assicurava il possesso delle isole dell'Arcipelago delle Cicladi e del Peloponneso e la padronanza quasi assoluta del Mediterraneo.
Il 26 gennaio del 1699 fu firmata la pace tra l'Austria, la Polonia, la Russia e la Turchia (Trattato di Karlowitz) e il 21 febbraio anche Venezia sottoscrisse il trattato. In virtù di esso la Repubblica conservava la Morea, Egina, Santa Maura e le conquiste fatte nella Dalmazia e nell'Albania; scambiava i prigionieri e non pagava più il tributo per l'isola di Zante; restituiva però Lepanto e le isole dell'Arcipelago e si impegnava ad abbattere le fortificazioni delle Rumelia e di Preveza. Inoltre il trattato stabiliva che si delimitassero i confini della Dalmazia e dell'Albania.

Nel 1714 i turchi, che avevano riportato una vittoria sulla Russia nel Mar Nero, intuiscono che l'Austria è snervata ed esausta e, confidando di cogliere Venezia priva di alleati, portano un decisivo attacco alla Morea e la riconquistano, incontrando una resistenza molto blanda da parte dei comandanti delle fortezze veneziane. I Turchi rivolgono quindi le loro mire su Corfù e flotte cristiane, in particolare contingenti portoghesi e pontifici, accorrono in aiuto della Serenissima.
La difesa della piazzaforte è affidata a Von Schulemberg e grazie anche alla vittoria del principe Eugenio di Savoia al comando delle truppe austriache nella battaglia di Petervaradino (5 agosto, 1716) Corfù è salva. I veneziani allora riprendono le operazioni per mare ma sono costretti dall'Austria ad una pace che riterranno poco onorevole e quasi offensiva delle virtù dimostrate nel corso del conflitto. Il trattato (pace di Passarowitz, 21 luglio1718) sancì infatti la definitiva perdita della Morea e di Candia.

mercoledì 12 ottobre 2011

La spedizione in Morea di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1464-1466)

La spedizione in Morea di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1464-1466)

Sigismondo Pandolfo Malatesta
ritratto nel Corteo dei Magi di Benozzo Gozzoli (1459)
Cappella dei Magi, Palazzo Medici Riccardi, Firenze
 
 
Marzo 1464: Sigismondo Pandolfo Malatesta viene nominato dalla Serenissima capitano generale in Morea; gli è concessa una provvigione mensile di 300 fiorini ed una condotta di 1200 cavalli. Per la leva delle truppe riceve una prestanza di 80 fiorini per lancia, di 20 fiorini per ogni cavalleggero e di 3 fiorini per ciascun fante. La ferma è stabilita in due anni. Il cardinale Bessarione ufficia la solenne messa cantata nella basilica di San Marco, alla fine della quale si procede alla consegna delle bandiere e del bastone di comando.

Maggio: Incominciano i primi imbarchi per la Morea; da Rimini salpano prima 7 marani e dopo pochi giorni altri 6 carichi di soldati, per un migliaio di cavalli. Altri uomini, assoldati nel padovano, sono caricati nei porti di Conche e di Chioggia.

Giugno-Luglio: Si imbarca sulla galea del sopracomito Baldassarre Trevisan con una quarantina di giovani delle più note famiglie di Rimini in qualità di “squadrieri”, in realtà come ostaggi e pegno di fedeltà datigli dai cittadini. La dilazione della sua partenza è dovuta ad una congiura ordita da alcuni fuoriusciti con la connivenza del vescovo di Sessa, governatore pontificio della Romagna.
Prima di allontanarsi dall’Italia, Malatesta manifesta il desiderio che Venezia intervenga sul papa affinché gli siano restituite alcune terre nel contado di Rimini, come promessogli a suo tempo: la risposta è ovviamente negativa.
Dopo un viaggio di quattordici giorni, in cui tocca Pescara e Brindisi, attraversa il canale di Otranto e raggiunge il porto di Kalamata. A metà luglio è a Modone.
Assale Mitilene per terra e per mare: i turchi hanno la meglio e fra i veneziani sono uccisi il capitano del Golfo Angelo Pesaro ed altri sopracomiti.
Malatesta ha ai suoi ordini 4000 uomini tra cavalieri e fanti, invece dei previsti 3000 cavalieri e 5000 fanti. I soldati che ha a disposizione hanno inoltre il morale basso per il ritardo delle paghe, la mancanza di vettovaglie e di foraggio: inevitabili sono, pertanto, le violenze ai danni della popolazione locale che, spesso, invoca la protezione dei turchi a sua difesa.

Agosto: Presto si rende edotto della reale situazione delle sue truppe: non può riprendere le operazioni dal punto in cui le aveva lasciate Bertoldo d’Este (1) e cingere di assedio Corinto, perché gli mancano i mezzi necessari; cerca di ripristinare la disciplina facendo impiccare una ventina dei colpevoli dei maggiori crimini.
Fa imprigionare più di un centinaio di soldati riottosi agli ordini e rispedisce a Venezia in catene alcuni capitani; addestra all’azione le truppe per niente allenate e disposte alle fatiche ed ai disagi della guerra. Alletta, in particolare, i suoi uomini mandandoli a saccheggiare qualche borgata o castello controllato dai turchi; con successive incursioni recupera il braccio di Maina e, con un fortunato colpo di mano, si impadronisce della città bassa di Mistrà.

Settembre: mentre assedia la rocca di Mistrà, il sopraggiungere delle truppe di Omar bey lo obbliga ad uscire dalla città ed a trincerarsi in un posto vicino con terrapieni, fossati e con vari ostacoli o sbarre, tra alte scarpate di roccia viva. Malatesta, le cui truppe sono nettamente inferiori di numero, rimane costantemente sulla difensiva e permette ai suoi uomini solo qualche scaramuccia.

Dicembre: Decide di ripiegare da Mistrà, per una serie di motivi che vanno dallo scarseggiare di vettovaglie e di munizioni, alle malattie, all’avvicinarsi del freddo ed al rafforzamento dell’esercito nemico, che minaccia di chiudergli le vie del ritorno.
Fa trasportare in Italia i resti di Giorgio Gemisto Pletone che saranno inumati a Rimini nel Tempio malatestiano.
 
La Tomba di Gemisto Pletone nel Tempio Malatestiano di Rimini

Sotto una pioggia battente ed in condizioni climatiche altamente sfavorevoli, effettua la ritirata delle sue milizie per vie inusuali e meno sorvegliate dai turchi.
Strada facendo attacca Patimo, espugna il castello e ne fa a pezzi il presidio; fra le sue truppe, più di metà dei sopravvissuti si ammala di malaria; molti soldati muoiono per il freddo e la fame.

Gennaio-febbraio 1465: Ripiega su Modone ed anch’egli è colpito dalla malaria. Seguono aspri contrasti con il provveditore Andrea Dandolo, finché costui è revocato dal suo incarico per essere sostituito con Giacomo Barbarigo. La contesa con il Dandolo, d’altra parte, non è nuova, ma risale a dieci anni prima per una relazione sentimentale del Malatesta con la moglie di questi - Aritea Malatesta - e per il mancato pagamento della dote della donna, nonostante i suoi impegni formali. Si ferma a Nauplia a curarsi.

Primavera: Scoppiano disordini a Rimini, alimentati dalle notizie del suo cattivo stato di salute. Cerca pretesti per lamentarsi della situazione militare e protesta per la mancanza di mezzi per affrontare i turchi in modo adeguato. Guarito, non compie altro che una infruttuosa scorreria verso Corinto. Rapporti conflittuali, peraltro,  Malatesta li ha anche con il nuovo capitano generale della flotta Giacomo Loredan.

Luglio: Chiede di rientrare in Italia per un breve periodo ed ottiene un netto rifiuto.
A Kalamata, dove si trova trincerato da quasi un mese, decide di attaccare nuovamente Mistrà : non ne sortisce nulla per la troppa disparità di forze in campo a favore dei turchi.
Si sposta a Mantinea, dove sorprende un contingente di 1000 uomini in un accampamento presso la Caritina: sono uccisi e fatti prigionieri molti soldati. Il bottino ammonta a 10 padiglioni, 120 cavalli, 600 tra buoi e vacche, 2000 castrati e molti animali tra somari, muli e maiali.
Ritorna a Mantinea per la mancanza di foraggio per la cavalleria; contro il parere del Barbarigo, trasferisce il campo a San Sion, Kalamata, Castel Leone presso Corone, e, infine, a La Cosura verso Castelfranco.

Agosto: Porta più avanti le sue linee e giunge a Castri nei pressi di Mistrà: gli vengono contro 14000 turchi, si ritira a Corone e provvede al rafforzamento dei passi di accesso al braccio di Maina con alcune guarnigioni. Respinge da Longanico le truppe di Omar bey, che hanno iniziato ad assediare il locale castello.

Settembre-novembre: Ha a sua disposizione solo 1000 uomini fra cavalli e fanti: la maggior parte delle sue truppe, infatti, di fronte agli avversari sembra essersi quasi volatilizzata. L’evoluzione della guerra è tale che  Malatesta perde sempre più la stima dei veneziani; i rettori di Nauplia lo accusano di viltà e di corruzione. Le rimostranze hanno successo, per cui viene accettata la sua richiesta di licenza, nonché la domanda per la riduzione della condotta da due anni a diciotto mesi.

Dicembre: Rientra in Italia con 30 o 40 uomini : il resto delle truppe da lui raccolte lascerà la Grecia solo all’arrivo in Morea del nuovo governatore Girolamo Novello.


(1) Bertoldo d'Este aveva preceduto Sigismondo Malatesta nella carica di Capitano generale delle truppe veneziane in Morea. Gravemente ferito sotto le mura di Corinto era morto a Negroponte dodici giorni dopo nel novembre 1463.







venerdì 29 luglio 2011

Morea, Introduzione

La Morea  

1685

  A partire dal XII secolo, il Peloponneso fu chiamato Morea dai Crociati a causa della forma della penisola, somigliante ad una foglia di gelso, ma anche a causa dell'importanza che aveva quell'albero nella penisola.
Nella spartizione dell'impero bizantino seguita alla caduta di Costantinopoli ad opera dell'armata latina della quarta crociata, il Peloponneso fu assegnato al marchese Bonifacio I del Monferrato, designato re di Tessalonica.
Il compito di conquistare la penisola fu dato da Bonifacio a Guglielmo di Champlitte, al quale si unì quale vassallo Goffredo I di Villehardouin, nipote del cronista.
I due conquistarono Patrasso e quindi procedettero sistematicamente alla conquista della Morea, senza incontrare resistenza da parte delle autorità bizantine. Soli seri oppositori furono alcuni potenti nobili (arconti) dell'interno dell'Arcadia e della Laconia, timorosi di perdere le loro terre. La sconfitta dell'esercito di Michele I Ducas Comneno nella battaglia dell'oliveto di Koundouras (1205), nella piana della Messenia, pose però fine ad ogni resistenza, così che Guglielmo di Champlitte poté sottomettere l'intera Arcadia, mentre il Villehardouin, ottenuto in feudo l'importante porto di Kalamata, si impadronì della Messenia.
Con la fine del 1205, Champlitte assunse il titolo di principe d'Acaia con il consenso di Bonifacio di Monferrato. Per consolidare il proprio potere egli cercò di accordarsi con la nobiltà greca, alla quale lasciò il possesso dei loro vasti latifondi, mantenendo una ferrea disciplina all'interno del suo esiguo numero di cavalieri franchi, così da evitare disordini e violenze. La sua correttezza e il suo alto senso della giustizia gli permisero così di affermare uniformemente il proprio potere su tutto il Peloponneso, sebbene nel 1206 dovette accettare che i Veneziani occupassero le due piazzeforti di Modone e Corone, in quella parte della penisola che era stata loro assegnata nella spartizione del 1204. Per compensare la perdita di queste due terre, Champlitte cedette al Villehardouin l'Arcadia, facendone così il più potente barone del principato. Fu pertanto naturale che, quando nel 1208 Champlitte fu costretto a fare ritorno in Borgogna per recuperare l'eredità del proprio fratello maggiore, Villehardouin fu da lui lasciato quale balivo per governare il principato in sua assenza. Champlitte morì nel corso del viaggio verso la Francia e di lì a poco la stessa sorte toccò al nipote Ugo, da lui designato quale suo luogotenente, così che l'intera eredità degli Champlitte ricadde su un bambino di neppure un anno.
Villehardouin, con il consenso dei baroni franchi, si proclamò allora Principe d'Acaia e riuscì ad ottenere da papa Innocenzo III e dall'Imperatore latino di Costantinopoli il riconoscimento della sua Signorìa sull'Acaia, l'Elide, la Messenia e su parte dell'Arcadia.

PRINCIPATO D'ACAIA (1205-1432)

1205-1209 Guglielmo di Champlitte
1209-1218 Goffredo I di Villehardouin
1218-1245 Goffredo II di Villehardouin, primogenito del precedente. Sposò Agnese, figlia di Pietro di Courtenay, imperatore di Costantinopoli. Alla sua morte fu sepolto nella chiesa di San Giacomo, nella capitale Andravida.
1245-1278 Guglielmo II  Villehardhouin, fratello di Goffredo II. Sotto il suo governo il principato raggiunse l'apice della sua potenza ma iniziò già con lui a declinare; costruì la fortezza di Mistrà come capitale del principato. Nel 1249 conquistò Monemvasia. Nel 1251 fece costruire la fortezza di Maina (detta anche Megali Maina o Grand Magne) nella penisola del Mani.
Sposò in prime nozze (1239) Agnese di Toucy, figlia di un notabile dell'impero latino di Costantinopoli. Nel 1246 sposò in seconde nozze Carintana delle Carceri, figlia di Rizzardo, signore di un terziere dell'Eubea.
Rimasto vedovo (1255), nel 1259 sposò in terze nozze la figlia del suo alleato, il despota d'Epiro Michele II Dukas Comneno, Anna (Agnese) Angelina Comnena, da cui ebbe le figlie Isabella e Margherita, ma fu sconfitto duramente dai bizantini a Pelagonia nel 1259, proprio per  la defezione dei suoi alleati epiroti.

Battaglia di Pelagonia (settembre 1259)
Nel 1259 l'imperatore niceno Michele VIII affidò a suo fratello Giovanni Paleologo, che era il Sebastocrator, il comando di un forte contingente di truppe che si trovava nei Balcani, affiancandogli in subordine il generale Alessio Strategopulo che ricopriva la carica di Gran Domestico e il generale Giovanni Raul Petraliphas. Poco dopo Michele VIII diede ordine di attaccare i suoi nemici, fra cui molti latini, e anche parecchi ducati greci formatisi dopo la caduta di Costantinopoli per mano crociata nel 1204, per impossessarsi della Tessaglia. Così nel 1259 l'esercito niceno conquistò la Tessaglia, ma nel settembre dello stesso anno la lega greco-latina formata dagli epiroti del Despotato, dai franchi del Principato d'Acaia, e dai normanni del Regno di Sicilia, le cui forze si erano congiunte ad Elassona, marciò contro l'esercito niceno.
I due eserciti si affrontarono nella piana di Pelagonia (nei pressi dell'attuale città di Bitola in Macedonia).
L'entità delle forze in campo non è del tutto chiara, probabilmente l'esercito niceno, rafforzato da mercenari occidentali, schierava 8.000 fanti e 1.600 cavalieri mentre le forze alleate erano nettamente superiori di numero. Ragione per la quale i comandanti niceni fecero marciare anche i contadini inquadrati come fossero reggimenti e inviarono nel campo epirota un falso disertore che ingigantisse nel descriverla la consistenza delle loro forze.
Michele II, despota d'Epiro e Guglielmo II di Villehardhouin, principe d'Acaia, si fidavano poco l'uno dell'altro. Il despota Michele II e il figlio Giovanni “il bastardo” – nato dalla relazione extraconiugale tra il despota e la sua amante Gaggrini – che comandava un contingente di valacchi assegnatigli dal suocero Taron, ritenevano infatti che, appena si fossero scontrati coi niceni, i latini sarebbero fuggiti in modo che l'esercito del despotato potesse essere massacrato. Inoltre lo storico bizantino Giorgio Pachymeres, racconta che Giovanni passò dalla parte dei bizantini, perché Guglielmo II di Villehardouin lo aveva insultato ricordandogli come fosse nato da una relazione extraconiugale, in più la sera prima Giovanni aveva convinto molti soldati a disertare, a causa del suo litigio con Guglielmo, cosicchè anche Michele II abbandonò il campo con il contingente epirota.

La piana di Pelagonia
 
Quando iniziò lo scontro, Giovanni Paleologo si ritrovò a combattere solamente contro la cavalleria pesante di Manfredi di Sicilia (circa 400 cavalieri catafratti tedeschi) e di Villehardouin (che schierava il fior fiore della nobiltà latina di Grecia).
Giovanni Paleologo dispose in prima linea i mercenari tedeschi, i suoi migliori soldati, dietro questi dispose i soldati serbi e ungheresi e in una terza linea, se stesso e tutti i Greci, mentre gli arcieri cumani e ungheresi occupavano i fianchi dello schieramento.
Dal momento che Giovanni Paleologo aveva schierato in prima linea i mercenari tedeschi che servivano nel suo esercito, Villehardhouin fece lo stesso con i suoi cavalieri tedeschi e ne affidò il comando al barone di Karytaina mentre egli stesso prese il comando della seconda linea di cavalleria, dietro cui ne schierò una terza e infine due linee di fanteria.
La battaglia ebbe inizio quando le due prime linee vennero a contatto, il barone di Karytaina disarcionò e uccise il comandante nemico e la prima linea bizantina fu subito in grossa difficoltà. L'intervento degli arcieri a cavallo cumani e ungheresi – che pur inutili contro le pesanti armature dei cavalieri latini ne falcidiarono le cavalcature rendendoli facile preda della fanteria – rovesciò le sorti dello scontro e la seconda linea di cavalleria al comando dello stesso Villeardhouin intervenuta a sostegno subì la stessa sorte della prima.
L'esercito della lega antinicena era in rotta, tutti i suoi componenti stavano scappando, nessuno più resisteva, per i bizantini fu un compito facile inseguire e massacrare i resti della armata nemica.
I cavalieri di Manfredi si arresero, mente Villehardouin fuggì nascondendosi in un pagliaio nei pressi di Castoria, ma, raggiunto e catturato, fu riconosciuto per via dei suoi denti sporgenti e condotto al cospetto di Giovanni Paleologo.
Rimase in cattività fino al 1262, allorché, per essere liberato, dovette consegnare al ricostituito Impero bizantino le fortezze di Mistrà, Monemvasia e di Maina.

Principato d'Acaia e Morea bizantina nel 1278

Nel 1267, con il Trattato di Viterbo, Carlo I d'Angiò ottenne dall'esautorato imperatore latino di Costantinopoli - Baldovino II - l'alto dominio sul Principato d'Acaia.
Nel 1271 in virtù del matrimonio celebrato tra la figlia primogenita di Villerdhouin, Isabella, ed il figlio del sovrano angioino, Filippo d'Angiò, quest'ultimo assunse anche il dominio diretto del Principato. Filippo morì però nel 1277 senza lasciare eredi.
Nel 1278, alla morte di Guglielmo II, il dominio diretto tornò ai sovrani angioini.
1287-1289, Nicola II di Saint Omer, Signore di Tebe, ricopre la carica di bailo del Principato per conto del regno angioino di Napoli.
Nel 1289, a seguito del nuovo matrimonio di Isabella con il conestabile del regno di Napoli Florent d'Hainault, Carlo II d'Angiò restituì alla coppia il dominio diretto sul Principato*.
1289-1297 Isabella di Villehardhouin con il marito Florent d'Hainault.
Rimasta nuovamente vedova, nel 1301 si risposa con Filippo di Savoia.
1301-1307 Isabella di Villehardhouin con il marito Filippo di Savoia
Per il suo piglio autoritario, Filippo di Savoia s'inimicò i baroni locali e nel 1304 fu costretto ad accettare l'istituzione di un parlamento che avrebbe limitato i suoi poteri. Nel 1307 Carlo II d'Angiò, a seguito di una rivolta dei contadini vessati dall'eccessiva tassazione, privò Filippo e Isabella del dominio e v'infeudò il figlio Filippo I di Taranto.
Da questo momento il Principato fu squassato da una serie di conflitti feudali tra i vari pretendenti al titolo frantumandosi in baronie locali, di fatto indipendenti dal fatiscente potere centrale, che furono progressivamente riassorbite dalla provincia bizantina di Morea.
1307-1313 Filippo I d'Angiò, principe di Taranto.
1313-1318 Matilde d'Hainault, figlia di Isabella di Villehardouin e Florent d'Hainault. Nel 1313 sposò in seconde nozze Luigi di Borgogna, re titolare di Tessalonica, che morì nel 1316.

Battaglia di Manolada (5 luglio 1316)
Nella piana di Manolada nella regione dell'Elide si affrontarono gli eserciti di Luigi di Borgogna e Ferdinando di Majorca, pretendenti al trono del Principato in virtù dei rispettivi matrimoni. Luigi di Borgogna era infatti il marito di Matilde d'Hainault mentre l'infante di Majorca aveva sposato Isabella di Sabran, a cui la madre Margherita di Villehardouin, sorella minore di Isabella, aveva ceduto i suoi diritti sul Principato. L'esercito borgognone, rafforzato da 2.000 greci inviati dallo stratego bizantino di Mistrà Michele Cantacuzeno, avanzava da Patrasso verso Clarentza dove Ferdinando si era asserragliato in attesa di ricevere rinforzi da Majorca e dal Ducato di Atene. Temendo che questi non arrivassero in tempo e di finire assediato a Clarentza senza rifornimenti, Ferdinando lasciò la città ed andò incontro al nemico nonostante la forte inferiorità numerica.
Dopo un successo iniziale, durante il quale Ferdinando riuscì a sfondare la prima fila dell'esercito nemico comandata da Nicola Orsini (futuro conte di Cefalonia e despota d'Epiro), un attacco laterale delle truppe scelte di Luigi di Borgogna diede la svolta decisiva allo scontro. Ferdinando, le cui truppe si dispersero in una rotta rovinosa, rinunciò a fuggire e fu catturato da un ignoto soldato, che lo decapitò. Luigi di Borgogna non potè ad ogni modo godere a lungo della vittoria, morendo avvelenato un mese dopo la battaglia e lasciando la giovane Matilde al governo del traballante Principato.

Nel 1318 Filippo I d'Angiò fece rapire e portare a Napoli Matilde, costringendola a sposare il fratello Giovanni, duca di Durazzo, al fine di ristabilire il controllo angioino sul Principato. Matilde - che nel frattempo aveva sposato segretamente Ugo di La Palice - rifiutò però di concedersi al nuovo marito ed il matrimonio fu annullato nel 1321. Sposando Ugo di La Palice, Matilde aveva però violato il lascito della madre Isabella secondo il quale le figlie titolari del principato di Acaia non avrebbero potuto contrarre matrimonio senza il consenso del sovrano di Napoli. Il Principato rimase quindi a Giovanni di Durazzo e Matilde fu rinchiusa nel Castel dell'Ovo a Napoli.
 
1318-1333 Giovanni d'Angiò-Durazzo, duca di Durazzo.
1333-1364 Roberto di Taranto, principe di Taranto.
1364-1373 Filippo II d'Angiò, principe di Taranto.
1373-1381 Giovanna I di Napoli.
1381-1383 Giacomo del Balzo, principe di Taranto. Ereditò il titolo alla morte dello zio Filippo II d'Angiò, fratello della madre Margherita. Per stabilire il suo controllo sul Principato, contesogli da Giovanna I di Napoli, richiese i servigi della Compagnia di Navarra, il cui comandante, Mahiot di Coquerel, nominò balivo del principato.
1383-1386 Carlo III (Angiò-Durazzo) di Napoli. Alla morte di Giacomo del Balzo, re Carlo III di Napoli ereditò la titolarità del Principato senza mai riuscire a prenderne possesso, questo continuò infatti ad essere governato de facto dal comandante della Compagnia Mahiot di Coquerel.
1386-1396 Ladislao I (Angiò-Durazzo) di Napoli. Come suo padre non riuscì a ristabilire il controllo sul Principato che continuò ad essere governato dalla Compagnia di Navarra, al cui comando, alla morte di Mahiot (1386), era subentrato il suo luogotenente Pedro Bordo di San Superano.

Ladislao I e Giovanna II di Napoli
Andrea Guardia e aiuti, Monumento funebre di Ladislao I, 1414-1428
chiesa di S.Giovanni a Carbonara, Napoli

1396-1402 Pedro Bordo di San Superano. Nel 1396 San Superano si accordò con Ladislao per ottenere la titolarità del principato in cambio di 3.000 ducati, cosa che avvenne senza peraltro che questi saldasse mai completamente il suo debito. San Superano rafforzò la sua posizione sposando Maria Zaccaria, figlia di Centurione I Zaccaria, titolare della baronia d'Arcadia (l'attuale Kyparissia) e Gran Conestabile del Principato. Alla sua morte, Maria assunse la reggenza del Principato.
1402-1404 Maria Zaccaria (reggente).
Nel 1404 il re di Napoli Ladislao I insignì Centurione II Zaccaria – che aveva ereditato dal padre Andronico Asen Zaccaria la baronia d'Arcadia – del titolo di Principe d'Acaia. Centurione cercò di rafforzare la sua posizione sposando Creusa Tocco, figlia di Leonardo II Tocco, Gran Conestabile del Despotato d'Epiro e sorella di Maddalena (Teodora) moglie di Costantino Dragaze (il futuro despota di Morea e imperatore di Bisanzio). Ciononostante fu ripetutamente attaccato dai suoi nuovi parenti.
Nel 1429, assediato senza speranza da Tommaso Paleologo nella rocca di Chalandritsa, accettò di dargli in moglie la sua unica erede** Caterina che alla sua morte avrebbe portato in dote ai bizantini la baronia d'Arcadia che era tutto ciò che restava del Principato latino d'Acaia. Ritiratosi nella sua baronia, Centurione II morì nel 1432.

* L'investitura era subordinata ad una clausola: sarebbe decaduta se Isabella o la figlia o la nipote si fossero risposate senza il sovrano consenso. Questa clausola fece valere Carlo II spodestò Isabella nel 1307, giacché aveva sposato Filippo di Savoia senza chiedere il suo consenso.

** Centurione ebbe anche un figlio illegittimo, Giovanni Asen Zaccaria, che nel 1446 - quando il sultano Murad II distrusse l'Hexamilion ed inflisse una pesante sconfitta a Costantino Dragazes allora despota di Morea – fu imprigionato da Tommaso Paleologo nella fortezza di Chlemoutsi insieme alla vedova di Centurione, Creusa Tocco, per aver capeggiato una rivolta dei baroni locali e da cui evase nel 1453 per porsi nuovamente alla testa di una rivolta contro i Paleologi.

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La provincia bizantina di Morea venne inizialmente organizzata come governatorato: lo stratego, dopo alcuni anni in cui governò da Monemvasia, ebbe sede a Mistrà.
Al fine di evitare pericolose spinte centrifughe, la permanenza in Morea dei governatori, in genere legati alla famiglia regnante, era molto breve, per lo più cambiati con cadenza annuale, ed il primo fu Michele Cantacuzeno, avo del futuro basileus.

DESPOTATO DI MOREA (1308-1460)
La pratica di sostituire annualmente i governatori di Morea ebbe termine nel 1308, quando Andronico II, molto interessato a questa regione, pose al governo della Morea Michele Cantacuzeno, padre del futuro Giovanni VI.

1308-1316 Michele Cantecuzeno (stratego)
1316-1322 Andronico Asen (stratego)
1349-1380 Manuele Cantacuzeno (figlio di Giovanni VI, despota)
1380-1383 Matteo Cantacuzeno (fratello del precedente, despota)
1383-1384 Demetrio Cantacuzeno (figlio del precedente) proclamò l'indipendenza del despotato ma fu sconfitto da Teodoro Paleologo, figlio dell'imperatore Giovanni V che regnò al suo posto come despota.
1384-1407 Teodoro I Paleologo, sposa, senza avere figli, Bartolomea Acciaiouli, figlia di Neri I, duca di Atene.  Poco prima di morire prese l'abito monastico. E' sepolto nella Aphendikò di Mistrà.
1407-1443 Teodoro II Paleologo, figlio di Manuele II, che riceve l'incarico appena undicenne e a cui viene affiancato il protostrator Manuele Frangopulo.
Sposa Cleofe Malatesta da cui ha Elena Paleologa che andrà in sposa a Giovanni II di Cipro.

Teodoro II Paleologo, despota di Morea (1407-1443)
(1408)
Museo del Louvre, Parigi
 
La situazione si complicò nel dicembre del 1427, quando Giovanni VIII intervenne in Morea accompagnato dagli altri due fratelli, Costantino Dragaze e Tommaso, cui diede in appannaggio ampi territori del despotato: a Costantino il nord-ovest e a Tommaso un territorio vicino alle colonie veneziane di Corone e Modone. A Teodoro, che mai era stato in buoni rapporti con i fratelli, restava Mistrà. L'intervento fu l'occasione per un'opera di espansione militare in grande stile. La flotta romea sconfisse i Tocco alle Echinadi, di fronte al golfo di Patrasso, e Costantino pose l'assedio a Clarenza. La guerra ebbe una pausa in occasione del matrimonio tra Costantino stesso e Maddalena Tocco, che portò in dote al despota l'intero Peloponneso settentrionale, ma proseguì, ed ebbe il suo culmine nel 1430 con la conquista di Patrasso, feudo dell'arcivescovo Pandolfo Malatesta, tra l'altro fratello della moglie di Teodoro II ed imparentato con papa Martino V (1417-1425).
Nel 1429 Tommaso Paleologo, lasciato il suo appannaggio in cambio della città di Clarenza, assedia Centurione II Zaccaria a Chalandritsa e gli estorce la promessa di dargli in moglie la figlia Caterina che alla morte del padre (1432) gli porterà in eredità ciò che rimaneva del Principato di Acaia.
Nel 1435 Costantino Dragaze conquistò l'Attica, penetrò in Beozia e solo l'intervento ottomano riuscì a fermarlo. L'intero Peloponneso - eccetto i possedimenti veneziani di Modone, Corone, Navarino in Messenia, Argo e Nauplia nell'Argolide - e parte della Grecia continentale, erano nuovamente in mano ai bizantini.
Dal 1443 Costantino e Tommaso agirono da soli, poiché Teodoro II - col secondo fine d'esser vicino alla Capitale in caso di morte del basileus, da tempo malato - aveva ceduto Mistrà a Costantino, in cambio della città di Selimbria.
1443-1448 Costantino Dragaze. Dopo aver provveduto alla ricostruzione dell'Hexamilion (1), invase nuovamente l'Attica, costrinse il duca di Atene Nerio II Acciaiuoli a giurargli fedeltà e valicò il Pindo. Sul finire del 1446 il sultano turco Murad II reagì all'espansionismo del despota, fece bombardare per un mese l'Hexamilion che cadde il 10 dicembre e l'esercito ottomano dilagò per la Morea, ritirandosi, dopo averla messa a ferro e fuoco ed aver imposto ai Paleologi il pagamento di un forte tributo annuo, con 60.000 prigionieri. Alla morte del fratello Giovanni VIII (31 ottobre 1448), per volere della madre Elena, Costantino venne proclamato imperatore (2).
1449-1460 Tommaso e Demetrio Paleologo.
Durante l'assedio di Costantinopoli il sultano inviò un esercito in Morea per impedire che da lì giungessero soccorsi alla città.
Dopo la caduta di Costantinopoli consentì che i despoti continuassero a regnarvi come suoi vassalli.
Poco dopo 30.000 albanesi al comando di Pietro Bua insorsero contro i Paleologi, a questa rivolta si affiancò quella dei greci guidati da Manuele Cantacuzeno, nipote di Demetrio Cantacuzeno che era stato l'ultimo membro della famiglia a governare la Morea bizantina (1383-1384), nonché quella della componente latina guidata da Giovanni Asen Zaccaria, figlio illegittimo di Centurione II, evaso dalla fortezza di Chlemoutsi dove era stato rinchiuso. Per sedare la rivolta, i due fratelli furono costretti a ricomporre i dissidi, unire le forze e a richiedere il sostegno della Sublime Porta di cui erano vassalli. Nell'ottobre del 1454 un esercito ottomano, al comando del governatore di Tessalonica, Turahakan Beg, intervenne quindi in Morea e soffocò la rivolta.
Dopo un breve periodo di tregua, le ostilità tra i due fratelli si riaccesero. Tommaso si alleò con il Papa e i genovesi e sconfisse il fratello Demetrio che propendeva per gli ottomani, ma questi inviarono un esercito che costrinse Tommaso a rifugiarsi a Corfù e successivamente in Italia.
Maometto II non confermò però Demetrio nella carica di despota della Morea ed il 29 maggio 1460 l'esercito turco entrò a Mistrà, in cambio gli concesse invece in appannaggio la città di Ainos (l'attuale Enez, in Turchia) e alcuni possedimenti nelle isole di Imbro, Lemno, Samotracia e Tasos nonché un palazzo ad Adrianopoli e ne sposò la figlia Elena. Nel 1467, persa la benevolenza del sultano (forse a causa di alcune malversazioni del cognato Matteo Paleologo Asen), fu esiliato a Didymoteicho per essere riammesso a corte due anni dopo. Nel 1471, dopo la morte della seconda moglie Teodora Asanina, prese gli abiti monacali con il nome di Davide ma morì nel corso dello stesso anno.

Suddivisione dei territori del Despotato all'epoca della coabitazione tra Demetrio e Tommaso

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Nel 1464 la città bassa di Mistrà ed alcune fortezze moreote vennero brevemente occupate da Sigismondo Malatesta che fece traslare i resti del filosofo Gemisto Pletone nel tempio malatestiano di Rimini.(cfr.la spedizione in Morea di Sigismondo Malatesta).

1687-1715 conquistata dalla Lega Santa, la Morea rimase sotto controllo veneziano fino al 1715 (cfr. guerra di Morea).

Note:

(1) L'Hexamilion era una linea fortificata che sbarrava l'istmo di Corinto per tutta la sua larghezza (appunto “sei miglia”). Edificata per la prima volta durante il regno di Teodosio II (408-450) per difendere il Peloponneso dalle invasioni barbariche, cadde in disuso verso il VII secolo. Rimesso in opera da Manuele II a partire dal 1415, era stato distrutto da Murad II nel 1423.
Il tracciato dell'Hexamilion

(2) Secondo alcune fonti, il 6 gennaio 1449, Costantino Dragaze, despota di Morea, fu incoronato imperatore con il nome di Costantino XI nella chiesa di San Demetrio a Mistrà, alla presenza del fratello Tommaso e di due alti funzionari costantinopolitani inviati dall'imperatrice madre, Alessio Filantropeno Lascaris e Manuele Paleologo Iagari. Gran parte delle fonti sostengono tuttavia che Costantino Dragaze fu semplicemente proclamato imperatore, mentre la cerimonia d'incoronazione non ebbe affatto luogo.