Teodosio I il grande (379-395)
Teodosio I raffigurato nel missorio di Teodosio, piatto d'argento coniato in occasione dei suoi decennalia, 388 c.ca, Real Academia de la Historia, Madrid.
Dopo il disastro di Adrianopoli, in cui perì lo stesso imperatore d'Oriente Valente, suo nipote Graziano, l'imperatore d'Occidente, dovette farsi carico anche della metà orientale dell'impero. Per fronteggiare i Goti, ormai liberi di saccheggiare i territori dell'impero, richiamò dalla Spagna il generale Teodosio che era stato accantonato da Valentiniano I dopo essere stato duramente sconfitto dai Sarmati (374).
Teodosio non riuscì a ricacciare i Goti al di là della frontiera danubiana ma riuscì a contenerli efficacemente sicchè il 19 gennaio del 379, a Sirmio, Graziano lo elevò al rango di Augusto e gli affidò la parte orientale dell'impero.
Dopo alterne vicende di guerra che avevano condotto ad una situazione di stallo, il 3 ottobre del 382 Teodosio stipulò un foedus con i Goti: grazie ad esso i barbari si poterono insediare nella diocesi di Tracia divenendo federati dell’Impero con ampia autonomia. Per la prima volta un popolo non soggetto alla legge romana si stanziò dentro i confini imperiali: i Goti, infatti, ebbero il permesso di farsi governare dalle loro leggi e dai loro capi a patto di fornire soldati e contadini all’Impero, dando con ciò inizio alla progressiva barbarizzazione dell' esercito romano. Erano trascorsi sei anni dall’ingresso dei profughi Goti nel territorio romano.
Mentre cercava di pacificare in qualche modo i confini, Teodosio, di fede nicena come Graziano e Valentiniano II, dovette anche affrontare la questione religiosa e contrastare la diffusione dell'arianesimo, che avendo goduto del favore di Costanzo II e Valente, era particolarmente forte nelle regioni orientali.
Il 27 febbraio 380 venne emesso l'Editto di Tessalonica, conosciuto anche come Cunctos populos, firmato congiuntamente dagli imperatori Teodosio I, Graziano e Valentiniano II (quest'ultimo all'epoca aveva solo nove anni). Il decreto dichiara il credo niceno religione ufficiale dell'impero, proibisce in primo luogo l'arianesimo e secondariamente anche i culti pagani. Per combattere l'eresia si esige da tutti i cristiani la confessione di fede conforme alle deliberazioni del concilio di Nicea. Il testo venne preparato dalla cancelleria di Teodosio I e successivamente verrà incluso nel codice Teodosiano da Teodosio II.
Nel 383 il governatore della Britannia, Magno Massimo, si proclamò imperatore, sbarcò in Gallia e sconfisse Graziano nei pressi di Parigi. Mentre ripiegava verso sud, Graziano fu raggiunto e assassinato dal magister equitum Andragazio (25 agosto).
L'usurpatore avviò delle trattative con Teodosio e Valentiniano II – il fratellastro di Graziano che regnava sull'Italia ed il Nordafrica – che lo riconobbero imperatore. Magno Massimo stabilì quindi la sua capitale a Treviri.
Nel 387 con il pretesto di sostenere l'ortodossia contro l'arianesimo a cui Valentiniano II, spinto dalla madre Giustina, stava facendo ampie concessioni, Magno Massimo varcò le Alpi alla testa delle sue legioni costringendo l'imperatore e la madre a rifugiarsi a Tessalonica sotto la protezione di Teodosio.
Teodosio – rimasto vedovo nel 385 della prima moglie Elia Flaccilla che gli aveva dato i figli Arcadio, Onorio e Pulcheria – s'invaghì della bellissima principessa Galla, figlia di Giustina, che acconsentì al matrimonio solo se Teodosio avesse mosso guerra a Magno Massimo rimettendo sul trono il figlio Valentiniano. Teodosio accettò ma pretese in cambio che Giustina e tutta la sua famiglia si convertissero all'ortodossia abbandonando l'arianesimo.
Nell'estate del 388 le truppe di Teodosio sconfissero ripetutamente Magno Massimo nell'Illirico (a Siscia sul fiume Sava ed a Petovio, l'attuale Ptuj in Slovenia) fin quando l'usurpatore, ritiratosi ad Aquileia, non venne catturato e messo a morte.
Teodosio reinsediò quindi Valentiniano II sul trono d'occidente e rimase in Italia tre anni (dall’agosto del 388 al giugno del 391) e durante questo periodo visitò Roma (389).
Nel luglio del 391 Teodosio ripartì per Costantinopoli, prima di partire affidò il giovane Valentiniano II alla guida esperta del generale franco Arbogaste che avrebbe controllato l’Occidente per conto di Teodosio con il grado di magister equitum (subentrando al franco Flavio Bautone, amico dell’imperatrice Giustina, morto nel 388).
Nel 392 Valentiniano II cercò di esautorare Arbogaste inviandogli una lettera in cui lo dimetteva dalla carica e che il generale ignorò. Valentiniano II morì poco dopo a Vienne nelle Gallie il 15 maggio in circostanze poco chiare (il suo corpo fu ritrovato impiccato ad un albero). Arbogaste, che deteneva il potere reale, fece proclamare dal Senato romano augusto d'Occidente il magister scriniorum (capo della cancelleria) Flavio Eugenio che, per quanto battezzato, assunse un atteggiamento favorevole ai pagani ripristinando nella Curia l'altare della Vittoria che era stato fatto rimuovere da Teodosio.
BATTAGLIA DEL FIUME FRIGIDO (5-6 settembre 394, attuale valle dell'Isonzo)
Fu combattuta dall'esercito d'Occidente guidato dall'usurpatore Eugenio e dal suo magister equitum Arbogaste contro l'esercito d'Oriente guidato da Teodosio I, coadiuvato dai suoi generali Stilicone, Timasio e Bacurio e affiancato dai visigoti di Alarico.
Le forze in campo
L’esercito occidentale era comandato da Arbogaste in quanto Eugenio, ex funzionario di Stato ed ex insegnante nelle scuole di retorica, non aveva competenze militari e, di fronte alle truppe, svolgeva un ruolo puramente simbolico. Al contrario, Arbogaste era un ottimo generale: ufficiale agli ordini di Graziano, prima, poi dello stesso Teodosio, aveva avuto parte nella sconfitta di Magno Massimo e individuato con lucidità gli errori di quest’ultimo. Massimo, infatti, aveva sottovalutato l’importanza strategica dei Claustra Alpium Juliarum, il complesso difensivo creato a nord-est dell’Italia a partire dal III secolo. Lasciando sguarnite le fortificazioni di quel settore, aveva infatti agevolato l’ingresso in Italia dell’avversario, finendo con il trovarsi rinchiuso e assediato dentro le mura di Aquileia. Arbogaste badò bene ad assicurarsi il controllo dei Claustra, elaborando un piano per intrappolare Teodosio tra i valichi alpini.
Da parte sua, Teodosio era un comandante altrettanto esperto, pur non essendo al meglio delle proprie facoltà: non godeva, infatti, di ottima salute ed era moralmente provato dalla scomparsa della giovanissima moglie, Galla, morta di parto insieme al bambino che portava in grembo all’inizio del 394. il lutto aveva provocato un rinvio della spedizione, regalando tempo prezioso ad Arbogaste.
Ciascuno dei due eserciti poteva schierare diverse migliaia di uomini. Teodosio aveva ricevuto dai Goti un contingente che, secondo alcune fonti, comprendeva ventimila uomini, posti agli ordini di Gainas. Questi svolgeva funzioni di ufficiale di collegamento tra lo Stato Maggiore romano e il contingente goto, che conservava il proprio capo nazionale: probabilmente Alarico, futuro avversario dei Romani. Marciavano con i Goti reparti di Alani, che costituivano un corpo specializzato di arcieri a cavallo, agli ordini di un ufficiale di nome Saul, e le truppe regolari romane. L’Imperatore aveva nominato Timasio capo del proprio Stato Maggiore, in cui figuravano Bacurio - uno dei pochi ufficiali scampati al disastro di Adrianopoli - e Stilicone, destinato a svolgere un ruolo politico-militare determinante negli anni successivi.
Da parte sua Arbogaste aveva arruolato soldati soprattutto in Gallia, ottenendo truppe dagli alleati Franchi. Si trattava, dunque, di eserciti tipici del tardo Impero Romano, caratterizzati da un ruolo significativo degli ausiliari barbari e dall’impiego tattico della fanteria leggera. Legionari romani e guerrieri barbari, del resto, tendevano sempre più ad assomigliarsi: dopo la riforma militare di Costantino, le corazze andavano scomparendo e il cuoio prendeva il posto delle piastre metalliche, I barbari, da parte loro, adottavano spade ed elmi di foggia o fabbricazione romana.
La dinamica dello scontro
Ai primi di settembre deI 394, l’esercito di Teodosio giunse in prossimità dei Claustra Alpium Juliarum. Il tratto di strada che si preparò a forzare si trovava a sud di Emona e si articolava sulle due piazzaforti di Nauportus (attuale Vrhnika) e Castra ad fluvium Frigidum (Ajdovscina): per raggiungere la seconda e quindi puntare sulla pianura friulana attraverso la Valle del Vipacco, era necessario oltrepassare un valico presidiato dalla fortezza di Castrum ad Pirum (Hrusica), posta a circa ottocento metri di altitudine. Teodosio la raggiunse - pare -senza incontrare difficoltà: ma ciò corrispondeva al piano di Arbogaste che, intanto, aveva occupato Castra ad Frigidum e sbarrato la Valle del Vipacco. Teodosio, a quel punto, era imbottigliato a Castrum ad Pirum, in una situazione critica. Come scrive Paolo Orosio: “bloccato sulle vette delle Alpi, non poteva ricevere rifornimenti né rimanere a lungo sulle sue posizioni”. Per proseguire, avrebbe dovuto condurrre un atttacco contro un avversario saldamente attestato settecento metri più in basso, lanciando i propri uomini alla disperata giù per i fianchi della montagna. L’alternativa, era ripiegare, ma Arbogaste aveva inviato un proprio ufficiale, Arbizione, a tagliare la ritirata, occupando la strada alle spalle di Teodosio.
Frenetiche riunioni dello Stato Maggiore dovettero svolgersi tra le mura di Castrum ad Pirum. Infine Teodosio decise di giocare il tutto per tutto.
All’alba del 5 settembre l’esercito riprese la marcia, avanzando per una quindicina di chilometri, e si portò a un’altitudine di circa seicento metri, presso una postazione fortificata situata poco oltre l’attuale paese di Col. Proseguendo lungo la strada militare, l’esercito di Teodosio avrebbe dovuto condurre un attacco diretto su Castra ad Frigidum, calando per un pendio scosceso in uno spazio ristretto: gli uomini di Arbogaste avrebbero potuto respingerlo con facilità, appoggiandosi alla linea difensiva imperniata sulla città e sul torrente che la lambiva. Inoltre, macchine da lancio erano certamente in dotazione alla guarnigione di Castra, e pronte a essere usate contro gli attaccanti.
Per questi motivi, è più credibile che Teodosio preferisse deviare dalla strada e tentare la discesa in valle attraverso l’ampia conca che si apriva alla sua sinistra, digradando sino a Castrum Minor (Vipacco). Lo stesso Arbogaste doveva aver tenuto in conto tale eventualità, predisponendo difese anche in quel settore. In ogni caso, dunque, si trattava di un attacco praticamente suicida, come i fatti dimostrarono. Attacco la cui forza d’urto principale fu rappresentata dai ventimila ausiliari goti.
Nel pomeriggio del 5 settembre i Goti iniziarono a scendere superando il dislivello di circa cinquecento metri, marciando in linea di colonna lungo i fianchi delle montagne: non potevano dispiegare le proprie forze, né manovrare, né giovarsi dell’appoggio tattico della cavalleria. Via via che giungevano a valle, le truppe di Arbogaste erano pronte a caricarli e abbatterli con tutta comodità. Le fonti parlano di diecimila caduti nel contingente goto: la metà circa dei loro effettivi. Verso sera Teodosio ordinò di sospendere le operazioni.
L’esercito di Arbogaste, contemplando il massacro dei Goti, credette di aver vinto la battaglia. Eugenio alimentò gli incauti entusiasmi distribuendo onoreficenze: si festeggiò ci fu allegria e si perse la concentrazione. Era quanto, verosimilmente, si aspettava Teodosio, che aveva riservato per l’indomani un secondo attacco, quello vero, affidato soprattutto alle truppe regolari romane. La scelta di sacrificare i Goti, forse, non era stata casuale: dopo Adrianopoli i Romani subivano la loro alleanza e ridimensionarne la forza non poteva che giovare all’impero. Lo stesso Orosio non ha nulla da eccepire in merito: “averli persi fu un gran bene e una vittoria il fatto che fossero vinti”.
Inoltre Teodosio aveva segnato un altro punto a proprio favore ottenendo la defezione di Arbizione, l’ufficiale che avrebbe dovuto sbarrargli la ritirata. Arbizione doveva assalire Teodosio alle spalle: manovra che, dopo il disastroso esito del pomeriggio di battaglia, nelle speranze di Arbogaste sarebbe stata decisiva. Invece l’ufficiale mise le proprie forze a disposizione di Teodosio, “indotto a soggezione dalla presenza dell’imperatore”, scrive Orosio. O forse convinto dopo trattative intercorse nella notte.
All’alba del 6 settembre Teodosio scatenò il secondo attacco. Lo guidò Bacurio, l’ufficiale forse più motivato, dato che, sedici anni prima, aveva avuto una parte di responsabilità nel disastro di Adrianopoli: era giunta per lui l’occasione di riscattarsi. I legionari iniziarono la discesa coperti dalle tenebre e assalirono le linee avversarie di sorpresa. Bacurio, scrive Rufino “si aprì un varco tra le schiere dense e serrate dei nemici. Sfondò le loro linee e avanzò tra caterve di morti, in mezzo a migliaia di soldati che cadevano uno dopo l’altro, sino all’usurpatore”.
La prosa altisonante di Rufino esprime l’asprezza del secondo giorno di battaglia. Malgrado l’effetto sorpresa, le truppe di Arbogaste erano ancora in grado di organizzare una difesa e tentare di recuperare il vantaggio, grazie alla posizione favorevole. Fu in questa fase che si inserì la bora. Nella valle del Vipacco la bora può soffiare in qualunque stagione dell’anno, raggiungendo velocità di 80-100 chilometri orari e anche oltre. Era stata la presenza di questo vento a indurre i Romani ad abbandonare una precedente linea di comunicazione lungo la valle e a costruire la strada che s’inerpicava sino a Castrum ad Pirum per giungere a Castra.
La direzione della bora - vento da nord-est - faceva sì che soffiasse alle spalle dei soldati di Teodosio e frontalmente a quelli di Arbogaste. Gli effetti delle raffiche di vento sono così descritti da Orosio: “I dardi scagliati per mano dei nostri ricevevano una spinta per aria superiore alle forze umane e non cadevano quasi mai se non infliggendo colpi più profondi. Inoltre quel turbine di vento, strappando gli scudi, sferzava i volti e i petti dei nemici”. Il vento, per di più, scompaginava le formazioni di Arbogaste e rigettava indietro le loro frecce.
Non è possibile determinare in che misura la bora abbia condizionato il risultato della battaglia. La tattica di Teodosio, basata sul secondo attacco a sorpresa, aveva forse già riequilibrato l’iniziale inferiorità. Non trascurabile era poi stato il peso della diserzione di Arbizione. Con queste premesse, la bora trasformò la sconfitta dell’esercito pagano in disfatta totale. Eugenio, catturato, “fu condotto con le mani legate dietro la schiena ai piedi di Teodosio. E questa fu la fine, della sua vita e della battaglia”, conclude Rufino.
Flavio Eugenio raffigurato al recto di una moneta d'argento da lui fatta coniare (392-394)
Eugenio venne decapitato. La testa dell’ultimo imperatore pagano, infissa su una lancia, fu portata in trionfo e mostrata alle truppe. Ogni resistenza cessò e la città di Castra aprì le porte al vincitore. Arbogaste riuscì a fuggire ma i soldati di Teodosio lo braccarono due giorni in mezzo ai monti: infine, vistosi perduto, si uccise. Teodosio, ormai, era padrone di tutto l’Impero Romano.
Teodosio si spense a Milano colpito dall’idropisia il 17 gennaio del 395. L’8 novembre di quell’anno il suo corpo fu tumulato nel mausoleo imperiale della chiesa dei Santi Apostoli di Costantinopoli dove rimase fino al saccheggio crociato del 1204. Alla sua morte, come da lui stabilito, l'impero fu diviso tra i suoi due figli Onorio (Occidente) - ancora minorenne sotto la tutela di Stilicone che Teodosio aveva nominato magister utriusque militiae - e Arcadio (Oriente).
Edilizia:
A Costantinopoli, Teodosio fece realizzare diverse opere pubbliche come il forum Tauri, l'erezione dell'obelisco di Tutmosi III nella spina dell'ippodromo ed il porto teodosiano accanto a quello d'Eleuterio sul litorale meridionale della città.
Teodosio fu l'ultimo imperatore a governare su entrambe le metà dell'Impero Romano.