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sabato 20 aprile 2013

Il Tondo Angaran

Il Tondo Angaran

 
Questo bassorilievo in marmo si trova murato tra i numeri civici 3717 e 3718 in un
piccolo passaggio detto campiello del Angaran, tra la chiesa di S.Pantalon e il sotoportego Paruta.
 
 
Raffigura un imperatore bizantino che tiene nella sinistra il globo crucigero e nella destra un labaro. La figura è sbalzata su un fondo di quadrifogli disposti a radiante. Il medaglione è stato probabilmente tagliato dalla base di una colonna.
Zanotto (Guida di Venezia, 1856) riporta, riguardo alla sua provenienza, la seguente tradizione: nel 1256 il futuro doge Lorenzo Tiepolo era stato posto al comando della flotta veneziana inviata contro i genovesi a San Giovanni d'Acri agli inizi della cosiddetta guerra di San Saba (1255-1270). Alcuni dei suoi parenti ed amici, non ritenendolo all'altezza, lo sfidarono a portare a Venezia, in caso di vittoria, una prova.
Strappato ai genovesi il forte di Mangioia, il condottiero avrebbe spedito a Venezia questo bassorilievo come spoglia di guerra e l'avrebbe fatto murare dinanzi alla casa di uno di quelli che avevano messo in dubbio le sue capacità.
Molto più probabilmente il bassorilievo proviene invece dal sacco di Costantinopoli del 1204.

Nella Dumbarton Oaks collection di Washington si conserva un tondo molto simile a questo. Proviene dalla collezione del Principe Federico Leopoldo di Prussia e fu acquistato in area veneta (dalla chiesa di S.Andrea alla Certosa?) verso la metà del XIX secolo, è quindi probabile che entrambi siano stati inizialmente trasportati a Venezia.
 
 
L'esistenza di questo secondo tondo sembra avvalorare l'ipotesi che vi siano raffigurati padre e figlio, Alessio I e Giovanni II Comneno, che furono coimperatori dal 1092 al 1118. I due tondi infatti, per quanto molto simili (anche il formato è assolutamente lo stesso, diametro 100 cm.) non sono tuttavia identici.

Quello veneziano raffigura un imperatore chiaramente più anziano, dal corpo appesantito e la testa più grande. L'abbigliamento è riferibile al tardo XI sec o ai primi del XII, ma la corona, con la sua fascia ingioiellata e la placca centrale smaltata, ma priva di kaumelakion, fa propendere piuttosto verso la datazione più antica, nel cui ambito Alessio e Giovanni sono l'unica coppia di coimperatori presenti. Il ritratto riferibile ad Alessio trova inoltre una qualche corrispondenza nella descrizione fisica di corporatura tozza e con una grande testa che ne da la figlia Anna nell'Alessiade e nelle effigi riprodotta sulle monete.
 
Hyperperon fatto coniare da Alessio I Comneno con la sua effigie riprodotta al verso

Per quanto siano ritratti in posizione frontale, la figura del tondo veneziano sembra accennare un movimento verso la sua sinistra mentre quella del tondo americano verso la sua destra. Questo ha fatto pensare all'esistenza di un terzo tondo centrale, più grande, raffigurante il Cristo o la Vergine, che imponeva la corona sulla testa dei due imperatori secondo un'iconografia all'epoca molto diffusa. Non appaiono infine opera della stessa mano: la cesellatura delle vesti imperiali è infatti molto più accurata e dettagliata nel tondo Dumbarton.
 
 
 
L'avorio “Romano”, Bibliotheque National de France, Cabinet des Medailles, Parigi
 
Si tratta della copertina di un evangelario che raffigura il Cristo mentre incorona Romano e Eudocia.
Due diverse ipotesi sono state avanzate per l'identificazione della coppia imperiale incoronata da Cristo .
La prima è che si tratti di Romano II e Berta, figlia naturale di Ugo di Provenza, conte di Arles e re d'Italia, che quando sposò l'imperatore Romano II nel 944 assunse il nome di Eudocia. Romano II fu incoronato coimperatore il 6 aprile 945 mentre la moglie Berta (Eudocia) morì nel 949.
La seconda ipotesi identifica invece la coppia con Romano IV Diogene e Eudocia Macrebolitissa. Il matrimonio tra Romano e la vedova di Costantino X fu celebrato nel 1068 mentre Romano IV morì nel 1071.
Altro esempio di questa iconografia è un avorio conservato al museo Cluny di Parigi




 


mercoledì 17 aprile 2013

San Michele arcangelo Tharri

San Michele arcangelo Tharri


Si trova poco fuori il villaggio di Laerma.
La chiesa attuale risale al IX-X secolo e sorge sulle rovine di una precedente basilica paleocristiana del V sec. a sua volta eretta sul luogo dove sorgeva un tempio dedicato ad Apollo.


Secondo la leggenda una principessa costantinopolitana soffriva di una malattia incurabile ed il padre la portò nell'isola di Rodi sperando che il clima mite potesse guarirla.
Una notte le apparve in sogno l'arcangelo Michele che le disse: “Abbi coraggio e starai meglio”.
Quando la principessa guarì decise di costruire un monastero in onore dell'arcangelo che l'aveva salvata. Per stabilirne la grandezza si sfilò un anello dal dito e lo lanciò nel prato.
L'epiteto “Tharri” (θαρροσ=coraggio) ricorda proprio la parola con cui la confortò l'arcangelo.

Abside

Del complesso monastico originario è rimasta in piedi solo il katholikon a croce greca inscritta, sormontato da una imponente cupola centrale.
Sulla corte del monastero si affacciano altri edifici che sono stati ripetutamente riparati e restaurati nel corso del tempo, tra cui due cappelle dedicate rispettivamente a San Nektarios e a San Eleuterio.


L'interno del katholikon presenta ben sei strati di decorazioni ad affresco.

Quelli più antichi, databili al XII secolo, raffiguravano a figura intera San Eleuterio e San Gregorio d'Agrigento e si trovano oggi al Museo bizantino di Rodi.
In situ rimangono affreschi databili al XIII secolo.
Il Cristo Pantocrator attorniato da angeli tra due cerchi concentrici nella cupola, la Lavanda dei piedi e L'ultima cena rispettivamente nelle pareti sud e nord.
Nella volta del braccio occidentale, dove sono rappresentate scene della vita e del ministero di Cristo è da notare l'episodio della samaritana.

Gesù e la samaritana (Giovanni, IV, 1-42)

San Michele arcangelo, insieme agli arcangeli Gabriele e Raffaele, è raffigurato in un grande affresco purtroppo molto danneggiato.

Iconostasi

lunedì 8 aprile 2013

Santa Eufemia di Calcedonia

Santa Eufemia di Calcedonia

S.Eufemia, basilica eufrasiana di Parenzo, VI sec.

Secondo la Passio Calcedonense Eufemia era figlia di due cristiani, il senatore Philophronos e Teodosia, e viveva nella città di Calcedonia, sulle rive del Bosforo.
A quel tempo – i Fasti Vindobonenses priores datano il suo martirio il 16 settembre 303 durante le persecuzioni dioclezianee - era proconsole d’Asia Prisco, un entusiasta devoto di Ares. Egli fece diffondere l’ordine a tutti gli abitanti della provincia di venire a Calcedonia per celebrare la festa del suo dio, sotto pena di morte.
Come risultato i cristiani fuggirono a piccoli gruppi in case isolate o nei deserti per sottrarsi all'ordine e salvaguardare la loro fede. Sant’Eufemia e altri 49 cristiani rimasero nascosti in una casa, dove assistettero segretamente al culto cristiano ma il loro nascondiglio fu scoperto e furono portati davanti al proconsole, che cercò con le lusinghe di convincerli a non sacrificare la loro gioventù e ad avere buon senso.
“Non sprecate il vostro tempo e le vostre parole con noi”, gli rispose la santa. “Ci sono persone dotate di ragione, per cui la più grande disgrazia sarebbe di abbandonare l’unico vero Dio, il Creatore del cielo e della terra, per rendere culto a idoli muti e inanimati. Non abbiamo paura dei tormenti che ci minacciano. Saranno facili per noi da sostenere e mostreranno la potenza del nostro Dio”.

Queste parole fecero infuriare il proconsole, ed Eufemia e i suoi compagni vennero ininterrottamente sottoposti a varie torture e tormenti per venti giorni, ma nessuno di loro vacillò nella fede, né accettò di offrire sacrifici ad Ares. Il proconsole, fuori di sé dalla rabbia e non sapendo in quale altro modo costringere i cristiani ad abbandonare la loro fede, li inviò a giudizio all’imperatore Diocleziano, ma trattenne la più giovane, la vergine Eufemia, sperando che la sua forza venisse meno se fosse rimasta sola.
Sulle prime esortò Eufemia a ritrattare, promettendole beni terreni, ma poi diede l’ordine di torturarla.
La martire fu legata ad una ruota con una lama appuntita che tagliasse il suo corpo. La santa pregò ad alta voce, e accadde che la ruota si fermò da sola e non si mosse neanche con tutti gli sforzi dei carnefici. Un angelo del Signore, sceso dal cielo, liberò Eufemia dalla ruota e la guarì dalle sue ferite.
Non vedendo il miracolo che era avvenuto, Prisco ordinò ai soldati Vittorio e Sostene di prendere la santa e gettarla in un forno rovente. Ma i soldati, vedendo due temibili angeli in mezzo alle fiamme, si rifiutarono di eseguire l’ordine del proconsole e divennero credenti nel Dio che Eufemia adorava. Proclamando arditamente che anche loro erano cristiani, Vittorio e Sostene affrontarono coraggiosamente il martirio e furono dati in pasto alle bestie feroci.
Sant’Eufemia, gettata nel fuoco da altri soldati, rimase illesa. Con l’aiuto di Dio uscì indenne dopo tante torture e altri tormenti.
Attribuendo ciò a stregoneria, il proconsole diede ordine di scavare una nuova buca, e riempirla di lame affilate, ricoprendola poi con terra ed erba, in modo che la martire non notasse la preparazione per la sua esecuzione.
Ancora una volta sant’Eufemia rimase illesa, passando facilmente sopra la fossa.
Infine, fu condannata ad essere divorata dalle bestie feroci nel circo. Prima dell’esecuzione la santa cominciò a implorare il Signore che la ritenesse degna di morire di una morte violenta. Ma nessuna delle fiere, libere nell’arena, l'attaccò. Infine, un’orsa la ferì lievemente sulla gamba, che iniziò a sanguinare, e subito Eufemia morì. In quel momento avvenne un terremoto, e sia le guardie che gli spettatori fuggirono in preda al terrore, di modo che i genitori della santa poterono prendere il suo corpo e seppellirlo non lontano da Calcedonia.

Nella sua Omelia XI, il vescovo Asterio di Amasea (335 c.ca-410 c.ca) descrive in questo modo gli affreschi raffiguranti il martirio di Eufemia che ha visto nel nartece (porticato coperto) di una chiesa non meglio precisata:


Altero siede il giudice sul suo seggio, guardando ostile e spie­tato verso la vergine (monta in collera, se vuole, l’arte, pur con la sua materia inanimata). Vi sono le guardie del corpo del magi­strato, e molti soldati; quelli che portano le tavolette scritte degli atti e gli stili, e uno di essi staccando la mano dalla cera guarda risolutamente verso colei che viene giudicata, e ha tutto il volto in­clinato, come per esortarla a parlare più chiaramente, affinché non accada che, stentando ad ascoltare, scriva cose errate e biasimevoli.
Sta la vergine in abito scuro e col mantello, simbolo della filosofia; fine e gentile come sembrò all’artista; adorna nell’animo, come a me sembra, delle sue virtù. Due soldati la conducono fin davanti al giudice, uno tirandola di davanti, l’altro spingendola di dietro. Lo stato d’animo della vergine è misto di pudore e di fermezza. Si china infatti verso terra, come arrossendo per la vergogna agli sguardi degli uomini, però sta impassibile, non mostrando alcun ti­more per la prova. (...)
Proseguendo la raffigurazione, alcuni carnefici appena coperti da una corta tunica già si mettono all’opera: una afferrandole il capo e reclinandolo all’indietro, offre all’altro il volto della vergine pronto alla pena, un altro accanto le strappa i denti. Si vedono gli strumenti del martirio, un martello e un trapano. Perciò mi metto a piangere e la sofferenza tronca il mio discorso. Infatti il pittore così vividamente ha colorito le gocce di sangue, che vera­mente diresti che sgorghino dalle labbra, e andresti via piangendo.
Oltre a ciò si vede la prigione e di nuovo la casta vergine in veste scura che sta seduta sola protendendo le braccia verso il cielo e invocando Dio soccorritore nei pericoli. E a lei che prega appare sopra il capo quel segno che suole essere adorato e impresso dai cristiani, simbolo, credo, della sofferenza appunto che l’attendeva. Subito dopo dunque il pittore accese in un altro posto un fuoco vigoroso, rafforzando la fiamma di colore rosso, rilucente da ogni par­te. E in mezzo pose lei, con le braccia spiegate verso il cielo, senza pena nel volto, ma al contrario lieta di passare a una vita incorporea e beata.

Nel ciclo di affreschi della chiesa costantinopolitana di Santa Eufemia all'Ippodromo che illustra la vita ed il martirio della santa, composto da 14 riquadri e databile alle ultime decadi del XIII secolo, sono invece raffigurate le seguenti scene:


Fascia superiore, da sn a ds:
2. Santa Eufemia in trono;
3. Santa Eufemia viene giudicata dal Tribunale;
4. La santa viene sottoposta alla tortura della ruota.
Fascia inferiore, da sn a ds
8. La santa viene gettata in un lago infestato da mostri marini;
9. Eufemia viene gettata nella fossa rivestita da lame acuminate;
10. Fustigazione;
5. Santa Eufemia nella fornace e conversione dei due soldati;
6. Martirio di Vittorio e Sostene;
11. La santa viene torturata con una sega;
12. Morte nell'arena del circo.

Nel 451 il Concilio di Calcedonia si riunì nella basilica che era sorta attorno al martyrion della santa. Per dirimere la controversia che contrapponeva gli ortodossi ai monofisiti di Eutiche e Dioscoro, il patriarca di Costantinopoli Anatolio propose ai padri conciliari di sottoporre la decisione allo Spirito Santo, attraverso la sua indubbia portatrice sant’Eufemia. I gerarchi ortodossi e gli avversari scrissero le loro confessioni di fede su rotoli separati e sigillati con i propri sigilli. Aprirono l’urna della santa e collocarono entrambi i rotoli sul suo petto. Poi, alla presenza dell’imperatore Marciano (450-457), i partecipanti al Concilio sigillarono la tomba, apponendo su di essa il sigillo imperiale e oltre ciò mettendo una sentinella di guardia per tre giorni, durante i quali entrambe le parti si imposero un rigoroso digiuno e resero intensa preghiera.
Dopo tre giorni il patriarca e l’imperatore, alla presenza del Concilio aprirono la tomba con le sue reliquie: la pergamena con la confessione ortodossa era tenuta da sant’Eufemia nella mano destra, mentre il rotolo degli eretici giaceva ai suoi piedi. Sant’Eufemia, come se fosse viva, alzò la mano e diede il rotolo al patriarca. Dopo questo miracolo molti dei titubanti accettarono la confessione ortodossa, mentre quelli rimasti nell’ostinata eresia furono consegnati alla condanna del Concilio e scomunicati.




domenica 7 aprile 2013

Sant'Eufemia all'Ippodromo

Sant'Eufemia all'Ippodromo


La chiesa fu ricavata, tra il V e il VI sec., trasformando una struttura preesistente, un triclinio o un edificio termale, appartenente al complesso del palazzo di Antioco – ad ovest dell'Ippodromo - che risale agli inizi del V sec., quando la chiesa originaria, sita a Calcedonia, fu distrutta durante le invasioni sasanidi, e si ritenne che fosse più sicuro custodire le reliquie di Eufemia di Calcedonia all'interno di Costantinopoli.



Originariamente si trattava di un ambiente esagonale (probabilmente un'aula termale) con nicchie semicircolari su tutti i lati escluso quello d'ingresso. L'abside fu ricavato in una delle nicchie, aggiungendo un synthronon e il bema, il cui stilobate era ancora visibile nel 1942. Fu inoltre aperto un nuovo ingresso per riorientare l'edificio lungo l'asse est-ovest.


Abside e bema (foto 1942)

Le nicchie si aprono su degli ambienti semicircolari, uno dei quali comunica con la tomba ad arcosolio di un metropolita in cui è raffigurata la Vergine insieme a due vescovi e a Sant'Eufemia (in alto a ds della fotografia di sopra).

Tomba del metropolita

Le pareti della nicchia occidentale conservano in pessime condizioni i resti di 14 affreschi che illustrano la vita della santa (una descrizione dettagliata di questo ciclo si trova qui) e il martirio dei 40 martiri di Sebastea.
 
Scene del martirio di Sant'Eufemia
 
Nel riquadro in basso a destra, Sant'Eufemia viene data in pasto alle belve nell'arena
 
In base alla somiglianza che presentano nello stile e nella cromia con quelli della Mitropolis di Mistrà (1275-1280) e della Pammakaristos (1310 c.ca) sono stati datati alla fine del XIII secolo.

Durante la persecuzione iconoclasta, tra il 734 e il 740, Costantino V trasformò la chiesa in magazzino militare e fece gettare a mare la cassa contenente le reliquie della santa.
Secondo la leggenda questa riaffiorò nei pressi dell'isola di Lemno e fu recuperata da due pescatori.
La chiesa fu restaurata e le reliquie ricollocate al loro posto durante il regno dell'imperatrice Irene (797-802).
La chiesa rimase aperta sicuramente fino alla caduta di Costantinopoli.

Nel 1951 i resti della chiesa furono spianati per fare spazio al nuovo Palazzo di Giustizia di Istanbul lasciando in piedi solo le parti affrescate che si trovano adesso nel cortile del Palazzo di Giustizia.

 Attualmente le reliquie della santa sono custodite nella chiesa patriarcale del Phanar.
 
Colonna intagliata e frammento d'architrave provenienti dalla chiesa di Sant'Eufemia
 Museo archeologico di Istanbul
 
 
 
 
 
 
 
 
 

giovedì 4 aprile 2013

Giovanni di Brienne

Giovanni di Brienne
Armi di Giovanni di Brienne 
in una miniatura della Historia Anglorum di Matthew Paris, XIII sec.


Figlio secondogenito di Erardo II, conte di Brienne, Giovanni nacque intorno al 1158 ed era destinato ad essere avviato alla carriera ecclesiastica ma preferì farsi cavaliere.
Quando nel 1208 Maria di Monferrato, regina di Gerusalemme, figlia di Isabella I di Gerusalemme e di Corrado del Monferrato, compì diciassette anni, giungendo, così, in età da marito, un'ambasceria guidata da Florent, vescovo di Acri, e da Aimaro, signore di Cesarea, si recò presso la corte di Francia per chiedere consiglio al re, Filippo Augusto, sul possibile candidato.
La scelta, approvata da papa Innocenzo III, cadde sull'allora sessantenne e squattrinato Giovanni di Brienne a cui il sovrano e il pontefice costituirono una dote di 4.000 marchi d'argento.
Giovanni di Brienne sbarcò ad Acri il 13 settembre ed il giorno successivo il patriarca Alberto lo unì in matrimonio a Maria. Il 3 ottobre la coppia fu incoronata nella cattedrale di Tiro.
Nel 1212, dopo aver dato alla luce la figlia Jolanda, la giovane regina morì di febbre puerperale e Giovanni mantenne il potere nelle vesti di reggente per conto della figlia.
Nel 1214 sposò Etiennette, figlia di Leone II d'Armenia, che lo lasciò nuovamente vedovo nel 1219.

La Quinta Crociata

Nell'ottobre del 1217 si tenne ad Acri il consiglio di guerra con i comandanti crociati appena giunti in Terrasanta in risposta all'indizione di una nuova crociata fatta da papa Innocenzo III nel 1213 con la bolla Quia Maior e ratificata dal IV Concilio lateranense (1215). Oltre a Giovanni di Brienne vi parteciparono i i re Andrea II di Ungheria e Ugo I di Cipro e il duca d’Austria Leopoldo VI di Babenberg nonché i Gran Maestri dei tre Ordini militari e venne stabilito che il primo obiettivo della crociata sarebbe stato la città di Damietta sul delta del Nilo.
Tuttavia, tra defezioni e nuovi arrivi, i primi contingenti crociati sbarcarono nei pressi di Damietta soltanto nel maggio del 1218.
Il 24 agosto il duca Leopoldo VI guidò l'assalto decisivo alla torre sul Nilo che presidiava l'unico canale navigabile. Presa la torre, la catena che sbarrava il canale fu tagliata e le navi crociate poterono risalire il fiume fin sotto le mura della città.

Cornelis Claesz Van Wieringen, La cattura di Damietta, 1625
 Frans Hals museum, Haarlem

Intimoriti dalle fortificazioni e indeboliti dalla defezione dei contingenti frisoni i crociati non approfittarono dello scompiglio seminato tra le file nemiche dalla morte del sultano Safedino (il fratello del Saladino morì il 31 agosto) e preferirono attendere i rinforzi.
A metà settembre giunse a Damietta il legato pontificio cardinale Pelagio Galvani al comando della spedizione papale e subito pretese il comando di tutto l'esercito a scapito di Giovanni di Brienne.
Nel mese di ottobre il sultano del Cairo al-Malik al-Kamil lanciò due attacchi contro il campo cristiano che furono respinti grazie all'energia di Giovanni.

Dopo diversi scontri, al-Malik al-Kamil concentrò le forze a difesa delle sue posizioni (e quindi a proteggere Damietta) più che proseguire nel tentativo di ricacciare l'esercito crociato.
Costruì barricate e opere di difesa e affondò anche alcune delle sue navi per impedire a quelle cristiane di risalire il Nilo e avvicinarsi alla città.
I Crociati avevano il loro campo sulla riva occidentale del fiume e non potevano assediare la città dalla parte di terra se non attraversandolo, ma questo era arduo e pericoloso, visto che il Sultano del Cairo aveva posto il suo campo ad al-Adiliya sulla riva opposta del fiume.

A novembre era chiaro che i Crociati non sarebbero stati in grado di farsi strada attraverso il Nilo; quindi cercarono di riaprire un canale che era stato abbandonato da tempo. Il loro piano era quello di navigare fino ad un punto ben al di sopra di Damietta e quindi attaccare la città da due lati.
Riuscirono a dragare il canale, quando improvvisamente furono colti da una violenta tempesta che allagò il loro campo.
All'alba del 5 febbraio 1219 il campo crociato fu raggiunto dalla notizia che il sultano con tutto l'esercito aveva abbandonato il campo nella necessità di fronteggiare un sommovimento interno. Il cardinale Pelagio diede quindi l'ordine di avanzare e impadronirsi del campo egiziano di al-Adiliya che fu preso respingendo una sortita della guarnigione della città. Damietta era adesso completamente isolata.

Il giorno della Domenica delle Palme, l'esercito egiziano attaccò i campi crociati ma fu ricacciato con gravi perdite.
Verso la fine di agosto S.Francesco d'Assisi raggiunse l'esercito crociato e chiese al cardinale Pelagio il permesso di recarsi dal sultano per una missione di pace insieme a Fra Illuminato. Nell'intento di convertire il sultano alla religione cristiana Francesco propose di sottoporsi ad un'ordalia con il fuoco - quest'ultima circostanza è però riportata solo da San Bonaventura (Legenda maior, IX, 1265) - ma il sultano rifiutò e dopo averlo ascoltato lo rimandò al campo cristiano con una scorta d'onore.

Giotto, San Francesco davanti al Sultano, 1325 c.ca 
Cappella Bardi, Basilica di S.Croce, Firenze

Verso la fine di ottobre al-Kamil, stimando difficile difendere ulteriormente Damietta, avanzò una proposta di pace molto vantaggiosa: offrì Gerusalemme, la restituzione della Vera Croce sottratta ai cristiani nella battaglia di Hattin, tutta la Palestina centrale e la Galilea, conservando soltanto le fortezze d'Oltregiordano per le quali avrebbe comunque pagato un tributo annuo, in cambio della ritirata dell'esercito crociato da Damietta.
Giovanni di Brienne e i baroni crociati d'Occidente erano favorevoli ad accettare queste condizioni. L'assedio si protraeva infatti infruttuosamente da diciassette mesi e le defezioni nel campo cristiano, solo parzialmente compensate dai nuovi arrivi, erano continue, senza contare che, accettando, avrebbero ottenuto la liberazione dei luoghi santi. Il cardinale Pelagio, sostenuto dai tre Ordini militari che stimavano Gerusalemme indifendibile senza le fortezze d'Oltregiordano, riuscì però ad imporre il rifiuto della proposta di pace.

La notte del 5 novembre, il cardinale ordinò l'attacco generale. Diluviava con fitti tuoni e lampi, nessun rumore si udiva né sopra le mura, né dentro la città, i crociati scalarono il muro esterno e poi quello interno senza quasi incontrare resistenza, due porte furono aperte e la città fu presa.
La fame e le epidemie avevano lavorato per l'armata cristiana: degli originari 70.000 abitanti i crociati non ne trovarono in vita che 3.000 affamati e moribondi.

Henri Delaborde, La presa di Damietta, 1839
 castello di Versailles, Sala delle Crociate

Re Giovanni, sostenuto dai baroni e dagli Ordini militari, pretese che la città venisse annessa al Regno di Gerusalemme ed il cardinale Pelagio, che intendeva reclamarla per la Chiesa, fu costretto a cedere.
Nello stesso mese i crociati presero e saccheggiarono, trovandola sguarnita, anche la città di Tanis, all'estremità orientale del lago Manzaleh.

Denaro fatto coniare da Giovanni di Brienne durante l'occupazione di Damietta.
Al recto la testa coronata del re circondata dalla scritta Johannes rex, al verso la croce con la scritta Damieta.

Nel febbraio del 1220 Giovanni di Brienne, a seguito dei continui contrasti con il cardinale, lasciò Damietta e si ritirò ad Acri con le sue truppe ed il cardinale rimase da solo alla guida dell'esercito.
Nella primavera del 1221 l'arrivo di Federico II alla testa di un grande esercito sembrava imminente ed arrivò, inviato dall'imperatore, Ludovico di Baviera alla testa di un forte contingente di crociati tedeschi. Pelagio rifiutò una rinnovata proposta di pace del sultano e riuscì a convincere i comandanti crociati a muovere verso il Cairo, questi posero come unica condizione che re Giovanni fosse richiamato al comando della spedizione.
Il 6 luglio Giovanni raggiunse Damietta con i suoi cavalieri ed il 12 l'esercito crociato mosse verso sud.
Il 20 fu presa Sharimshah dove Giovanni intendeva fermarsi: era prossima infatti l'epoca dell'esondazione del Nilo e l'esercito damasceno si stava avvicinando.


Pelagio insistette per una ulteriore avanzata ed il 24 luglio l'esercito si schierò lungo il canale al-Bahr -al-Saghir, adesso inondato dalla piena del Nilo e facile da difendere, di fronte all'esercito egiziano trincerato ad al-Mansurah. Le navi egiziane discesero il Nilo e trasportarono parte delle truppe alle spalle dei crociati tagliando la ritirata verso Damietta.
A metà agosto il cardinale si rese conto che l'esercito crociato era circondato da forze superiori ed a corto di viveri e diede l'ordine di ritirarsi.
La notte del 26 iniziò la ritirata ma il sultano diede ordine di aprire le chiuse del Nilo che inondò le terre basse che i crociati dovevano attraversare rendendone difficoltosa la marcia e pressochè inutilizzabile la cavalleria pesante che era la loro arma migliore. Nel frattempo il sultano lanciò all'assalto la cavalleria leggera turca e la fanteria nubica che furono respinti da Giovanni a prezzo di gravi perdite.
Il 28 agosto, il cardinale, che era stato trasportato dalla piena del Nilo sulla sua nave oltre le linee nemiche, inviò al sultano dei messaggeri di pace offrendo Damietta in cambio della possibilità di ritirarsi verso la Palestina.
Contro il parere dei suoi comandanti, il sultano accettò la proposta e l'8 settembre 1221 fece il suo ingresso in Damietta. La quinta crociata si era conclusa senza alcun esito.
***

Per spingere ulteriormente l'imperatore Federico II verso la Crociata e per costringerlo ad andarvi personalmente, papa Onorio III gli offrì la corona del regno di Gerusalemme se avesse preso in moglie Jolanda, figlia di Maria di Gerusalemme e Giovanni di Brienne e legittima erede al trono.
I Gran Maestri dei tre Ordini militari, soprattutto Ermanno di Salza, GM dell'Ordine teutonico, il Patriarca di Gerusalemme, Rodolfo di Mérencourt, ed il re Giovanni di Brienne, che si trovavano in Italia, e più precisamente in Campania, per trattare gli aiuti al Regno di Gerusalemme, erano molto favorevoli a questo matrimonio, immaginando di poter ottenere in questo modo l’aiuto e la protezione del più potente monarca dell’Occidente.
Federico II accettò il matrimonio e di conseguenza il regno di Gerusalemme e promise di difenderlo ma chiese al papa di rinviare ancora di due anni la partenza per la Terrasanta, giustificandosi con le grandi difficoltà che aveva nel radunare l’esercito dei Crociati e con la necessità di aspettare che la tregua conclusa con i musulmani si fosse estinta, prima di ricominciare la guerra.

Nell’agosto del 1225 quattordici navi imperiali raggiunsero San Giovanni d’Acri; queste accompagnavano Giacomo, allora ancora vescovo di Patti, che celebrò immediatamente il matrimonio per procura dell’Imperatore Federico II con Jolanda di Brienne.
Le navi imperiali ripartirono quindi verso Brindisi, accompagnando Jolanda, suo padre Giovanni di Brienne e diversi membri della famiglia reale. Le navi giunsero a Brindisi il 9 novembre 1225 dove, con la benedizione del clero e l’acclamazione del popolo, nello stesso giorno venne celebrato ufficialmente il matrimonio nella cattedrale.
Il giorno successivo, Federico II privò Giovanni di Brienne della reggenza del Regno di Gerusalemme, nonostante le promesse fattegli con le quali gli aveva dichiarato che lo avrebbe lasciato regnare fino alla sua morte.

Il papa affidò allora a Giovanni, come parziale compensazione, l'amministrazione dei beni papali in Toscana e nel 1227, sotto il pontificato di Gregorio IX, ebbe il comando della spedizione papale contro le Puglie governate dall'ex suocero.

Nel 1228 I baroni latini di Costantinopoli avevano bisogno di un reggente per il giovane re Baldovino II di Courtenay, salito al trono appena undicenne. La scelta cadde su Giovanni di Brienne.
Nel 1234 Baldovino sposò Maria di Brienne, figlia di Giovanni e della sua terza moglie Berenguela di Leon (1), rafforzando la posizione di Giovanni.
Nel 1236, nonostante l'età avanzata, prese il comando delle esigue forze che difendevano la città e riuscì a respingere l'attacco congiunto dei bulgari dello zar Ivan Asen e dei niceni di Giovanni III Dukas Vatatzes.

Giovanni di Brienne morì il 27 marzo del 1237 mentre Baldovino II si trovava in Europa alla ricerca di fondi e uomini per puntellare il traballante impero latino. Si dice che Giovanni, poco prima di morire, ricevette a Costantinopoli da Fra Benedetto d'Arezzo, il Ministro provinciale francescano per la Terrasanta e l'Oriente, gli abiti di terziario dell'ordine.

(1) Giovanni aveva sposato in terze nozze Berenguela di Leon, figlia di Alfonso IX di Leon e Berenguela I di Castiglia, nel 1224 a Toledo, nel corso del suo pellegrinaggio a Santiago di Compostela.


Il monumento funebre della Basilica inferiore di Assisi

 
La tomba è contornata agli angoli laterali del basamento, sporgente di circa mezzo metro e quasi ad altezza d'uomo, da otto piccole figure a tutto tondo, inequivocabili immagini di apostoli scolpite nel marmo (due sono andate purtroppo perdute, ma è del tutto certa la loro originaria presenza).
Molto probabilmente il monumento funebre è stato spostato nel corso del tempo e la sua conformazione attuale risulta dal riassemblaggio dei materiali originari. Originariamente doveva trovarsi infatti qualche metro a lato dell'attuale, sotto un grande arcone ogivale addossato alla parete della chiesa.
E' attribuito a Ramo di Paganello (scultore senese del XIII-XIV secolo) e/o Rubeus e databile al periodo in cui il primo era capomastro dell'opera del Duomo di Orvieto (1302-1310) ed il secondo risulta essere stato alle sue dipendenze.

Al centro del monumento due angeli tirano i capi (o forse accostano) di una leggerissima tenda dietro a cui è disteso il corpo del defunto, la cui lunga veste è stata tuttavia inspiegabilmente riscalpellinata in malo modo, scoprendo i piedi già di per sé molto evidenti.
Una figura guantata, che non sembra né uomo né donna, forse proprio un angelo col suo sorriso giovanile e quasi beffardo, ma non irriverente, siede in una singolare ed allusiva positura, con una gamba accavallata sopra all'altra, accoccolato sopra un grosso leone ruggente. Questo singolarissimo ed indecifrabile angelo occupa il secondo ripiano, immediatamente sovrapposto al baldacchino funebre, con accanto, più incassata nell'ombra, una madonna col bambino ritto in piedi, e, tra le due bellissime sculture, un sepolcro rettangolare in pietra rosso scura, ben sagomato nella sua spazialità concreta e riposto nell'ombra più fitta.
Le armi scolpite alla base del monumento sono state identificate con quelle di Filippo di Courtenay, figlio dell'imperatore latino di Costantinopoli Baldovino II di Courtenay e di Maria di Brienne, che fu imperatore titolare di Costantinopoli (1273-1283) e morì a Viterbo nel 1283.

Il monumento compare per la prima volta nelle fonti scritte nel 1418 dove è citato come tomba dell'imperatore di Costantinopoli. L'imperatore di Costantinopoli è spesso identificato in Giovanni di Brienne che probabilmente conobbe San Francesco a Damietta (1219-1220) nel corso della Quinta Crociata e presenziò alla sua canonizzazione ad Assisi nel 1228. Nella sua De Conformitate Vitae Beati Francisci ad Vitam Domini Iesu (1325 c.ca), Fra Bartolomeo da Pisa riporta inoltre che Giovanni, poco prima di morire (1237), si fece terziario francescano e fu sepolto ad Assisi. Dopo la caduta dell'impero latino di Costantinopoli (1261), la figlia Maria, che riparò insieme al marito presso la corte angioina di Napoli, potrebbe aver portato con sé le spoglie del padre o parte di esse.

Statua funeraria attribuita a Maria di Brienne, XIII secolo
 Basilica di S.Denis, Parigi