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venerdì 25 settembre 2015

Le Centopietre, Patù

Le Centopietre, Patù


L'edificio detto delle Centopietre sorge nella zona ovest dell’abitato di Patù, in prossimità di piazza Marco Pedone e a una decina di metri dalla chiesa di San Giovanni Battista.
La costruzione si presenta come un parallelepipedo (con i lati rispettivamente di 7,25 e di 5,50 metri e l’altezza di 2,20 metri), con l'asse maggiore orientato in direzione NS, composto da enormi blocchi squadrati connessi a secco e inframezzati da inserimenti di colonne, capitelli ed altri elementi architettonici, probabilmente di recupero.
La copertura è formata da un tetto a doppio spiovente di 26 lastre tufacee megalitiche di m 2,40 l’una.
All'interno l'architrave che sostiene i lastroni di copertura è composta da tre blocchi parallelepipedi che poggiano su due colonne che dividono lo spazio interno in due navate.


Spicca il contrasto tra l'accurata fattura dei blocchi dell'architrave che, laddove l'intonacatura è caduta, rivelano la presenza di un fregio a metope e triglifi, e la rozzezza dei blocchi che formano le pareti ed il tetto.

Particolare del fregio dell'architrave

La porta che si apre sul lato meridionale costituisce probabilmente l'ingresso originario, mentre quella che si apre sul lato orientale sembra esser stata aperta successivamente scavando col piccone i blocchi di pietra.
L'edificio sembra essere stato costruito in epoca altomedievale (VIII-IX secolo) riutilizzando materiali provenienti da edifici preesistenti dell'antica Vereto.

Secondo la tradizione locale, l'edificio sarebbe stato eretto come sepolcro del cavaliere Geminiano. Tra l'875 e l'877, negli anni in cui fu re d'Italia, Carlo II detto il Calvo, su richiesta di papa Giovanni VIII, sarebbe sceso nel Salento con un esercito per contrastare la penetrazione araba. Dopo una serie di scaramucce, Geminiano sarebbe stato inviato per trattare una tregua nel campo nemico dove sarebbe stato catturato e trucidato. L'indomani, il 24 di giugno, festa di San Giovanni Battista, si sarebbe svolta nella località detta Campo Re una cruenta battaglia, nel corso della quale i cristiani avrebbero recuperato le spoglie dello sfortunato cavaliere e successivamente avrebbero quindi eretto l'edificio per tumularlo. Nei secoli successivi, sarebbe avvenuta la trasformazione del sepolcro in chiesa.
Di tutta questa storia, a partire dalla supposta spedizione in Salento di Carlo il Calvo, non c'è però alcuna traccia nelle fonti scritte.
Una cinquantina di tombe terragne sono però state rinvenute in una campagna di scavo condotta dal Prandi negli anni Cinquanta dentro e in prossimità del complesso e nel fondo adiacente, che ancora porta la denominazione di Campo Re, cinque delle quali, scavate nella roccia, sono tuttora visibili.
Un'altra ipotesi identifica nell'edificio un'antica laura basiliana, trasformata successivamente in oratorio e quindi decorata con pitture murali.
Nella sua Guida ai luoghi misteriosi d'Italia (Edizioni Piemme, 1996) infine, Cordier riporta una ipotesi raccolta in loco secondo la quale la costruzione sarebbe una delle più antiche della Magna Grecia, originariamente consacrata al dio Sole, sarebbe stata assorbita dal culto cristiano soltanto nel X secolo e dedicata a San Gimignano. Il culto solare si sarebbe perpetuato anche in epoca cristiana con la costruzione nello stesso sito della chiesa dedicata a San Giovanni Battista, la cui festa ricorre il 24 giugno in coincidenza con il solstizio d’estate.  

Affreschi:

All'interno dell'edificio, la Falla Castelfranchi ha rilevato nella decorazione parietale, anche se siamo di fronte a tracce ormai decisamente evanescenti, la stesura di 3 strati pittorici, il più antico dei quali riferibile al XIII secolo.
Si tratta di un ciclo di istanza votiva, tipico della decorazione degli ambienti rupestri: l’unica scena cristologica distinguibile è una Crocefissione posta sul muro nord e riferibile allo strato pittorico più tardo; allo stesso strato è riconducibile un san Giorgio presente sullo stesso muro settentrionale ma nella navata occidentale.

Frammento della mano e del braccio destro del Cristo nella Crocefissione
sul muro settentrionale

Le impronte pittoriche più chiare sono ubicate lungo la parete occidentale, con una teoria di tredici di santi inquadrati da arcatelle rette da colonnine: sono riconoscibili san Basilio, un probabile santo monaco e un gruppo di cinque sante, tra cui Lucia e Tecla; un’altra santa sembrerebbe somigliare a santa Caterina.

 
 
Parete occidentale: Tre santi
 
 
Parete occidentale: Il gruppo delle sante
 
Sulla stessa parete occidentale, ma in prossimità dell’innesto con il muro meridionale, è probabilmente dipinto San Giuliano con la sua tipica lunga capigliatura.
Alba Medea, nel 1939, ha potuto ancora individuare, sempre sulla parete occidentale, tracce di una Madonna che tiene in braccio il Bambino da un lato e di un'altra Madonna con il Bambino, di fronte. Quest'ultima, con le mani protese, potrebbe essere la Sant' Anna vista dal Diehl (1), rappresentata seduta in trono con la Vergine sulle ginocchia che porta a sua volta il Bambino e considerata “sia per la rarità del tema iconografico sia per la qualità dell'esecuzione che deve risalire all'XI secolo” di particolare importanza (A. Medea, Gli affreschi nelle cripte eremitiche pugliesi, 1939, pagg. 271-272).

Note:

(1) C. Diehl, L'art Byzantine dans l'Italie meridionale, Parigi, 1894, pag.87.


sabato 19 settembre 2015

La chiesa di San Pietro, Otranto

La chiesa di San Pietro, Otranto


Una leggenda vuole la chiesa legata al passaggio da Otranto dell'apostolo Pietro in viaggio verso Roma. Secondo alcune fonti sarebbe inoltre stata la prima sede della cattedra vescovile idruntina.
Ha una pianta a croce greca inscritta quasi quadrata ed è presumibilmente databile tra la fine del IX e la metà del X secolo, comunque molto prima della conquista normanna della città (1068).
In origine presentava anche un ingresso laterale ubicato sulla destra al quale era addossata una struttura absidata (costruito non molto tempo dopo l'edificio originario) in funzione di parekklesion.
Il santuario è tripartito con absidi semicircolari aggettanti all'esterno. La cupola centrale – priva di tamburo - è impostata su quattro colonne ed è traforata da quattro aperture (modificate in età barocca). Il pulvino è ricavato semplicemente scolpendo le estremità delle arcate sovrastanti, dando comunque slancio alle colonne.

La decorazione parietale originaria sopravvive soltanto nella volta della prothesis nelle scene dell'Ultima cena e della Lavanda dei piedi e, forse, nelle due figure superstiti degli evangelisti raffigurati nei pennacchi della cupola.
Ultima cena: da notare la prospettiva gerarchica, le proporzioni delle figure diminuiscono di grandezza a partire dal Cristo fino a Giuda che è quella più piccola ed il parapetasma – la tenda attorcigliata al bastone - che fa da sfondo alla scena.

L'Ultima cena

Lavanda dei piedi: l'iscrizione in caratteri greci riporta – pur con molti errori – il passo di Giovanni (XII, 8-9): Pietro gli disse: «Non mi laverai mai i piedi!» Gesù gli rispose: «Se non ti lavo, non hai parte alcuna con me». E Simon Pietro: «Signore, non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo!».
Da notare l'apostolo rannicchiato a terra come se si stesse slacciando i calzari.

La Lavanda dei piedi
 
Secondo alcuni studiosi questi affreschi mostrerebbero delle forti affinità stilistiche con quelli realizzati dal pittore Teofilatto nella cripta di Santa Cristina a Carpignano (959).

La vergogna dopo il peccato: nell'imbotte del braccio settentrionale della croce è raffigurato in forma abbreviata il ciclo della Genesi. L'albero con il serpente attorcigliato allude all'antefatto della scena della Vergogna dopo il peccato, con i Progenitori nudi davanti a Dio padre, che è invece rappresentata per esteso.

 
Battesimo: è rappresentato nell'imbotte del braccio meridionale. Cristo è dritto quasi fosse in croce (prefigurazione della morte e resurrezione) mentre la figura del Battista, oggi scomparsa, doveva probabilmente trovarsi a sinistra del Cristo. Gli angeli hanno le mani velate del velo omerale (la stola liturgica che copre spalle e braccia e che il sacerdote usa quando benedice il popolo con il Santissimo a significare l'impossibilità di toccare con mani impure ciò che è santo).
 
 
Secondo la Falla Castelfranchi questi affreschi sarebbero riconducibili allo stile comneno del tardo XII secolo (1).

Nel catino absidale è dipinta la Vergine in posizione di orante che tiene il Bambino benedicente tra le ginocchia ed è affiancata da due angeli inginocchiati. L'affresco è da attribuire al 1540, come recita la data dipinta sotto di esso, ma ripete probabilmente uno schema iconografico già presente in precedenza. Dunque non una Theotokos, cioè una Vergine con Bambino, bensì un’orante: questa precisa scelta va forse posta in relazione alla presenza di un’icona della Vergine attestata dalla fine dell’XI sec. nelle Vite di S.Nicola Pellegrino che, a giudicare da un sigillo dell’arcivescovo di Otranto, Gionata, lo stesso menzionato nel celebre pavimento musivo della cattedrale, presentava probabilmente l’immagine di una Vergine orante, iconografia mariana d’origine paleocristiana che ebbe grande fortuna anche in epoca mediobizantina.


Lungo l'arco absidale scorre un'iscrizione in caratteri pseudo cufici bianchi su fondo azzurro lapislazzuli (2). Ai lati dell'abside, ricoperti da strati di pittura più recente, si notano i resti dell'Annunciazione che apriva il ciclo cristologico.

Parete ed emivolta sinistra del bema
 
Sulla parete sinistra del bema è raffigurata l'Anastasis e sui due versanti della volta gli Apostoli a gruppi di sei per lato (raffigurazione della Pentecoste?). Sulla parete destra del bema, molto deteriorata, è raffigurata la scena della Natività.
Questi affreschi mostrerebbero l’adesione ai canoni della pittura bizantina d’epoca paleologa, in particolare, secondo la Falla Castelfranchi (La Chiesa di san Pietro ad Otranto, in Puglia preromanica: dal V secolo agli inizi dell'XI, pagg. 181-192, Milano 2004) la supposta Pentecoste, con le sue figure monumentali avviluppate in panneggi volumetrici antichizzanti, presenterebbe significative assonanze con il celebre ciclo di affreschi del monastero della SS. Trinità di Sopočani in Serbia (1265).

A sn. gli Apostoli dipinti nella chiesa di San Pietro, a ds., particolare della Dormizione della Vergine dipinta nella chiesa di Sopočani
 

Note:
 
(1) Questa fase tardocomnena della decorazione parietale potrebbe essere attribuita ad un pittore idruntino, Paolo, di cui riporta significative notizie un carme di Nicola-Nettario, il celebre igumeno (1220-35 ca.) del monastero bizantino di S.Nicola di Casole, ubicato a breve distanza dalla città, che aveva dipinto la phiale (fontana liturgica posta nell’atrio) di uno dei più importanti monasteri di Costantinopoli, quello della Theotokos Evergetis, intorno al 1200.

(2) L'iscrizione, rimasta leggibile solo in parte, non sembra comunque avere un senso compiuto ma soltanto un mero valore decorativo (cfr. Franco dell'Aquila, Il cufico in Puglia).



sabato 12 settembre 2015

La chiesa di Santa Marina, Muro leccese

La chiesa di Santa Marina, Muro leccese


La chiesa di Santa Marina venne eretta poco fuori dall’originaria cinta muraria di età messapica - riutilizzando i suoi stessi grossi blocchi di pietra calcarea - presumibilmente tra l'VIII ed il IX secolo.
Presenta attualmente sulla facciata occidentale un portale centrale decorato da un arco sormontato da una lunetta, una tempo probabilmente affrescata, e sopra di essa una cornice rettangolare che inquadra uno spazio in muratura liscia destinato nel ‘500, probabilmente, ad ospitare un’epigrafe o un bassorilievo. Nella stessa epoca venne aggiunto un campanile a vela in stile romanico. Sul lato orientale l’abside semicircolare e aggettante presenta una bifora divisa da un capitello a stampella su cui è scolpita una croce.


Un tempo, sui fianchi della chiesa erano ricavati due portichetti accoppiati che fungevano da accessi laterali, la cui presenza è tuttora testimoniato dai resti delle doppie arcate tamponate nel corso del X secolo.


A seguito della chiusura di queste arcate, sulle pareti interne si dispiegarono e si sovrapposero nuovi affreschi di Santi mentre alla facciata originaria della chiesa venne addossato un nuovo corpo di fabbrica così come si rileva da due cesure poste sulle fiancate esterne meridionale e settentrionale.
Contemporaneamente sulla facciata esterna sono ricavate anche due piccole finestrelle centinate e accoppiate poi chiuse e tamponate nel corso del XVI sec. Il nuovo ambiente che si crea, quindi, funge da vestibolo e anche in quest’area è ben visibile la sovrapposizione d’immagini su due strati di intonaco differenti.
La creazione del vestibolo davanti alla muratura dell’entrata originaria fa pensare ad un adeguamento della chiesa a katholikon di un monastero essendo il vestibolo un ambiente tipico delle strutture monastiche medio bizantine. Ipotesi supportata anche dalla raffigurazione nei sottarchi dei santi eremiti (S.Onorio e S.Macario nel primo sottarco; S.Antonio Abate ed un santo non identificato nel secondo).
 
La navata è coperta da una volta a botte che sostituisce l’originario tetto a doppia falda, come è osservabile esternamente dalla forma assunta dalla facciata absidale, con capriate in legno ricoperte da canne ed embrici.
Attorno all’XI sec. i cenni di cedimento della volta determinarono l’inserimento di tre spessi arconi trasversali di sostegno nell’aula e di uno nel vestibolo.

Affreschi:
Soltanto attorno al X sec. le pareti interne della chiesa vennero completamente ricoperte di affreschi mentre non c’è alcuna traccia di un impianto pittorico precedente o coevo alla fondazione dell'edificio. Questo ha fatto pensare che all'epoca della sua fondazione, la chiesa fosse in uso ad una comunità di stretta osservanza iconoclasta, ipotesi suffragata anche dalla presenza di una croce dipinta in rosso sulla parete settentrionale, frequente nella decorazione aniconica del periodo iconoclasta.

La croce dipinta sulla parete settentrionale

Nel vestibolo si distinguono alcune immagini frammentarie di Santi, riferibili al X secolo, tra i quali un San Giovanni Battista, identificato da un rotolo retto con la mano sinistra dove si legge in greco “io voce di uno che grida nel deserto”, e un San Giorgio a cavallo nell’atto di trafiggere il drago. Mentre S.Antonio Abate (nelle vesti di monaco ospitaliero e non in quelle di eremita come nella tradizione bizantina) e San Vito risalgono al XV secolo. Le due Madonne con Bambino dipinte nella parte destra del vestibolo sono invece opere settecentesche.

S.Antonio Abate, XV secolo

Recenti restauri hanno reso possibile l’individuazione e la decifrazione, sugli archi della navata, di un ciclo pittorico relativo ai temi della Vita e dei Miracoli di San Nicola di Myra.
Precisamente si tratta di quattro affreschi campiti negli archi che, solo parzialmente conservati e di difficilissima lettura, costituiscono quasi certamente solo una porzione di un ciclo agiografico più complesso.
Nel primo affresco, campito nel primo arco di sinistra e in parte obliterato da un rinforzo strutturale tardo, si osserva l'ordinazione di San Nicola a diacono.

San Nicola giovane viene ordinato diacono
 
Nel secondo, sul secondo arco di destra, alcuni particolari come un remo di nave e il volto del Santo su di essa, fanno pensare all'apparizione del Santo sulla chiglia di un’imbarcazione che salverà da una furiosa tempesta assieme all’equipaggio.
 
S'intravedono la chiglia della barca ed un remo
 
Il terzo affresco, ubicato sull’arco successivo al precedente, raffigura una scena frammentaria riferibile presumibilmente alla storia del Santo che abbatte, nella città di Plakoma in Licia, un cipresso infestato da demoni che causavano la morte di chiunque si avvicinasse.
Il quarto ed ultimo si trova nella parte opposta al secondo arco di destra e qui si nota una scena, anche questa in parte occultata da un rinforzo strutturale tardo, dove alla destra di San Nicola c’è un edificio distrutto. Quest’ultimo elemento fa supporre che la scena si riferisca all’episodio nel quale si narra della grazia ricevuta da tre generali bizantini. L'episodio, narrato da Eustrazio (VI sec), racconta che tre generali, Urso, Erpilione e Nepoziano erano stati ingiustamente condannati a morte dall'imperatore Costantino il grande. S.Nicola apparve in sogno all'imperatore e gli ingiunse di liberare i tre uomini.

Tra il secondo ed il terzo arco della parete destra verso l’abside è infine raffigurato parte di un trono gemmato oltre a un paio di piedi calzati da sandali e, più a destra, anche una donna dai capelli lunghi, coronata e inginocchiata ai piedi di un Cristo in trono.
La Falla Castelfranchi interpreta la figura femminile come quella dell'imperatrice Zoe – molto devota a San Nicola di cui fece restaurare il santuario di Myra – che avrebbe fatto realizzare il ciclo agiografico in onore del Santo in ringraziamento per la protezione accordata durante il tentativo di usurpazione di Giorgio Maniace (1043). (1)


Una analisi ravvicinata rivela però che la figura femminile non indossa abiti imperiali, men che meno una corona, che sembra, invece, di poter interpretare come una ricercata acconciatura dei capelli raccolta in una reticella; inoltre, l’abito imperiale è sempre raffigurato tempestato di gioielli e non prevede una semplice cintura di pelle nel girovita, come nell’affresco in oggetto; oltretutto, la scollatura e le maniche perlinate, corredate cioè da bottoni, non sono ammissibili prima del XIII secolo.

L'Ascensione

Sulla controfacciata è dipinta l'Ascensione, con il Cristo avvolto da una mandorla che sovrasta la Vergine affiancata da un gruppo di santi. Sulla sinistra santa Barbara identificata dalla didascalia.

Abside: Tra la fine del IX e i primi del X sec. venne ridotta la primitiva struttura absidale, che ospita tuttora l’altare in pietra, e contemporaneamente venne decorata con le figure di otto santi vescovi tra i quali si distinguono i Padri della Chiesa San Basilio, San Gregorio Nazianzeno e San Giovanni Crisostomo. Molto probabilmente nel catino era dipinta la Theotokos con il Bambino affiancata dagli Arcangeli. 
Nel tardo Rinascimento questa parte dell’abside viene coperta da un nuovo strato di intonaco e le
decorazioni pittoriche perdono definitivamente quello stile bizantineggiante originario che oggi riemerge proprio sulla parete absidale dove sono visibili ancora le figure di due Santi diaconi.
 
Abside
In basso, al di sotto dello strato di epoca rinascimentale, emergono le figure dei Padri della Chiesa dipinte nel X secolo 

San Basilio, X secolo.
 
La centralità del ciclo nicolaiano nell'impianto decorativo della chiesa fa supporre che la titolazione a Santa Marina sia subentrata nel tempo – all'incirca verso la seconda metà del Cinquecento - a quella originaria al santo di Myra, con la quale la chiesa figura citata nelle più antiche visite pastorali. 

Note:

(1) Secondo questa ipotesi interpretativa il ciclo precederebbe quindi di circa quarant'anni la traslazione a Bari delle spoglie del santo (1087). Per il tentativo di usurpazione di Giorgio Maniace cfr. Catepanato d'Italia, nota 2.
 

La masseria di Celsorizzo (Acquarica del Capo)

La masseria di Celsorizzo (Acquarica del Capo)


La monumentale torre, alta 25 m. (considerando la torretta) e databile al tardo Trecento, che svetta sull'intero complesso fu inglobata nella masseria costruita verso la metà del XVI secolo. A pianta quadrata, è provvista su tutti i lati di feritoie e caditoie. In un rogito del 1615 il complesso compare comunque come semplice feudo ad indicare che non era più considerato un fortilizio.

La cappella di San Nicola
Nella scarpa della base della torre è contenuta una piccola cappella dedicata a San Nicola preesistente alla torre stessa. Risale infatti al 1283 e fu fatta edificare dal feudatario Ioannes de Ogento come risulta dall'iscrizione presente nella controfacciata:

Nell’anno 1283 dall’incarnazione del Signore, sotto il regno del nostro illustrissimo signore Carlo (D’Angiò) re di Gerusalemme e Sicilia nel mese di aprile, Giovanni de Ogento, signore del casale di Cicivitio, con la sign… per dono e beneficio della sua anima e di quella dei suoi parenti, ha fatto costruire e dipingere questa “basilica” in onore di Dio e del beato Nicola vescovo glorioso confessore, dipinto per mano di N. Melitino e Nicola …” (1)


All'interno, nell'unica abside, è dipinto il Cristo Pantokrator, al di sotto del quale si distinguono, separati dalla monofora centrale, S.Basilio (a sn.) e S.Giovanni Crisostomo (a ds.).
Il taglio alto e verticale della monofora che si apre nel cilindro absidale, ha conseguentemente ridotto lo spazio destinato al catino: il Cristo Pantokrator in alto dunque, benedicente alla greca con la mano destra mentre nella sinistra tiene un vangelo aperto dove è scritto in latino - Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre (Giovanni VIII, 12) - risulta essere come schiacciato.
Sempre sulla parete est, al di sopra dell’abside, è campito il Cristo in una mandorla portato in gloria da angeli e attorniato dai Quattro Viventi (Tetramorfo) mentre ai lati dell’abside, sulla parete nord, è visibile la scena dell’Annunciazione, la prima delle scene delciclo cristologico che poi si dipana nel registro superiore.
Nel registro superiore della parete sud, la prima scena identificabile è quella della Natività, seguono
la Presentazione al tempio, il Battesimo e la Trasfigurazione; di quest’ultima scena si notano benissimo le figure di san Pietro e sant’Elia, in quanto un tempo coperte dall’arco di sostegno posticcio (2).

Presentazione di Gesù al Tempio

Nel registro inferiore della parete sud, ripartendo dall'abside, troviamo un santo diacono con turibolo e vangelo, identificato come santo Stefano; segue, dopo la piccola finestra, un altro santo diacono con turibolo e con pisside. A seguire, sotto un arco trilobato che conferisce a questo pannello il giusto risalto, un viso della Madonna leggermente reclinato a destra: è una Vergine in trono, presumibilmente recante il Bambino. Dopo l’attuale porta d’ingresso, figure di santi tra cui san Vincenzo (riconoscibile solo dall’iscrizione esegetica) e una santa, per la cui identificazione è stata proposta Agata.
Nella parete ovest, in basso, notiamo il frammento superiore di san Giorgio, riconoscibile grazie all’iscrizione esegetica. Nella rientranza, una Vergine col capo reclinato, mentre sopra l’ingresso tamponato compare l’iscrizione dedicatoria già richiamata. Sulla stessa parete, nel registro superiore, proseguono le scene del Dodekaorton, ma la loro leggibilità è a dir poco difficile. Probabile l’identificazione della Resurrezione di Lazzaro (proposta dal Marino), a cui fa seguito l’Ingresso a Gerusalemme.

L'Ultima cena


Lungo la parete nord, partendo da ovest, sul registro superiore si susseguono le altre scene del ciclo cristologico. L’ultima cena
, un frammento riconoscibilissimo per il suo buon stato di conservazione nel settore un tempo coperto dall’arco. Si leggono le lettere “O Mystikos deipnos” sopra una basilica che fa da quinta architettonica alla scena. Nella parte superstite, i volti dei santi sono identificabili grazie alle lettere identificative: IA sta per Giacomo il Maggiore, Θω sta per Tommaso e CI per Simone Zelota. Sulla tavola imbandita, delle ceste con dei pesci, pagnotte, un tripode e un coltello con manico nero che ricorda il coltello utilizzato nella liturgia bizantina per la prosphorà (offerta del pane).


L'Ultima cena (particolare dei tre apostoli rimasti)

Seguono il Tradimento di Giuda (in stato di degrado avanzatissimo), la Crocefissione e l’Anastasis.

Il Tradimento di Giuda

Nel registro inferiore, ripartendo dal lato occidentale si susseguono: un santo che monta un cavallo loricato riccamente bardato in rosso ed in presenza di una bandiera rossocrociata - che l'iscrizione identifica in S.Ippolito - segue, scarsamente visibile, San Nicola e quindi i SS. Cosma e Damiano (3).
Gli archi di sostegno della volta – rimossi nel corso del restauro della chiesa - furono molto probabilmente aggiunti dopo la costruzione della torre soprastante.

Torre colombaia
 
La torre colombaia
L'adiacente torre colombaia, a pianta circolare, fu fatta edificare nel 1550 dal feudatario Fabrizio Guarino come si evince dallo stemma e da un'iscrizione sulla porta d'ingresso:

FABRICIUS GUARINUS COLUMBARIUM HOC FRUCTUS AUCUPANDIQUE CAUSS CONSTRUXIT SIBI SUIS AMICISQUE ANNO DOMINI MDL
(Fabrizio Guarino fece costruire questa colombaia per sé e per i suoi amici per diletto di caccia nell’anno del Signore 1550).
 
 
Note:

(1) L'epigrafe è scritta in latino fuorchè per i nomi dei frescanti che sono scritti in greco. L'alternarsi delle due lingue nelle iscrizioni è una caratteristica della chiesa a sottolineare la fase di transizione tra le due culture del periodo in cui venne edificata. Il toponimo di Cicivitio che figura nell'epigrafe è quello con cui era anche conosciuto il casale di Celsorizzo.

(2) Con la costruzione della torre sovrastante, la volta della cappella fu rinforzata con tre archi di scarico successivamente rimossi nel corso del restauro. In corrispondenza delle aree un tempo coperte da essi, si trovano i brani di affresco meglio conservati.


(3) Nella zona dove era campito il Sant'Ippolito compaiono, incisi a graffito diversi fiori a sei petali usualmente considerati segno della presenza dei Templari.

venerdì 11 settembre 2015

Chiesa della Madonna dei panetti, Celsorizzo (Acquarica del Capo)

Chiesa della Madonna dei panetti, Celsorizzo (Acquarica del Capo)


E’ una costruzione riferibile originariamente al XII secolo, sebbene tradizioni differenti la attestino già presente nel X sec. Ha forma quadrangolare e non presenta navate all’interno, mentre sul lato orientale si aprono due absidi affrescate, parte restante di una decorazione pittorica che doveva coinvolgere l’intera superficie muraria.
Planimetria. In neretto le parti ricostruite dopo il crollo del XVIII secolo

La presenza della doppia abside che caratterizza l'edificio potrebbe essere funzionale alla politica di integrazione religiosa intrapresa dai normanni, essendo destinati ad ospitare rispettivamente la funzione latina e quella greca. In questa chiave, un'interpretazione della denominazione della chiesa la vuole derivare dal termine greco panellenios, mentre un'altra la connette invece ad una tradizione locale di distribuire gratuitamente ai poveri il pane il giorno della Madonna dell'Assunta (15 agosto).
Secondo alcune ipotesi recentemente avanzate, la chiesa in passato doveva occupare una superficie maggiore rispetto a quella attuale, protendendosi in direzione Ovest, e presentando probabilmente una doppia navata. Quello che resta allo stato attuale è frutto della ricostruzione compiuta dopo il crollo di inizio XVIII sec.
Infine, per il Sigliuzzo, la chiesa è la naturale sostituzione di un luogo di culto interrato ad essa preesistente e che dovrebbe corrispondere all’attuale frantoio ipogeo che si trova nei pressi.

Affreschi:

L'abside settentrionale presenta nella conca san Giovanni Battista che tiene nella sinistra un cartiglio con la scritta in greco io voce che grida nel deserto. Nel cilindro absidale, due figure meno identificabili, una delle quali probabilmente una Madonna con Bambino.
 
Abside settentrionale
 
Un palinsesto pittorico più tardo che copre quasi completamente gli affreschi più antichi informa anche l’abside meridionale, dove si intravede una figura in trono sulla quale furono, poi, sovrapposti altri dipinti. Lo strato più tardo risale alla seconda metà del XVII secolo. In alto Dio Padre con una mano benedicente e con l’altra che regge il globo crucifero; in basso, tre figure, sempre databili alla fase seicentesca: a sinistra un francescano con nella mano destra il giglio e nella sinistra un libro. La figura centrale campita dopo la tamponatura della monofora, è di difficile identificazione; di impegnativa identificazione anche la figura affrescata a destra, un santo vescovo giovane con un cingolo in vista. Sottostante il padre Eterno, nella calotta, si intravede uno strato più antico con una porzione del viso di una santa, in quanto indossa il maphorion.

Abside meridionale

Sulla parete Nord, nell’angolo di raccordo con il muro Ovest, si staglia una bella immagine di san Nicola, stante, rappresentato nei consueti abiti vescovili. Si tratta di un affresco riferibile forse agli inizi del XIII secolo.

Parete settentrionale con indicati i lacerti di affresco
 
Sulla stessa parete, si può riconoscere un frammentario ciclo nicolaiano riferibile forse alla seconda metà del XIII secolo. Di quest’ultimo si individua chiaramente san Nicola corredato da un’apposita iscrizione esegetica: O AG[IOC]NIK[OLAOC];egli è rivolto verso la sua destra, dove, evidentemente, erano rappresentati due astanti dei quali si leggono soltanto i nomi: OURCOC (Urso) e NEPOTIANOC (Nepoziano), che sono quelli di due dei tre generali condannati a morte da Costantino il grande che il santo fece graziare e liberare apparendo in sogno all'imperatore. 

San Nicola

giovedì 10 settembre 2015

L'assedio di Otranto (29 luglio-14 agosto 1480) e gli 800 Martiri

L'assedio di Otranto (29 luglio-14 agosto 1480) e gli 800 Martiri


Alla morte del re di Cipro Giacomo II Lusignano (7 luglio 1473), il re di Napoli Ferrante (Ferdinando I) d'Aragona pretese il possesso dell'isola di cui era rimasta reggente – sotto tutela della Serenissima - la vedova di Giacomo II, la veneziana Caterina Cornaro. Sull'isola accampavano diritti per varie ragioni anche gli Sforza, i Gonzaga ed i Savoia. Ferrante, col progetto di far sposare suo figlio Alfonso con Ciarla, figlia illegittima del defunto re, tentò di impadronirsi dell'isola con un colpo di mano – più o meno apertamente appoggiato da papa Sisto IV - ad opera della fazione filoaragonese locale (14 novembre 1473) represso dal pronto intervento della flotta veneziana (1).
Questa manovra di Ferrante determinò la rottura definitiva dell’amicizia tra Napoli e Venezia, che si era rivelata proficua e vantaggiosa per entrambe.
Così nel 1480 la Serenissima, preoccupata dalle mire espansionistiche di Ferrante in Egeo,inviò a Costantinopoli un'ambasceria offrendo alla Sublime Porta una sorta di patto di nulla osta nel caso di una iniziativa turca sulle coste del Regno di Napoli nel Basso Adriatico.
Maometto II non si fece scappare l’occasione di attraversare indisturbato l’Adriatico (la flotta napoletana era schierata soprattutto nel Tirreno a causa di una lunga guerra contro Genova) ed ai primi di giugno raccolse a Valona un corpo di spedizione forte di diciottomila uomini, 140 vele, 60 galeotte e 40 maoni sotto il comando di Ahmed Pascià.
Impegnato nella conquista della Toscana, e all’oscuro degli accordi tra turchi e veneziani, Ferrante si limitò a munire di presidio le città della costa adriatica, specialmente Otranto. Qui furono poste cento lance e due guarnigioni comandate dai capitani Francesco Zurlo e Giovanni Antonio De Falconi.
Il 29 luglio la flotta ottomana fece la sua comparsa nelle acque di Otranto.
In mancanza di sufficienti mezzi per difendersi (la città era completamente sprovvista di artiglierie) le autorità militari, dopo aver fatto entrare il maggior numero di vettovaglie e animali da macello dal circondario, ordinarono l'abbandono del borgo e la ritirata nella cittadella fortificata, di cui vennero sprangate le porte, e distribuirono le armi alla popolazione civile che affiancò la guarnigione nella difesa delle mura.
I Turchi sbarcarono sul litorale senza incontrare resistenza poco a nord di Otranto – in una località che ancora oggi porta il nome di Baia dei turchi. Ahmed Pascià inviò dei messi che comunicarono alle autorità civili e militari la volontà di Maometto II di diventare padrone di Otranto, insieme all’offerta di avere la possibilità di lasciare sani e salvi la città se si fossero arresi senza combattere. L’assemblea dei cittadini di Otranto respinse l’offerta e il maggiorente Ladislao De Marco gettò in mare le chiavi delle porte della cittadella per ribadire la determinazione degli idruntini a combattere. La guarnigione spagnola inviata in rinforzo invece disertò, calandosi nottetempo giù dalle mura con delle funi.
Per tutti i primi dieci giorni di agosto la città fu battuta giorno e notte dall’artiglieria turca. Già all’alba del secondo giorno i turchi aprirono una breccia nelle mura a est, ma il loro assalto fu respinto dai cittadini in armi (duecento idruntini morirono negli scontri). Dalla stessa breccia i turchi provarono a passare il giorno dopo, ma furono, a costo di altri cento morti tra i difensori, nuovamente respinti.
Al quindicesimo giorno di assedio, Ahmed Pascià, dopo un ultimo massiccio bombardamento, ordinò l'attacco generale.
Il capitano Zurlo accorse alla breccia con il figlio al fianco e al comando di una squadra di uomini per tentare una estrema resistenza. Ma il numero dei soldati turchi era soverchiante e tutti furono massacrati. A dare manforte accorse poco dopo il capitano De Falconi con una squadra di cittadini, che resistettero difendendo palmo a palmo il terreno e, raccontano le cronache, facendo strage di nemici. Ma anche loro furono sopraffatti. Il giorno dopo i turchi dilagarono in città, saccheggiando le case e uccidendo chiunque si trovasse per strada. I superstiti ripiegarono verso la cattedrale, dove si erano rifugiate donne e bambini, con i preti e l’ottantenne arcivescovo della città Stefano Pendinelli. L'ultima linea di difesa, schierata a protezione dell'ingresso principale, fu travolta ed i turchi, entrati in chiesa con i cavalli, trovarono l'arcivescovo seduto sulla sua cattedra, che li invitò a convertirsi. Come risposta, un colpo di scimitarra gli troncò la testa.
Fatte schiave le donne e i bambini superstiti, il resto degli idruntini presenti nella Cattedrale e rastrellati per le strade furono tenuti prigionieri una notte nei sotterranei del castello, dove Ahmed Pascià aveva stabilito il suo quartier generale. Giovanni Momplesi, un prete calabrese passato al servizio degli ottomani, comunicò ai prigionieri che se avessero accettato di diventare sudditi di Maometto II e di abbracciare la fede musulmana sarebbero stati rimessi in libertà insieme alle proprie famiglie. Solo poche decine accettarono di apostatare la fede cristiana.
Il giorno seguente, 14 di agosto, Ahmed Pascià volle sentire il rifiuto con le proprie orecchie e, recatosi nei sotterranei, intimò a Momplesi di ripetere l'ultimatum: O la vita col Corano, o la morte col Vangelo. Un conciatore di panni e ciabattino, Antonio Pezzulla detto il Primaldo, si fece avanti e con un breve discorso invitò i suoi concittadini a “piuttosto mille volte morire con qual si voglia morte che di rinnegar Cristo”.
Gli 800 prigionieri (tutti uomini dai quindici anni in sù) furono portati in catene sul colle della Minerva, a poche centinaia di metri. Lì, su una grande pietra, conservata ancora oggi sotto l’altare della Cattedrale di Otranto, furono decapitati uno dopo l’altro. Il racconto che ci è pervenuto vuole che il corpo di Primaldo, che Ahmed Pascià ordinò di decapitare per primo, dopo che la testa venne spiccata dal busto, diventasse rigido come la pietra e restasse in piedi, nonostante i tentativi dei turchi di gettarlo in terra. Fino alla ottocentesima decapitazione. Poi anche il corpo del conciatore si accasciò.

In ottobre, probabilmente per la difficoltà di approvvigionare via mare un esercito così numeroso, Ahmed Pascià ripiegò su Valona con il grosso delle truppe, lasciando a difendere la città un presidio di 800 fanti e 500 cavalieri.
L'8 settembre 1481 la città fu riconquistata dalle armi cristiane al comando del duca di Calabria Alfonso d'Aragona appoggiate dalla flotta pontificia. Il duca trovò una città ridotta ad un cumulo di macerie la cui popolazione era ridotta a soli 300 abitanti. I corpi dei Martiri di Otranto, rimasti senza sepoltura sul colle della Minerva per un anno e ritrovati in gran parte incorrotti, furono recuperati e riposti in una chiesa oggi non più esistente da cui furono successivamente traslati nella Cattedrale, dove - in una cappella a loro dedicata ricavata nell'abside di destra - sono attualmente custoditi (2).

Cappella dei Martiri (3)
 
Dichiarati beati da papa Clemente XIV nel 1771, il 26 maggio 2013 i Martiri di Otranto sono stati canonizzati da papa Francesco.


Note:
 
(1) Cfr. scheda La dinastia dei Lusignano.

(2) Alfonso d'Aragona – figlio primogenito del re Ferrante e della sua prima moglie Isabella di Chiaromonte che sarà re di Napoli per un anno circa tra il 1494 ed il 1495 – fece traslare a Napoli circa duecento corpi dei martiri che attualmente sono custoditi in una cappella della chiesa di Santa Caterina a Formiello. Sul luogo del martirio il duca fece costruire la chiesa di Santa Maria dei Martiri (ancora esistente ma completamente ricostruita nel XVII secolo). A metà strada tra la città ed il colle della Minerva venne invece edificata nel XVI secolo la chiesa di Santa Maria del passo per ricordare il passaggio dei martiri.

(3) Secondo la leggenda, la statua lignea della Madonna con Bambino oggi posta sull'altare della cappella dei Martiri nella cattedrale idruntina che si vede nella fotografia, creduta d'oro massiccio, venne trafugata dai turchi durante il sacco della città e trasportata a Valona. Accortisi che era soltanto ricoperta a foglia d'oro, sarebbe stata gettata nella spazzatura dove la raccolse una schiava idruntina che ottenne dalla sua padrona il permesso di rimandarla ad Otranto quando questa partorì felicemente grazie alle sue preghiere. Caricata su una piccola imbarcazione senza vele e senza equipaggio, la statua arrivò miracolosamente ad Otranto dove fu accolta nella cattedrale.

Filmografia:

Adriano Barbano, Otranto 1480, 1980



lunedì 7 settembre 2015

Il Salento bizantino e la Grecìa salentina, Introduzione

Il Salento bizantino e la Grecìa salentina, Introduzione


Dopo la riconquista del Mezzogiorno d'Italia al termine delle guerre greco-gotiche (536-553), il potere centrale bizantino non fu in grado di difenderlo dalle incursioni longobarde e arabe, arretrando progressivamente in Puglia fino ad attestarsi al di qua di una linea approssimativamente compresa tra Otranto e Gallipoli.
Il decadere della funzione protettiva delle città, la debolezza del potere militare bizantino, la precarietà del vivere fra invasioni e devastazioni, furono i fattori che contribuirono allo spopolamento dei maggiori centri urbani – ad eccezione della città di Otranto – a favore di un ripopolamento delle campagne che si presentavano selvagge e trascurate, e con ridotte terre coltivabili. Ritornare ad una vita primitiva e a ripopolare le campagne non era di certo una scelta ma un obbligo per la sopravvivenza dei plebei che ignoravano il commercio e facevano scomparire il risultato del proprio lavoro, artigianale o agricolo, per paura dei continui saccheggi. La campagna rimase l’unica via di salvezza: lì si formarono piccoli nuclei sociali, dove si produceva l’occorrente per vivere e nascevano nuovi legami di parentela.
Le grotte furono indispensabili per lo sviluppo della vita sociale tanto che in alcune di esse arrivarono ad abitare anche 400 persone.
La grotta al suo interno era dotata di tutto ciò che all’epoca poteva servire: un ampio spazio per il ricovero degli animali, il trappeto, la cappella, spazio per dormire e per mangiare. Tutto ciò che veniva prodotto serviva per il sostentamento della comunità: infatti ogni famiglia aveva quanto gli bastava per vivere mentre la parte eccedente veniva messa in grandi depositi che in genere erano situati vicino alle case e che si presentavano come delle “cisterne” che venivano chiuse con dei grossi blocchi di pietra (chianche).
Tra l'VIII ed il X secolo inoltre, raggiunsero il Salento numerosi monaci basiliani, in diverse ondate migratorie in corrispondenza dapprima con le diverse fasi di recrudescenza delle persecuzioni iconoclaste (726-843) e, successivamente, a seguito della progressiva conquista araba della Sicilia (827-965).
Con l'arrivo dei monaci, alcune grotte si trasformarono in cripte ricche di affreschi raffiguranti immagini di santi orientali. Qui essi continuarono a praticare i loro riti e le loro preghiere influenzando i costumi sociali e i rapporti umani esistenti nei centri che li accoglievano o nei villaggi rupestri dove, considerando un obbligo morale il lavoro manuale per procacciarsi da vivere, condussero una vita arcaica, come quella della gente comune, ed in perfetta simbiosi con essa.

Cripta di Santa Cristina, Carpignano salentino

Nel settembre dell'867, Basilio I il Macedone, liberatosi di Michele III e rimasto unico imperatore, impresse immediatamente una svolta decisa alla politica estera bizantina, avviando un programma di riconquista delle provincie occidentali.
Già l'anno precedente, quando era ancora coimperatore, aveva inviato in Adriatico a difesa di Ragusa, assediata dagli Arabi, una flotta di cento navi al comando di Niceta Orifa, il più esperto ammiraglio della marina bizantina dell'epoca.
Incoronazione di Basilio I come coimperatore (26 maggio 866)
da un'edizione miniata prodotta in Sicilia nel XII secolo della Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze (Madrid Skylitzes)
Biblioteca Nacional de España, Madrid

Contemporaneamente in terraferma l'imperatore franco Ludovico II, stanziato a Benevento, avviò le operazioni contro l'enclave araba dell'Emirato di Bari (1) stringendo d'assedio la città.
Nel settembre 869 la flotta bizantina, al comando di Niceta Orifa e forte di 400 navi (praticamente l'intera forza della marineria bizantina), compare al largo di Bari ma trova soltanto poche truppe franche che Ludovico ha lasciato a difendere il campo trincerato che circonda la città. L’ammiraglio bizantino tenta ugualmente di prendere la città d’assalto ma non ha fortuna e ripiega quindi su Corinto con tutta la flotta. Nella primavera 870 l’imperatore franco riprende le operazioni contro Bari: a Natale sconfigge nei pressi di Cosenza l’esercito inviato dall’Emiro di Amantea in soccorso della città assediata ed il 3 febbraio 871 entra a Bari con al fianco il principe longobardo di Benevento Adelchi a cui ne consegna il possesso.
Nel Natale dell'876, il primicerio Gregorio, inviato in Italia da Basilio I al comando di un corpo di spedizione, chiamato in soccorso della città dal presidio longobardo per fronteggiare la minaccia araba, entra a Bari e ne ottiene la sottomissione all'impero bizantino.
Nell'880 le truppe bizantine, al comando del protovestiario Procopio, che cade combattendo, e dello stratego Leone Apostippe, espugnano Taranto che gli arabi tenevano da quarant'anni. La presa di Taranto consente ai bizantini di estendere l'offensiva alla Calabria e nel biennio 885-886, il generale Niceforo Foca il vecchio liquida l'enclave araba dell' Emirato di Amantea espugnando una dopo l'altra le roccaforti di Tropea, Santa Severina ed Amantea, eliminando la presenza araba sul continente.
L'offensiva bizantina è completata dalla riconquista dei territori di Calabria in mano ai Longobardi (quasi tutta l'odierna provincia di Cosenza) e dell'intera Lucania.
Sul piano amministrativo il territorio riconquistato fu suddiviso in due thema: quello di Longobardia, che com­prendeva la Puglia e parti della Lucania (zone cioè precedentemente occupate dai Longobardi) e quello di Calabria, i cui confini coincidevano in linea di massima con quelli dell'omonima regione attuale ed al cui comando fu posto uno stratego. Nel 970 i due thema verranno unificati amministrativamente nella formazione del Catepanato d'Italia.
Al fine di non esasperare le popolazioni riannesse all'Impero, nelle aree precedentemente occupate dai Longobardi, si assiste comunque alla compresenza di strutture istituzionali bizantine con altre tipicamente longobarde, come anche quella di funzionari pubblici inseriti nella gerarchia di potere bizantina che convivono sullo stesso territorio e nella stessa città con altri del ceto eminente longobardo. Contemporaneamente viene messo in atto un programma di ripopolamento delle campagne e fondazione o rifondazione di centri abitati con trapianti di oriundi provenienti da altre regioni dell'Impero (soprattutto Slavi). Niceforo Foca, in quest'ottica, permise ad esempio ai suoi soldati – per la gran parte armeni e orientali – di colonizzare le terre di nuova conquista.


Aree di diffusione del Griko nel Salento

La Grecìa salentina
Con il termine di Grecìa salentina si indica attualmente un'area ellenofona a sud di Lecce formata da 11 comuni (Calimera, Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia, Zollino).
Un tempo l'area era molto più estesa (cfr. l'area circoscritta dalla linea tratteggiata nella cartina) abbracciando un territorio compreso tra Otranto e Gallipoli.
La lingua parlata, il Griko (il termine Grecanico si ritrova più specificamente applicato alla lingua parlata nell'area grecofona calabrese), conserva in sé vocaboli di origine dorica, attestanti la derivazione dall’antico Greco, ma anche vocaboli medievali e neogreci.

Note:

(1) Secondo lo storico arabo al-Baladhuri, Bari fu strappata ai Bizantini nell' 847 dal berbero Khalfūn, forse originario della Sicilia, che vi istituì un emirato indipendente autoproclamandosi emiro di Bari. Alla sua morte (852 c.ca) gli successe Mufarraj ibn Sallām, che è ricordato per la costruzione di una moschea (che sorgeva probabilmente sul sito dell'attuale cattedrale) e per aver inviato al califfo abbaside la richiesta di investitura ufficiale ad emiro che, tra le altre cose, avrebbe implicato anche l'ereditarietà della carica. Mufarraj ibn Sallām fu deposto e ucciso (857) prima di ricevere l'investitura che fu invece conferita nell'863 al suo successore Sawdan, terzo ed ultimo emiro di Bari.