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giovedì 30 agosto 2012

Castello di Kassiopi

Castello di Kassiopi


Il castello di Kassiopi sorge nell'omonimo località che è situata lungo la costa nordorientale dell'isola di Corfù.
La cima del promontorio che divide le due spiagge che in passato erano i due porti di Kassiopi fu fortificata già in epoca romana. Nel 577 i Goti devastarono il villaggio e rasero al suolo la fortezza che fu ricostruita dall'imperatore Maurizio (582-602).

Nel novembre del 1084, nelle acque della sua baia, la flotta normanna di Roberto il Guiscardo che cercava di riconquistare l'isola, fu sonoramente sconfitta dall'attacco congiunto delle navi bizantine e veneziane.
Mantenuta in opera durante la dominazione angioina (1266-1386), la fortezza fu demolita dai Veneziani nel 1386, quando sferrarono il massiccio attacco contro l'isola, conquistarono il castello e lo smantellarono per ricostruirlo circa cento anni dopo. Il nuovo castello venne in seguito gravemente danneggiato nel corso delle incursioni turche del 1537 e del 1571, dopo la quale fu giudicato indifendibile dai veneziani e abbandonato. In questo modo però la città rimase indifesa e gli abitanti furono costretti a cercare rifugio nei villaggi arroccati sul monte Pantokrator. Il suo aspetto attuale è quindi dovuto in gran parte alla ricostruzione veneziana del XV secolo.

La cinta muraria, rafforzata da 19 torri a pianta quadrata e circolare, ha un'estensione di circa 1 km e la forma di un quadrilatero.

L'Ingresso principale, rafforzato ai lati da due massicce torri quadrate

L'ingresso principale visto dall'interno

Il corpo di guardia nel torrione posto a difesa dell'ingresso

Una delle torri quadrate che rinforzavano la cinta

Porta d'accesso

Panagia Bryoni


Panagia Bryoni
A circa 6 km a sud est di Arta, a sinistra della strada che conduce al villaggio di Neochoraki.


Il toponimo “Bryoni” fa probabilmente riferimento all'omonima famiglia bizantina che visse in Epiro (troviamo anche un Omar bey Bryoni al comando dell'esercito di Alì Pasha nel 1819) ed uno dei cui membri fu il donatore o promosse il rinnovamento della chiesa.
Dedicata alla Dormizione della Vergine, era originariamente il katholikon di un complesso monastico mentre oggi svolge la funzione di chiesa cimiteriale.
Un'inscrizione in mattoni sulle pareti esterne dei bracci della croce forma un unico testo che recita:
“(chiesa) stavropegica patriarcale consacrata dal patriarca ecumenico Germano”. Dal momento che il patriarca Germano II visitò Arta nel 1238, ciò consente di datare con precisione la chiesa. Questa iscrizione è comunque l'unica testimonianza della visita patriarcale.

Particolare del braccio settentrionale della croce con l'iscrizione ed il frammento in gesso incassato al vertice

Nel 1821 fu gravemente danneggiata da un incendio e quindi ampiamente ristrutturata nel 1867.
Molto probabilmente era originariamente del tipo a croce greca inscritta a due colonne e fu trasformata nel corso dei restauri in una a pianta basilicale a tre navate ricoperta da cupola.


Fu aggiunto un nuovo nartece ed un'altra coppia di colonne a dividere l'interno in tre navate e fu costruita la cupola ottagonale. Esternamente furono inoltre aggiunti i massicci contrafforti lungo le pareti laterali.
Il braccio meridionale della croce mostra i resti di un'apertura sormontata da una cornice ad arco di mattoni disposti a dente di sega e tracce di un'apertura simile si notano anche sulla parete del braccio settentrionale, nel quale fu inserito nel corso dei restauri un frammento di gesso proveniente dall'iconostasi. La decorazione esterna della chiesa è comunque povera ed imprecisa, il che tende ad attribuirla a maestranze locali. La chiesa in origine non era affrescata, lo fu solo nel 1873 dopo i lavori di restauro.
Da notare la decorazione in ceramica delle lunette della cupola e della facciata orientale.


mercoledì 29 agosto 2012

Arcangeli, Cherubini, Serafini, Troni e Tetramorfi

Arcangeli, Cherubini, Serafini, Troni e Tetramorfi nell'iconografia bizantina

I Cherubini

I Cherubini, secondo la classificazione delle schiere angeliche, sono posti oltre il Trono di Dio, espressione metaforica per indicare l'estrema vicinanza a Dio ed al suo potere, posti a guardia della luce e delle stelle.
Essi stanno anche a guardia dell'Eden e del Trono di Dio:
"E esiliò (il Signore Dio) l'uomo e pose a oriente del Giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante per custodire la via dell'albero della vita." (Genesi, 3, 24)
.
I Cherubini sono rappresentati nell'iconografia bizantina con quattro ali ed una faccia umana.

“Nel centro appariva la forma di quattro esseri viventi; e questo era l’aspetto loro: avevano aspetto umano. Ognuno di essi aveva quattro facce e quattro ali. I loro piedi erano diritti, e la pianta dei loro piedi era come la pianta del piede di un vitello; e brillavano come il bagliore del rame lucente. Avevano mani d’uomo sotto le ali, ai loro quattro lati; tutti e quattro avevano le loro facce e le loro ali. Le loro ali si univano l’una all’altra; camminando, non si voltavano; ognuno camminava diritto davanti a sé. Quanto all’aspetto delle loro facce, essi avevano tutti una faccia d’uomo, tutti e quattro una faccia di leone a destra, tutti e quattro una faccia di bue a sinistra, e tutti e quattro una faccia d’aquila. Le loro facce e le loro ali erano separate nella parte superiore; ognuno aveva due ali che s’univano a quelle dell’altro, e due che coprivano loro il corpo. Camminavano ognuno diritto davanti a sé; andavano dove lo Spirito li faceva andare, e, camminando, non si voltavano”. (Ezechiele 1, 5-12)

Cherubino posto a guardia dei giardini dell'Eden, Basilica dell'Assunta, Torcello, XI sec. c.ca

S.Nicola Orfano, Tessalonica, XIV sec.

I Serafini

Dal greco seraphìn e dall’ebraico seraphìm (pl.), gli ardenti (da saraph= ardere). Sono angeli di fuoco. Sono le creature celesti che formano il più alto coro della prima gerarchia degli angeli. Essi si trovavano davanti al Trono del Signore nella visione di Isaia:

“Sopra di lui stavano dei serafini, ognuno di essi aveva sei ali: con due si copriva il volto, con due i piedi e con due volava. L’uno gridava all’altro e diceva: ‘Santo, santo, santo è il Signore degli Eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria’”. (Isaia 6, 2-3 )

Secondo l'antico manuale d'iconografia cristiana redatto dal monaco Dionigi da Furnà, ritrovato da Adolphe Napoleon Didron in un monastero del Monte Athos e pubblicato a Parigi nel 1845 (il manoscritto risalirebbe al XVIII secolo ma i monaci presso i quali fu ritrovato ne attribuivano la prima redazione al X-XI secolo), "i serafini hanno sei ali di cui due salgono verso la testa, due discendono verso i piedi e due sono spiegate come per volare".

Panagia Pirigotissa, Arta, XIII sec.



Santa Sofia, Costantinopoli
 
Santa Sofia, Costantinopoli, particolare del volto di uno dei serafini recentemente riportato alla luce (2009)

Il volto del serafino era stato ricoperto durante il restauro dei fratelli Fossati (1847-1849), molto probabilmente su ordine del sultano Abdul Mecit I.

Nea Moni, Chios, 1042-1056
 
I Troni
 
L'aspetto dei Troni celesti è descritto dettagliatamente in due passi del Libro d’Ezechiele (I, 4-25; IX, 9-17).
Il profeta si riferisce a loro con i nomi di ruote (ōphannīm), data la loro forma circolare, e turbine, ad avvalorare la tesi secondo la quale in tempi remoti tali angeli erano direttamente identificati con i venti o i turbini, assieme ai Cherubini.
Queste ruote hanno “l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota” (Ezechiele I, 16).
Essi si muovono unicamente in perfetta sincronia con i Cherubini, poichè entrambi sono guidati dallo spirito del Signore, motivo per il quale “potevano andare nelle quattro direzioni senza voltarsi” (Ezechiele X, 11; X, 16-17).
Nel De coelesti Hierarchia (V sec.) attribuito allo Pseudo-Dionigi, le schiere angeliche dei Troni - il nome sta ad indicare la loro vicinanza al trono di Dio - sono rappresentate come delle ruote di fuoco, con le ali intorno. Le ali sono disseminate di occhi.

Chiesa di Santo Stefano, Soleto, fine XIV- inizi XV secolo
 
Il Tetramorfo

"Davanti al trono vi era come un mare trasparente simile a cristallo. In mezzo al trono e intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni d'occhi davanti e di dietro.
Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l'aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l'aspetto d'uomo, il quarto vivente era simile a un'aquila mentre vola.
I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi" (Apocalisse, IV, 6-8).
La descrizione dei “quattro Viventi” di Giovanni riecheggia quella dei cherubini in Ezechiele, eccezion fatta per il numero delle ali che diventano 6 come quelle dei serafini in Isaia e per il numero degli occhi.
Nel II sec, Ireneo, nel testo Contro gli eretici, diede l’interpretazione dell’immagine dei quattro viventi detta poi Tetramorfo, un’interpretazione che la Chiesa ha fatto sua.
Egli riconosce la manifestazione universale di Dio agli uomini attraverso i quattro Vangeli e spiega che:
“Esistono i quattro Vangeli poiché sono quattro i punti del mondo abitato e quattro i venti principali e poiché la Chiesa è diffusa sopra la terra tutta, mentre la colonna della Chiesa è il Vangelo e lo Spirito della vita, questa Chiesa deve di conseguenza poggiare su quattro colonne che le diano saldezza in ogni direzione e vivifichino gli uomini. Ne consegue che la Parola (Logos= Cristo) omnicomprensiva creatrice di vita che troneggia sui cherubini, ci donò un Vangelo in quattro parti tenute insieme dallo Spirito.
I cherubini hanno quattro volti e questi loro volti sono l’immagine riflessa della direzione salvifica del Figlio di Dio…Non è ammissibile che ci siano più di quattro Vangeli o meno di quattro, perché sono quattro le regioni del mondo in cui viviamo e quattro i venti e i punti cardinali. Da ciò si deduce che il Cristo artefice dell’universo, Lui che è seduto sui cherubini (i Viventi delle visioni) e che mantiene tutto unito, ci ha dato il Vangelo in 4 forme: leone, toro, aquila, uomo; queste immagini pur esprimendo un solo spirito… sono le immagini delle attività del Figlio di Dio”. Ireneo espone poi successivamente il gemellaggio degli Evangelisti con i Viventi. In seguito si ritenne possibile far derivare dal primo capitolo dei Vangeli la motivazione dell’attribuzione:
 
- Matteo è raffigurato come uomo (o angelo). Il Vangelo di Matteo esordisce infatti con la genealogia di Gesù e, in seguito, narra l'infanzia del "Figlio dell'Uomo", sottolineandone quindi il suo lato umano.
- Marco è raffigurato come leone. Nel Vangelo di Marco l'inizio del racconto è dedicato a Giovanni Battista, la cui Vox clamantis in deserto "si eleva simile a un ruggito" di leone.
- Luca è raffigurato come bue (toro) ovvero come un vitello, simbolo del sacrificio di Zaccaria che apre il Vangelo di Luca.
- Giovanni è raffigurato come un'aquila, dato che il suo Vangelo ha una visione maggiormente spirituale e teologica, rivolta verso l'Assoluto, quindi vola più in alto.

Nell'iconografia bizantina il Tetramorfo è rappresentato come quattro esseri alati con il volto di uomo, leone, bue e aquila che si dispongono – a volte tenendo davanti al petto il Vangelo – ai quattro punti cardinali attorno al Cristo o all'agnello o alla croce.

Chiesa di Hosios David, Tessalonica, IV sec.

Battistero di S.Giovanni in fonte, Napoli, IV sec.

chiesa di S.Prassede, Roma, IX sec. 

Gli Arcangeli 

Gli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, Cripta del Giudizio universale, Matera, IX sec. c.ca

Michele e Gabriele hanno il titolo di Tassiarchi, in quanto comandanti dell'esercito celeste.
Gabriele è il messaggero, è rappresentato con in mano il baculus viatorius, il lungo bastone che qualificava il messaggero imperiale ma che richiama anche la lunga bacchetta degli ostiari che nella liturgia antica custodivano i luoghi sacri (può culminare con una sfera - simbolo del cielo - che poggia su una base quadrata – simbolo della terra) o in alternativa il giglio dell'Annunciazione.

L'arcangelo Gabriele nell'Annunciazione, Basilica eufrasiana, Parenzo, VI sec. 

L'arcangelo Gabriele, Nea Moni, Chios, XI sec.
 
L'arcangelo Michele comanda gli eserciti celesti, è rappresentato armato di una lunga lancia (o una spada), a volte ha in mano una bilancia con cui pesa le anime (psicostasia). E' spesso specificamente invocato nella lotta contro i Turchi (cfr. Le apparizioni di S.Michele arcangelo negli affreschi della Cappella di Bessarione)

L'arcangelo Michele, Cristo Antiphonitis, Cipro, 1190

L'arcangelo Michele, Basilica dell'Assunta, Torcello, XI sec. circa

La vergine tra gli Arcangeli, S.Nicola Orfano, Tessalonica, XIV sec.

Raffaele è il terzo arcangelo nominato nell'Antico Testamento, nel Libro di Tobia, nel quale appare in forma umana col nome di Azaria.
Raffaele è la guida ed il difensore del giovane Tobia, inviato da Dio per aiutarlo nel compito affidatogli dal padre ormai cieco di riscuotere un credito che questi aveva lasciato in una città della Media. Nel viaggio Raffaele procura a Tobia un felice matrimonio con la giovane Sara, la guarigione della stessa dai tormenti del demone Asmodeo e del padre di Tobia dalla cecità.
Solo al termine della sua missione, prima di lasciarli per tornare al cielo, egli si rivela: "Io sono Raffaele, uno dei sette spiriti che sono sempre pronti ad entrare alla presenza della maestà del Signore" (Tobia, XII,15) e lo incarica di scrivere l'accaduto.
Raffaele è inoltre usualmente identificato con l'Angelo che, nel racconto di Giovanni del miracolo della guarigione del paralitico compiuto da Gesù alla piscina di Bethesda, di tanto in tanto scendeva nella piscina e ne agitava l'acqua, concedendo la guarigione da ogni malattia al primo che vi si sarebbe tuffato dentro dopo il moto dell'acqua (Giovanni V,4). Questo passo manca però nei manoscritti migliori e più antichi.
Raffaele è l'arcangelo della guarigione divina e dell'amore sponsale.

L'arcangelo Raffaele, chiesa della Teotokos Pammakaristos, Costantinopoli, 1310 c.ca
 
Molto raramente è raffigurato un quarto arcangelo, Uriele (il cui nome significa Luce di Dio), che a differenza degli altri tre, non compare però nei testi canonici delle Sacre Scritture. Compare invece in alcuni testi apocrifi (Libro di Enoch, IX e XX; IV Libro di Esdra). Inoltre è identificato nei vari scritti apocrifi come uno dei cherubini posti a guardia del paradiso terrestre (Gen III, 24), oppure con l’angelo che lotta contro Giacobbe (Genesi, XXIV), o ancora colui che sorveglia le porte degli israeliti in Egitto durante la strage degli figli primogeniti (Esodo, XII, 13).
 
L'arcangelo Uriele, chiesa della Teotokos Pammakaristos, Costantinopoli, 1310 c.ca
 












martedì 28 agosto 2012

Arta


Arta

Fu costruita sulle rive del fiume Arhatos ed ai piedi del monte Perhanti sul sito dell'antica colonia corinzia di Amvrakia. Nel 285 a.C. Pirro trasferì qui la capitale del suo regno mentre il nome di Arta non compare prima del 1082. L'etimologia del nome non è del tutto chiara. Secondo alcuni deriverebbe dalla corruzione del nome del fiume (Arhatos) o dal latino artus (stretto). Nei testi medioevali è nominata anche Akarnania o Akarnania Arachtheia, probabilmente a significare che vi si rifugiarono gli abitanti della vicina città di Akarnania.
Nel 1204, con la nascita del Despotato ne divenne la capitale.

Il ponte


Il Ponte di Arta è un ponte in pietra che attraversa il fiume Arhatos nelle vicinanze della città.
Stando al cronista dell'Epiro Panayiotis Aravantinos, il ponte fu costruito ai tempi degli antichi romani, mentre secondo alcune tradizioni fu costruito quando Arta divenne la capitale del Despotato di Epiro, possibilmente sotto Michele II Ducas (1230-1271). La ristrutturazione più recente risale comunque al 1612 ma le fondazioni dei pilastri sono di epoca bizantina.
Secondo una ballata popolare ogni giorno 1.300 costruttori, 60 apprendisti, 45 artigiani e muratori, sotto la guida del capomastro, cercavano di costruire un ponte le cui fondamenta crollavano ogni mattina. Infine, un uccello con una voce umana informò il capomastro che per far rimanere il ponte in piedi, egli doveva sacrificare la sua stessa moglie. La moglie del capomastro venne uccisa e gettata nella fondamenta della costruzione, da dove il suo spirito cominciò a pronunciare litanie di maledizioni che si concludono in benedizioni (P.Aravantinos, Chronographia tis Epeirou, 1856) .
Dal 1829 (nascita della Grecia indipendente) fino al 1881, quando Arta venne annessa allo Stato greco, il ponte segnò il confine tra l'Impero ottomano e la Grecia libera.
L'edificio liberty all'estremità occidentale del ponte che oggi ospita il museo del folklore è l'ex posto di frontiera turco.



Chiesa della Panagia Parigoritissa (Consolatrice)


Esternamente, la sua forma cubica ricorda quella di un palazzo italiano, se non fosse che dal tetto si staccano cinque cupole ed una lanterna (usata probabilmente come campanile). La cupola centrale è a base dodecagonale mentre quelle angolari poggiano su tamburi ottagonali. Il tetto della lanterna, assolutamente inusuale nell'architettura bizantina, è invece sostenuto da otto colonnette.
In questa chiesa il principio fondamentale dell'architettura bizantina – che il sistema interno delle volte si esprime plasticamente nelle facciate esterne – è stato sacrificato a favore dell'appiattimento delle facciate che la chiudono su tre lati. Solo la facciata orientale è movimentata dalle cinque alte absidi.


Ogni facciata è divisa in tre piani, due ordini di finestre bifore ed uno di pietrisco irregolare scandito lungo i lati ovest, nord e sud da dodici lesene a cui probabilmente si appoggiava un porticato di legno. La presenza del porticato giustificherebbe la muratura dozzinale e priva di decorazioni della porzione inferiore delle mura perimetrali.
Lungo i lati nord e sud, le finestre dell'ordine superiore non hanno alcuna relazione simmetrica con quelle dell'ordine inferiore a differenza di quanto avviene nella facciata occidentale. Le decorazioni in mattoni della facciata orientale evidenziano una serie di asimmetrie che vanno forse attribuite alla scarsa familiarità delle maestranze locali con la costruzione di edifici di queste dimensioni.


Il nartece e i due paraekklesia, molto ampi, sono sormontati da una galleria (matroneo) stranamente priva di accesso.
Il naos è invece piccolo e straordinariamente alto.
Per la sua copertura l'architetto creò un sistema inedito e molto azzardato.



Partendo da otto punti di sostegno, come nelle chiese a pianta ottagonale in cui la cupola s'imposta su trombe angolari, li fece salire ad aggetto, usando un gran numero di fusti di colonne tratti dalle rovine della vicina Nikopolis inserendoli nel muro a coppie in modo da formare mensole saldamente ancorate. Su queste mensole di fortuna furono appoggiate delle colonne: coppie di colonne sulle mensole inferiori e colonne singole, più scostate dal muro, su quelle superiori. Questo sistema si concludeva, immediatamente al di sotto della cupola, con una serie di colonnine ornamentali che sostenevano archi trilobati e archivolti di stile italiano.


I due paraekklesia terminano ad est in altrettante cappelle, dedicate rispettivamente ai Tassiarchi, quella settentrionale e a S.Giovanni Battista, quella meridionale.

Osservando l'architettura della chiesa essa sembra costituita da due parti distinte, che si raccordano all'altezza delle finestre. Per giustificare questo fatto è stato supposto che la chiesa fosse stata iniziata sotto il regno di Michele II (1230-1271) e solo completata sotto quello di Niceforo I e della seconda moglie Anna Cantecuzena i cui nomi appaiono scolpiti all'interno della decorazione dell''arco marmoreo che sovrasta la Porta Reale dalla parte del naos.

Dormizione della Vergine
seconda metà del XVII sec. Al di sopra l'arco marmoreo che contiene i nomi dei donatori.

I nomi di Niceforo e Anna sono indicati insieme a quello della loro discendenza (komnenoblastos) che è descritto come Despota. Dovrebbe quindi trattarsi di Tommaso che fu fatto despota da Andronico II nel 1294, la chiesa sarebbe quindi databile tra il 1294 e il 1296, anno di morte di Niceforo.
Il secondo piano dell'edificio ed i paraekklesia apparterrebbero all'ampliamento realizzato sotto il despotato di Niceforo.

Una leggenda vuole invece che, mentre la chiesa veniva costruita, l'architetto venne chiamato a costruirne un'altra ed il suo primo assistente ebbe l'opportunità di stravolgere completamente i disegni originali. Tornato soltanto a lavori praticamente ultimati, l'architetto non potè fare a meno di ammirare l'opera del suo assistente ma nondimeno di invidiarlo ed esserne geloso. Convocatolo sul tetto dell'edificio per segnalargli un errore di costruzione, lo gettò invece nel vuoto ma questi lo trascinò a sua volta nella caduta. La leggenda vuole che al contatto con il suolo entrambi venissero trasformati in pietre. Nel cortile retrostante la chiesa vengono ancora indicate le pietre in cui si trasformarono.


L'attributo di consolatrice dato alla Vergine nella dedicazione della chiesa deriverebbe dalla sua venuta sulla Terra per consolare la madre del giovane assistente.

Mosaici
Sono limitati al naos e molto danneggiati, risalgono all'ampliamento di Niceforo.
Nella cupola il Cristo pantokrator (vedi sopra) - da notare i lineamenti del volto illuminati da luce radente sulle guancie realizzata per mezzo di sottili tessere di diverso colore - è circondato da dodici profeti alternati a serafini, cherubini e rotae.


Affreschi
Sono stati realizzati in periodi diversi, tutti successivi alla caduta del despotato.

Durante l'occupazione ottomana la Parigoritissa non fu mai trasformata in moschea fino al 1821 quando i turchi ne fecero una postazione fortificata. Il console austriaco a Giannina, Ferdinand Haas, notò che nel 1854 era ancora utilizzata come tale.

Chiesa di S.Basilio
in Vasileos Pirhhus street a breve distanza dalla chiesa di S.Teodora.


La sua fondazione dovrebbe risalire alla seconda metà del XIII sec.
Originariamente a navata unica con copertura lignea, le vennero aggiunte le due basse navate laterali, che terminano nel lato orientale in altrettante cappelle dedicate rispettivamente a S.Gregorio di Nazianzo e a S.Giovanni Crisostomo, nel corso del XIV o XV sec.


Il portico di cui si notano i resti sulla facciata occidentale fu aggiunto in epoca ancora più tarda.


I frontoni dei lati occidentale e orientale del tetto si innalzano al di sopra di esso e questa particolarità, riscontrabile anche nella chiesa di S.Teodora, è caratteristica dell'architettura del despotato.
I lati est e nord della chiesa presentano una sontuosa decorazione in ceramica dove si distingue una fascia di mattonelle policrome disposte a losanga.
Nella decorazione della facciata orientale sono inserite inoltre due formelle in ceramica policroma, una raffigurante la Crocifissione e l'altra i Tre Gerarchi S.Basilio, S.Gregorio di Nazianzo e S.Giovanni Crisostomo (si tratta di copie, gli originali si trovano attualmente nel Museo bizantino di Giannina).




La maiolica della Crocefissione, soprattutto nelle figure della Vergine e di S.Giovanni, appare influenzata da analoghi italiani del XIV secolo. Sono databili tra il 1416 ed il 1448 in relazione al despotato dei Tocco e probabilmente opera di un artigiano italiano trasferitosi ad Arta.



All'interno la protesis appare ricavata nello spessore della muratura mentre manca il diaconikon. Le navate laterali sono ripartite in tre spazi di cui quello centrale – che è anche l'unico a comunicare con il naos – presenta una volta a botte trasversale.

La decorazione a fresco del naos risale al tardo XVII secolo.


Chiesa di S.Teodora
piazza Santa Teodora


Katholikon del monastero di S.Giorgio dove Teodora,  moglie di Michele II e successivamente santificata, si ritirò alla morte del marito (1270). Alla sua morte (1280) fu sepolta in questa chiesa da lei ingrandita e abbellita e che le venne in seguito dedicata. La fondazione della chiesa dovrebbe invece risalire alla fine dell'XI sec.
Presenta una pianta basilicale a tre navate poco allungata e tre absidi, preceduta da un nartece cupolato fatto aggiungere da Teodora.



La facciata occidentale presenta tre frontoni, quello centrale dei quali – l'unico in cui si apre una finestra bifora – nasconde, come nella chiesa monastica delle Blachernae, la cupola del nartece.


Ai primi del XIV secolo il nartece e parte dei lati sud e nord del naos vennero circondati da un porticato oggi non interamente conservatosi. Sul lato meridionale le arcate del portico poggiano su pilastri mentre sul lato occidentale poggiavano su colonne, una soltanto delle quali è rimasta in sito.
All'interno il portico presenta una volta a croce innervata da costoloni di chiara influenza franca.


Sarcofago di Teodora: attualmente collocato nel nartece della chiesa.
Fu riorganizzato nel 1873 utilizzando elementi trovati in situ.
E' formato da una base massiccia da cui s'innalzano sei colonnette che sostengono due architravi.



La santa è raffigurata sul lato occidentale in abiti imperiali insieme al figlio Niceforo, futuro despota d'Epiro, entro un'arcata sostenuta da colonnette binate e tra due busti di angeli. Al di sopra della figura di Niceforo, la dextera dei in un arco stellato che simboleggia il segmentum coeli.
Nonostante il rilievo particolarmente alto le figure – rigide e tozze - appaiono come incollate sullo sfondo, trattate a taglio, senza alcuna attenzione alla plastica dei corpi, indice del lavoro di una bottega locale. Le vesti della santa e del figlio ben documentano le aspirazioni imperiali della dinastia epirota. La lastra è databile al 1270-1290.


La decorazione della lastra del lato orientale – che incorpora una bifora finemente intagliata - è invece molto più raffinata, forse opera di un artigiano italiano. Potrebbe trattarsi della finestra di un palazzo incorporata successivamente nel cenotafio.

Gran parte della decorazione a fresco risale al XVII-XVIII secolo. Affreschi databili al XIV secolo si trovano nel nartece. Dal punto di vista iconografico il più interessante è quello, a destra dell'ingresso meridionale, che raffigura Santa Domenica (Santa Ciriaca) che indossa un chitone su cui sono dipinte piccole teste femminili, personificazioni dei giorni della settimana.

Porta d'ingresso al monastero

Risale alla metà del XIII secolo ed è una delle poche porte bizantine ancora esistenti.