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lunedì 9 luglio 2012

Ruggero de Flor e la Compagnia catalana

Ruggero de Flor e la Compagnia catalana


   Nell' inverno dell’anno 1274 una galera dell' Ordine dei Cavalieri Templari, scampando per miracolo ad una tempesta, riuscì a riparare nel porto di Brindisi.
In quei mesi il porto di Brindisi era sempre gremito di navi che si preparavano a salpare per il Levante cariche di vino, grano e olio di Puglia, col ritorno della buona stagione. Nonostante il prestigio delle sue insegne, la galera dei Templari sarebbe quindi difficilmente riuscita a trovare un posto di approdo senza l’intervento di un ragazzetto incontrato per caso. Nero di sudiciume ma biondo di capelli; lacero e smunto, ma autoritario e prepotente come un cavaliere alemanno. E in realtà, nelle vene del fanciullo non ancora decenne, di nome Ruggero, inconfondibilmente meridionale nel comportamento ma di fattezze spiccatamente transalpine, scorreva per metà puro sangue germanico. Suo padre, Riccardo Blum, era infatti un signorotto della Turingia che l' imperatore Federico II di Hohenstaufen aveva chiamato alla propria corte in Italia nominandolo suo falconiere.
Riccardo Blum aveva latinizzato, secondo il costume del tempo, il proprio nome in de Flor; era divenuto il favorito del sovrano, l’idolo delle dame e aveva sposato una nobile, ricchissima damigella di Brindisi dalla quale aveva avuto vari figli, tra cui, nel 1266, Ruggero.
Appena due anni più tardi, Riccardo Blum de Flor, rimasto sempre fedele agli Hohenstaufen, sarebbe caduto da prode a Tagliacozzo mentre cercava di proteggere la ritirata di Corradino di Svevia.
I nuovi sovrani di Napoli, gli Angiò, confiscarono allora tutti i beni dei partigiani dell’avversario, fra cui quelli della vedova de Flor la quale, ridotta in miseria, si ritirò con i figli a Brindisi trovando rifugio in una catapecchia nell' angolo più remoto del porto, vicino alla riva.
Fu appunto verso quella cala che il piccolo Ruggero de Flor avrebbe pilotato la malconcia galera e, rivelando un precocissimo senso degli affari, sarebbe poi riuscito ad ingaggiare la mano d’opera per il raddobbo, a provvedere ai rifornimenti e a guidare i marinai per taverne e postriboli. Divenne in breve il beniamino dell’equipaggio; il capitano della nave, Fratel Vassal, un buon provenzale, si affezionò a lui come a un figlio e al momento di ripartire chiese ed ottenne da sua madre di portarlo con sé.
Il giovane mozzo mostrò di possedere innate straordinarie doti d’uomo di mare. Si adattò senza difficoltà a quel duro mestiere, divenne abilissimo nelle più complicate manovre, sviluppò un senso eccezionale della navigazione; soprattutto negli scontri armati diede prova di un' aggressività senza pari.

La fama delle sue gesta si diffuse così rapidamente che nel 1288, il poco più che ventenne Ruggero de Flor ricevette dalle mani del Gran Maestro dell' Ordine il mantello di Templare col titolo di Fratel Servente . Appena un anno più tardi, fra la sorpresa di tutta la marineria del Levante, lo stesso Gran Maestro gli affidava il comando dell' Ammiraglia: Il Falcone, acquistata a Genova nuova di zecca e considerata la nave più veloce e potente che allora solcasse il Mediterraneo. Con tale unità, Fratel Servente si dedicò alla guerra di corsa con la furia, l’astuzia e la mancanza di scrupoli del vero pirata. È probabile che non combattesse soltanto contro gli infedeli, ma è pur certo che al termine di ogni “stagione” le casse dell’Ordine si riempivano d’oro come ancora non era mai accaduto.

Armi di Ruggero de Flor

Nel 1291 gli infedeli avevano cinto d'assedio San Giovanni d’Acri, l’ultimo baluardo della cristianità in Terra Santa, che i latini difendevano con la forza della disperazione. Ruggero de Flor, accorso con Il Falcone, si unì subito a quei guerrieri battendosi al loro fianco come un leone, sennonché, quando i saraceni riuscirono ad espugnare la piazzaforte, egli, certo a fin di bene, fece furtivamente trasportare sulla sua nave un cospicuo numero di sacchi di monete d' oro di proprietà dei Templari, poi, da molte dame cristiane che cercavano scampo, pretese per accoglierle a bordo somme favolose e particolari favori.
Questi « colpi »indegni di un cavaliere, gli fruttarono un' ingente fortuna, ma giunto a Marsiglia con tutto quel carico, Ruggero venne informato che il Gran Maestro Jaques de Molay, edotto dell ’accaduto, lo aveva espulso con infamia dall’Ordine e denunciato al Pontefice, il terribile Bonifacio VIII (1294-1303), come ladro e apostata.
***
 
Ferveva in quegli anni la cosiddetta Guerra del Vespro fra gli Angioini di Napoli e i sovrani di Aragona, che fra loro si contendevano il dominio della Sicilia. Acclamato re dai siciliani e insediato in Messina, Federigo di Aragona teneva testa a fatica ai furibondi attacchi degli avversari.
Ruggero de Flor tentò da prima di farsi assoldare dal re di Napoli che lo respinse con sdegno. Federigo di Aragona lo accolse invece a braccia aperte nominandolo suo vice-ammiraglio.
A capo di una squadra numerosa e ben armata, battendo il vessillo d' Aragona, Ruggero intraprese subito una sistematica crociera saccheggiando le città mediterranee della costa europea, poi di quella africana.
Rientrato nel 1302 in Sicilia, accolto con grandissimi onori e colmato di doni, Ruggero de Flor trovò la situazione completamente mutata. Proprio in quell’anno, il 31 agosto, le due illustri casate, che si erano combattute con tanto accanimento durante un ventennio, inaspettatamente a Caltabellotta avevano siglato un trattato di pace. Con il quale l’eroico Federigo di Aragona veniva riconosciuto re di Trinacria impegnandosi però ad impalmare Eleonora d’Angiò - figlia di Carlo II d'Angiò - alla quale sarebbe a suo tempo spettata l’eredità del reame.
Mentre si svolgevano a Messina le nozze, un araldo dei Templari si presentò a re Federigo intimandogli l’ordine avallato dal Sommo Pontefice, di arrestare Ruggero de Flor, che il Gran Maestro intendeva sottoporre a processo per i gravi reati di cui lo considerava colpevole.
Il re era deciso a rifiutarsi di eseguire l’ordine anche a costo di rischiare la scomunica, ma Ruggero il quale se non intendeva certo cadere nelle mani dei Templari, voleva tuttavia evitare grossi guai al giovane sovrano a cui era sinceramente devoto, seppe escogitare un piano che li avrebbe tratti tutti e due d’impaccio con reciproco vantaggio e soddisfazione.

Gli Almugavari: le vittorie conseguite dagli aragonesi in Sicilia e Calabria dovevano attribuirsi soprattutto al fatto che alla tradizionale cavalleria pesante, fulcro e orgoglio degli eserciti angioini, essi avevano saputo contrapporre una fanteria di prim’ordine: quella delle compagnie degli Almugavari. Queste ultime erano leghe di mercenari, soprattutto catalani ma anche aragonesi, navarresi, majorchini e guasconi, l’una indipendente dall’altra, sotto il comando dei rispettivi adil (dall’arabo: “guida”).
Vestivano una rudimentale uniforme: un corto giubbotto imbottito di feltro, brache di lana serrate da lunghe cinghie di leggeri calzari. In capo recavano una reticella bianca e nera alla quale in combattimento sovrapponevano un bacinetto di ferro. Cingevano ai fianchi una larga cintura chiodata: Il loro armamento comprendeva un piccolo scudo rotondo, una picca, uno spadone, una daga e- questo ne era l’aspetto più caratteristico- due o tre giavellotti di ferro colato, dalla punta acuminatissima che, lanciati a distanza ravvicinata sul cavaliere alla carica, ne sfondavano la corazza trapassandone il corpo da parte a parte.
Mobilissimi, gli Almugavari cercavano sempre di attirare la cavalleria nemica verso una località che quest’ultima ritenesse adatta al suo dispiegamento. Attendevano poi a piè fermo gli squadroni, lanciavano i giavellotti poi si buttavano sulle schiere avversari completando con spadoni e picche la strage.


Ruggero de Flor, costretto a lasciare la corte del re Federigo, non intendeva riprendere la dura esistenza di corsaro, anzi nutriva ambizioni più vaste. Per soddisfarle, fissò la propria attenzione sull' Impero d' Oriente, ritornato dal 1261 sotto la dinastia bizantina dei Paleologi ma la cui situazione appariva precaria.
Nonostante l’energia e le capacità del vecchio basileus Andronico II - che sedeva allora sul trono di Costantinopoli e aveva associato al potere il figlio, Michele IX, sagace politico e prode soldato - l’antico impero pareva avviato alla totale rovina. Una muta di piccoli potentati ortodossi, musulmani e latini attaccava da ogni parte i suoi resti. In Europa incalzavano Bulgari, Serbi, Albanesi nonché gli stessi Despoti greci di Tessaglia ed Epiro; Attica, Peloponneso e Arcipelago erano ancora controllati dai Franchi, ma il pericolo maggiore era rappresentato dai Turchi Selgiuchidi, i quali occupavano ormai i nove decimi dell' Anatolia.

Andronico II Paleologo
Monastero di S.Giovanni Battista (Prodromos)
Serres, Grecia

Vagliando con cura le informazioni che gli provenivano dall' Oriente; Ruggero si era convinto che la situazione militare di Bisanzio non era in realtà così tragica quale a prima vista poteva apparire. I numerosi nemici che si accanivano contro l' Impero erano infatti tutti avversari fra loro, e si poteva riuscire a batterli l’uno dopo l’altro con un buon nerbo di truppe. Quelle bizantine erano ormai ridotte a una accozzaglia di barbari mercenari, ma Ruggero de Flor aveva sottomano un corpo di formidabili soldati: gli Almugavari.
Ruggero de Flor assoldò tutte le compagnie degli Almugavari, si fece riconoscere loro comandante supremo, poi nella tarda primavera del 1302 spedì due messi a Costantinopoli offrendo all'imperatore i propri servigi ma ponendogli pesanti condizioni:
1. Per i suoi Almugavari, esigeva un soldo doppio di quello concesso a ogni altra truppa di mercenari, con quattro mesi di anticipo e piena disponibilità di bottino;
2. Per se stesso chiedeva la mano di una principessa della famiglia Imperiale, il titolo di Megaduca ( il quarto in ordine gerarchico a Corte, dopo quelli di Sebastocrator, Cesare e Protovestiario) che gli attribuiva il comando supremo di tutte le forze armate dello Stato e il diritto di inalberare quattro stendardi: quello giallo e nero imperiale, quello personale di Megaduca oltre a quelli di Sicilia e di Aragona.

Appena tre settimana più tardi, i due messi erano già di ritorno annunciando allo stupefatto de Flor che l'imperatore, al colmo dell’entusiasmo per l’aiuto promessogli, aveva accettato tutte le condizioni. Ne faceva prova il decreto di investitura recante la firma di Andronico, vergata con il cinabro e avallata dalla bolla d’oro, lo stendardo, il bastone e il berretto, tutte, insomma, le insegne del Megaduca.
Il Megaduca riuscì ad assoldare cinquemila fanti e milleduecento cavalieri, che imbarcò a Messina su 36 navi, con le mogli, le concubine, i figli dei mercenari.
Nasceva così la Compagnia catalana d'Oriente
La spedizione saccheggiò al passaggio Corfù e a Monemvasia, nel Peloponneso, trovò ad attenderla i tesorieri imperiali che recavano la promessa prima rata del soldo.

Giunto a Costantinopoli, Ruggero de Flor con tutto il suo esercitò sfilò davanti all'imperatore e alla corte.

 
Josè Moreno Carbonero, L'ingresso a Costantinopoli di Ruggero de Flor, olio su tela, cm. 350x550, 1888, Palacio del Senado, Madrid

Ruggero de Flor sfila alla testa della Compagnia catalana davanti all'imperatore Andronico II ed al co-imperatore Michele IX, attorniati dai funzionari di corte. Gli almugavari indossano il loro caratteristico copricapo a reticella. Lo stendardo d'Aragona procede alla destra del Megaduca mentre quello con l'aquila bicipite imperiale è alle sue spalle. Sullo sfondo si riconosce la chiesa di Santa Sofia.

Andronico II assegnò agli Almugavari, come quartiere, i locali del monastero di San Cosma poi, nel corso di un’udienza solenne, annunciò le prossime nozze del Megaduca Ruggero con la principessa Maria, figlia della propria sorella Irene e dell’ex re dei Bulgari, Asan.
Le nozze furono celebrate con grande sfarzo in Santa Sofia, ma proprio al termine della festa nuziale nel palazzo delle Blachernae i genovesi – probabilmente sobillati dal co-imperatore Michele IX che sospettava il Megaduca di mirare al trono - attaccarono in massa i quartieri degli Almugavari. Questi ultimi reagirono con l’abituale violenza, massacrando tremila e più genovesi e solo grazie all’energico intervento del Megaduca e dei suoi ufficiali furono a stento impediti dal varcare il Corno d’Oro e mettere a sacco le enormi ricchezze accumulate nel quartiere genovese di Galata.
Questi avvenimenti incresciosi, forse assai più che non l’incalzare dell’offensiva dei Turchi, precipitarono la partenza degli Almugavari per l’Asia Minore.
Affrettati infatti i preparativi, Ruggero de Flor con i suoi cinquemila uomini e milleduecento cavalieri Alani, ai primi di gennaio 1303 si imbarcò - con grande sollievo dei Bizantini- facendo vela per Artaki (l’antica Cizico) sul mar di Marmara.
In quel mentre un grosso corpo di truppe dell' Emiro di Karasi si preparava ad occupare quella penisola che riteneva indifesa.
Senza perdere un istante gli Almugavari si gettarono sul nemico annientandolo, poi si volsero al campo mettendolo a sacco. Una settimana non era ancora trascorsa dalla partenza di Ruggero da Costantinopoli, che già vi facevano ritorno quattro galere con l’annuncio della vittoria e un gran carico di bottino e di schiavi.
Mentre Ruggero trascorreva la luna di miele con la sua sposa, che lo aveva raggiunto a Cizico, e abbandonava i territori circostanti agli eccessi dei propri uomini, giunse notizia che Alì Shir, Emiro di Karaman, il più potente signorotto turco dell’Anatolia, stava assediando la piazzaforte bizantina di Filadelfia di Lidia.
Obbedendo agli ordini pressanti di Andronico II, il Megaduca sul finire dell' aprile 1303 si diresse a marce forzate contro il temuto avversario. Percorsero oltre seicento chilometri di aspro terreno prima di giungere in prossimità di Filadelfia dove li attendeva Alì Shir con dodicimila fanti e ottomila cavalieri già schierati in battaglia.
L’urto fu immediato e terribile ma la disciplina e l’agilità manovriera degli Almugavari ebbero ragione della superiorità numerica dei turchi. Al termine di una intera giornata di furibondi combattimenti, i superstiti volsero in fuga recando con se Alì Shir mortalmente ferito e abbandonando il campo, le donne e l’intero carreggio ai vincitori.

Filadelfia, liberata dall'assedio, tributò accoglienze trionfali ai suoi liberatori i quali non tardarono a sottoporre gli abitanti alle più crudeli angherie. Ritenendo più prudente non prolungare la sosta in quella località, Ruggero e la sua compagnia calarono lungo la valle dell'Ermone verso il litorale per liberarlo dalla presenza dei turchi.
Raggiunta Efeso, sempre combattendo con grande successo ma rendendosi ovunque responsabili di inutili crudeltà, gli Almugavari trovarono ad attenderli un grosso rinforzo appena giunto dalla Sicilia, guidato dall’amico prediletto di Ruggero de Flor, Berenguer de Rocafort. I due condottieri si concertarono; bisognava finirla con l’ultimo ma più forte esercito turco in cui numerosi contingenti di vari Emiri erano coalizzati.
Nonostante l’incredibile rapidità della marcia, molti giorni sarebbero occorsi agli Almugavari per raggiungere il nemico, addirittura sulla catena del Tauro.
Lì, poco prima di attraversare il colle delle Porte di Cilicia i turchi avevano teso un agguato al quale il Megaduca riuscì a sfuggire per miracolo, avendo appena il tempo di schierare le sue truppe a difesa.
Ventimila fanti e diecimila cavalieri gli piombarono addosso, ma la tenacia e l’ardore degli Almugavari finirono per averne ragione. Si combatté fino a notte inoltrata.
All' alba del 15 agosto 1304, si scopersero 6 mila cavalieri e 12 mila fanti turchi caduti, i vincitori avrebbero voluto calare nella pianura di Cilicia, muovere ancora più lontano ma Ruggero de Flor e i suoi ufficiali li dissuasero.
Sgominati i turchi, padroni assoluti di una così vasta parte dell' Asia Minore, il Megaduca e quei cavalieri spagnoli vedevano realizzate le premesse delle loro aspirazioni segrete: crearsi dei domini indipendenti da Bisanzio in quelle regioni, così come in Palestina e in Grecia avevano fatto i Crociati.


Ripiegando su Magnesia, dove aveva lasciato il bottino di guerra, ne trovò le porte sbarrate. Mentre si apprestava ad assediarla, ricevette l'ordine di Andronico II di recarsi nella Tracia che era minacciata da un attacco dei Bulgari. Acquartieratosi a Gallipoli, apprese che il suo gloriosissimo corpo avrebbe costituito l’ala sinistra dell’esercito destinato a combattere i Bulgari, agli ordini del co-imperatore Michele IX il quale aveva fissato il proprio quartier generale a Adrianopoli. Ruggero si risentì di tale posizione subordinata come di un insulto, ma non fiatò.

Nel frattempo, nell'autunno del 1304, sbarca nel Bosforo Berengario d’Entenza, altro condottiero catalano, già conosciuto da Ruggero in Sicilia. Andronico II nomina megaduca anche quest’ultimo: il condottiero protesta minaccioso; gli viene allora assegnato il titolo di “cesare”, che non veniva più utilizzato da 400 anni e gli è offerta in feudo la parte asiatica dell’ impero, con un sussidio di frumento e di denaro, alla condizione di ridurre le truppe a sua disposizione a 3000 uomini.

Prima di partire per l'Anatolia, Ruggero volle recarsi a Adrianopoli annunciando che intendeva compiere il proprio dovere prendendo congedo dal co-imperatore Michele IX, in realtà per constatare di persona di quante forze quest’ultimo potesse disporre. Partì con mille Almugavari e duecento cavalieri giungendo a Adrianopoli il 23 marzo 1305. Stupefatto della temerarietà del suo mortale nemico, Michele IX si propose di giocarlo d’astuzia.
Si recò di persona ad accoglierlo alle porte della città; a colpo d’occhio valutò la sua scorta, poi mentre lo riceveva con gran fasto a corte, lasciando che egli si intrattenesse gradevolmente con la bellissima basilissa Maria, fece affluire verso la sua capitale quante più truppe gli fosse dato raccogliere, Ruggero cadde nella trappola. Il 2 aprile 1305 tutte le truppe chiamate da Michele erano ammassate in Adrianopoli pronte ad intervenire per massacrare gli Almugavari. Al palazzo si svolgeva una gran festa di addio e parevano regnare la più grande animazione e allegria. A un tratto la basilissa si alzò per prendere congedo. Mentre Ruggero de Flor era chino per baciare un lembo della sua veste, una mano ignota lo colpì alle spalle con un pugnale. Crollò senza un gemito, morto all’istante, mentre nella città si iniziava la caccia e il massacro dei suoi soldati.

I superstiti della Compagnia, circa 3000 uomini, al comando di Berengario d'Entenza si asserragliarono nel quartier generale di Gallipoli, subito cinta d'assedio da parte di Michele. Berengario salpò alla ricerca di aiuto, ma finì nelle mani dei genovesi.
Alla determinazione del nuovo capitano Bernardo di Rocafort si dovette la riscossa dei mercenari, liberata Gallipoli, nel luglio 1305 affrontarono e sconfissero in battaglia presso la fortezza di Apros l'esercito di Michele IX; lo stesso principe rimase sfregiato e si salvò a stento. Quindi inseguirono fino in territorio bulgaro l'uccisore di Ruggero, il capo degli alani Gircone, e lo giustiziarono. Nella città di Rodosto, dove tre loro ambasciatori erano stati squartati dai bizantini, riservarono lo stesso trattamento a tutta la popolazione, mentre a Perinto bruciarono gli uomini, violentarono e sgozzarono le donne e schiacciarono i bambini.

Al ritorno di Berengario, liberato grazie all'intercessione di Giacomo II d'Aragona, la Compagnia si divise: il re di Sicilia Federico, ansioso di porre sotto la propria autorità i mercenari, inviò infatti il nipote Ferdinando di Maiorca, in qualità di suo luogotenente e capitano dei catalani. Berengario lo appoggiò incondizionatamente, ma Bernardo di Rocafort preferì scindere l'autorità dell'Infante da quella del sovrano di Sicilia, limitandosi a riconoscere solo il comando di Ferdinando. A prevalere fu il partito di Bernardo: Berengario venne ucciso e Ferdinando costretto a partire.
Rinforzati da un contingente di 1800 ausiliari turchi, i catalani fecero scempio delle campagne della Tracia fino al 1307, quando si trasferirono in Macedonia, a Cassandria, e nella penisola di Pallene, vessando nel corso della loro marcia perfino i monasteri del monte Athos e assediando senza successo Tessalonica.

La spregiudicata condotta di Bernardo di Rocafort aveva però privato la Compagnia di qualsiasi appoggio politico, al punto che il condottiero si vide costretto ad avvicinarsi alla Francia, dove Carlo di Valois, fratello del re Filippo IV il Bello, con l'appoggio del papato allora ad Avignone, tramava per impossessarsi della corona di Bisanzio.
Nel 1308 i catalani acclamarono così il plenipotenziario francese Tebaldo di Cepoy quale loro nuovo capitano e, a differenza di quanto era accaduto con la corona siciliana, fecero atto di sottomissione nei confronti di Carlo. Ma dopo un paio di sconfitte a Tessalonica e a Varria ad opera del generale bizantino Chandrenos, che portarono alla caduta del Rocafort, e in seguito alle pressioni di Venezia, che vedeva minacciati i propri interessi in Calcidica, nella primavera del 1309 la Compagnia si allontanò dalla sfera degli interessi bizantini trasferendosi in Tessaglia.
Qui trascorse un anno depredando e vessando il principato di Giovanni II Angelo, uno dei tanti staterelli nati durante l'occupazione latina di Costantinopoli nel secolo precedente e ora sotto la tutela del duca franco d'Atene.
Fu allora che il duca Tebaldo di Cepoy rinunciò al suo mandato, conscio di non poter imporre a quella turba indisciplinata una linea politica coerente con i piani di Carlo di Valois.
Nella primavera del 1310 i catalani, al comando di Ruggero Deslaur, si mossero verso il meridione ingaggiati da Gualtiero V di Brienne, duca d'Atene, col quale vennero in urto quasi subito.
Lo scontro che ne derivò il 15 marzo 1311 (battaglia di Halmyros) lasciò sul campo 20.000 fanti e 698 cavalieri su 700 nell'esercito franco, nonché lo stesso duca. La Compagnia catalana, che al momento contava 7000 uomini, poté così insediarsi, senza ulteriori sforzi, nella capitale Tebe e ad Atene, rilevando l'intero ducato, a dispetto della scomunica papale e nonostante lo spettro, paventato dal pontefice, di un intervento armato degli Ospitalieri.





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