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mercoledì 21 ottobre 2015

Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto: la navata sinistra

Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto: la navata sinistra

Il mosaico pavimentale della cattedrale idruntina di Santa Maria dell'Annunziata si deve all'iniziativa di Gionata, arcivescovo di Otranto dal 1163 al 1195, e fu realizzato da Pantaleone (il cui nome appare nella parte inferiore del mosaico in corrispondenza dell'entrata principale della cattedrale), monaco pittore dell'abbazia di Casole, tra il 1165 ed il 1166.
Il mosaico originario ricopre interamente il pavimento della navata centrale e di quelle laterali in corrispondenza del transetto occupando complessivamente un'area di oltre 600 mq., le rimanenti parti risalgono invece al XIX secolo.
Viene qui descritta la superficie musiva che si trova nella navata sinistra, premettendo che alcune percettibili differenze di stile (le linee di contorno appaiono più rigide, piatte e incerte le figure, prive di quelle vibrazioni di colore che caratterizzano il mosaico della navata centrale) hanno fatto ipotizzare ad alcuni critici l'ntervento di una mano diversa da quella di Pantaleone se non addirittura una sua realizzazione in epoca successiva.

Il tema raffigurato è usualmente identificato come una rappresentazione del Giudizio Universale, che appare però priva della sua figura principale, quella del Cristo Giudice assiso in trono nella gloria dei cieli. Anche qui, come nella navata centrale, un tronco d'albero, le cui radici affondano nella groppa di un toro, partisce in due la superficie musiva per tutta la sua lunghezza: a destra dell'albero è raffigurato l'Inferno ed a sinistra il Paradiso.
Ad eccezione di un passo del Vangelo di Matteo (XII, 40) - in cui Gesù dice Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'Uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra - non c'è altra traccia nei sinottici della Discesa agli Inferi.
Nell'iconografia bizantina lo svolgimento di questo tema, detto dell'Anastasis, segue usualmente la descrizione dell'episodio tratta dal Vangelo di Nicodemo. Cristo, all'interno di una mandorla, solleva per i polsi i Progenitori per condurli in Paradiso. Ai suoi piedi le porte bronzee dell'Ade divelte si dispongono in croce. A volte compare la figura di Satana vinto e incatenato come nella narrazione del Vangelo di Nicodemo:

Ed ecco il Signore Gesù Cristo venire nello splendore di una luce eccelsa, mansueto, grande ed umile, portando in mano una catena: la avvinse al collo di Satana, gli legò le mani dietro la schiena, lo scaraventò all'indietro nel Tartaro e gli mise il suo santo piede sulla gola, dicendogli: "Per tutti i secoli hai fatto tanti mali, non ti sei arrestato in alcun modo. Oggi ti affido al fuoco eterno".
E chiamato immediatamente l'Inferno, gli ordinò: "Prendi questo pessimo e perverso soggetto e tienilo in custodia fino al giorno in cui te lo indicherò io". (Nicodemo, XXIV, 2-3)

Nel mosaico di Otranto all'ingresso dell'Inferno figurano, particolare del tutto inconsueto in ambito bizantino, entrambi i rappresentanti del Regno degli Inferi – indicati esplicitamente come Infernus e Satanas – con un'inversione rispetto al testo: Satana con la testa coronata (altra anomalia) siede su un trono di vipere mentre ad essere legato e incatenato è l'Inferno.
 
Infernus e Satanas
 
Nella zona sottostante c'è una donna nuda morsa alla bocca da un serpente (una calunniatrice) affiancata dal ricco Epulone avvolto dalle fiamme che si porta la sinistra alla bocca chiedendo dell'acqua mentre con la sinistra indica Lazzaro seduto in Paradiso nel grembo di Abramo.

La calunniatrice ed il ricco Epulone
 
Giacobbe, Abramo (con in grembo l'anima di Lazzaro) ed Isacco
 
Più in basso stanno, uno accanto all'altro, tre dannati nudi che indossano strani cappucci adorni di nastri e vengono tormentati dai serpenti.


Ancora più in basso è raffigurata la pesa delle anime che, solitamente effettuata dall'arcangelo Michele, è qui invece affidata ad un diavolo alato.

La pesa delle anime

Più in basso, al margine inferiore dell'Inferno, nell'uomo nudo che guarda verso l'alto ed impugna un tridente con la sinistra dovrebbe identificarsi Caronte e, sotto di lui, nell'animale con testa e orecchie di cane e corpo di serpente, Cerbero.

Caronte e Cerbero

Nel Paradiso, in posizione speculare rispetto a quella occupata dalla coppia Satana-Inferno, si dispongono i tre Patriarchi, Abramo con in grembo l'anima di Lazzaro e Isacco e Giacobbe (quasi scomparso) con quelle degli altri beati.
Sopra di loro un cervo - identificato da un cartiglio - che volge la testa verso il fogliame della cima dell'albero, simbolo di salvazione (Come il cervo anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio, Salmo 41).


 


domenica 18 ottobre 2015

La chiesa di San Giovanni Battistà, Patù

La chiesa di San Giovanni Battistà, Patù


L'edificio, a pianta basilicale, è costruito, nella sua parte originale, con megaliti di pietra calcarenitica (tufo) ed è di difficile datazione (1).
La facciata doveva originariamente presentarsi con un basso tetto a spiovente a capriate lignee (come lasciano intuire i fori sotto le finestre per l’alloggio delle travi), l'attuale portale architravato (così risistemato nel 1523) sormontato da un arco di scarico e da un'ampia bifora, mentre la parte retrostante presentava solo l'attuale abside bassa e profonda. La struttura dell'edificio doveva perciò essere simile a quella della vicina chiesa di Sant'Eufemia a Specchia.


L'interno è a tre navate, divise da pilastri a sezione rettangolare che sostengono archi a tutto sesto. Sopra le arcate vi sono monofore che originariamente dovevano dar luce all'ambiente.


L'edificio è stato più volte rimaneggiato in epoca mediovale e integrato con una terminazione superiore a terrazze digradanti dei tetti (che si può ancora riconoscere dalle forme diverse dei laterizi utilizzati nelle parti superiori delle pareti), con una volte a botte lunettata al di sopra della navata centrale, con volte rampanti sulle navate laterali e con un grande occhio al di sopra dell'abside.

Facciata absidale

Nel corso dei restauri del 1905, commissionati dall'allora sindaco di Patù, tutte le pareti furono ricoperte di intonaco e la maggior parte degli  affreschi, che un tempo decoravano l’interno andarono in gran parte perduti (2).  L’unico ad essersi conservato meglio, sul pilastro di sinistra vicino l’altare,  rappresenta probabilmente proprio San Giovanni Battista e risale al XIII-XIV secolo.

San Giovanni Battista

Altri brani di affresco – riferibili a tre diverse campagne decorative - sono reperibili nella zona absidale. Allo strato più recente sono da attribuire i due santi vescovi a destra (XIV secolo), mentre spostandoci al centro compaiono i resti di un Cristo (identificato dal nimbo crucigero), databile al XII secolo, a sinistra del quale si scorgono tracce del ciclo decorativo più antico probabilmente databile alla seconda metà del X secolo.
A sinistra dell'ingresso, è conservato nella sua originaria posizione, un basamento di una statua di epoca romana (I-II sec), probabilmente proveniente dal sito dell'antica Vereto, eretta dai genitori a ricordo del figlio morto. Il basamento è costituito da un alto zoccolo e da un coronamento. Sul piano superiore si conservano gli incavi d'orma per i piedi della scultura. Sul basamento si legge la seguente epigrafe:

FADIO M.F. – VALERINO – POST MORTEM – M. FADIUS VALERIANO PATER – ET MINA VALERIANA MATER – L.D.D.D. (Locus datus decreto decurionum).
    A Marco Fadio - Valerino - dopo la morte - Marco Valeriano padre - e Mina Valeriana madre - posero -( Luogo concesso per decreto dei decurioni) (3)
Sull'architrave che sormonta il portale d'ingresso è invece incisa una lunga iscrizione (purtroppo gravemente danneggiata), riferibile ad i restauri operati nel 1523, che è stata così ricostruita:

Presidio divi hic Karolus rex agmine multo
Viribus afflixit Mauria bella duce
Tum struxit Templum ad sancti decus ipse Joannis
Sexcentis decimus septimus annus erat
Reliquias hic clausas dic cui scire licebat
Per longum tempus nullibi rumor erat
Vicarius Francisco Antonio praesule digno
Primum Antonius reperit ipse tamen

Guidato dalla protezione del Santo, qui re Carlo, con un esercito numeroso,
umiliò nella potenza le orde dei Mori.
Quindi, egli stesso fece costruire la chiesa in onore di San Giovanni.
Correva il seicentodiciassettesimo anno.
Annunzia, (o pietra), a chi pur doveva sapere, che le reliquie erano
nascoste qui; per lungo tempo era girata la voce che esse non si trovassero in nessun luogo.
Tuttavia lo stesso Vicario Antonio, al tempo del degno
Vescovo Francesco Antonio, le ha per primo ritrovate. (4)
 
Particolare dell'architrave con l'iscrizione
 
 
Note:
 
(1) La Falla Castelfranchi propone addirittura una datazione al VI secolo (M.Falla Castelfranchi, La Chiesa di San Giovanni Battista e le Cosiddette "Centopietre" a Patù in Puglia preromanica. Dal V secolo agli inizi dell'XI, 2004, pagg. 269-273), mentre secondo P. Arthur non si rilevano evidenze archeologiche antecedenti al XIII secolo.

(2) L'intonacatura venne successivamente rimossa nel corso di un nuovo intervento di restauro effettuato negli anni Cinquanta.

(3) Questa epigrafe è la prova più evidente della istituzione municipale in Vereto in epoca romana, con la particolarità dello statuto noto come decurionato. I tre personaggi dell’epigrafe (padre, madre e figlio) recano lo stesso cognome, Valerianus: evidentemente i genitori erano dei liberti che in onore del benefattore avevano assunto quel cognome all’atto dell’emancipazione, per poi imporlo anche al figlioletto.

(4) Secondo la leggenda, la fondazione della chiesa sarebbe da porsi in relazione con la vittoria riportata sugli arabi da Carlo il calvo il 24 giugno dell'877 (festa di san Giovanni Battista) in uno scontro nei pressi di patù, nella piana ancora oggi nota come Campo re.Vedi anche scheda Le Centopietre di Patù.





domenica 11 ottobre 2015

Il castello di Morciano di Leuca

Il castello di Morciano di Leuca (castello Valentini-Castromediano)


Fu fatto costruire da Gualtieri VI di Brienne (cfr. scheda La contea di Lecce e la casa dei Brienne) nel 1335 per difendere la parte meridionale dei suoi possedimenti dalle mire espansionistiche del conte di Caserta Filippo de la Rath (1).
Presentava originariamente una pianta quadrangolare rinforzata agli angoli da quattro massicci torrioni circolari.
La torre di NO fu fatta abbattere nel 1507 dall'allora proprietario, il barone Rodolfo Sanbiasi, per far posto al convento dei Carmelitani da lui fondato. Sempre in quel periodo, quella stessa parte del castello fu ulteriormente rimaneggiata al fine di consentire l’addossamento della chiesa del Carmine, anche questa appartenente, come il convento, ai Padri Carmelitani.
Altri due torrioni non sono più visibili perchè successivamente inglobati nella muratura.


L'unico torrione superstite nella sua struttura originaria, si presenta suddiviso in tre piani: tra il piano terra e il primo piano si nota un cordone orizzontale che ne delimita all’esterno le rispettive altezze; mentre il primo piano è suddiviso dal secondo da una serie di beccatelli (mensolette che accanto ad una finalità decorativa avevano anche una funzione architettonico-militare di sostegno ad alcune bertesche, cioé a delle postazioni lignee indispensabili alla difesa e al contrattacco con armi quali archi, balestre, lance, acqua e olio bollente). In alto il torrione termina con un altro cordone cilindrico e un tamburo rientrante. Le pareti verticali e l'assenza di scarpatura rendono evidente che fu costruito prima dell'avvento delle armi da fuoco.
Elementi caratterizzanti del castello sono i merli della cortina di coronamento la cui forma è quella del giglio di Francia (che fu aggiunto allo stemma dei Brienne dopo il matrimonio di Gualtieri VI con Beatrice di Taranto, nipote di Roberto d'Angiò, nel 1321).

La particolare merlatura vista dalla corte
 
L'adeguamento della fortificazione all'introduzione delle armi da fuoco – operato soprattutto dai feudatari ch tennero il castello tra il XVI ed il XVII secolo (de Nantolio, Capece e Castromediano) (2) – ha riguardato essenzialmente il rifacimento delle cortine esterne e delle piazze d'armi delle torri, lasciando quasi intatto l'alloggio baronale interno che mostra ancora la particolare merlatura originale.
Portale d'ingresso
 
Il portale d'ingresso, difeso da un machicolio, è sormontato da stemmi gentilizi che fungono da ornamento. Attraverso il portone si accede ad un ampio cortile interno intorno al quale si distribuiscono grandi stanzoni adibiti a fienili, scuderie, legnaia, cucine, officine, botteghe artigianali, forno e deposito d'armi. Sul lato destro è addossato uno scalone che conduce ai piani superiori occupati dagli alloggi degli ospiti e dalle stanze del feudatario.

Nel XVI secolo, quando il pericolo da fronteggiare non erano più le mire espansionistiche dei de la Rath ma le incursioni dei pirati arabi, immediatamente nei pressi del castello si sviluppò il cosiddetto Rione delle Torri, formato da abitazioni-fortilizio edificate dai cittadini più abbienti che riproducevano in scala minore la struttura architettonica del castello (portone d’ingresso, cortiletto centrale, magazzino e stalla, scala scoperta per l’accesso al primo piano con un modesto alloggio e una torre quadrata munita di feritoie e scalatoie). Questi minuscoli fortilizi, strettamente addossati gli uni agli altri a ridosso del castello, formavano una linea difensiva capace di resistere agli scorridori arabi.


Note:


(1) Nel 1335 Filippo de la Rath, conte di Caserta, sposando Caterina d'Auney, era venuto in possesso della ricca contea di Alessano e mirava ad espandere i propri possedimenti nel Capo di Leuca a scapito di Gualtieri VI di Brienne.

(2) I Valentini acquistarono nel 1848 il castello dai Castromediano, duchi di Morciano, con i quali si imparentarono grazie al matrimonio tra Valentino Valentini e Adelaide Castromediano, sorella del famoso duca Sigismondo. Da tale matrimonio nacque solo una figlia, Teresa, che sposò il cugino Vito Valentini, i cui figli assunsero il doppio cognome Valentini Castromediano ed i cui eredi sono ancora proprietari del castello


domenica 4 ottobre 2015

La cattedrale di Santa Maria dell'Annunziata, Otranto

La cattedrale di Santa Maria dell'Annunziata, Otranto


La cattedrale di Otranto fu edificata su insediamenti preesistenti tra il 1080 ed il 1088 – anno in cui venne ufficialmente consacrata e dedicata a Santa Maria dell'Annunziata dal Legato pontificio Roffredo, vescovo di Benevento – per volontà di Roberto il Guiscardo. L'originario impianto normanno ha subito però numerosi rimaneggiamenti nel corso del tempo.
La facciata romanica a doppio spiovente è oggi movimentata da un imponente rosone quattrocentesco e dal portale barocco (1674) voluto dal vescovo spagnolo Gabriel Adarzo di Santander (1).
L’interno presenta una pianta basilicale a tre navate al termine delle quali si aprono tre absidi. Le navate sono divise tra loro da 14 colonne di granito levigato intervallate da archi a tutto sesto. I capitelli, realizzati in stili e fatture diversi, testimoniano l’utilizzo di materiali di spoglio.


Da notare il quarto capitello del colonnato di sinistra, l'unico figurato.
Il soffitto a capriate della navata centrale, nel 1698, è stato coperto da un altro a cassettoni in legno dorato e smaltato su fondo bianco e nero per volere del vescovo Francesco Maria de Aste (2); quello della navata sinistra è dipinto a fresco, in corrispondenza del coro, con false architetture di età barocca raffiguranti pilastri che si slanciano verso il cielo; quello della navata destra presenta un Trionfo della Croce.
In fondo alla navata di destra si apre la Cappella degli 800 martiri, edificata nel 1524, ha forma ottagonale, le colonnine istoriate da Gabriele Riccardi che sostenevano il ciborio cinquecentesco sono esposte sulla parete destra della navata (3). All'interno di armadi di legno, visibili attraverso le ante di vetro, sono custoditi i resti dei martiri. L’altare e le decorazioni sono del XVII secolo. Dietro l’altare si custodisce, come una reliquia, un cippo di pietra che, si dice, sia stato quello usato per decapitare i martiri.

La cripta
Planimetria della cripta
 
Ha tre absidi ed è divisa da 42 colonne marmoree (a cui se ne aggiungono 30 in pietra leccese addossate alle pareti laterali), collegate tra loro da voltini a crociera, in nove navate, ognuna delle quali è suddivisa in cinque campate. Le colonne di marmo sono prive di base, tutte monolitiche e di marmi diversi. Alcune sono molto sottili, ventinove hanno il fusto liscio e su cinque di esse è incisa e sopraelevata una croce latina. Sette colonne hanno il fusto scannellato, sei lo hanno per un terzo scannellato e per i restanti due terzi istoriato con volute di fogliame.
 
 
Le opinioni degli studiosi circa la data di costruzioni della cripta sono discordi, c'è chi pensa che sia un'inserzione posteriore alla cattedrale e chi la ritiene precedente. Due scalinate, ricavate nella roccia, ne permettono l'accesso. La cripta è piuttosto luminosa e non è scavata sotto la cattedrale, ma sfrutta la pendenza naturale del terreno.
La tipologia di cripta ad oratorio suddivisa da colonnati si diffonde nell'Italia centrosettentrionale già agli inizi dell'XI sec., compare in area campana (cfr. la cripta della cattedrale di Salerno) nella seconda metà del secolo mentre non se ne conosce un antecedente in area pugliese.
Si ritiene che la cripta sia stata eseguita e progettata in un arco di tempo relativamente breve, reimpiegando una serie di elementi preesistenti. Un buon numero di capitelli è stato però eseguito da maestranze locali sotto la guida di capomastri di formazione bizantina. I capitelli non appaiono disposti casualmente ma secondo un itinerario che, dall'ingresso a sud, conduce il visitatore all'altare maggiore e quindi, dopo una tappa presso l'abside di sinistra, lo indirizza verso l'uscita. Lungo questo itinerario si dispongono i capitelli di migliore qualità – tardoantichi o bizantini di reimpiego – e quelli figurati.
Capitello figurato della cripta
 
La tomba ad arcosolio nella cripta (n.1 nella planimetria)

Si trova sulla sinistra della gradinata che dalla navata meridionale conduce alla cripta ed è scavata nella parete rocciosa. Lungo la gradinata che scende dalla navata nord se ne trovava un'altra (attualmente non visibile) solo sbozzata nella parete tufacea e mai completata (n.2).
E' costituita da una cassa con cuscino ed alveolo cefalico sovrastata da un arcosolio. All'interno una croce è raffigurata su tre lati mentre nell'arcosolio si notano lacerti di affresco in cui si riconosce un motivo a girali vegetali gialle su fondo bruno-rossastro.


La tomba risale sicuramente alla riqualificazione normanna della cripta (1088), mostra infatti delle similitudini con i sepolcri degli Altavilla a Venosa (4), ed anche l'analisi paleografica dei frammenti d'iscrizione ancora leggibili sul lato di testa esclude che possa essere antecedente all'anno 1000.

Note:

(1) Gabriel Adarzo di Santander fu vescovo di Otranto dal 1657 al 1674, anno della sua morte.

(2) Francesco Maria d'Aste fu vescovo di Otranto dal 1690 al 1719.

(3) La data (1524) e l'attribuizione all'architetto-scultore leccese sono ricavate da un'iscrizione presente sul fusto di una delle colonne. Si tratta della sua prima ed unica opera firmata rinvenuta.

(4) Cfr. scheda Il complesso della SS.Trinità di Venosa: la chiesa vecchia.




sabato 3 ottobre 2015

La Guglia di Raimondello, Soleto

La Guglia di Raimondello, Soleto


E' una torre a pianta quadrata molto slanciata (il lato di base misura appena 5,2 metri) e non è rastremata nei suoi cinque ordini archietettonici. Per il cedimento delle fondazioni poggiate su argilla rossa presenta una inclinazione verso il lato sud.
Fu fatta costruire da Raimondello Orsini del Balzo (vedi scheda La contea di Lecce e la casa di Brienne) forse al fine di comunicare otticamente, dall'alto dei suoi oltre 40 metri, sia con la riva del mare Adriatico (Otranto) sia con quella del mar Ionio (Gallipoli), in realtà come puro simbolo del suo controllo sul territorio ed affermazione di potere. Fu completata nel 1397 ad opera di Francesco Sulaci da Surbo come attestato da un'iscrizione sul parapetto terminale. Costruita nel punto più alto di Soleto, rimase isolata per quasi quattrocento anni fin quando, nel 1793, le venne addossata la facciata della chiesa matrice.

Il piano terra ed il primo ordine sono privi di finestre ed inglobano al loro interno una torre preesistente. Il secondo e terzo ordine sono riccamente decorati con 4 bifore finemente scolpite in pietra leccese, ogni bifora è divisa da una colonnina tortile che termina in una decorazione a forma di cuore innestata in un arco gemino trilobato. L’ultimo ordine è costituito da un tiburio ottagonale con una finestra bifora su ogni lato, sormontata da frontoni trapezoidali e colonnine angolari sostenenti leoni alati; è coperto da un cupolino ogivale rivestito di maioliche colorate che risale però al 1750 e poggia su una balaustra finemente lavorata. Il cupolino originale, di forma piramidale, crollò infatti nel terremoto del 1734. Tutte le bifore e gli angoli dei piani superiori sono ricchi di grifoni, leoni e maschere antropomorfe. Sulla balaustra e sulla cornice ottagonale su cui poggia il cupolino sono visibili alcune ciotole di pietra rozzamente intagliate che contenevano l'olio per l'illuminazione notturna.
Secondo un'antica leggenda Matteo Tafuri, considerato dai suo compaesani mago e alchimista, avrebbe convocato e diretto una schiera di diavoli e streghe per edificare la Guglia in una sola notte (1). Al sorgere dell'alba quattro grifoni, creature mitologiche diaboliche, sarebbero rimasti intrappolati nella pietra e come si può notare spiccano ancora ai quattro angoli della cornice che separa il terzo dal quarto ordine (2).

Uno dei quattro grifoni

La maschere antropomorfe e le gargoyle che decorano la guglia ne ribadiscono la già accennata funzione di affermazione del potere e del controllo sul territorio esercitato dai Del Balzo Orsini.
A guardia delle bifore troviamo infatti molti leoni, simbolo di vigilanza in virtù della loro capacità di dormire ad occhi aperti, così come i cani, posti a sostegno degli archi trilobati, simboleggiano fedeltà e vigilanza. Una testa coronata, infine, con orecchie di dimensioni esagerate, simboleggia il potere del principe di ascoltare tutto e tutti (3).

Cerchiata in rosso la testa coronata con le grandi orecchie. In alto, al centro della balaustra, le armi dei Del Balzo Orsini

Su due lati della balaustra posta tra il quarto ed il quinto ordine sono scolpite le armi dei Del Balzo Orsini, mentre una croce gerosolimitana figura scolpita nel sesto archetto della cornice di divisione, a est, tra il secondo e terzo ordine.

Note:

(1) Matteo Tafuri nacque in realtà più di un secolo dopo l'edificazione della guglia (8 agosto 1492) e fu uno studioso molto apprezzato dai suoi contemporanei. Laureatosi in Medicina e Filosofia alla Sorbona, dopo aver viaggiato per mezza Europa, ritornò nella natia Soleto per trascorrervi gli ultimi anni della sua vita esercitando la professione di medico. Ma i suoi concittadini, più che apprezzarne le doti di medico e di studioso, lo considerarono e temettero soprattutto come un potente mago capace di chissà quali oscuri prodigi. Tanto che egli, per porre fine alle dicerie, fece scolpire su un architrave della sua casa – che si trova al civico 72 di via Matteo Tafuri - il motto: Humile so et humiltà me basta. Dragon diventerò se alcun me tasta.

(2) La presenza dei grifoni sembra riecheggiare l'episodio descritto nel Romanzo di Alessandro attribuito allo Pseudo-Callistene (III sec). Secondo il racconto, Alessandro il Grande, arrivato con l'esercito presso il mar Rosso e salito su una montagna così alta da sentirsi "quasi in cielo", fece costruire un ingenium, vi fece incatenare due grifoni e, poste davanti a loro aste munite in cima di carne, prese a salire al cielo. Ma una divinità, avvolgendoli con la sua ombra, li fece ricadere a terra incolumi. Questo episodio è raffigurato anche nel celebre mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto (1165-1166).


(3) vedi scheda Il castello di Lagopesole, nota 1.