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lunedì 8 aprile 2013

Santa Eufemia di Calcedonia

Santa Eufemia di Calcedonia

S.Eufemia, basilica eufrasiana di Parenzo, VI sec.

Secondo la Passio Calcedonense Eufemia era figlia di due cristiani, il senatore Philophronos e Teodosia, e viveva nella città di Calcedonia, sulle rive del Bosforo.
A quel tempo – i Fasti Vindobonenses priores datano il suo martirio il 16 settembre 303 durante le persecuzioni dioclezianee - era proconsole d’Asia Prisco, un entusiasta devoto di Ares. Egli fece diffondere l’ordine a tutti gli abitanti della provincia di venire a Calcedonia per celebrare la festa del suo dio, sotto pena di morte.
Come risultato i cristiani fuggirono a piccoli gruppi in case isolate o nei deserti per sottrarsi all'ordine e salvaguardare la loro fede. Sant’Eufemia e altri 49 cristiani rimasero nascosti in una casa, dove assistettero segretamente al culto cristiano ma il loro nascondiglio fu scoperto e furono portati davanti al proconsole, che cercò con le lusinghe di convincerli a non sacrificare la loro gioventù e ad avere buon senso.
“Non sprecate il vostro tempo e le vostre parole con noi”, gli rispose la santa. “Ci sono persone dotate di ragione, per cui la più grande disgrazia sarebbe di abbandonare l’unico vero Dio, il Creatore del cielo e della terra, per rendere culto a idoli muti e inanimati. Non abbiamo paura dei tormenti che ci minacciano. Saranno facili per noi da sostenere e mostreranno la potenza del nostro Dio”.

Queste parole fecero infuriare il proconsole, ed Eufemia e i suoi compagni vennero ininterrottamente sottoposti a varie torture e tormenti per venti giorni, ma nessuno di loro vacillò nella fede, né accettò di offrire sacrifici ad Ares. Il proconsole, fuori di sé dalla rabbia e non sapendo in quale altro modo costringere i cristiani ad abbandonare la loro fede, li inviò a giudizio all’imperatore Diocleziano, ma trattenne la più giovane, la vergine Eufemia, sperando che la sua forza venisse meno se fosse rimasta sola.
Sulle prime esortò Eufemia a ritrattare, promettendole beni terreni, ma poi diede l’ordine di torturarla.
La martire fu legata ad una ruota con una lama appuntita che tagliasse il suo corpo. La santa pregò ad alta voce, e accadde che la ruota si fermò da sola e non si mosse neanche con tutti gli sforzi dei carnefici. Un angelo del Signore, sceso dal cielo, liberò Eufemia dalla ruota e la guarì dalle sue ferite.
Non vedendo il miracolo che era avvenuto, Prisco ordinò ai soldati Vittorio e Sostene di prendere la santa e gettarla in un forno rovente. Ma i soldati, vedendo due temibili angeli in mezzo alle fiamme, si rifiutarono di eseguire l’ordine del proconsole e divennero credenti nel Dio che Eufemia adorava. Proclamando arditamente che anche loro erano cristiani, Vittorio e Sostene affrontarono coraggiosamente il martirio e furono dati in pasto alle bestie feroci.
Sant’Eufemia, gettata nel fuoco da altri soldati, rimase illesa. Con l’aiuto di Dio uscì indenne dopo tante torture e altri tormenti.
Attribuendo ciò a stregoneria, il proconsole diede ordine di scavare una nuova buca, e riempirla di lame affilate, ricoprendola poi con terra ed erba, in modo che la martire non notasse la preparazione per la sua esecuzione.
Ancora una volta sant’Eufemia rimase illesa, passando facilmente sopra la fossa.
Infine, fu condannata ad essere divorata dalle bestie feroci nel circo. Prima dell’esecuzione la santa cominciò a implorare il Signore che la ritenesse degna di morire di una morte violenta. Ma nessuna delle fiere, libere nell’arena, l'attaccò. Infine, un’orsa la ferì lievemente sulla gamba, che iniziò a sanguinare, e subito Eufemia morì. In quel momento avvenne un terremoto, e sia le guardie che gli spettatori fuggirono in preda al terrore, di modo che i genitori della santa poterono prendere il suo corpo e seppellirlo non lontano da Calcedonia.

Nella sua Omelia XI, il vescovo Asterio di Amasea (335 c.ca-410 c.ca) descrive in questo modo gli affreschi raffiguranti il martirio di Eufemia che ha visto nel nartece (porticato coperto) di una chiesa non meglio precisata:


Altero siede il giudice sul suo seggio, guardando ostile e spie­tato verso la vergine (monta in collera, se vuole, l’arte, pur con la sua materia inanimata). Vi sono le guardie del corpo del magi­strato, e molti soldati; quelli che portano le tavolette scritte degli atti e gli stili, e uno di essi staccando la mano dalla cera guarda risolutamente verso colei che viene giudicata, e ha tutto il volto in­clinato, come per esortarla a parlare più chiaramente, affinché non accada che, stentando ad ascoltare, scriva cose errate e biasimevoli.
Sta la vergine in abito scuro e col mantello, simbolo della filosofia; fine e gentile come sembrò all’artista; adorna nell’animo, come a me sembra, delle sue virtù. Due soldati la conducono fin davanti al giudice, uno tirandola di davanti, l’altro spingendola di dietro. Lo stato d’animo della vergine è misto di pudore e di fermezza. Si china infatti verso terra, come arrossendo per la vergogna agli sguardi degli uomini, però sta impassibile, non mostrando alcun ti­more per la prova. (...)
Proseguendo la raffigurazione, alcuni carnefici appena coperti da una corta tunica già si mettono all’opera: una afferrandole il capo e reclinandolo all’indietro, offre all’altro il volto della vergine pronto alla pena, un altro accanto le strappa i denti. Si vedono gli strumenti del martirio, un martello e un trapano. Perciò mi metto a piangere e la sofferenza tronca il mio discorso. Infatti il pittore così vividamente ha colorito le gocce di sangue, che vera­mente diresti che sgorghino dalle labbra, e andresti via piangendo.
Oltre a ciò si vede la prigione e di nuovo la casta vergine in veste scura che sta seduta sola protendendo le braccia verso il cielo e invocando Dio soccorritore nei pericoli. E a lei che prega appare sopra il capo quel segno che suole essere adorato e impresso dai cristiani, simbolo, credo, della sofferenza appunto che l’attendeva. Subito dopo dunque il pittore accese in un altro posto un fuoco vigoroso, rafforzando la fiamma di colore rosso, rilucente da ogni par­te. E in mezzo pose lei, con le braccia spiegate verso il cielo, senza pena nel volto, ma al contrario lieta di passare a una vita incorporea e beata.

Nel ciclo di affreschi della chiesa costantinopolitana di Santa Eufemia all'Ippodromo che illustra la vita ed il martirio della santa, composto da 14 riquadri e databile alle ultime decadi del XIII secolo, sono invece raffigurate le seguenti scene:


Fascia superiore, da sn a ds:
2. Santa Eufemia in trono;
3. Santa Eufemia viene giudicata dal Tribunale;
4. La santa viene sottoposta alla tortura della ruota.
Fascia inferiore, da sn a ds
8. La santa viene gettata in un lago infestato da mostri marini;
9. Eufemia viene gettata nella fossa rivestita da lame acuminate;
10. Fustigazione;
5. Santa Eufemia nella fornace e conversione dei due soldati;
6. Martirio di Vittorio e Sostene;
11. La santa viene torturata con una sega;
12. Morte nell'arena del circo.

Nel 451 il Concilio di Calcedonia si riunì nella basilica che era sorta attorno al martyrion della santa. Per dirimere la controversia che contrapponeva gli ortodossi ai monofisiti di Eutiche e Dioscoro, il patriarca di Costantinopoli Anatolio propose ai padri conciliari di sottoporre la decisione allo Spirito Santo, attraverso la sua indubbia portatrice sant’Eufemia. I gerarchi ortodossi e gli avversari scrissero le loro confessioni di fede su rotoli separati e sigillati con i propri sigilli. Aprirono l’urna della santa e collocarono entrambi i rotoli sul suo petto. Poi, alla presenza dell’imperatore Marciano (450-457), i partecipanti al Concilio sigillarono la tomba, apponendo su di essa il sigillo imperiale e oltre ciò mettendo una sentinella di guardia per tre giorni, durante i quali entrambe le parti si imposero un rigoroso digiuno e resero intensa preghiera.
Dopo tre giorni il patriarca e l’imperatore, alla presenza del Concilio aprirono la tomba con le sue reliquie: la pergamena con la confessione ortodossa era tenuta da sant’Eufemia nella mano destra, mentre il rotolo degli eretici giaceva ai suoi piedi. Sant’Eufemia, come se fosse viva, alzò la mano e diede il rotolo al patriarca. Dopo questo miracolo molti dei titubanti accettarono la confessione ortodossa, mentre quelli rimasti nell’ostinata eresia furono consegnati alla condanna del Concilio e scomunicati.




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