Visualizzazioni totali

giovedì 29 giugno 2017

La cappella della Maddalena nella torre di Belloluogo, Lecce

La cappella della Maddalena nella torre di Belloluogo, Lecce


Situata nei pressi dell'ingresso settentrionale della città di Lecce, la Torre di Belloluogo si presenta di forma cilindrica, con alcune finestre ad arco a sesto acuto ed è collocata dalla sua fondazione sopra un banco di roccia calcarea, circondata ed isolata dal terreno circostante da un vasto fossato ricolmo d'acque sorgive in tutte le stagioni (è l'unico fossato salentino colmo d'acqua in permanenza). Nella parte superiore si aprono delle strette feritoie (saettiere).
 
 
Fatta costruire probabilmente tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo da Ugo (1271-1296) o da Gualtiero V di Brienne (1296-1311) come istallazione militare, fu scelta da Maria d'Enghien come residenza elettiva dopo il suo rientro da Napoli (1418).

Superato il ponte di pietra (che sostituisce l'originale ponte levatoio), si accede al pianterreno, caratterizzato da un pavimento in pietra leccese che al centro disegna un ottagono.
 
 
Il piano nobile, a cui si accede per mezzo di una scala esterna, è diviso in quattro vani, in uno di questi, il più grande, un grande camino si trova presso la finestra che guarda a ponente.

Planimetria del piano nobile

Nell'altro vano di maggiore ampiezza si trova una cappella, dove Maria d'Enghien si ritirava a pregare, e dove è affrescato il ciclo della Maddalena a cui la contessa era particolarmente devota.
Gli episodi del ciclo sono raffigurati sia secondo la versione evangelica (nella parete destra), sia secondo la versione riportata dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine (nella parete sinistra) che inizia con La partenza dalla Galilea. Le scene sono inserite in riquadri ornati da racemi e da cosmatesche. All'incrocio delle cosmatesche sono rappresentati i quattro profili dei componenti della famiglia committente.


Nell'abside è rappresentata la Crocefissione con la Maddalena inginocchiata ai piedi del Crocefisso.

 
Maria Maddalena compare nel vangelo di Luca tra le donne che assistevano finanziariamente Gesù per spirito di riconoscenza:
C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demòni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni. (Luca, VIII, 2-3)
E' indicata poi come una delle tre Marie presenti alla Crocefissione:
Presso la croce di Gesù stavano sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Cleopa, e Maria Maddalena. (Giovanni, XIX, 25)

E' ancora lei, di primo mattino nel primo giorno della settimana, assieme a Salomè e Maria la madre di Giacomo il Minore, (Matteo XXVIII, 1 e Marco XVI, 1-2, oltre che nell'apocrifo Vangelo di Pietro, 12), ad andare al sepolcro, portando unguenti per ungere la salma. Le donne trovarono il sepolcro vuoto ed ebbero una visione di angeli che annunciavano la resurrezione di Gesù (Matteo XXVIII, 5).
 
Le Pie donne al sepolcro
 
Maria Maddalena, in un primo momento corre a raccontare quanto visto a Pietro e agli altri apostoli, (Giovanni XX, 1-2). Ritornata al sepolcro, si soffermò piangendo davanti alla porta della tomba. Qui il Signore risorto le apparve, ma in un primo momento non lo riconobbe.
Solo quando venne chiamata per nome fu consapevole di trovarsi davanti Gesù Cristo in persona, e la sua risposta fu nel grido di gioia e devozione, "Rabbunì", cioè "maestro buono". Avrebbe voluto trattenerlo, ma Gesù la invitò a non trattenerlo e le disse:
Non mi trattenere (Noli me tangere), perché non sono ancora salito al Padre mio; ma va' dai miei fratelli e dì loro: Sto ascendendo al Padre mio e al Padre vostro, al Mio Dio e al vostro Dio. (Giovanni XX, 17).
 
Noli me tangere
 
Nell'esegesi medioevale la Maddalena è stata identificata anche con Maria di Betania, sorella di Marta e del risorto Lazzaro e con la peccatrice (di cui non viene detto il nome) che unge i piedi a Gesù a casa di Simone il Fariseo, probabilmente a Nain, in Galilea:
Ed, ecco, una donna in città, che era una peccatrice, quando lei seppe che Gesù sedeva nella casa dei Farisei, portò una scatola di unguento, e si levò in piedi ai suoi piedi dietro lui piangendo, e iniziò a lavare i suoi piedi, e li pulì con i capelli della sua testa, e baciò i suoi piedi, e li unse con l'unguento. (Luca, VII, 36-40).
 
La Maddalena lava i piedi a Gesù
 
L'identificazione è sostenuta dal fatto che Maria di Betania unge i piedi del Signore mentre Gesù è festeggiato in una cena in casa di Simone il lebbroso, la peccatrice senza nome mentre Gesù è in casa di un fariseo che si chiama Simone. Sembra poco probabile che per due volte in due luoghi differenti Gesù sia stato unto con una quantità di olio di nardo avente esattamente lo stesso valore (Marco XIV, 5 e Giovanni XII, 5) e che per due volte questo abbia dato luogo alle stesse pesanti critiche da parte dei presenti.
La Legenda aurea, la summa dell'agiografia medioevale compilata da Jacopo da Varagine nel XIII secolo, riprende il racconto evangelico ma narra anche le vicende della Maddalena dopo la morte di Gesù che iniziano con la Partenza dalla Galilea:
(...) quattordici anni dopo la passione del Signore, quando Stefano era stato già martirizzato e gli altri discepoli scacciati dalla Giudea, i seguaci di Cristo si separarono per le diverse regioni della Terra per diffondere la parola di Dio. Tra i settantadue discepoli c'era il beato Massimino a cui furono affidati da San Pietro Maria Maddalena, Lazzaro, Marta, Marcella (la domestica di Marta) e il beato Celidoneo cieco dalla nascita e risanato da Cristo e molti altri cristiani che furono posti dagli infedeli su di una nave e spinti in mare senza nocchiero perché vi perissero; ma per volere divino giunsero a Marsiglia dove non vi fu alcuno che li volesse ricevere nelle proprie case, cosicché dovettero ripararsi sotto il porticato di un tempio.
Partenza dalla Galilea
 
Lo stile degli affreschi ricorda molto da vicino quelli delle chiese di Santo Stefano di Soleto e di Santa Caterina di Galatina nonchè quello delle miniature trecentesche.
 
In prossimità della torre si trova un complesso di ambienti ipogei, in alcuni dei quali alcuni studiosi hanno identificato il ninfeo di Maria d'Enghien.
 
 

 

venerdì 23 giugno 2017

Sichelgaita di Salerno

Sichelgaita di Salerno


Sichelgaita nacque a Salerno - probabilmente nel 1036 - da Guaimario IV, principe longobardo di Salerno, e Gemma, figlia del conte di Teano, Landolfo.
Grazie all'alleanza con i normanni, Guaimario IV era riuscito ad impossessarsi del principato di Capua, di Amalfi, Sorrento e Gaeta.
Nel settembre 1042, inoltre, Guaimario aveva approvato a Melfi l'elezione a conte di Puglia di Guglielmo d'Altavilla, detto Braccio di Ferro (1), ricevendone in cambio il vassallaggio e l'acclamazione a Duca di Puglia e Calabria (all'inizio del 1043), in aperta opposizione alle rivendicazioni bizantine (2).
L'alleanza tra Longobardi e Normanni fu quindi consolidata con il matrimonio di Guglielmo d'Altavilla con Guida, figlia del fratello di Guaimario, Guido, duca di Sorrento.
Alla morte di Guglielmo (1046), l'alleanza fu ulteriormente rinsaldata dal rapido riconoscimento da parte di Guaimario della successione del fratello di Guglielmo, Drogone, a cui diede in sposa la sorella Gaitelgrima (3).
Nel 1047 però l'imperatore Enrico III del Sacro Romano Impero giunse in Italia meridionale e pose fine al sogno di Guaimario di divenire signore assoluto di tutto il Mezzogiorno chiedendo l'atto di sottomissione a tutti i principi locali. L'imperatore restituì Capua a Pandolfo – che era stato spodestato da Guaimario - e pose sotto la sua diretta giurisdizione i domini di Aversa e di Melfi – dove Guaimario aveva infeudato i Normanni. Infine, privò Guaimario del titolo ducale di Puglia e Calabria, mettendo fine a quella singolare condizione di sovranità così scomoda per la corona imperiale.

Il 3 giugno 1052, Guaimario viene assassinato da una congiura capeggiata dai suoi cognati – probabilmente ispirata e sostenuta dagli amalfitani e dai bizantini - uno dei quali, Pandolfo, viene eletto principe al suo posto con il nome di Pandolfo III mentre Sichelgaita viene imprigionata insieme al fratello Gisulfo, alle sue sorelle e ad altri familiari di Guaimario nel castello di Arechi. Ma il fratello di Guaimario, Guido, miracolosamente scampato alla cattura, riuscì a raggiungere a Melfi la sorella Gaitelgrima, moglie del condottiero normanno, nonché all'epoca vassallo di Guaimario, Umfredo d'Altavilla.
Guido tornò quindi a Salerno alla testa dell'esercito normanno e la cinse d'assedio intavolando una trattativa con l'usurpatore che accettò di liberare i prigionieri in cambio della propria vita e di quella dei suoi congiunti.
Guido insedia quindi il nipote Gisulfo sul trono del Principato ma i Normanni, che non si ritengono vincolati ai patti siglati da Guido, trucidano Pandolfo e 36 dei suoi familiari, tanti quante erano state le pugnalate rinvenute sul corpo di Guaimario.

Per ragioni non del tutto chiare Gisulfo II entrò presto in conflitto con i Normanni e nel 1057 fu costretto ad inviare una ambasceria a Roberto il Guiscardo perchè ponesse fine alle scorrerie del fratello Guglielmo (4) che devastavano le sue terre. In cambio della sua protezione il Guiscardo chiese la mano di Sichelgaita. Gisulfo e suo zio Guido, contrari a queste nozze che avrebbero spianato al Guiscardo la strada per rivendicare le terre del Principato di Salerno, tentarono dapprima di ammorbidire Guglielmo dandogli in moglie una delle figlie di Guido, Maria, ma alla fine furono costretti a capitolare. Il matrimonio fu celebrato a Melfi probabilmente nel 1059.
Ma la conquista di Salerno rimase nelle mire del condottiero normanno.
Nello stesso anno l'abate di Montecassino Desiderio - il futuro papa Vittore III (1087) nonché cugino di Sichelgaita – fu elevato alla porpora cardinalizia e nominato legato pontificio per il Mezzogiono da papa Niccolò II. Sichelgaita ed il cugino Desiderio svolsero quindi un ruolo di primo piano nell'organizzazione del I Concilio di Melfi (agosto 1059) le cui conclusioni – precedute dal Trattato del 24 giugno e rese operative dal Concordato del 23 agosto – sancirono l'investitura papale del diritto dei Normanni a governare il Mezzogiorno d'Italia, in cambio il papa ricevette il patto di vassallaggio (5).

Papa Niccolò II incorona a Melfi Roberto il Guiscardo duca di Puglia, Calabria e Sicilia
da una edizione miniata della Nova Cronica di Giovanni Villani (Codice Chigi), XIV sec.
Biblioteca Apostolica Vaticana

Nel 1061 Sichelgaita diede per la prima volta mostra delle sue capacità militari ponendosi a capo della guarnigione di Melfi e dirigendo la difesa durante l'assedio del contingente bizantino inviato da Costantino X (6) fino all'arrivo delle truppe del marito.
Nel maggio 1076, dopo che Gisulfo aveva respinto un estremo tentativo di mediazione di Sichelgaita che aveva proposto al fratello di cedere Amalfi al figlio primogenito da lei avuto dal Guiscardo, Ruggero Borsa (7), il normanno ruppe gli indugi e assediò Salerno. Dopo circa un anno di assedio i salernitani, stremati dalla fame, lasciarono entrare i normanni mentre Gisulfo, con i suoi fedelissimi si asserragliava nel castello di Arechi ma di lì a poco fu costretto a sua volta a capitolare. Grazie all'intercessione di Sichelgaita, il Guiscardo gli diede un appannaggio che gli consentì di vivere un decoroso esilio presso la corte papale.
Occupata Salerno, non fidandosi troppo della fedeltà dei salernitani, Roberto fece costruire una nuova residenza (Castel Terracena) in una posizione più elevata e nel quartiere occupato dall'aristocrazia normanna.

Lorenzo Ottoni, Roberto Guiscardo, prima metà del XVIII sec.
Abbazia di Montecassino

La guerra in Oriente
Dal 1076 una delle figlie di Roberto e Sichelgaita, Olimpia, era fidanzata con l'erede al trono di Bisanzio, il figlio di Michele VII Ducas, Costantino, e viveva a Costantinopoli, dove, secondo l'usanza bizantina, era stata ribattezzata con il nome di Elena. Nel 1078 il generale Niceforo Botaniate rovesciò Michele VII con un colpo di stato, il patto nuziale venne rotto e Olimpia/Elena venne rinchiusa in un convento.
Questo affronto diede a Roberto e Sichelgaita il pretesto per attaccare l'impero bizantino. Raccolto l'esercito ad Otranto, il Guiscardo s'imbarcò a Brindisi insieme a Sichelgaita ed al primogenito Boemondo nel maggio 1081 nonostante il fatto che nel frattempo a Costantinopoli ci fosse stato un nuovo cambio della guardia con l'ascesa al trono di Alessio I Comneno.
Occupata Corfù con una rapida azione militare, il corpo di spedizione normanno sbarcò nei pressi di Valona e cinse d'assedio Durazzo. La città era difesa da Giorgio Paleologo – uno dei migliori generali di Alessio Comneno – che, con l'appoggio della flotta veneziana, sostenne validamente l'assedio riuscendo anche con una sortita ad incendiare le macchine d'assedio normanne.
In ottobre l'esercito imperiale, guidato dallo stesso imperatore, giunse in soccorso degli assediati.

La battaglia di Durazzo, 18 ottobre 1081
Informato per tempo dell'arrivo di Alessio, il Guiscardo schierò prontamente a battaglia il suo esercito (forte di circa 30.000 uomini) nella piana di Durazzo. Prese lui stesso il comando del centro e affidò al figlio Boemondo l'ala sinistra e ad Amico di Giovinazzo quella destra.
Alessio – che poteva contare su una forza composita di circa 20.000 uomini - prese a sua volta il comando del centro, dinanzi a cui si trovava la Guardia Variaga comandata da Nampita e seguita da un contingente di arcieri, mentre affidò il comando dell'ala destra a Niceforo Melisseno e quello dell'ala sinistra al gran domestico Gregorio Pacuriano.

Normanni: A (centro), B (Boemondo), C (Amico di Giovinazzo), D (Guiscardo, cavalleria pesante)
Bizantini: H (Nampeta, guardia variaga), F (Alessio), G (Melisseno), E (Pacuriano)

L'ala destra di Amico caricò la Guardia Variaga che tenne la posizione mentre l'intervento di Pacuriano lo costrinse a ripiegare disordinatamente. Nampita, senza curarsi di attendere l'arrivo del grosso dell'esercito, lanciò la Guardia all'inseguimento del nemico in rotta. A questo punto intervenne Sichelgaita (8) che indossando armi e corazza – pur colpita da una freccia ad una spalla - riuscì a rianimare gli sbandati riordinandone le fila. La Guardia Variaga, spintasi troppo avanti e sfiancata dall'inseguimento, fu travolta e decimata dalla controcarica di fanteria lanciata dal centro del Guiscardo. Asserragliatisi su una collinetta dove si trovava la cappella di San Michele, i Variaghi superstiti perirono tra le fiamme appiccate dai Normanni.
Entrambi gli schieramenti avevano così perso un'ala ma il Guiscardo poteva ancora contare sulla cavalleria pesante che aveva tenuto in riserva e che lanciò contro il centro avversario provocandone la rotta grazie anche alla diserzione dei mercenari turchi e bogomili.

Presa Durazzo, il Guiscardo marcia decisamente verso est alla volta di Costantinopoli. Nella primavera del 1082 si trova molto probabilmente nella regione di Castoria quando viene raggiunto dalla disperata richiesta di aiuto da parte di papa Gregorio VII.
Il sottile lavorio diplomatico di Alessio ha infatti dato i suoi frutti: l'imperatore tedesco Enrico IV, scomunicato dal papa e alleato di Alessio, è sceso in Italia e assedia in castel Sant'Angelo il papa che ha sostituito con un antipapa - Clemente III (9) - mentre molti vassalli di Roberto si stanno ribellando e passano dalla parte di Enrico IV.
Lasciato il comando delle operazioni in Oriente al figlio Boemondo, Roberto e Sichelgaita tornano in Italia tra l'aprile ed il maggio del 1082 ed il 24 maggio 1084 Roberto entra a Roma alla testa del suo esercito mentre le truppe di Enrico IV evitano lo scontro e si ritirano verso settentrione. Il Guiscardo tratta Roma come una città nemica e la lascia per 3 giorni al saccheggio dell'esercito, quindi ripiega su Salerno insieme a papa Gregorio per metterlo al sicuro da ogni minaccia germanica.

Merry Joseph Blondel, Boemondo d'Altavilla, 1843
Sala delle crociate, Castello di Versailles

La guerra in Oriente sotto il comando di Boemondo
Nel frattempo Boemondo - presa Giannina (aprile 1082) dove aveva istallato il proprio quartier generale rinforzando le difese della cittadella (10) – avanza rapidamente in Macedonia battendo ripetutamente gli imperiali. Conquista Bitola nella piana di Pelagonia, Tricala e Castoria e stringe d'assedio Larissa (ottobre-novembre 1082) difesa da Leone Cefala che resiste per sei mesi fino all'arrivo di Alessio alla testa dell'esercito imperiale (11) che costringe Boemondo a levare l'assedio e ripiegare su Castoria. A questo punto i comandanti normanni – subornati dalle promesse che l'imperatore faceva giungere loro – chiedono con insistenza a Boemondo il pagamento del soldo arretrato, cosa che alla fine costringe Boemondo a rientrare in patria per reperire i fondi necessari. Nel settembre dell'1083 Boemondo lascia quindi il comando dell'esercito a Briennio e Pietro d'Alifa e raggiunge Valona per poi imbarcarsi per l'Italia. In assenza di Boemondo, Alessio riconquista tutta la Tessaglia e nell'autunno del 1083 assedia e libera Castoria difesa da Briennio mentre molti comandanti normanni passano dalla sua parte.

Nel settembre del 1084, dopo aver inviato in avanscoperta i figli Ruggiero Borsa e Guido con alcuni squadroni di cavalleria che riconquistano Valona e Butrinto, il Guiscardo e Sichelgaita s'imbarcano ad Otranto con il grosso dell'esercito e si dirigono su Corfù che si era ribellata all'occupazione normanna. Riconquistata l'isola – difesa anche dalla flotta veneziana - a prezzo di sanguinosi combattimenti, Roberto raggiunge i figli a Butrinto. Il 17 luglio del 1085, mentre assediava Cefalonia, colto da una violenta febbre, Roberto il Guiscardo morì improvvisamente.
Alla morte di Roberto, Sichelgaita assunse la reggenza e dovette gestire la difficile successione. Il suo primo atto ufficiale fu quello di associare al potere il suo primogenito Ruggiero Borsa. L'idea era quella di assegnare a Boemondo i possedimenti balcanici e garantire a Ruggiero la successione al padre. La riconquista bizantina dei Balcani vanifica però questo progetto e provoca la ribellione di Boemondo che, spalleggiato dal cugino Giordano I principe di Capua, conquista Oria e mette a ferro e fuoco Taranto e Otranto.

Desiderio di Montecassino (papa Vittore III)

Grazie alla mediazione del nuovo papa, l'abate di Montecassino Desiderio, parente e alleato di Sichelgaita, che ascende al soglio pontificio il 24 maggio del 1086 con il nome di Vittore III, si perviene ad un primo accordo: Boemondo ottiene la Puglia sudoccidentale, da Coversano fino a Gallipoli, insieme al titolo di principe di Taranto, in cambio della rinuncia agli altri possedimenti in Italia e alla successione.
La morte del pontefice (16 settembre 1087) riapre le ostilità tra i due fratellastri e Boemondo e i suoi alleati conquistano Cosenza e Maida.
Nel 1089 il nuovo pontefice, Urbano II, conferma a Boemondo il Principato di Taranto (formato dalla contea di Conversano e da tutto il Salento, eccetto Lecce e Ostuni, e le città di Cosenza e Maida che Boemondo cederà al fratello in cambio di Bari) e investe ufficialmente Ruggiero del titolo di duca di Puglia e Calabria.
Sichelgaita muore il 27 marzo del 1090. Verrà tumulata nell'abbazia di Montecassino.

Note:
(1) Per l'origine di questo soprannome vedi scheda La sicilia bizantina, nota 1.

(2) Il patto feudale non aveva però alcun fondamento giuridico: Guaimario era infatti divenuto duca di Calabria e di Puglia solo sulla base di un'acclamazione popolare, per giunta da parte di uomini che egli stesso aveva infeudato come suoi vassalli a Melfi in virtù dell'autorità di quello stesso titolo ducale.

(3) Alla morte di Drogone (1051), Gaitelgrima ne sposò in seconde nozze il fratello e successore Umfredo.

(4) Si tratta di un altro dei numerosi figli cadetti di Tancredi d'Altavilla, frutto come il Guiscardo del suo secondo matrimonio con Fredesenda e omonimo del fratellastro detto Braccio di ferro (deceduto nel 1046).

(5) Riccardo Drengot fu nominato dal papa Principe di Capua mentre Roberto il Guiscardo fu riconosciuto duca di Puglia, Calabria – sancendo in questo modo il diritto dei normanni sulle città di queste regioni ancora in mano ai bizantini - e Sicilia (ancora interamente in mano agli Arabi)

(6) Le truppe bizantine – sbarcate pochi mesi prima nei pressi di Taranto mentre il Guiscardo era impegnato in Sicilia contro gli Arabi - avevano rapidamente riconquistato Taranto, Brindisi ed Oria giungendo ad assediare la capitale normanna. Secondo il Chronicon rerum in regno Neapolitano gestarum, una cronaca dell'XI sec. attribuita a Lupo Protospatario, il contingente bizantino era comandato da “Miriarca”.

(7) Dal suo matrimonio con Roberto il Guiscardo, Sichelgaita ebbe ben 11 figli. Ruggero, il primogenito, era detto Borsa per la sua mania di contare e ricontare il denaro.

(8) Sia Anna Comnena (Alessiade) – che la paragona ad Atena Pallade - che Guglielmo di Puglia (Gesta Roberta Wiscardi) concordano nel riconoscere a Sichelgaita un ruolo decisivo nel rovesciamento delle sorti della battaglia.

(9) L'arcivescovo di Ravenna, Guiberto Giberti, uno dei maggiori oppositori alle riforme di papa Gregorio VII, era stato eletto papa con il nome di Clemente III da un sinodo, a cui erano intervenuti prevalentemente vescovi schierati sul fronte imperiale, convocato da Enrico IV a Bressanone nel 1080. Venne insediato in San Giovanni in Laterano poco dopo l'ingresso delle truppe di Enrico IV in città (24 marzo 1084) mentre Gregorio si era rinchiuso in Castel Sant'Angelo.

(10) Per le opere di difesa fatte realizzare da Boemondo nella cittadella di Giannina vedi scheda Giannina.

(11) Gli effettivi di Alessio, nel frattempo, erano stati rafforzati dall'arrivo di 7.000 turchi inviati dal sultano di Rum.





venerdì 2 giugno 2017

Ducato di Benevento (570-839)

Ducato di Benevento (570-839)

Il ducato di Benevento fu fondato intorno al 570 dal longobardo Zottone che strappò ai bizantini la città di Benevento e ne fece la capitale dei territori della Campania, dell'Apulia, della Lucania e del Bruzio che riuscì ad occupare, organizzandoli in ducato e cercando sempre di mantenerli indipendenti dal regno longobardo, dai bizantini e dalla Chiesa.
Anche il suo successore Arechi (591-641), pur essendo stato nominato dal re Agilulfo, non si piegò mai alle direttive regie e creò un solido organismo territoriale che si estendeva dalla valle del fiume Sangro (al confine con il ducato di Spoleto) e del fiume Garigliano (al confine con il territorio bizantino del ducato di Roma) fino allo Ionio.
Nel 758 gli attriti fra i presidi meridionali (Longobardia Minor) e quelli settentrionali (Longobardia Maior) del dominio longobardo si acuirono. Le città di Spoleto e Benevento furono occupate per breve tempo da re Desiderio, ma con la sconfitta di quest'ultimo e la conquista del regno longobardo da parte di Carlo Magno (774), il trono longobardo rimase vacante. Il duca Arechi II (758-774) pensò di approfittare della situazione e tentare un colpo di mano per impossessarsi della corona. Ma l'impresa si rivelò ben presto impraticabile, soprattutto perché in questo modo Arechi avrebbe attirato su di sé l'attenzione dei Franchi, esponendosi a facili pericoli. Il duca non perse comunque l'occasione per innalzare la propria dignità e si fregiò del titolo di Principe, elevando il suo dominio a Principato. La sua ascesa dovette però interrompersi: nel 787 l'assedio di Salerno da parte di Carlo Magno lo costrinse a sottomettersi alla signoria dei Franchi.
Nell'851, dopo più di dieci anni di guerra civile tra Radelchi, che era stato elevato alla carica di Principe dai maggiorenti beneventani dopo l'assassinio di Sicardo, e Siconolfo, fratello del principe assassinato, il conflitto fu ricomposto con l'istituzione del Principato di Salerno, sancito dall'imperatore carolingio Ludovico II e assegnato a Siconolfo.
Dal 978 al 981 il Principato fu riunificato sotto lo scettro del Principe di Benevento Pandolfo I Capodiferro che ereditò il titolo di Principe di Salerno alla morte di Gisulfo I a lui legato da patto di vassallaggio. Alla sua morte i suoi possedimenti furono però nuovamente divisi tra i suoi due figli.

Arechi I (591-641): forse nipote di Zottone, fu nominato duca dal re Agilulfo nella primavera del 591, dopo la morte di Zottone. Estese i territori del ducato conquistando Capua (594), Venafro (595) e Nola (596). Tentò vanamente di strappare Napoli ai bizantini ma prese Salerno (620).

Aione I (641-642): successe al padre per volere dei beneventani giacchè questi - sapendolo mentalmente instabile - aveva dichiarato di ritenere più adatti al governo i figli adottivi Radoaldo e Grimoaldo. Morì in un'imboscata tesagli dagli Slavi che erano sbarcati nei pressi di Siponto.

Radoaldo (642-651): terzogenito maschio del duca del Friuli Gisulfo II e di Romilda, riparò presso la corte di Arechi insieme al fratello Grimoaldo dopo l'ascesa al trono dello zio Gisaulfo II (625 c.ca). Accolto dal duca come un figlio successe al fratello adottivo.

Grimoaldo (651-671): successe al fratello nel 651. Nel 662 intervenne nello scontro dinastico tra i figli del re Ariperto (653-661) - Pertarito e Godiperto - di cui sposò la sorella. Giunto con l'esercito a Pavia, eletta da Godiperto a capitale della sua porzione di regno, uccise il cognato usurpando il trono. Pertarito, che si trovava a Milano, conscio della sua inferiorità abbandonò il campo riparando presso gli Avari. La reggenza del ducato fu assunta dal figlio Romualdo (1).
Nel 663 dovette fronteggiare a nord la calata dei Franchi scesi a difendere gli interessi della deposta monarchia e che sconfisse a Refrancore nei pressi di Asti.
Nel frattempo l'imperatore bizantino Costante II, sbarcato a Taranto alla testa di un esercito, aveva risalito la penisola e cinto d'assedio la stessa Benevento ma l'approssimarsi di Grimoaldo con il grosso dell'esercito lo convinse a desistere e ripiegare su Napoli. Romualdo, ricevuti i rinforzi, sconfisse duramente parte del contingente greco al comando dell'armeno Saburro nella battaglia di Forino, con cui s'infranse definitivamente il sogno di Costante di riconquistare l'Italia meridionale. Sull'onda di questa vittoria, Romualdo passò all'offensiva e riconquistò rapidamente i territori occupati dai bizantini e li costrinse ad arretrare rispetto ai confini precedenti la spedizione di Costante, attestandosi a sud di una linea che congiungeva Otranto (rimasta in mani bizantine) ad Oria (conquistata dai longobardi) passando appena a nord di Lecce.
Grimoaldo morì nel 671 a causa delle complicazioni seguite a un salasso. I suoi resti furono tumulati a Pavia, nella chiesa di Sant'Ambrogio (oggi completamente perduta) che egli stesso aveva fatto edificare.

Romualdo (671-687): reggente dal 662 divenne a tutti gli effetti duca di Benevento alla morte del padre nel 671 mentre il fratellastro (1) Garibaldo succedeva a Grimoaldo sul trono longobardo.
Sposatosi con Teodorada, figlia del duca del Friuli Lupo a cui Grimoaldo aveva affidato il regno durante la sua spedizione in Italia meridionale e che successivamente aveva destituito per la sua scarsa fedeltà, ebbe da lei tre figli (Grimoaldo, Gisulfo e Arechi).
Durante il suo regno, sotto l'influenza di san Barbato che fu vescovo di Benevento dal 664 al 683, si realizzò la conversione dei longobardi dall'arianesimo al cattolicesimo romano.

Grimoaldo II (687-689):

Gisulfo I (689-706): salito al trono ducale alla morte del fratello quando era ancora minorenne, governò per diversi anni sotto la reggenza della madre Teodorada. Nel 702, approfittando delle difficoltà del nuovo esarca ravennate Teofilatto, costretto a fronteggiare una rivolta interna, invase il territorio del ducato di Roma. Convinto dagli ambasciatori di papa Giovanni VI (701-705) a ritirarsi, conservò le cittadine di Sora, Arpino, Arce e Aquino portando il confine al fiume Garigliano.
Si sposò con Winiperga da cui ebbe il figlio Romualdo.

Romualdo II (706-731): nel 716 riuscì a strappare la città di Cuma al ducato di Napoli ma l'anno seguente una spedizione condotta dal duca di Napoli Giovanni I e finanziata da papa Gegorio II riconquistò la città.
Si sposò due volte: la prima con Gumperga, nipote del re Liutprando. Da cui ebbe Gisulfo e la seconda con Ranigunda, figlia del duca di Brescia Gaidualdo.

Gisulfo II (731): ancora minorenne alla morte del padre fu deposto da una congiura di nobili che elesse al suo posto un certo Audelais, risparmiando comunque la vita al giovane duca.

Il Ducato di Benevento nell'VIII secolo.
 
Audelais (731-732): si mantenne al governo del ducato, pur controllandone effettivamente solo una parte, per circa due anni. Fu quindi deposto dall'intervento del re Liutprando che calò su Benevento con l'esercito e lo sostituì con il nipote Gregorio, preferendo portare il giovane Gisulfo a Pavia dove crebbe e fu educato nel palazzo reale. 

Gregorio (732-739): alla sua morte, sul finire del 739, i beneventani non attesero che Liutprando nominasse un nuovo duca né riconobbero come tale il legittimo erede Gisulfo ma elessero invece Godescalco (739-742) esprimendo in tal modo il desiderio di rendersi indipendenti dal potere centrale. Godescalco assecondò probabilmente il tentativo del duca di Spoleto, Trasimondo II, deposto da Liutprando, che aveva insediato al suo posto Ilderico, di riprendersi il ducato. Nel dicembre del 739 alla testa di un esercito finanziato dal papa Gregorio III (731-741) Trasimondo invase e riconquistò il ducato di Spoleto uccidendo Ilderico.
Nel 742 Liutprando invase a sua volta il ducato con tutto il suo esercito costringendo Trasimondo II alla resa. Il ribelle fu sostituito da Agiprando e costretto a prendere i voti sacerdotali. Il re longobardo marciò quindi sul ducato beneventano. Godescalco cercò di fuggire imbarcandosi per la Grecia ma fu intercettato e ucciso da partigiani fedeli a Liutprando e al legittimo duca Gisulfo.

Gisulfo II (742-751): il suo governo è ricordato soprattutto per le numerose e cospicue donazioni alla chiesa che gli accattivarono le simpatie del clero e del papato e per le ottime relazioni che il ducato intrattenne con il potere centrale. Sposatosi mentre si trovava ancora alla corte di Pavia con una nobildonna di nome Coniberga, diede al suo unico figlio il nome di Liutprando in omaggio al suo re.

Liutprando (751-758): salito al trono ducale ancora minorenne, governò sotto la tutela della madre Coniberga, che mantenne il ducato nell'orbita del potere centrale rappresentato dal re Astolfo (749-756). Liutprando raggiunse la maggiore età lo stesso anno in cui Astolfo morì e fu convinto dal papa Stefano II (752-757) a ribellarsi insieme al duca di Spoleto Alboino al nuovo re Desiderio e a chiedere la protezione del re franco Pipino il breve.
Nell'inverno 757-758 Desiderio passò all'azione e travolse rapidamente la resistenza degli spoletini incarcerando Alboino e i suoi sostenitori. Liutprando rinunciò a resistere in campo aperto asseragliandosi nella roccaforte di Otranto che giudicò meglio difendibile di Benevento. Desiderio la cinse d'assedio ma non disponendo di una squadra navale fu costretto a desistere. Dichiarò quindi il duca decaduto e lo sostituì con Arechi, probabilmente un nobile beneventano, a cui diede in moglie la figlia Adelperga. Il re longobardo propose quindi all'impeatore bizantino Costantino V un accordo: se gli avesse fornito le navi per portare a buon fine l'assedio e catturare Liutprando, Otranto sarebbe stata restituita all'impero. E così avvenne anche se non si hanno più notizie di Liutprando.

Arechi II (758-787): nei suoi primi anni di regno mantenne una politica di buon vicinato con il ducato di Napoli, assecondando probabilmente il progetto di Desiderio di stipulare un'alleanza con Costantinopoli in funzione antifranca. Nel 763, tramontata questa possibilità, attaccò il ducato e, sconfittone l'esercito in uno scontro campale nel 765, costrinse i napoletani ad una pace onerosa nei cui patti trattenne anche come ostaggio lo stesso figlio del duca Stefano.
 
Arechi II
Miniatura tratta dal Codex Legum Langobardorum, XI sec.
Archivio della Badia della Ss. Trinità
Cava dei Tirreni

Nel 774, dopo la resa di Pavia a Carlomagno e la cattura di Desiderio che segnò la fine del Regno longobardo, fu l'unico duca longobardo a non sottomettersi a Carlo elevando il ducato alla dignità di principato assumendo il titolo di princeps gentis langobardorum e trasferendo la corte a Salerno dove aveva fatto costruire un sontuoso palazzo. Soltanto sul finire della sua vita, nel 787, con l'esercito franco accampato a Capua, fece atto di sottomissione al re dei Franchi.
Ebbe dalla moglie Adelperga cinque figli: Romualdo, Grimoaldo, Adalgisa, Teoderada e Alahis.
Morì il 26 agosto del 787, un mese dopo la morte del suo primogenito.

Principali opere pubbliche: chiesa di santa Sofia (Benevento), Palazzo di Arechi (Salerno).

Grimoaldo III (787-806): inviato giovanissimo come ostaggio alla corte di Carlomagno, si trovava ancora lì alla morte del padre. Ottenne da Carlo l'autorizzazione a rientrare nel principato e assumerne la corona, impegnandosi però a battere moneta e a emanare documenti esclusivamente in nome di Carlo e a condizione che demolisse le imponenti opere difensive costruite dal padre e che aiutasse i Franchi a combattere Adelchi, figlio dell'ultimo re longobardo, Desiderio. Adelchi sbarcò in Calabria sul finire del 788 alla testa di un corpo di spedizione messogli a disposizione dall'imperatrice Irene – all'epoca reggente per il figlio Costantino VI – e guidato dal logotheta Giovanni, rafforzato dalle truppe di Sicilia. Grimoaldo, affiancato da un contingente inviato da Carlo e dagli spoletini, affrontò e sconfisse i bizantini, uccidendo Adelchi in battaglia.
Rispettato questo impegno, Grimoaldo non rispettò gli altri patti con Carlo e anzichè demolire le fortificazioni di Salerno le rafforzò.
Lo storico longobardo Erchemperto (Historia Langobardorum Beneventanorum) riporta che, tra il 788 ed il 791, sposò Evanzia, la sorella minore della prima moglie, Maria di Amnia, dell'imperatore Costantino VI, nel tentativo di stringere con Bisanzio un alleanza in chiave anticarolingia. La donna fu comunque ripudiata dal principe nel 795.
Per il resto del suo regno fu continuamente in conflitto con i Carolingi, con lo stesso Carlomagno ed il figlio Pipino, insediato da Carlo come re d'Italia.
Morì senza lasciare eredi diretti.

Grimoaldo IV Storeseyez (806-817): era ufficiale della guardia del principe (storeseyez, in longobardo antico) scelto da Grimoaldo per succedergli. Riportò la capitale a Benevento. Poco diplomatico si creò molte inimicizie e cadde per mano di una congiura ordita da Sicone di Acerenza e Radelchi di Consa.

Sicone I (817-832): gastaldo di Acerenza, salì al trono del Principato dopo l'assassinio di Grimoaldo IV. Gestì il potere con crudeltà e spietatezza. Combattè contro i Carolingi e i Napoletani che sconfisse seccamente nell'831 imponendogli un tributo annuo e facendosi consegnare le spoglie di San Gennaro che rimasero conservate nel duomo di Benevento fino al 1154.
 
Sicone I
ritratto al verso di un tremisse coniato dalla zecca di Benevento

Sicardo (832-839): figlio di Sicone, fu l'ultimo a regnare sul Principato nella sua interezza.
Agli inizi del suo regno esiliò il fratello Siconolfo, sospettato di aspirare al trono, a Taranto e lo costrinse a prendere i voti sacerdotali.
Nell'837 entrò in conflitto col duca Andrea II di Napoli, che per la prima volta chiamò in suo aiuto i Saraceni, dando inizio ad una "tradizione" seguita da molti altri principi cristiani. Nell'838 riuscì a sottomettere Amalfi attaccandola dal mare, e ne deportò parecchi abitanti a Salerno.
Nello stesso anno fece traslare le reliquie di San Bartolomeo da Lipari, minacciata dai Saraceni, a Benevento dove per accoglierle fece costruire una basilica dedicata al santo (2).
Poco amato per la crudeltà con cui esercitava il potere cadde per mano di una congiura probabilmente ispirata dagli Amalfitani (3).

Alla morte di Sicardo, i maggiorenti beneventani esclusero dalla successione i figli del tiranno ed elessero invece Radelchi, che aveva occupato la carica di tesoriere sotto Sicardo. Ma i suoi oppositori, capeggiati dal suocero di Sicardo, Dauferio il Balbo, prelevarono a Taranto il fratello Siconolfo e, condottolo a Salerno, lo proclamarono principe di Salerno. A fianco di Siconolfo si schierarono Landolfo conte di Capua ed i cognati Orso conte di Consa e Radelmondo conte di Acerenza ed ebbe inizio una guerra civile che, tra alterne vicende, si protrasse per oltre dieci anni stremando il Mezzogiorno che fu devastato dagli eserciti dei due principi e dei Saraceni che di volta in volta si allearono con l'uno o con l'altro.

La divisione del Principato nell'851.

Il conflitto si compose soltanto nell'851, quando Ludovico II, allora re d'Italia, intervenne nella contesa liberando Benevento dalle truppe saracene che vi spadroneggiavano e sancì la divisione del Principato tra i due contendenti.

Note:

(1) Romualdo era figlio di Grimoaldo e della sua prima moglie Itta.

(2) Purtroppo l'antico sacello fatto edificare da Sicardo fu obliterato nel 1112 durante gli ingenti lavori di costruzione della nuova basilica apostolica voluta dall'arcivescovo Landolfo II e di esso resta solo una limitata documentazione archivistica e letteraria.
L'unico oggetto sopravvissuto del corredo altomedievale è una lamina in piombo in
littera beneventana, rinvenuta nel 1698 all'interno dell'antica urna, durante la ricognizione dei resti dell'Apostolo effettuata dal Cardinale Orsini.
Dalle fonti scritte sappiamo che la chiesa di Sicardo era stata eretta nei pressi del braccio sinistro del transetto del duomo con cui comunicava per mezzo di due porte.

(3) Dopo l'assassinio di Sicardo, gli Amalfitani che aveva deportato a Salerno rientrarono ad Amalfi e proclamarono l'indipendenza.