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giovedì 15 dicembre 2011

Palazzo di Teodorico

Palazzo di Teodorico



Identificato come tale in virtù della somiglianza con il mosaico di Sant'Apollinare nuovo che lo raffigura, è in realtà databile tra il VII e il IX sec. Dovrebbe più probabilmente trattarsi dell'ardica della chiesa di S.Salvatore in Calchis, forse fatta costruire da Astolfo come nuova cappella palatina dopo la presa della città (750). 
Il protostorico Agnello, nel Liber pontificalis ecclesiae ravennatis (IX sec.), scrive comunque che la chiesa di San Salvatore era posta sul luogo ove si apriva la porta principale del palazzo di Teodorico.
Secondo altri studiosi potrebbe invece trattarsi dei resti di un corpo di guardia, costruito quando il palazzo divenne residenza dell'esarca (VII-VIII sec.), sul modello di quello costantinopolitano chiamato Chalke (da cui il termine in calchis) per via delle sue monumentali porte bronzee.
Interamente costruito in laterizi, presenta al piano inferiore una grande porta centrale affiancata da due aperture a doppio arco, al piano superiore una grande nicchia affiancata da due loggette cieche formate da colonne che poggiano su mensole marmoree. All'interno sono esposti frammenti musivi probabilmente provenienti dal palazzo reale che doveva trovarsi nelle vicinanze, ma fu completamente devastato dai Longobardi e spoliato a più riprese da Carlo Magno per concessione di papa Adriano I (772-795). 
Pur trattandosi di un edificio di epoca più tarda, il richiamo alla corrente teodoriciana è nondimeno evidente nell'uso delle forti archeggiature e del dominante nicchione centrale.
La tradizione di identificare il rudere col palazzo di Teoderico pare sia nata nel XVII secolo, quando vi fu addossato il sarcofago di porfido, ora nel mausoleo di Teodorico, che si ritiene aver contenuto le spoglie del sovrano goto.

All'interno dell'edificio sono attualmente conservati i frammenti della pavimentazione musiva rinvenuti nell'area circostante.
 
Pianta dell'area di scavo
 
Dalle più recenti analisi dei dati di scavo nell'area sembra possibile evincere che a fine I sec. a.C.-inizio II sec. esistevano qui due complessi edilizi:
1. Quello settentrionale riconducibile ad una villa suburbana, con triclinium/tablinum affiancato da altri ambienti e affacciato su un atrio.
2. Nel settore meridionale è stata invece individuata una serie di ambienti affacciati su un corridoio (portico A1), ripavimentati a mosaico verso la fine del I sec. - inizi del II, riguardo ai quali non è possibile stabilire se facessero parte della villa suburbana.
Nel IV secolo l'intero complesso risulta essere una residenza di notevoli dimensioni, costituita dagli ambienti dei settori settentrionale e meridionale che gravitano attorno ad un grande cortile porticato. In età onoriana (393-423) la residenza viene ulteriormente monumentalizzata e si trova ad avere, a nord, una grande aula absidata (Stanza L) pavimentata, forse proprio in questa fase, in opus sectile: è probabile, ma non dimostrabile archeologicamente, che il complesso sia il palazzo imperiale di Onorio, che nel 402 trasferì la capitale a Ravenna.
In età teodericiana (493-526) il palazzo viene nuovamente trasformato: nel settore nord vengono aggiunti alcuni ambienti fra cui un grande triclinio triabsidato (Sala S); alcuni ambienti vengono ripavimentati a mosaico. Secondo l'ipotesi più probabile il sovrano goto avrebbe riutilizzato per la sua residenza il palazzo preesistente, fatto erigere da Onorio al momento del trasferimento della capitale a Ravenna, sui resti di strutture di età imperiale, identificate con una villa suburbana, almeno nella parte settentrionale del complesso. E.Russo (2005) ritiene che il palazzo di Onorio sia sorto nell'area della sede del praefectus classis, cioè di un edificio militare dotato di ambienti di rappresentanza.
Le ultime modifiche di una certa consistenza si hanno nella seconda metà del VI secolo, quando il livello di alcuni ambienti è innalzato mediante una nuova pavimentazione a mosaico. Il palazzo rimase attivo almeno fino all'VIII secolo inoltrato.
 
Frammento del pavimento in opus sectile della Stanza L
 
Pavimento musivo del Portico A1
 
Nei frammenti superstiti è delineata una scena di caccia a cavallo. Si distinguono una rete, con andamento ellissoidale; un cavaliere, di cui rimane solo un lembo grigio della clamide, con il cane a fianco; tre cavalieri all'inseguimento di tre fiere, due dei quali vestiti con tunica rossa e clamide grigia; almeno tre cinghiali; un personaggio appiedato, con corta tunica color nocciola e alti calzari rinforzati di cuoio, che stringe tra le braccia un animale ferito. Molto probabilmente la scena ritrae una venatio nell'anfiteatro più che una vera caccia campestre.
 
Particolare della scena di caccia al cinghiale
 

Pavimento musivo della Sala S
 
 

La scena centrale presenta la raffigurazione dell'episodio mitologico di Bellerofonte che uccide la Chimera: l'eroe ha il braccio destro alzato, il capo rivolto a sinistra, la clamide rosso-rosata aperta dietro le spalle; del cavallo alato Pegaso rimangono visibili le zampe posteriori, la coda grigia e l'estremità dell'ala destra; la Chimera, in secondo piano rispetto al cavallo alato, è accasciata al suolo, con la coda serpentiforme arrotolata intorno alla lancia dell'eroe. Attorno a Bellerofonte si dispongono entro medaglioni i busti delle personificazioni delle stagioni (se ne conservano frammenti leggibili soltanto di due attribuiti alla Primavera o Estate e all'Autunno). Secondo una interpretazione Bellerofonte rappresenterebbe l'allegoria di Teodorico vittorioso, che domina un ordine cosmico ben interpretato dalle Stagioni, dispensatore di beni e prosperità come gli antichi Cesari.
 
Frammenti del busto della Primavera/Estate





lunedì 12 dicembre 2011

Mausoleo di Teodorico

Mausoleo di Teodorico



Fatto edificare da Teodorico per esservi sepolto nel 520 circa, appare costituito da due ambienti decagonali sovrapposti l'uno all'altro. E' formato da grossi blocchi di pietra calcarea d'Istria squadrati e posti in opera a secco.


La calotta che chiude l'ambiente superiore è un monolito dal peso stimabile in circa 300 tonnellate; le dodici anse, recanti incisi i nomi di otto apostoli e dei quattro evangelisti, che lo decorano, servirono probabilmente a farvi scorrere dei canepi durante le manovre d'istallazione.
Secondo un'interpretazione del Sangallo, gli incassi visibili nelle pareti dell'ambiente superiore servivano a sostenere degli archi poggiati su colonne, oggi scomparse, che formavano una loggetta rotonda attorno al piano superiore.
Internamente, l'ambiente inferiore si presenta completamente spoglio con una pianta a croce greca. Si ignora dove fosse originariamente l'accesso al piano superiore, la scaletta attuale è stata realizzata nel 1927.
Nel vano superiore si trova una vasca di porfido che si presume contenesse le spoglie di Teodorico successivamente rimosse in epoca bizantina. E' decorata con due finti anelli sul fianco e una protome leonina in basso.

Secondo una suggestiva interpretazione (Ferri), l'eterogenea copertura circolare di un edificio decagonale corrisponderebbe alla volontà di Teodorico di ricordare nel suo mausoleo la tenda dei suoi avi:
a. Il fregio a tenaglia ricorderebbe i ganci, ruotati di 90 gradi per la legge di maggiore visibilità, su cui scorrevano le tende;
b. Le anse della calotta gli uncini delle aste che, dipartendosi a raggiera dal centro, sostengono la tenda;
c. La grande croce visibile all'interno della calotta riprodurrebbe l'apertura attraverso cui usciva il fumo e che veniva chiusa durante le pioggie da un disco di cuoio riprodotto all'esterno in un disco di pietra di circa 4 m. di diametro e aggettante sul resto di circa 10 cm.


domenica 11 dicembre 2011

Massimiano

Massiamiano nacque nel 498 a Vistro nell'agro di Pola, in Istria e divenne diacono della Chiesa locale. Il fortunato ritrovamento di un “tesoro” per mano sua o del padre gli permise di approdare alla corte imperiale di Costantinopoli, ove poté guadagnarsi la stima dell’imperatore Giustiniano.
Nel 545, alla morte del vescovo di Ravenna, i fedeli della città chiesero all’imperatore di insignire del pallio un candidato da loro proposto, ma questi consigliò invece a papa Vigilio di destinare alla sede vacante proprio Massimiano. Così fu ed il nuovo vescovo fu consacrato il 14 ottobre 546, ma ciò inevitabilmente causò un forte attrito con la popolazione ravennate, che considerava la sua nomina nulla più che un’indebita interferenza nella vita cittadina. A Massimiano non restò che accamparsi fuori delle mura, ospite del vescovo ariano dei goti, ma con tatto e diplomazia riuscì gradualmente ad accattivarsi la simpatia dei suoi fedeli e ad ottenere il permesso di prendere possesso della sede episcopale.
Il suo episcopato rappresentò l’età d’oro della Chiesa di Ravenna: infatti furono completate e consacrate le basiliche di San Michele e San Vitale, molte altre furono abbellite, e sempre a lui si devono interamente San Giovanni, Santo Stefano e varie chiese nella natia Pola (cfr. S.Maria Formosa), decorate con splendidi mosaici.
Le sue attività si estesero a tutta l’Italia, di cui a tutti gli effetti fu primate durante le lunghe assenza da Roma di papa Vigilio, ed i suoi sforzi furono incentrati in particolar modo sul ripristino dell’armonia e dell’unità all’interno delle chiese divise dallo scisma detto dei “Tre capitoli”.
Massimiano morì a Ravenna il 22 febbraio 556 e le sue spoglie furono tumulate nella basilica di Sant’Andrea, ove rimasero sino al 1809 per poi essere trasferite in cattedrale, in seguito alla sconsacrazione della chiesa da parte dell’amministrazione napoleonica della città.


Massimiano raffigurato nel mosaico di S.Vitale


Basilica di S.Vitale

Basilica di S.Vitale



Iniziata dal vescovo Ecclesio nel 525, ancora vivente Teodorico, fu completata e consacrata dal vescovo Massimiano nel 547. Come Sant'Apollinare in Classe fu realizzata grazie ai finanziamenti del banchiere greco Giuliano L'Argentario, la cui committenza è riconoscibile dall'impiego di mattoni lunghi e sottili (48 cm. x 4 di spessore) connessi da uno strato di malta di identico spessore.
La basilica è a pianta centrale ottagonale e presenta i pastoforia (protesi e diaconico) ai lati dell'abside. L'orientamento dell'ardica - originariamente sopravanzata da un quadriportico oggi ricoperto da un chiostro cinquecentesco - forse per la necessità d'inglobare precedenti sacelli, è obliquo rispetto all'asse principale della basilica.


Il campanile, che risulta dalla sopraelevazione di una delle due torri scalarie che introducevano al matroneo, risale probabilmente al X sec., come anche i vistosi contrafforti innalzati per contenere la spinta delle volte.

L'interno dell'edificio mostra la fusione dei caratteri costruttivi latini, riconoscibili nella robustezza degli otto pilastri che sostengono la cupola, con la dilatazione e smaterializzazione dello spazio dei bizantini, prodotta dai nicchioni a doppio ordine di colonne che si aprono tra questi e dalle trasparenze delle decorazioni musive. Intorno al giro interno dei pilastri corre l'ambulacro ottagonale.
L'impostazione della cupola è tipicamente bizantina: anzichè poggiare su un anello cilindrico, come quella latina, poggia sulle trombe coniche che insistono sui lati dell'ottagono. Un ulteriore alleggerimento è ottenuto mediante l'impiego nella costruzione di tubi cavi di cotto che s'inseriscono l'uno nell'altro.
Il ritmo architettonico, per l'ampio respiro dei nicchioni e l'ampiezza delle volte, colpisce il visitatore non meno della tessitura musiva e delle particolari venature dei marmi dei pilastri. I capitelli del loggiato inferiore , a forma di paniere e scolpiti a foglie d'acanto, hanno sui pulvini monogrammi variamente interpretati.

Mosaici absidali: il mosaico del catino absidale mostra Cristo assiso sul globo terrestre con in mano il rotolo dei sette sigilli, tra gli arcangeli; S.Vitale a cui porge la corona del martirio e il vescovo Ecclesio che gli porge il modellino della chiesa. In basso il giardino celeste con una rappresentazione stilizzata dei suoi quattro fiumi (Pison, Ghicon, Tigri e Eufrate). Nell’estradosso ai lati le città di Betlemme e Gerusalemme, al centro due angeli sostengono il cerchio solare con al centro l’Alfa.

catino absidale


I mosaici delle pareti laterali mostrano la raffigurazione di un evento realmente mai verificatosi: Giustiniano e Teodora, che non si recarono mai a Ravenna, assistono alla consacrazione della chiesa nell'atto della oblatio Augusti et Augustae (la donazione del piatto e del calice).
Ciò è evidente anche dai caratteri dei ritratti degli imperatori, che il maestro mosaicista probabilmente non vide mai dal vivo, assai meno dettagliati di quelli degli altri dignitari presenti.


Nel pannello di sinistra  si vede l'imperatore con in mano una patèra d'oro (il piatto su cui l'officiante depone le ostie prima di distribuirle ai fedeli), preceduto dall'arcivescovo  Massimiano con in mano una gran croce e affiancato dal diacono che porta i vangeli e il suddiacono con l'incensiere. Alcuni hanno identificato il personaggio alla destra dell'imperatore con il generale Belisario (mentre quello in secondo piano dietro di lui potrebbe essere suo nipote Anastasio) e quello alla sua sinistra Giuliano L'Argentario. Un'altra ipotesi vuole che quest'ultimo personaggio abbia in realtà le sembianze di Giovanni, il generale rivale di Belisario in quel momento in ascesa.
Abbigliamento: Giustiniano calza i campagi, sandali purpurei ornati di pietre preziose; indossa una tunica bianca (divitision), ornata lateralmente di una fascia d'oro che si prolunga sino al ginocchio e stretta in vita dal cingulum, una cintura che distingueva tutti i funzionari pubblici e sopra il manto di porpora, chiuso a destra da una fibbia preziosa e ornato da un motivo dorato di forma rettangolare (tablion).
I soldati della guardia imperiale portano il maniakion, un collare aureo che porta al centro un ovale orizzontale.
Il corteo procede in realtà verso destra ed è quindi aperto dal vescovo preceduto dai due diaconi come nel rituale dell'ingresso vescovile.


Nel pannello di destra  è raffigurata l'imperatrice Teodora con il suo seguito, a destra due cortigiani, uno dei quali solleva una tenda per mostrare all'imperatrice l'acqua della fontana, e a sinistra sette matrone, le prime due delle quali dovrebbero essere Antonina e Giovanna(*), rispettivamente moglie e figlia di Belisario. Alle spalle dell'imperatrice, una nicchia a forma di conchiglia, simbolo cristiano dell'immortalità. La veste appare riccamente decorata, nell'intarsio spiccano i tre Re magi che recano doni.
(*) Giovanna andò in sposa ad Anastasio, nipote di Teodora.


Lunetta di destra del presbiterio: Il sacrificio di Abele che offre un agnello al Signore e quello di Melchisedec, il re sacerdote di Salem (Gerusalemme) davanti al cui tempio è raffigurato, che gli offre pane e vino (Genesi 14) vengono considerati delle anticipazioni bibliche dell'eucaristia.

Lunetta di sinistra: due episodi della vita di Abramo: A) Abramo offre il pranzo sotto la quercia di Mamre ai tre angeli del Signore venuti ad annunciargli la nascita di Isacco mentre la moglie Sara sorride incredula sulla porta della capanna (Gen. 18); B) Sacrificio di Isacco.


Estradosso absidale: e' interessante confrontare questi due mosaici topografici - raffiguranti Gerusalemme e Betlemme - con quelli di S.Apollinare Nuovo. I secondi hanno infatti come referenti delle architetture reali mentre questi hanno come referenti delle architetture del tutto immaginarie; la Gerusalemme qui raffigurata non corrisponde infatti alla città realmente esistente quanto alla descrizione della Gerusalemme celeste data da S.Giovanni nell'Apocalisse: "La città è cinta da un grande ed alto muro... Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro. Le fondamenta delle mura sono adorne di ogni specie di pietre preziose." (Apocalisse, XXI)


Sarcofago di Isacio (Esarca di Ravenna, 620-637), la vedova Susanna vi fece incidere una elegante inscrizione greca (la traduzione in latino è successiva) che ne ricordava la carriera al servizio dell'impero e la morte gloriosa. 
Il sarcofago, in marmo greco e databile alla prima metà del V sec., è raccordato ad un coperchio semicilindrico non pertinente sia per le dimensioni che per la qualità del marmo. Si tratta, con molta probabilità, di una semicolonna riadattata alla cassa. Nella parte anteriore del coperchio una grande croce latina a rilievo identica a quella scolpita nel suo lato destro, divide la superficie curva e campeggia al centro dell’iscrizione greca ancora perfettamente leggibile.
Sul lato anteriore della cassa è scolpito l'Arrivo dei Magi mentre su quello posteriore è scolpito al centro il Chrismon ai lati del quale si dispongono due pavoni. Sui lati corti della cassa sono raffigurati rispettivamente la Resurrezione di Lazzaro e Daniele nella fossa dei leoni.




















sabato 10 dicembre 2011

Sant'Apollinare in Classe

Sant'Apollinare in Classe


E' la più grande basilica paleocristiana esistente. Fu fatta edificare dal vescovo Ursicino con la sovvenzione di Giuliano l'argentario e consacrata dal vescovo Massimiano nel 549.
La facciata presenta una grande trifora e due lesene laterali. Come evidenziato da scavi, la basilica era preceduta da un quadriportico. L'ardica e una delle due torri laterali sono state ripristinate da un restauro dei primi del '900. Il campanile 'è del X sec. e presenta due ordini di monofore, uno di bifore e tre di trifore per una altezza di circa 37 m.

lato settentrionale

 
L'interno è a tre navate, spartite da due file di dodici colonne con i tipici capitelli bizantini a foglie d'acanto e che poggiano su vistosi zoccoli marmorei. La nudità delle pareti laterali è dovuta alla spoliazione dei marmi operata nel XV secolo da Sigismondo Malatesta per ornare il suo Tempio di Rimini.


I mosaici dell'abside appartengono all'ultimo ciclo dell'arte musiva ravennate e segnano l'apice del simbolismo bizantino.

Nell'arco trionfale si nota la figura di Cristo nel nimbo, attorniato dai simboli zoomorfi dei quattro evangelisti (IX sec.). Dodici agnelli (gli apostoli) escono dalle città di Betlemme e Gerusalemme per ascendere al Cristo. Più in basso due palme (simbolo cristiano del martirio), a destra l'arcangelo Gabriele e a sinistra l'arcangelo Michele.
Nel catino absidale (metà VI sec.) domina una grande croce gemmata con al centro la figura di Cristo che allude alla Trasfigurazione sul monte Tabor: Cristo appare assieme a Mosè e Elia (i due busti che affiancano la croce) nella luce della gloria, a Pietro, Giovanni e Giacomo (le tre pecorelle) per volontà del Padre (la mano che esce dalle nuvole, la dextera dei). La croce è immersa in un cielo stellato e mostra in corrispondenza dei bracci laterali le lettere greche alfa e omega (l'inizio e la fine della vita), ai piedi l'iscrizione latina "Salus mundi" e in cima l'acrostico greco "iktus" (lett. "pesce", ), utilizzato dai primi cristiani per alludere al Cristo. Più in basso, al centro del prato fiorito raffigurante il monte Tabor, si staglia in atteggiamento di orante, la figura di Sant'Apollinare, primo vescovo di Ravenna, che sovrasta un gregge di dodici pecore, rappresentante la comunità dei fedeli.


Tra le finestre dell'abside i mosaici sicuramente più antichi, in quanto coevi all'edificazione della basilica, raffiguranti quattro vescovi della Chiesa ravennate.

Nelle pareti laterali, due scene databili al VII sec. ma successivamente ampiamente rimaneggiate.
A destra i tre sacrifici biblici di Abele, Melchisedec e Abramo.

 
A sinistra, con evidente richiamo ai mosaici di S.Vitale, l'imperatore Costantino IV (668-685), con i fratelli Eraclio e Tiberio e il figlio Giustiniano II, che consegna al vicedomino Reparato e all'arcivescovo Mauro il rescritto (risposta dell'imperatore alle petizioni dei sudditi) dei privilegi della Chiesa ravennate.
Dal momento che nell'iscrizione sovrastante i fratelli sono ancora menzionati come co-imperatori, il mosaico dev'essere antecedente al 681, anno in cui l'imperatore li privò di questo titolo. Le teste delle figure appaiono tutte rimaneggiate e il mosaico appare largamente integrato a tempera, a testimonianza della decadenza dell'arte musiva ravennate.


Mauro fu arcivescovo di Ravenna dal 642 al 671 e nel 666 riuscì ad ottenere dall'imperatore Costante II l'autonomia della sua diocesi dalla Chiesa di Roma (autocefalia) (1). Nel 673 Reparato - che subentrò a Mauro sul seggio vescovile - ottenne dal nuovo imperatore Costantino IV la conferma dei privilegi concessi alla chiesa ravennate. 
Il pannello musivo sarebbe stato quindi realizzato durante l'arcivescovado di Reparato (671-677) - che fece ridecorare la chiesa come ricordato in una sottostante iscrizione in latino (aula[enovo habitus fecit) - per celebrare un evento fondamentale nella storia della chiesa ravennate.
Recentemente Salvatore Cosentino (2) ha proposto, per la prima figura a sinistra del pannello, solitamente identificata con Giustiniano, il figlio di Costantino IV, ritratto senza aureola perchè all'epoca non ancora imperatore, l'identificazione con Teodoro Calliopa che fu esarca di Ravenna dal 653 al 666. Il personaggio tiene infatti in mano quello che sembrerebbe essere il modellino di un ciborio che lo storico mette in relazione con la traslazione delle spoglie di Sant'Apollinare dal nartece al centro della chiesa (probabilmente sotto l'altare il cui ciborio sarebbe stato donato dall'esarca) voluta dall'arcivescovo Mauro. Il fatto che i due chierici sulla destra della composizione tengano in mano un incensiere ed un calice rafforzerebbe ulteriormente l'ipotesi che il pannello commemori questo evento.

Lungo le pareti delle navate laterali sono disposti i sarcofagi in cui furono conservate le spoglie degli arcivescovi di Ravenna.

Sarcofago paleocristiano databile al V secolo 
riadattato a sepolcro dell'arcivescovo Teodoro (677-691)

Note:

(1) L'autocefalia della chiesa ravennate terminò nel 680, quando papa Agatone convocò a Roma l'arcivescovo Teodoro e questi rinnegò l'indipendenza della chiesa ravennate (cfr. Agnello, Liber pontificalis ecclesiae ravennatis, IX sec.)

(2) S.Cosentino, Constans II, Ravenna's Autocephaly and the Panel of Privileges in S.Apollinare in Classe: a Reappraisal in Aureus.Volume dedicated to prof Chrysos, Atene 2014




Sant'Apollinare nuovo

Sant'Apollinare nuovo



Fatta edificare da Teodorico per il rito ariano agli inizi del VI sec., fu riconsacrata al rito cristiano dal vescovo Agnello nel 561 col nome di San Martino in Cielo d'oro. Verso la metà del IX sec., quando fu operata la traslazione delle spoglie di Sant'Apollinare dalla Basilica di Classe, la chiesa prese il nome che porta attualmente per distinguerla da una omonima gia' esistente.



Esterno. Il protiro e la bifora sovrastante sono di epoca rinascimentale, il campanile è dell'XI sec.


 
Interno. Si presenta a tre navate, scandito da dodici colonne per lato (dodici erano gli apostoli) con capitelli corinzi e pulvini a croce.


Parete di destra: nella fascia superiore, vicino al soffitto, intercalati da motivi decorativi riproducenti la croce, due colombe e una conchiglia, tredici quadretti con scene della Passione e Resurrezione di Cristo.


Il Tradimento di Giuda

 Sono di epoca teodoriciana con Cristo giovane e riccioluto con la tunica imperiale di porpora e il limbo crucigemmato. Sono la più antica rappresentazione sopravvissuta di un ampio ciclo di scene del Nuovo Testamento in un contesto monumentale.
Nella fascia mediana si osservano riquadri con figure dei profeti.
Nella fascia inferiore è rappresentata la teoria dei martiri (n.26) che parte dal palazzo di Teodorico  per giungere a Cristo in trono tra gli angeli.
In origine, prima delle modifiche di epoca giustinianea, il corteo raffigurava Teodorico ed il suo seguito che muovevano in processione dal palazzo verso il Cristo o la Vergine in trono.

Palazzo di Teodorico

Usualmente si vuole che il mosaico raffiguri la facciata principale del palazzo teodoriciano. Tuttavia potrebbe anche trattarsi di una rappresentazione prospettica schiacciata che porta in primo piano le due ali in realtà perpendicolari alla facciata tripartita.
Le tre parti che lo costituiscono e che noi vediamo ribaltate e accostate, corrispondono in realtà a tre ali distinte. Le tre ali della costruzione, rappresentate giacenti sullo stesso piano della facciata, nella realtà potrebbero corrispondere ad un peristilio simile a quello del palazzo di Diocleziano a Spalato.

Cassiodoro dice che il palazzo era cinto da portici e ornato da vittorie alate che effettivamente si vedono tra i peducci delle arcate.
Sul frontone, dove oggi si vede un uniforme triangolo dorato, come s'intuisce dall'allineamento e dalla diversità delle tessere, si trovava un mosaico raffigurante Teodorico tra le personificazioni simboliche di Roma e di Ravenna, cancellato durante i rimaneggiamenti operati a seguito della riconquista bizantina.
Sullo sfondo alcuni edifici dell'architettura religiosa gota di incerta identificazione.


Parete sinistra: tredici quadretti con scene di Miracoli e Parabole della vita di Cristo.
Nella fascia inferiore la teoria delle sante, riccamente vestite, che parte dal porto della città di Classe per giungere a Maria in trono tra gli angeli.
In testa al corteo si trovano i tre Re Magi, rifatti dal restauratore romano Kibel nell'800 nella parte superiore, sostituendo le originarie corone con i berretti frigi.


I due cortei sono di epoca giustinianea, tanto dalle mura della città di Classe quanto dal Palazzo reale, sono state eliminate, nel corso dei rimaneggiamenti operati da Agnello, figure di personaggi della corte teodoriciana, di cui sono ancora visibili alcune tracce.
Nel mosaico raffigurante la città di Classe, gli edifici alla destra del portico-acquedotto sono stati fantasiosamente aggiunti dal Kibel per colmare una lacuna.



Il porto di Classe


Sulla facciata interna della chiesa si conserva un lacerto musivo raffigurante un uomo con diadema e nimbo. L'iscrizione che lo indica come ritratto di Giustiniano è però opera del Kibel, le differenze che presenta con il ritratto dell'imperatore in S.Vitale hanno fatto pensare che possa trattarsi piuttosto di un superstite ritratto di Teodorico.
Restauri condotti nel 1951 hanno confermato un rimaneggiamento del mosaico in epoca molto antica, la parte originale limitandosi al volto del sovrano, mentre il diadema con pendilia, la clamide purpurea, il fondo oro e il nimbo apparterrebbero invece all’età del vescovo Agnello.
Nel ritratto originario mancavano quindi tutti i segni distintivi del potere imperiale, confermando quanto sappiamo da Procopio, che Teodorico usò gli attributi della regalità nei confronti del suo popolo, ma mantenne un atteggiamento di inferiorità nei confronti del Basileus dal quale sapeva discendere il proprio potere.
In ogni caso non si può parlare di un ritratto ma di un’immagine standardizzata , che, se può aver tenuto conto di elementi fisiognomici, esprimeva principalmente un valore simbolico, tanto che fu sufficiente cambiare gli attributi, e non il volto, per trasformarla in quella di Giustiniano.




Sebbene tra i due cicli musivi intercorrano non più di cinquant'anni, nondimeno si notano differenze stilistiche.
I mosaici teodoriciani, nelle due fasce più in alto, sono più legati alla tradizione romana, perché ricchi di spunti realistici: descrizione del paesaggio, plasticità delle figure, gesti e azioni molto naturali, ambienti e situazioni realistiche.
Le scene evangeliche sono descritte come episodi di vita quotidiana, come per attestarne la verità storica. In particolare, le scene con gli episodi della Passione e della Resurrezione, eccellono nella qualità cromatica e nella ricchezza espressiva.
 L'ultima cena è una scena in cui Gesù è triste e gli apostoli hanno espressioni variamente sconcertate di fronte alla sue parole.
Il bacio di Giuda è una scena vivace e di grande chiarezza comunitativa.
Appartiene alla serie teodoriciana anche la scena con il Giudizio Finale, che rispetto al naturalismo delle altre è più astratta e simbolica. Nella composizione simmetrica, si vede la figura centrale di Gesù fiancheggiata dai due angeli mentre divide le pecore dai capretti. In questo caso tutti gli elementi visivi tendono a esaltare la dimensione sacra, soprannaturale, facendo perdere alle figure la fisicità e concretezza ravvisabile nelle altre scene evangeliche. Lo spazio è ridotto, i volumi tendono ad appiattirsi per via delle stesure cromatiche più uniformi e l'assenza delle ombre, i personaggi sono visti come apparizioni immateriali e divine. Anche i visi sono simili tra loro, hanno grandi occhi con sguardi rivolti all'infinito. La dimensione ultraterrena e il senso di eternità sono trasmesse anche dai gesti bloccati nell'assenza di movimento.



Il Giudizio finale: Cristo divide le pecore dai capretti

“…quando il figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti i santi angeli con lui, allora egli si siederà nel trono della sua gloria, … e saranno riunite davanti a lui tutte le nazioni della terra e dividerà le une dalle altre, come il pastore divide le pecore dai capretti … e porrà le pecore alla sua destra e i capretti alla sua sinistra … (Matteo XXIV, 31-33).

I mosaici giustinianei, con i due cortei, dei martiri e delle sante, sono di gusto più orientaleggiante e più astratto, cioè più bizantini. I paesaggi non esistono più, rimangono solo pochi elementi simbolici. Le figure non hanno più volume, sembrano sospese in aria, hanno contorni che le appiattiscono. Tutte le forme sono geometrizzate, i gesti sono convenzionali.
Non si cerca più la somiglianza con la natura, ma un'immagine fantastica, irreale, spirituale.
Si punta sull'effetto ritmico, sui colori vivaci e le decorazioni ricche.
Non si rappresenta la realtà ma un mondo superiore: quello del Paradiso, dove non esiste la materia, ma solo lo spirito. E tutto è permeato dalla presenza divina.





venerdì 9 dicembre 2011

Battistero neoniano o degli ortodossi

Battistero neoniano o degli ortodossi



E' probabilmente il più antico monumento ravennate. Iniziato dal vescovo Orso verso la fine del IV sec. come complemento della sua grande basilica - distrutta nel 1700 per edificarvi l'attuale duomo - e completato dal vescovo Neone (458-473) nella seconda metà del V sec., che probabilmente fece sostituire con la cupola l'originario soffitto a lacunari.
E' costruito sopra il calidarium delle antiche terme romane e presenta una pianta ottagonale da cui aggettano quattro absidiole. L'edificio appare interrato di circa tre metri, di conseguenza, a livello dell'attuale piano stradale, sono visibili gli archi delle porte che originariamente si aprivano tra le absidiole.
Il campanile rotondo del duomo che s'intravede sullo sfondo, edificato in tre periodi distinti, risale al X sec.
Interno:
Al vertice della cupola, un medaglione raffigurante Cristo immerso nel Giordano con alla sinistra una personificazione del Fiume e alla destra il Battista che gli sospende sul capo una patèra. La parte centrale di questo mosaico è frutto di un rimaneggiamento del Kibel: originariamente non c'era nessuna patèra e S.Giovanni imponeva la mano direttamente sul capo del Cristo.



Segue una prima fascia circolare con i dodici apostoli, divisi in due cortei guidati da S.Pietro e S.Paolo.
Nella fascia successiva, all'interno di una scenografia architettonica che ricorre per otto volte (una specie di porticato che s'incurva centralmente in un'esedra), si alternano un trono vuoto sormontato da una croce (etimasia) ed un altare sulla cui mensa è posto uno dei quattro vangeli (1).
Nel tamburo si aprono otto finestre, sormontate da altrettanti arconi, serrate da due edicole in cui sono decorate a stucco delle figure virili (forse Profeti). Gli stucchi originariamente erano policromi.

Fascia degli stucchi:
1) Daniele fra i Leoni
2) Traditio legis
3) Cristo guerriero
4) Giona tra due mostri
5) Due galli che beccano chicchi di grano

Note:

(1) Lo schema compositivo della cupola - modulata in due registri che ruotano intorno ad un nucleo centrale fisso costituito da un medaglione - e la presenza di motivi decorativi e simbolici similari, quali le candelabre vegetali che fungono da elementi di divisione e la raffigurazione dell'etimasia, mostrano una forte affinità con la cupola della Rotonda di S. Giorgio a Tessalonica che dovrebbe precederla di quasi mezzo secolo.

A sinistra la candelabra del Battistero neoniano ed a destra quella della Rotonda



giovedì 8 dicembre 2011

Battistero degli ariani

Battistero degli ariani


Innalzato in epoca teodoriciana come battistero dell’antica cattedrale ariana, oggi chiesa dello Spirito Santo, che sorge nelle sue vicinanze, è praticamente coevo a Sant'Apollinare nuovo.
Fu riconsacrato al culto cattolico ortodosso nel 556 come oratorio dedicato alla Vergine Maria.
Lo sprofondamento del suolo ravennate, in questo caso di circa 2,30 metri, ne altera notevolmente le proporzioni.
Dal perimetro fuoriescono quattro piccole absidi semicircolari orientate secondo i punti cardinali, delle quali la maggiore, rivolta ad est, è preceduta da un presbiterio. Quello che oggi vediamo è solo la parte centrale della costruzione antica, che appariva più ricca e articolata; originariamente infatti il battistero era circondato da un ambulacro anulare coperto da una volta, che si interrompeva solo sul lato orientale, in corrispondenza dell’absidiola più grande. Sono ancora visibili in corrispondenza delle absidi minori gli arconi che servivano all’innesto delle volte.



Di tutto l’apparato decorativo originario non resta che il prezioso rivestimento musivo della cupola, nel quale gli studiosi, pur nell’unità del programma iconografico, riscontrano tempi stilistici diversi; l’opinione attualmente prevalente è comunque che tutti gli interventi risalgano al periodo teodericiano. Inoltre, pur essendo il mosaico sostanzialmente ben conservato, gli inevitabili restauri che la raffigurazione ha subito nei secoli spiegano qualche disomogeneità e la difficoltà di interpretazione di alcuni particolari.

Mosaico della cupola: è di poco successivo a quello del Battistero degli ortodossi a cui chiaramente s'ispira.
Nel medaglione centrale, le posizioni del Battista e del Fiume appaiono invertite mentre la mano del Battista s'impone direttamente sulla testa del Cristo (come avveniva originariamente anche nel Battistero degli ortodossi).


Al centro della cupola campeggia un medaglione incorniciato da un anello con corona dorata d’alloro su fondo rosso; al suo interno è raffigurata, come si conviene in un battistero, la scena del battesimo di Cristo, simbolo di vittoria sulla morte. L’episodio è tradizionalmente costruito con tre personaggi.
Al centro il Cristo ignudo, immerso nelle acque del Giordano, è rappresentato giovane e imberbe, mentre il Battista a sinistra, vestito di un rozzo abito e di un bastone da pastore simbolo della vita di privazioni del deserto, gli impone la mano sulla testa secondo l’antico rito.
Dall’alto scende verticalmente la colomba divina, ad irrorare con un soffio di luce, simbolo dello Spirito, il capo del Cristo (secondo altre interpretazioni, con un fiotto di acqua lustrale, oppure, l’uccello tiene nel becco un ramoscello d’ulivo, alludendo al ritorno della pace dopo il diluvio).
A destra è collocata la figura di un nobile e possente vecchio con barba e capelli bianchi, rappresentato con torso nudo e la parte inferiore del corpo ricoperta da un drappo verde. Il personaggio simboleggia il fiume Giordano, in quanto fornito di attributi che derivano direttamente dalle divinità fluviali personificate comuni nell’iconografia ellenistica. Infatti la figura si appoggia a un vaso rovesciato, dalla cui bocca defluisce l’acqua, e regge in mano una canna palustre, mentre sulla sua testa spuntano le rosse chele di un granchio, che rappresentano gli elementi della vita acquatica.
Nella fascia concentrica che circonda il medaglione è raffigurato un maestoso corteo di apostoli, che avanzano con ritmo cadenzato su fondo aureo, intervallati da immagini stilizzate di palme. Vestiti secondo la foggia degli antichi romani, sorreggono ciascuno una corona, simbolo di vittoria, con le mani ricoperte, in segno di rispetto, da un drappo bianco denominato pallio. Su ognuno di questi veli compaiono lettere greche dette gammadie.
La processione è aperta a destra da Pietro e a sinistra da Paolo, ben caratterizzati nei volti, e identificati mediante gli attributi canonici: l’uno tiene in mano le chiavi e l’altro due rotoli. Essi affiancano il culmine simbolico del corteo: un trono d’oro riccamente decorato. Il motivo iconografico cristiano della cattedra vuota, di origine orientale e denominato etimasia, fa riferimento alla presenza invisibile del Cristo e rappresenta simbolicamente il trono sul quale egli siederà nel giorno del giudizio finale. Qui però l’iconografia è arricchita da elementi nuovi che ne modificano l’interpretazione e che potrebbero rappresentare l’apporto della dottrina ariana alla raffigurazione. Infatti sul sedile è collocato un drappo bianco e un cuscino purpureo dove poggia una grande croce latina ornata di gemme; questi elementi potrebbero essere simbolici delle sofferenze patite sulla croce e quindi alludere alla natura umana e alla fisicità del Cristo.
Internamente si presenta costruito in laterizi, con una pianta ottagonale e quattro nicchioni (nella simbologia cristiana, la pianta ottagonale dei battisteri corrisponde ai sette giorni necessari per la creazione del mondo più l'ottavo della Resurrezione, con il Battesimo l'uomo "risorge" dal peccato).

lunedì 5 dicembre 2011

Ippodromo

L'Ippodromo di Costantinopoli

 
La costruzione dell'Ippodromo fu iniziata da Settimio Severo e completata da Costantino in tempo per l'inaugurazione ufficiale della città (11 maggio 330).
Nella sua versione definitiva, che risale sostanzialmente all’età di Costantino, l’ippodromo era una struttura architettonica a pianta regolare stretta ed allungata, di circa 450 metri per 123,50, orientata Nord-Est, Sud-Ovest, provvista lungo il perimetro interno, tranne sul lato d’entrata, di ampie gradinate che scendevano fino ad una canaletta d’acqua (euripos), punto di divisione fra i posti a sedere e l’arena.


Oltre a varie porte di accesso lungo tutto il perimetro, l’entrata principale era data dal lato minore a Nord-Est, che comprendeva dodici porte con relativi postamenti o ridotti di partenza e di arrivo dei cocchi, cioè i carceres (mangani), i quali si disponevano secondo una leggera curvatura e proprio tra la sesta e la settima porta, in posizione centrale si innalzava una torre di metri 22,76, senz’altro il punto più alto di tutto l’ippodromo, su cui erano sistemati i cavalli dorati poi trafugati dai veneziani.
L'estremità opposta era formata dalla curva (sphendonè=fionda) che riposava su possenti sostruzioni necessarie a compensare il declivio del terreno e che oggi rappresentano tutto ciò che resta dell'ippodromo.


La pista era divisa in due dalla spina lungo la quale si alzavano alcune colonne onorifiche, tre delle quali ancora visibili:

Obelisco di Thutmosi III (Obelisco di Teodosio, Dikilitas Sutun=pietra diritta): eretto nella spina dell'Ippodromo intorno al 390 da Teodosio I (379-395) che è raffigurato nelle scene scolpite nel basamento marmoreo. L'obelisco proviene da Karnak e risale al XV sec. a.C., non poggia direttamente sul basamento marmoreo ma su quattro cubi di bronzo che ne distribuiscono il peso.



lato nord:
L'imperatore presenzia all'erezione dell'obelisco.

Teodosio è raffigurato seduto nella stama, la piattaforma con portico a pi greco, che concludeva il kathisma, una struttura a più piani che raccordava l'ippodromo al palazzo imperiale. E' fiancheggiato da due dignitari in clamide e alle spalle ha una guardia ed un altro personaggio in toga.
Il capitello di destra della loggia mostra il monogramma con il chi ro, unico simbolo cristiano presente su tutto il monumento. Chiaramente visibile è anche il canale destinato ad alimentare la fontana che era stata posta alla base dell'obelisco.

 lato est:
L'imperatore è raffigurato mentre porge la corona della vittoria al vincitore della corsa, incorniciato tra arcate e colonne corinzie, mentre gli spettatori assistono alla cerimonia allietati da musici e danzatori.
L'imperatore è fiancheggiato da due fanciulli, alle sue spalle tre guardie e un personaggio dalla grande testa calva.
Le archeggiature in alto sullo sfondo rappresentano forse il portico che coronava le gradinate dell'ippodromo.
L'identificazione dei due fanciulli è incerta: forse Onorio e Graziano, ultimogenito dell'imperatore, oppure il nipote Eucherio, figlio di Stilicone e della figlia adottiva di Teodosio, Serena.


 lato sud:
Teodosio I, al centro, Valentiniano II a destra e i figli Arcadio e Onorio a sinistra assistono a una gara all'ippodromo (esempio di 'prospettiva gerarchica', la corte imperiale è raffigurata in proporzioni superiori a quelle delle figure che pure dovrebbero essere in primo piano). La volta che appare in basso al di sotto della gradinata con i due personaggi in piedi raffigura forse il passaggio che collegava la stama al kathisma.

 lato ovest:
i nemici sconfitti si prostrano davanti all'imperatore ed alla corte. Al di sotto della tribuna imperiale, su questo lato, entro una tabula ansata, un'inscrizione greca, replicata in latino entro una analoga tabula sul lato opposto: "Solo l'imperatore Teodosio osò innalzare questo pilastro quadrangolare, peso che sempre giaceva per terra; fece ricorso a Proclo* e l'enorme pilastro fu messo ritto in trentadue giorni".
La guardia imperiale porta al collo il maniakion (cfr. il mosaico di S.Vitale e l'Arco di Galerio)

* Proclo fu prefetto della città dal 389 al 392, quando fu deposto e successivamente decapitato. Il suo nome fu in un primo tempo eraso dall'inscrizione ed in seguito, dopo la sua riabilitazione, reinciso.


Obelisco di Costantino VII (Colonna murata, Orme Sutun)


Fu fatto erigere sulla spina dell'Ippodromo probabilmente dall'imperatore Costanzo II (337-361), in sostituzione di quello previsto da Costantino il grande e dirottato invece al Circo Massimo di Roma e oggi in piazza del Laterano. Costantino VII  (913-959), a cui viene erroneamente attribuito, lo fece restaurare e rivestire da bassorilievi in bronzo che narravano le imprese di Basilio I, capostipite della dinastia macedone, che furono asportati durante l'occupazione latina probabilmente per essere fusi.


Colonna serpentina (Yilann Sutun): asportata dal tempio di Apollo a Delfi e qui collocata da Costantino il Grande, è formata dai corpi bronzei di tre serpenti attorcigliati che originariamente sostenevano un tripode d'oro.

Le teste dei serpenti furono tagliate nel XVIII sec. da un polacco ubriaco addetto all'ambasciata (secondo una versione riportata in E.Gibbon, Declino e caduta dell' impero romano, Mondadori, Milano 1990, p.494, fu invece lo stesso Mehemet II a fracassare con una mazza ferrata la mandibola di uno dei serpenti).
Una delle teste è attualmente conservata nel museo archeologico.



Statue dell'auriga Porfirio

Sulla spina trovavano poi posto sette statue fatte erigere durante il regno dell' imperatore Anastasio I (491-518) in onore dell'auriga Porfirio. Due basamenti di queste sono oggi conservati nel Museo archeologico di Istanbul.


 Le statue che si trovavano sopra di essi furono fatte erigere una dalla fazione dei Verdi e l'altra da quella degli Azzurri (l'auriga corse infatti per entrambe), ad un anno di distanza l'una dall'altra.
Porfirio è raffigurato nei bassorilievi in tenuta da auriga sulla sua quadriga mentre tiene una corona di alloro o un ramo di palma nella destra e le redini nella sinistra. L'imperatore è raffigurato nel kathisma mentre osserva le corse ed i membri delle fazioni mentre danzano e suonano il flauto per celebrare la vittoria. Sono raffigurate anche la Nike, con in mano una cornucopia e la Tyche della città di Nicomedia – nel cui ippodromo l'auriga ottenne probabilmente altre vittorie.

Porfirio raffigurato alla guida della sua quadriga con la corona d'alloro nella destra. Sopra di lui la personificazione della Nike. Agli angoli del basamento quattro vittorie alate disposte a guisa di cariatidi.

Le iscrizioni presenti sui basamenti lodano le vittorie dell'auriga e celebrano anche i nomi dei suoi cavalli. Le statue in bronzo di Porfirio furono probabilmente fuse durante il sacco crociato del 1204.

Ricostruzione virtuale. Particolare della spina dell'ippodromo che mostra le statue erette in onore degli aurighi
 

Molte altre statue adornavano l'Ippodromo, quelle in bronzo furono però in gran parte abbattute e fuse durante il sacco crociato del 1204.

Il cavallo libero (achálinos híppos) di Lisippo.
Realizzato da Lisippo per la città di Sicione era stato in un primo tempo trasportato a Roma e quindi – probabilmente insieme ad altre statue nel 325 sotto il consolato di Amnio Anicio Giuliano – venne trasferito a Costantinopoli e collocato accanto al khatisma.
Michele Psello (XI sec.) così lo descrive in un epigramma ad esso dedicato (Per il cavallo bronzeo, quello dell'Ippodromo, che tiene la zampa sollevata, Antologia greca, 3, 267): questo bronzeo Cavallo che vedi, respirante davvero, e presto sbufferà dalle froge, e sollevando questa zampa anteriore ti colpirà con un calcio, se gli passi vicino. Si appresta a correre: férmati, non accostarti, piuttosto fuggi per non prenderti quel che si è detto.
Niceta Coniata, che fu testimone oculare del sacco crociato, lo ricorda nel suo catalogo delle statue trafugate o distrutte durante la spoliazione della città (De Segnis costantinopolitanis) come il Cavallo senza briglie, che rizzava le orecchie e fremeva, avanzando maestoso e docile.
 

Una sua riproduzione – in cui la giovane età del modello (un puledro) si deduce dalla grandezza della testa rispetto al corpo - si trova in un impianto per scommesse anteriore al 524 (anno in cui Giustiniano proibì il gioco d'azzardo) ritrovato nei pressi dell'Ippodromo e oggi conservato nel Museum für Byzantinische Kunst di Berlino.