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domenica 18 novembre 2012

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (IV)

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (IV)


Valente (364-378)
Nominato augusto per l'Oriente dal fratello Valentiniano I pochi giorni dopo la sua elezione ad imperatore, Valente ereditò la parte orientale di un impero che si era appena ritirato da gran parte dei propri possedimenti in Mesopotamia e Armenia in seguito al trattato firmato da Gioviano col re di Persia Sapore II.
Nel 365, mentre si trovava in Cappadocia per organizzare una nuova avanzata verso est, fu raggiunto dalla notizia che Procopio, un cugino di Giuliano che aveva comandato il corpo di spedizione in Armenia durante la sfortunata campagna contro i sasanidi, si era proclamato imperatore il 28 settembre a Costantinopoli. Grazie al suo imparentamento con la dinastia costantiniana, l'usurpatore si guadagnò il sostegno della popolazione di Costantinopoli e di alcune legioni.
Lo scontro decisivo avvenne nell'aprile/marzo del 366 nei pressi di Thyatira (l'attuale Akhsar in Turchia) e l'esito a favore di Valente fu determinato dal tradimento del generale Goamario che nel corso della battaglia passò dalla sua parte con i suoi uomini. Procopio, fuggito dal campo di battaglia con pochi fedelissimi, fu catturato poco dopo nei pressi di Nacoleia e giustiziato il 27 maggio.
 
Testa di Valente
Musei capitolini, Roma
 
Tra l'estate e l'autunno del 376, decine di migliaia di profughi goti e di altri popoli, scacciati dalle proprie terre e incalzati dagli unni, premevano sul Danubio, confine dell'Impero romano, chiedendo di poterlo attraversare e stabilirsi in territorio romano.
Valente accettò di accogliere i Tervingi di Fritigerno e Alavivo allo scopo di rafforzare il suo esercito in vista di una nuova campagna contro i sasanidi e promise loro terre da coltivare e la distribuzione di razioni alimentari. La struttura logistica romana, in parte per la corruzione di alcuni funzionari e ufficiali che speculavano sui profughi, non resse l'impatto di questa immigrazione controllata e rapidamente i Goti furono ridotti alla fame.

Tra la fine del 376 e l'inizio del 377 le zone a ridosso del Danubio vennero saccheggiate dai Goti; ai Tervingi di Fritigerno si unirono tutti i Goti entrati in territorio romano, come pure schiavi, minatori e prigionieri. Le guarnigioni romane dell'area riuscirono a difendere i centri fortificati, ma la maggior parte delle campagne furono alla mercé dei Goti, i quali si trasformarono in breve tempo da gruppi separati di profughi ribelli in una massa organizzata per la guerra e il saccheggio.
A questo punto la situazione per i Romani divenne difficile: Valente aveva sottovalutato la minaccia dei Goti rispetto al nemico di sempre, i Sasanidi, e teneva impegnato l'esercito presenziale (così era detto l'esercito che accompagnava l'imperatore nelle campagne militari) in oriente, né le truppe in Tracia potevano reggere alla pressione di Unni, Alani e altre popolazioni germaniche lungo i confini e, al tempo stesso, infliggere una sconfitta decisiva ai Goti.
Al tempo stesso i Goti si trovavano in una posizione altrettanto difficile, profondamente in territorio nemico e con la necessità di procacciarsi notevoli quantità di cibo, cosa che li costringeva a muoversi in gruppi di numero ridotto, possibile preda di attacchi di forze romane; il loro obiettivo poteva essere quello di infliggere ai Romani una sconfitta tale da imporre loro dei termini non distanti dall'accordo di ingresso nel territorio imperiale (la concessione di terre da coltivare), ma dovevano farlo presto, prima dell'arrivo di altre truppe romane.
Valente, che si trovava con l'esercito presenziale ad Antiochia, in attesa di completare i preparativi per trasferirlo in Tracia, inviò due dei suoi generali, Traiano e Profuturo. Nel frattempo, a testimonianza della gravità della situazione, l'imperatore d'Occidente, Graziano, nipote di Valente, inviò due legioni, al comando di Ricomere e Frigerido, in Tracia, sia per impegnare i Goti che per assicurarsi che non passassero in Occidente.
I due generali di Valente non impegnarono il nemico attaccandolo quando era diviso in piccoli gruppi, ma decisero di ingaggiarlo nel suo insieme con le truppe dell'esercito d'Armenia, che avevano dato prova di valore; con queste spinsero i Goti all'interno delle valli per prenderli per fame.



Battaglia dei salici (estate 377).
Non giungendo l'atteso aiuto di Frigerido, caduto ammalato e attardatosi lungo la strada, Traiano e Profuturo, affrontarono I goti guidati da Fritigerno con le loro due legioni affiancate da quella di Ricomere in una località a sud del delta del Danubio nota come Ad Salices. Le legioni romane impegnarono a lungo un'enorme massa di barbari trincerati dietro un muro di carri, fino allo scontro in campo aperto: dopo un iniziale cedimento dell'ala sinistra romana, rafforzata dall'arrivo di truppe ausiliarie locali, la battaglia si trasformò in una mischia corpo a corpo che durò fino al calar della notte. La battaglia fu in effetti senza vincitori: i Romani, sebbene in inferiorità numerica e con numerose perdite (incluso Profuturo stesso), riuscirono ad evitare un tracollo totale grazie al proprio superiore addestramento e a ripiegare su Marcianopoli (la città, fondata da Traiano agli inizi del II secolo in onore della sorella Ulpia Marciana, sorgeva nei pressi dell'attuale Devnja, in Bulgaria).

La battaglia dei salici interruppe momentaneamente le ostilità aperte: Ricomere tornò, all'inizio dell'autunno, in Gallia, dove si trovava Graziano, per raccogliere altre truppe per la campagna dell'anno successivo, mentre Valente nominò Saturnino magister equitum e lo inviò in Tracia con un contingente di cavalleria ad affiancare Traiano.
Saturnino e Traiano riuscirono a bloccare i Goti nei passi dell'Haemus, in Tessaglia, formando una linea di avamposti che respinsero i tentativi di sfondamento dei Goti: lo scopo dei generali romani era quello di sottoporre il nemico ai rigori dell'inverno e alla mancanza di cibo e di costringerlo alla sottomissione; in alternativa, avrebbero tolto successivamente le sentinelle, attirando Fritigerno in una battaglia in campo aperto nelle pianure tra il monte Haemus e il Danubio, in cui contavano di sconfiggerlo. Fritigerno, però, non avanzò verso nord accettando battaglia, ma arruolò contingenti di Unni e Alani in suo rinforzo; Saturnino, resosi conto di non poter più fronteggiare il nemico, abbandonò il blocco dei passi ed arretrò. Davanti ai Goti si aprirono allora vasti spazi e poterono invadere e saccheggiare un vasto territorio che giungeva sino ai monti Rodopi a sud e che andava dalla Mesia all'Ellesponto.
Valente chiamò allora Sebastiano ad occuparsi dell'organizzazione dell'esercito, nominandolo magister peditum ed esonerando Traiano. Sebastiano scelse duemila soldati, che addestrò e comandò personalmente. Si avvicinò alle città prese dai barbari, tenendo sempre l'esercito al sicuro da attacchi improvvisi; quando i barbari tentavano delle sortite per procurarsi il cibo, Sebastiano li sorprendeva massacrandoli.

Raggiunta Costantinopoli, Valente non volle attendere l'arrivo dei rinforzi inviati dall'imperatore d'Occidente e, nonostante l'inferiorità numerica, schierò l'esercito a battaglia a ridosso del campo trincerato dei goti nei pressi di Adrianopoli.

Battaglia di Adrianopoli (9 agosto 378)
La battaglia fu combattuta dall'esercito romano guidato da Valente e forte di circa 15.000 uomini e i goti di Fritigerno affiancati da unità alane e unne.
I goti inizialmente inviarono dei parlamentari e l'imperatore accettò di trattare. Ricomere si offrì come ostaggio per garantire l'incolumità di Fritigerno che sarebbe venuto a negoziare di persona come richiesto da Valente. In realtà Fritigerno voleva soltanto prendere tempo per attendere il rientro della cavalleria che era uscita per una scorreria.
Quando il generale franco uscì dalle linee romane per andare dai Goti, la guardia a cavallo degli Scutari, comandata da Bacurio, troppo vicina alle linee nemiche, accese una mischia con i Goti. Ricomere fu costretto a tornare indietro, il negoziato era fallito.


La cavalleria gotica, con gli alleati unni e alani, guidata da Alateo e Safrax , sbucò da dietro le colline e investì la cavalleria romana che finì addosso alla fanteria dell’ala sinistra.


Dopo un momento di smarrimento, i Romani iniziarono ad avanzare e la cavalleria giunse quasi a ridosso dei carri. La vittoria era a portata di mano, sarebbe bastato travolgere i carri e irrompere nel campo. Con sgomento i cavalieri si accorsero di essere soli, la fanteria romana non li aveva seguiti, intanto la cavalleria gotica, messa in fuga la cavalleria dell’ala sinistra dello schieramento romano, tornò indietro e investì i cavalieri di fianco e di spalle. La cavalleria pesante romana, bloccata tra i carri e i nemici, fu fatta a pezzi.


I legionari erano rimasti soli, con terrore videro che i Goti li circondavano, allora si compattarono e lentamente iniziarono a ritirarsi; i Goti cercavano di colpirli con frecce e con cariche di cavalleria, ma inutilmente, così fecero intervenire la fanteria che si gettò sui legionari con impeto, ma quelli erano i migliori veterani di tutto l’Impero d’Oriente e avrebbero venduta cara la pelle.
Tra questi reparti (i Lanciarii e i Mattiarii) ancora combattenti si rifugiò Valente che era rimasto privo della cavalleria di scorta. Traiano vide l’imperatore in pericolo e gridò di aiutarlo, il comes Vittore si diresse dai Batavi (che erano rimasti di riserva) e disse loro di aiutare il sovrano. I Batavi invece fuggirono, con loro scapparono Vittore, Ricomere, Saturnino, e tutti coloro che avevano un cavallo.
Valente rimase solo con i fanti. Alla fine però le lance si spezzarono, gli scudi si ruppero, la stanchezza e la disperazione ebbero la meglio; la fanteria perse ogni speranza e, sebbene veterana, fuggì. I barbari iniziarono a inseguire e a massacrare i soldati romani senza sosta, ebbri di sangue e di vittoria.
Giunse infine la notte, e con essa la fine del massacro. Nella fuga generale la strage fu immensa, i due terzi dei veterani dell’Impero furono annientati, tra gli altri morirono 35 tribuni (con e senza comando militare), i generali Traiano e Sebastiano, Valeriano, amministratore delle scuderie imperiali, Equizio, amministratore del palazzo e Potenzio, tribuno dei Promoti.
Incerta è la fine di Valente. Ammiano Marcellino riporta due versioni: la prima vuole che, al calare delle tenebre, cadesse fra i soldati semplici colpito a morte da una freccia.
“Altri dicono che Valente non esalò subito l’anima, assieme ai candidati e a pochi eunuchi fu portato in una baracca di campagna il cui secondo piano era ben difeso: qui morì, perché curato da mani inesperte. Circondato da nemici che non sapevano chi fosse, fu esentato dalla vergogna della prigionia. I nemici tentarono di sfondare le porte sbarrate, ma dalla parte alta della casa erano attaccati con il lancio di frecce; per non perdere la possibilità di fare bottino a causa di un indugio da cui sarebbe stato impossibile venire a capo, ammucchiarono paglia e legna cui dettero fuoco così bruciando l’edificio e chi vi stava dentro. Uno dei candidati (soldati della guardia personale dell'imperatore) fuggì da una finestra e, catturato dai Goti, raccontò loro chi c’era nella casa, i Goti si dispiacquero molto di aver perso un così illustre prigioniero. Questo stesso soldato poi fuggì dai barbari e, tornato tra i Romani, riferì che quella era stata la fine dell’imperatore.”
Era dai tempi di Canne che Roma non subiva una sconfitta di questa portata.
Valente sposò, prima della sua ascesa al trono, Alba Dominica da cui ebbe due figlie (Anastasia e Carosa) ed un figlio (Valentiniano galata) morto all'età di quattro anni.
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