Il ciborio viene
eretto sopra l'altare maggiore della basilica di San Marco, dove si
trova tuttora, in un momento ancora imprecisato della prima metà del
XIII secolo, probabilmente negli anni venti.
Il dibattito sul ciborio ha riguardato principalmente la datazione e la provenienza delle quattro preziose colonne impiegate come sostegno della volta del baldacchino. I bassorilievi che le ornano, pur differenti per taluni aspetti, sono sostanzialmente unitari e non possono provenire che da un unico centro di produzione, anche se realizzati da artisti di diverso valore.
I quattro fusti monolitici di alabastro orientale, lavorati a coppie da un Maestro eccellente e da aiutanti di minor valore, sono suddivisi in nove comparti separati da strisce orizzontali, a loro volta articolati in nove archetti ospitanti una o più figure in altorilievo.
Lo sfondo scuro delle nicchie dona alle scene una plasticità quasi totale. Nelle 324 nicchie si contano, complessivamente, 108 scene a una o più figure, che riproducono la vita della Vergine, la vita e la passione di Gesù Cristo: ben rappresentati in più cicli dettagliati, disposti in sequenza orizzontale nel senso della lettura o in verticale, sono singoli episodi tratti dai Vangeli canonici e da quelli apocrifi.
La colonna posteriore sinistra riporta trenta scene della vita di Maria, dal Sacrificio di Gioacchino fino al Consulto dei sacerdoti sul futuro della Vergine dodicenne, per la cui realizzazione lo scultore si attenne fedelmente alle descrizioni della versione greca del protovangelo apocrifo di Giacomo.
Con l'Annunciazione a Maria ha inizio la sequenza di ventisei scene della colonna anteriore sinistra che propone vicende tratte dall'infanzia di Gesù e, tra gli altri, diversi racconti di miracoli e guarigioni. Tali episodi, raffigurati con straordinaria vivacità, rimandano da un lato al protovangelo di Giacomo e dall'altro ai Vangeli canonici, soprattutto a quello di Giovanni.
Il ciclo scultoreo continua sulla colonna posteriore destra con ventotto scene raffiguranti gli insegnamenti e i miracoli di Gesù così come sono narrati nel Vangelo di Luca.
La colonna anteriore destra illustra infine le ventiquattro scene della passione di Cristo.
Il dibattito sul ciborio ha riguardato principalmente la datazione e la provenienza delle quattro preziose colonne impiegate come sostegno della volta del baldacchino. I bassorilievi che le ornano, pur differenti per taluni aspetti, sono sostanzialmente unitari e non possono provenire che da un unico centro di produzione, anche se realizzati da artisti di diverso valore.
I quattro fusti monolitici di alabastro orientale, lavorati a coppie da un Maestro eccellente e da aiutanti di minor valore, sono suddivisi in nove comparti separati da strisce orizzontali, a loro volta articolati in nove archetti ospitanti una o più figure in altorilievo.
Lo sfondo scuro delle nicchie dona alle scene una plasticità quasi totale. Nelle 324 nicchie si contano, complessivamente, 108 scene a una o più figure, che riproducono la vita della Vergine, la vita e la passione di Gesù Cristo: ben rappresentati in più cicli dettagliati, disposti in sequenza orizzontale nel senso della lettura o in verticale, sono singoli episodi tratti dai Vangeli canonici e da quelli apocrifi.
La colonna posteriore sinistra riporta trenta scene della vita di Maria, dal Sacrificio di Gioacchino fino al Consulto dei sacerdoti sul futuro della Vergine dodicenne, per la cui realizzazione lo scultore si attenne fedelmente alle descrizioni della versione greca del protovangelo apocrifo di Giacomo.
Con l'Annunciazione a Maria ha inizio la sequenza di ventisei scene della colonna anteriore sinistra che propone vicende tratte dall'infanzia di Gesù e, tra gli altri, diversi racconti di miracoli e guarigioni. Tali episodi, raffigurati con straordinaria vivacità, rimandano da un lato al protovangelo di Giacomo e dall'altro ai Vangeli canonici, soprattutto a quello di Giovanni.
Il ciclo scultoreo continua sulla colonna posteriore destra con ventotto scene raffiguranti gli insegnamenti e i miracoli di Gesù così come sono narrati nel Vangelo di Luca.
La colonna anteriore destra illustra infine le ventiquattro scene della passione di Cristo.
Thomas Weigel, Le colonne del ciborio dell'altare maggiore di San Marco a Venezia: nuovi argomenti a favore di una datazione in epoca protobizantina, 2000 (Estratto)
In passato le colonne del ciborio sono state considerate ora come opere della tarda antichità, ora come opere dei secoli centrali del medioevo, così che le datazioni proposte hanno oscillato tra il V-VI e l'XI-XIII secolo.
Nella letteratura si trova
talvolta espresso anche il giudizio secondo il quale le due colonne
anteriori, che da un punto di vista artistico e tecnico sono
evidentemente di qualità più elevata, sarebbero il prodotto di una
bottega dell'impero romano d'Oriente, siro-palestinese o
ravennate, eventualmente collocabile anche in Istria (cfr. Cappella di Santa Maria Formosa a Pola, n.d.r) e quindi apparterrebbero ancora
al periodo dell'arte tardo-antica. Invece per la coppia delle colonne
posteriori, eseguite da una mano più inesperta, si tratterebbe di
un'imitazione di modelli antichi eseguita nei secoli centrali del
medioevo, realizzata a Venezia nell'XI, XII o XIII secolo per
portare a quattro il numero dei supporti.
Sulla scorta dei
contributi di ricerca di Weigand (1940), Lucchesi Palli (1942) e
Demus (1953, 1955a/b, 1960), l'intero insieme scultoreo viene
tuttavia oggi considerato quasi esclusivamente come opera di una
bottega veneziana della la metà del XIII secolo. Secondo questa tesi
tale bottega, nel quadro di una precisa propaganda di stato, mirante
alla ricostituzione di un imperium
christianum comprendente l'Adriatico e
il Levante, sarebbe stata specializzata nella produzione di copie di
pezzi antichi, al fine di fare apparire la città più antica di
quanto essa in realtà fosse e porla sullo stesso piano delle città
imperiali di Roma e Costantinopoli.
Già Anti (1954), Gosebruch (1985) e Herzog (1986) avevano dimostrato come i principali argomenti a sostegno di una datazione proto-rinascimentale in ambito veneziano, vale a dire le analogie con il rilievo frontale del sarcofago del doge Marino Morosini (1249-1253) nel nartece settentrionale di S. Marco, così come con le tavole a rilievo dell'architrave della porta di S. Alipio erano smentiti dal fatto che entrambi questi elementi erano a loro volta, anziché copie duecentesche, spoglie tardoantiche, probabilmente provenienti dall'area costantinopolitana.
Già Anti (1954), Gosebruch (1985) e Herzog (1986) avevano dimostrato come i principali argomenti a sostegno di una datazione proto-rinascimentale in ambito veneziano, vale a dire le analogie con il rilievo frontale del sarcofago del doge Marino Morosini (1249-1253) nel nartece settentrionale di S. Marco, così come con le tavole a rilievo dell'architrave della porta di S. Alipio erano smentiti dal fatto che entrambi questi elementi erano a loro volta, anziché copie duecentesche, spoglie tardoantiche, probabilmente provenienti dall'area costantinopolitana.
Numerosi indizi sembrano
invece connotare tutte e quattro le colonne come materiale di
reimpiego:
1) Le caratteristiche scheggiature presenti
nell'estremità superiore dell'astragalo, comuni anche ad altro
materiale di spoglio, al di sopra delle quali corrono senza soluzione
di continuità i titoli latini, databili all'incirca al primo quarto
del XIII secolo. Il fatto che le iscrizioni corrano anche sulle
scheggiature rappresenta un ulteriore argomento a sostegno della loro
incisione successiva, all'epoca del reimpiego delle colonne come
sostegno del baldacchino;
2) I fusti delle colonne
sono sprovvisti di anello all'imoscapo;
3) Il singolare e del
tutto inusuale collegamento di basi e fusti attraverso un impianto di
questi ultimi nel blocco della base. Attraverso questo espediente
vengono evidentemente sottratti alla vista dell'osservatore ulteriori
possibili danni causati dalla spoliazione.
Sulla base di queste
osservazioni che depongono contro un'origine unitaria di testo e
immagine e sulla base di altri indizi Lafontaine-Dosogne ha sostenuto
la tesi che, nel programma delle scene della vita di Maria come in
quelle dell'infanzia di Cristo, si tratterebbe di un'iconografia
bizantina, più precisamente pre-iconoclasta, in ogni caso non
occidentale. Questa opinione è stata condivisa anche da altri
autori, che in particolare hanno fatto riferimento all'eccezionalità
della scena della Crocifissione con l'agnello nel clipeus al posto
del crocifisso, da datare prima del Concilio Quinisesto (Costantinopoli, 692) (1).
Un ulteriore elemento a
favore di un'origine protobizantina del complesso scultoreo viene
addotto da Weigel mediante la decifrazione di un enigmatico rilievo
figurativo sulla colonna C, il quale fino ad oggi è stato
sempre interpretato falsamente. Secondo la nuova decifrazione non si
tratterebbe qui di una rappresentazione della parafrasi delle parole
del Cristo Qui sequitur me tollat crucem (Luca, IX, 23,
Matteo, XVI, 24, Marco, VIII,34), come il titolo latino vuole far
credere e come finora è stato generalmente ammesso, confidando nella
veridicità dell'iscrizione, ma della rappresentazione dell'episodio
sulla questione della riscossione dei tributi:
Reddite ergo quae Caesaris sunt Caesari et quae Dei sunt Deo
(Luca, XX, 22-25).
La raffigurazione
dell'imperatore, che è centrale in questa scena, fornisce, insieme
alle altre raffigurazioni di un sovrano sulla colonna B, dei punti di
riferimento decisivi per una più precisa datazione delle colonne in
questione e con esse di tutto l'insieme. Infatti le insegne del
potere, le forme degli abiti così come le acconciature imperiali e
certi elementi ritrattistici erano soggetti a un continuo cambiamento
che, considerato insieme ad altri dettagli stilistici specifici,
offre dei chiari criteri di classificazione.
Dal confronto con altri
monumenti della fase di sviluppo tardoantica e protobizantina della
scultura figurativa se ne deduce un'appartenenza a quel gruppo di
opere dell'impero romano d'Oriente che con certezza o quanto meno con
grande probabilità risalgono al regno dell'imperatore Anastasio I
(491-518).
Affinità evidenti, anzi addirittura sorprendenti, con
le figurazioni delle colonne del ciborio, mostrano i rilievi figurali
su due frammenti di fusto di colonna conservati nel Museo
archeologico di Istanbul. Essi vengono datati di recente
concordemente, sulla base della grande somiglianza
nell'ornamentazione a viticci, non più, come prevalentemente in
passato, al V secolo, ma allo stesso periodo a cui risalgono
l'allestimento scultoreo e i decori plastici della chiesa di
S.Polieucto a Costantinopoli (524-527).
Weigel non esclude la
possibilità che i due gruppi scultorei siano opera quanto meno della
stessa bottega, se non addirittura della stessa mano, anche se
quest'ultimo giudizio riguarda solo la coppia delle colonne frontali
del ciborio, di ottima fattura, mentre la coppia posteriore deve
essere attribuita a un maldestro aiutante del maestro principale.
Questi tuttavia, diversamente da quanto pensava von der Gabelentz,
potrebbe aver lavorato contemporaneamente al maestro e non soltanto
più tardi.
Con ogni probabilità la
bottega in questione dovrebbe aver avuto sede nella capitale
imperiale, Costantinopoli. Quanto meno i frammenti di fusto di
colonna con intrecci di viticci furono lì ritrovati nel XIX secolo,
e precisamente nelle vicinanze di Santa Sofia. La qualità
particolare della realizzazione, il prezioso materiale utilizzato,
così come il ricorrere abbastanza frequente di raffigurazioni di
sovrani, potrebbero essere addotti a sostegno dell'ipotesi che le
colonne del ciborio, quale prodotto di una bottega di corte, forse
appartenevano originariamente alla decorazione di una chiesa
realizzata su commissione imperiale. Non è probabilmente un caso
che, proprio per Anastasio I, Procopio tramandi la notizia che egli
dotò di dieci colonne ornate di rilievi provenienti da Tessalonica
la chiesa costantinopolitana di S.Platone da lui fondata e oggi non
più conservata. Questo è inoltre l'unico caso tramandato di una
donazione del genere.
La presenza di autentiche
raffigurazioni protobizantine dell'imperatore consente inoltre di
trarre la conclusione che qui non si può trattare di un'imitazione
fatta nei secoli centrali del medioevo di opere dell'antichità, come
il confronto con il rispettivo materiale veneziano del XII e XIII
secolo ampiamente dimostra, perchè lì sono sconosciute delle
rappresentazioni di sovrani di epoca tardoantica con intenti
storicizzanti e di correttezza antiquaria.
Ma anche a partire da
motivi ideologici e giuridico-istituzionali non è possibile
ammettere che un'immagine imperiale con il significato che ad essa
viene ad essere attribuito dall'episodio evangelico del tributo e con
la implicita esortazione a sottomettersi alla sovranità imperiale
potesse essere tollerata nella cappella palatina dei Dogi e quindi
nel centro del santuario di stato veneziano nell'epoca in questione.
In tal senso il cambiamento dell'iscrizione dedicatoria – come nel
caso paragonabile della raffigurazione del Doge nella Pala d'oro –
deve essere inteso come un atto volontario nel contesto di precise
trasformazioni politiche, e particolarmente in quello
dell'indipendenza ormai conquistata da Venezia nei confronti
dell'impero bizantino.
Dopo la dimostrazione
dell'erroneità di precedenti teorie e la successiva individuazione
del carattere di spoglio delle colonne, del loro rapporto reciproco,
della relazione tra testo e immagine, della loro datazione e
provenienza, Weigel affronta la questione, se dei dati a conferma di
alcune delle tesi citate possano essere ricavati da fonti o documenti
più antichi.
In questa ricerca
l'Autore si è imbattuto nelle affermazioni di cronache veneziane del
XVI secolo che finora non erano state prese in considerazione, in
particolare nella cronaca attribuita al cardinale Daniele Barbaro,
finora inedita. Da essa si ricava che Enrico Dandolo dopo la
conquista di Costantinopoli nell'anno 1204 avrebbe spedito a Venezia
delle preziose colonne di spoglio per la realizzazione di un ciborio
in S.Marco. Weigel dimostra che questi dati, a causa di vari elementi
discordanti molto probabilmente non si riferiscono alle colonne dell'
Altare del Capitello nominate nel testo, ma piuttosto a quelle
dell'altare maggiore.
Weigel esamina inoltre in
che misura l'accusa dei chierici della chiesa dell'Anastasi a
Costantinopoli, secondo la quale il patriarca latino Tommaso Morosini
(1205-1211) sottrasse delle colonne di marmo dalla loro chiesa per
adornare con esse l'altare di Santa Sofia (ad ornatum altaris),
si possa mettere in relazione con le colonne del ciborio di S. Marco
che, sulla base di motivi non solo stilistici, si possono dire
provenienti da Costantinopoli. Le ricerche sulla chiesa
dell'Anastasi, fondata già nel IV secolo, e in seguito abbellita
anche grazie a donazioni imperiali, non giungono ad alcun risultato
documentario sicuro per quanto concerne l'ornamentazione della chiesa
nel periodo protobizantino, ma consentono – sulla base di un
articolato complesso di indizi – di formulare almeno l'ipotesi che
le colonne del ciborio di S. Marco potrebbero provenire da questa
chiesa, oggi non più esistente e non ancora fatta oggetto di scavi
archeologici. Essa, ancora all'epoca del sacco crociato del 1204 era
una delle chiese più importanti della capitale.
Ascensione
Infine Weigel cerca di
fornire una spiegazione plausibile alle domande, perchè e quando le
colonne del ciborio furono ancora una volta rimosse dall'altare di
Santa Sofia per essere portate a Venezia, sempre ammesso che le
colonne summenzionate citate dalle fonti siano effettivamente quelle
del ciborio dell'altare maggiore di S.Marco. A questo proposito è
fatta oggetto particolare dell'indagine la delicata posizione del
patriarca Morosini, appartenente a un'influente famiglia nobile
veneziana, all'interno delle diverse potenze presenti a
Costantinopoli. Tra queste sono da annoverarsi il papa e i suoi
legati, l'imperatore latino di Costantinopoli e la parte franca dei
cavalieri crociati e non da ultimo la Signoria di Venezia con i suoi
rappresentanti diplomatici e anche il podestà della colonia
veneziana sul Bosforo. Si noterà che Morosini era obbligato con un
giuramento fatto alla Signoria di Venezia e per molti aspetti era
ricattabile, in quanto si era impegnato sotto minaccia di pena a
investire di benefici nella sede del patriarcato, Santa Sofia,
esclusivamente chierici veneziani. Tra le misure minacciate in caso
di trasgressione del giuramento c'era anche il pignoramento del
tesoro della chiesa di Santa Sofia da parte del governo della
Serenissima. Per questa chiesa c'è da notare che nella spartizione
del bottino tra i crociati essa era già toccata al Doge di Venezia
prima della conquista di Costantinopoli.
Pur considerando il
carattere ipotetico dell'affermazione che segue, si ha tuttavia
l'impressione che la Serenissima abbia preteso per sè il prezioso
insieme delle spoglie come conseguenza della rottura del giuramento
da parte di Morosini relativamente all'occupazione dei canonicati di
Santa Sofia (una rottura che in ultima analisi fu imposta dal papa a
causa del suo diritto sulle provvigioni) e dunque come compensazione
della corrispondente perdita di potere, prestigio e influenza
nell'impero latino sul Bosforo.
Con molta probabilità il
trasporto delle colonne a Venezia è da mettere in relazione con la
ristrutturazione dell'area dell'altare maggiore di S.Marco, che è
individuabile in base alla data sicura del 1209, con il restauro e
l'ampliamento della Pala d'oro.
In conclusione, le quattro colonne del ciborio dell'altare maggiore di S.Marco possono a ragione essere identificate come un'opera scultorea della parte orientale dell'impero romano particolarmente preziosa e di alto livello artistico, la cui datazione è da collocarsi nel secolo VI. Esse offrono addirittura per molte scene il primo esempio documentabile in assoluto, il che non è senza importanza per la controversa datazione di un apocrifo, e precisamente la versione greca del cosiddetto Vangelo di Nicodemo. Dalla datazione proposta per le colonne si ricavano anche nuovi punti di riferimento per la valutazione dell'iconografia dei cicli dalla vita di Cristo e di Maria sia nell'occidente medioevale che nell'area bizantina, tra i cui modelli potrebbero esserci state anche opere come le colonne del ciborio o i suoi possibili diretti antecedenti. Non da ultimo viene ad essere fortemente ridimensionata dalle ricerche qui condotte l'importanza della cosiddetta corrente proto-rinascimentale tra le diverse scuole scultoree che concorrevano tra loro nella Venezia della prima metà del XIII secolo.
In conclusione, le quattro colonne del ciborio dell'altare maggiore di S.Marco possono a ragione essere identificate come un'opera scultorea della parte orientale dell'impero romano particolarmente preziosa e di alto livello artistico, la cui datazione è da collocarsi nel secolo VI. Esse offrono addirittura per molte scene il primo esempio documentabile in assoluto, il che non è senza importanza per la controversa datazione di un apocrifo, e precisamente la versione greca del cosiddetto Vangelo di Nicodemo. Dalla datazione proposta per le colonne si ricavano anche nuovi punti di riferimento per la valutazione dell'iconografia dei cicli dalla vita di Cristo e di Maria sia nell'occidente medioevale che nell'area bizantina, tra i cui modelli potrebbero esserci state anche opere come le colonne del ciborio o i suoi possibili diretti antecedenti. Non da ultimo viene ad essere fortemente ridimensionata dalle ricerche qui condotte l'importanza della cosiddetta corrente proto-rinascimentale tra le diverse scuole scultoree che concorrevano tra loro nella Venezia della prima metà del XIII secolo.
(1) Il concilio fu convocato
dall'imperatore Giustiniano II durante il suo primo regno (685-695)
per elaborare canoni disciplinari di sviluppo alle decisioni del V e
VI concilio ecumenico, per ciò è detto Concilio Quinisesto
(quinto e sesto). E' detto anche Concilio in trullo o
trullano perché si svolse nel Crisotriclinio del palazzo
imperiale (il "trullo" era la cupola di questa fastosa sala
di rappresentanza dove erano trattati gli affari di Stato).
Fu convocato all'insaputa della chiesa
occidentale e vi parteciparono 215 vescovi orientali: il vescovo
Basilio di Creta, la cui diocesi dipendeva da Roma, firmò i canoni
conclusivi aggiungendovi di rappresentare il papa, non avendo però
alcun mandato.
Nel canone I il concilio ribadì le
condanne contro le eresie stabilite dai precedenti concilii, in
particolare quelle del VI Concilio ecumenico (680-681) contro il
monotelismo. Gli altri 101 canoni hanno carattere esclusivamente
disciplinare e alcuni erano già stati precedentemente enunciati.
Vennero trattati anche argomenti circa la venerazione delle immagini:
in particolare il canone 73 richiama l'importanza della Santa Croce e
della sua venerazione, il canone 82 prescrive di rappresentare Cristo
in forma umana e non simbolica, come Agnello.
Il concilio Quinisesto non venne mai
riconosciuto dalla Chiesa di Roma.
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