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sabato 18 febbraio 2017

Alessio Philes

Alessio Philes

Generale dell'esercito niceno, era figlio del governatore di Tessalonica Teodoro Philes, il primo membro della famiglia a ricoprire una carica di prestigio. Sposò Maria Paleologina Cantacuzena (1), la secondogenita del megas domestikos niceno Giovanni Cantacuzeno e di Irene (Eulogia) Paleologina, sorella dell'imperatore Michele VIII Paleologo.
Nel 1259 fu nominato a sua volta megas domestikos (2) in sostituzione del generale Alessio Strategopoulos elevato al rango di cesare per le vittorie ottenute contro il Despotato d'Epiro.

Dopo la battaglia di Pelagonia (settembre 1259), l'impero di Nicea era entrato in possesso di numerose fortezze del Peloponneso sudorientale – tra le quali Mistrà, Monemvasia e Maina - cedute dal principe d'Acaia, Guglielmo II Villehardhouin, in cambio del suo rilascio (cfr. scheda Morea, Introduzione).
Le ostilità ripresero alla fine del 1262 o gli inizi del 1263 quando l'imperatore Michele VIII Paleologo, ormai reinsediatosi a Costantinopoli, inviò in Morea un corpo di spedizione al comando del fratellastro, il sebastokrator Costantino Paleologo a cui erano affiancati Alessio Philes ed il parakoimomenos (3) Giovanni Makrenos. Dopo alcuni successi iniziali, mentre marciava su Andravida il sabastokrator fu sconfitto dai Latini nella battaglia di Prinitza.
Alla fine del 1263, Costantino Paleologo riprese l'iniziativa e avanzò su Sergiana nella parte settentrionale dell'Elide, ma quando il Villehardouin gli mosse contro preferì ritirarsi e cingere d'assedio Nikli. Qui i mercenari turchi, che formavano buona parte del suo esercito e che non ricevevano il soldo da sei mesi disertarono a favore dei Latini. Di conseguenza il sabastokrator abbandonò l'assedio e rientrò a Costantinopoli lasciando il comando al mega domestikos Alessio Philes ed al parakoimomenos Giovanni Makrenos.


Philes si diresse con l'esercito verso la Messenia ed occupò il passo di di Makryplagi nei pressi del castello di Gardiki dove fu raggiunto dall'esercito del Principato. Il cambio di bandiera dei mercenari turchi aveva però rovesciato i rapporti di forza tra i due eserciti e dopo aver respinto due assalti, nonostante la posizione favorevole, l'esercito imperiale fu messo in rotta dal terzo guidato da Ancelin de Toucy. Alessio Philes fu preso prigioniero insieme a molti alti ufficiali e nobili bizantini. Rinchiuso nel castello di Chlemoutsi si spense in cattività prima del 1269.


Note:

(1) Rimasta vedova di Alessio, Maria Paleologina Cantacuzena sposò nel 1269 lo zar bulgaro Costantino Tich Asen.

(2) La carica designava il comandante delle forze armate.

(3) Letteralmente il titolo di parakoimomenos significa “responsabile della sacra camera da letto dell'imperatore”, per solito la carica era ricoperta da funzionari eunuchi.




venerdì 10 febbraio 2017

La Rocca dei Rettori, Benevento

La Rocca dei Rettori, Benevento

Il mastio

Sorge nel luogo detto "Piano di Corte" sull’area di un’antica fortezza longobarda fatta edificare dal duca Arechi II a partire dal 871. Nel 1321 papa Giovanni XII da Avignone incaricò il rettore pontificio della città, Guglielmo de Balaeto, della costruzione di una sede fortificata per i "Rettori", che doveva essere edificata presso il monastero benedettino femminile di Santa Maria di Porta Somma, trasferendo le monache presso il monastero di San Pietro.
La nuova fortezza fu costruita su modello delle grandi costruzioni militari francesi di Avignone e di Carcassonne, nel punto più elevato del centro storico di Benevento e venne ultimata verso la fine del 1338 sotto il pontificato di papa Benedetto XII. Il progetto prevedeva un
castrum ed un palatium, recintati da mura protetti da fossati, attraversati da tre ponti levatoi. La costruzione inglobò inoltre la porta orientale della città (Porta Somma), che venne ricostruita poco più oltre.

 
A partire dal 1586 la fortezza venne trasformata progressivamente in carcere, rimasto attivo fino al 1865. Una parte dell'edificio venne ricostruita nel XVIII secolo, a seguito delle distruzioni provocate dal terremoto del 1702. Dell'antico castello si conserva attualmente solo il mastio centrale, sottoposto a interventi di restauro tra il 1959 e il 1960, che hanno portato al rinvenimento dell'antica porta cittadina, in corrispondenza dell'androne del mastio, e dei resti di un monumento funebre romano.
L’edificio assunse la forma attuale in seguito ai terremoti del 1688 e 1702 e ai conseguenti restauri voluti dal Vescovo Orsini e portati avanti - come per la chiesa di Santa Sofia – dall’architetto Carlo Buratti.
Le armi di papa Clemente XI Albani sotto il cui pontificato furono realizzati i restauri del 1703 ricordati nella lapide sottostante.
 
In particolare, osservando la Rocca dal Corso Garibaldi, spicca la netta differenza tra la struttura militare, ovvero il mastio, che conserva ancora le caratteristiche longobarde, nella cui muratura sono ancora ben visibili gli elementi di spoglio di epoca romana riutilizzati, e la struttura civile, ovvero il Palazzo, che presenta elementi settecenteschi inequivocabili, tra cui la piccola torretta con l’orologio, e che ha conservato fino ai nostri giorni la funzione di palazzo pubblico.

Il Palazzo dei Rettori
 
Il complesso appare quindi composto da due corpi distinti: il mastio ed il Palazzo dei Governatori (Rettori) pontifici a pianta rettangolare con cortile interno.
Il mastio, di epoca longobarda, era in realtà il castello vero e proprio (e per questo è detto anche Castrum novum). Alto 28 metri a pianta poligonale, fu costruito con materiale di spoglio proveniente da edifici di età romana; lungo le sue pareti si aprono bifore ogivali. Il Palatium, che è quello che ha subito maggiori interventi di trasformazione, accanto a particolari di epoca molto più antica, come i barbacani, presenta elementi neoclassici come le finestre incorniciate e il colonnato sormontato da un timpano, davanti ad una vetrata che si apre sul cortile. La costruzione si sviluppa su tre piani: il piano terra occupato dalle segrete; un doppio scalone conduce al primo piano organizzato in ampi saloni con soffitti in legno; al secondo piano torri di guardia danno accesso al terrazzo con ampia vista sulla città. Una rampa conduce al giardino posteriore, che accoglie un lapidario e diversi frammenti architettonici di epoca romana.
Attualmente è sede dell’Amministrazione Provinciale, mentre il Castello ospita la sezione storica del Museo del Sannio.




domenica 5 febbraio 2017

Chiesa del SS.Salvatore, Benevento

Chiesa del SS.Salvatore, Benevento
in via Stefano Borgia, per la visita chiedere alla chiesa di Santa Sofia


La chiesa del Santissimo Salvatore, nonostante il suo aspetto barocco, è una delle più antiche chiese di Benevento. Anticamente denominata “Ecclesia S. Salvatoris de Porta Somma”, venne fondata in età longobarda, come testimonia un documento, datato 22 febbraio 926, in cui si fa riferimento al “monasterio Domini Salvatoris”.
Scavi archeologici eseguiti tra 1997 e 1999 hanno messo in luce, oltre alle fasi longobarde, resti di un edificio sacro precedente, databile al VII secolo, poi sostituito dall’impianto del secolo VIII-IX, ed una serie di sepolture (1). Inizialmente la chiesa doveva avere una pianta quadrangolare con due absidi.
Diversi elementi di spoglio (colonne, capitelli, epigrafi di epoca romana) e l’antica porta in corrispondenza della navata sinistra testimoniano le prime fasi costruttive della chiesa.
 
 
La colonna di spoglio reimpiegata nell'angolo sinistro della facciata, a destra, murato, l'antico ingresso della chiesa.
 
Nel 1161 la chiesa del Salvatore fu restaurata e riconsacrata dall’arcivescovo Enrico. A tale intervento sono ascrivibili alcuni archi a sesto acuto, ancora visibili all’interno ed il portale di accesso alla chiesa ancora in parte visibile nella facciata.
 

Nel 1650 furono aggiunti l’altare maggiore e la navata destra. In seguito al terremoto del 5 giugno 1688, il Vescovo Vincenzo Maria Orsini (il futuro papa Benedetto XIII), fece realizzare il pronao in facciata e internamente, fece coprire la capriata lignea da una volta incannucciata, obliterando le due absidi.


Note:

(1) Attreverso delle aperture praticate nel pavimento della chiesa, sono attualmente visibili due sepolture a logette, l'una singola, l'altra bisoma.

La tomba bisoma

venerdì 3 febbraio 2017

Il Duomo di Benevento

Il Duomo di Benevento

E' un edificio di antica costruzione longobarda, consacrato nel 780 dal vescovo Davide e intitolato a Sancta Maria de Episcopio.
Nel corso dei secoli è stato però ripetutamente rimaneggiato, in parte da interventi di riparazione di danni inferti da eventi sismici (1456, 1688, 1702), in parte da interventi di ampliamento (XII e XVII sec.) volti ad arricchire il complesso che, in ultimo, venne gravemente danneggiato dai bombardamenti angloamericani del 1943.

Il Duomo dopo i bombardamenti del 1943
 
La facciata pricipale
La facciata del duomo, imponente e composita, risale alla fine del XIII secolo. Costruita interamente in marmo bianco, si rifà alla contemporanea architettura della Capitanata, di chiara matrice pisana.
Si sviluppa su due ordini, entrambi articolati in sei arcate, con uno schema di simmetrie inteso come se, al posto del campanile, a sinistra ci fosse una settima arcata.


Le arcate dell'ordine inferiore sono poco profonde; la più larga è quella contenente il portale principale. Questo è racchiuso fra un'architrave e due stipiti riccamente decorati, così come l'archivolto romanico che lo sormonta è sorretto da un toro a sinistra e da un leone a destra, simbolo e monito della severità e della vigilanza del vescovo nel tutelare fede e costumi. Il tutto è accompagnato da un'iscrizione «sculpsit Rogerius», che si ritiene essere il vescovo sotto cui fu realizzata l'opera, più che l'artista.


Nella parte superiore si ripropongono le sei arcate cieche che però sono più profonde di quelle inferiori e sono sorrette da colonne e capitelli romani di spoglio, che poggiano su mensoloni scolpiti a figure umane al centro e ornati all’estremità da motivi vegetali.
Le tre arcate centrali superiori, di età romanica, sono impreziosite da due finestroni circolari e un elegante rosone a dodici colonnine che in passato era decorato da un antico mosaico raffigurante l'Agnus Dei andato perduto.
Incastonata nel portale centrale era in origine la Janua Major*, oggi – dopo un lungo restauro reso necessario dai gravi danni riportati durante il bombardamento del 1943 – ricollocata in posizione più arretrata.

La Janua Major nella sua collocazione originaria prima del bombardamento

Il campanile
Innalzato dall’arcivescovo Romano Capodiferro a partire dall’11 febbraio 1279 come recita un’iscrizione sulla facciata, fu successivamente restaurato sotto il vescovo Orsini.


Si presenta con una struttura quadrata come una torre, costruita con blocchi di pietra bianca, a due piani, separati da un cornicione sporgente sostenuto da archetti pensili. Al secondo piano si trovano quattro finestroni ogivali, uno per lato, con occhio trilobato.
Molti elementi di spoglio romani sono incassati su tutta la sua superficie; tra essi spiccano una serie di rilievi funerari, un leone gradiente di granito rosa, e soprattutto un cinghiale (secondo altri un maiale) stolato e cinto da una corona di alloro, pronto per il sacrificio, da cui è derivato lo stemma della città di Benevento.


Da notare anche il mascherone, proveniente dal teatro romano, incassato accanto ad una delle finestre ogivali.

La pseudocripta
Attualmente la pseudocripta consta di due navate allineate in senso trasversale rispetto all'abside, la cui fondazione in opus vittatum risale al V secolo, separate tra di loro da un notevole colonnato, realizzato con numerosi elementi di spoglio.
Vale la pena rilevare la presenza di vani finestra, che indicano come inizialmente la costruzione non fosse una cripta, ma lo divenne in epoca successiva, venendosi a trovare al di sotto del livello dell’attuale Cattedrale.
La navata laterale verso nord ovest è articolata in tre campate con volta a crociera sorrette da pilastri ornati da elementi decorativi di epoca romana. Sulle pareti laterali sono presenti tracce di affreschi trecenteschi, tra cui in una nicchia si può ammirare un volto velato e aureolato della Vergine che, con molta probabilità, apparteneva ad un non più leggibile affresco di una Madonna in trono.
In questi spazi sono visibili alcuni lacerti di pavimentazione in opus sectile databili alla prima metà del XII secolo e numerosi frammenti di pitture murarie che decoravano le cappelle, risalenti a periodi differenti. Cronologicamente il più antico risulta essere il ciclo pittorico dedicato a san Barbato, collocabile tra la fine del IX e gli inizi del X secolo.
Testimonianze dirette dell'opera di ampliamento del soprastante presbiterio e della cripta, avvenuta intorno alla metà del XII secolo, sono i resti pavimentali in opus tessellatum.
Al XIV secolo sono datati gli affreschi presenti nella cappella adiacente la fenestella confessionis che inquadra una tomba. Si tratta del mirabile affresco della Mater Misericordiae e del frammento con santa Caterina d'Alessandria e una devota con rosario inginocchiata ai suoi piedi.

La Mater Misericordiae

“la Vergine, eretta, presenta un aspetto frontale e delle proporzioni (di circa 2 metri) ispirati alla ieraticità bizantina, che la identificano immediatamente come Ecclesia, nell'atto di unire in un abbraccio materno i fedeli raccolti sotto il suo manto, i cui lembi, leggermente sollevati, sono tenuti stretti fra le mani chiuse a pugno a rimarcare fermezza nel proteggere" (G.Giordano - M.Cimino).
L'affresco è riconducibile ad un artista napoletano al corrente della grande lezione naturalistica di Giotto e di Maso di Banco che lavorarono a Napoli alla corte angioina dal 1328 al 1333.
La linea alta della vita della Vergine e l'assenza di cintura rivelano la sua gravidanza (incincta=senza cintura) come l'accrescimento dei seni e del ventre sotto la tunica resi per mezzo di una maggiore intensità luminosa.
Sotto le ali del mantello si raccolgono i fedeli, rigidamente divisi in uomini, a sinistra, e donne, a destra. Tra gli uomini spiccano una figura vestita di nero, immediatamente ai piedi della Madonna, in cui va probabilmente identificato il donatore e quelle di tre vescovi, due dei quali portano la mitra bicornuta – e sono probabilmente dei suffraganei – mentre quello al centro del terzetto porta il camauro e ha le mani coperte dalle chirotecae e raffigura il metropolita di Benevento.
La regalità della Madonna è sottolineata dal drappo d'onore – bordato di rosso e decorato da piccoli rombi dello stesso colore solo in parte ancora visibili – teso alle sue spalle da due angeli.

Santa Caterina d'Alessandria

Nella stessa cappella su di un pilastro è presente un altro dipinto datato tra il IX e l'XI secolo. Rappresenta un personaggio barbuto, probabilmente San Barbato, raffigurato a mezzo busto, in dalmatica, con due rotoli legati da un nastro rosso nella mano sinistra e un crocifisso nella destra.
Questi, insieme ai lacerti di affreschi presenti nella parte occidentale della pseudocripta (tra cui un volto di Madonna in trono datato agli inizi del XIV secolo, una figura di orante ai piedi di una santa e le parziali decorazioni dell'intradosso che simulano il firmamento) testimoniano le ultime fasi di frequentazione del sito prima dell'oblio. La riscoperta dell'area avvenne durante i lavori di ricostruzione della Cattedrale dopo la seconda guerra mondiale.


* La Janua Major fu realizzata su commissione dell'arcivescovo Rogerio (1179-1221).
Si compone di 72 formelle di bronzo disposte su nove file orizzontali di otto ciascuna. Quarantatre formelle raccontano episodi della vita di Cristo, una mostra l’arcivescovo metropolita, ventiquattro raffigurano i suoi vescovi suffraganei e quattro altrettanti protomi animali.
Va letta riga per riga, come un testo diviso in tre paragrafi: nel primo, si narra l’infanzia e la vita pubblica di Cristo; nel secondo la sua passione, morte e resurrezione, con l’immagine dell’arcivescovo di Benevento che, nell’atto di ordinare un vescovo, assiso in trono con la tiara e il pallio, rappresenta il papa; così come, nel terzo, sempre di tre righe, i ventiquattro vescovi suffraganei dell' arcivescovo sono sì la Chiesa beneventana, ma rappresentano anche la Chiesa tutta.

La morte di Giuda
 
Piuttosto inconsueta è la formella che rappresenta la morte di Giuda. Giuda è raffigurato impiccato ad un albero con le budella che fuoriescono dal ventre squarciato come nella descrizione degli Atti degli Apostoli (Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto e poi precipitando in avanti si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere, AdA, I, 17) mentre un angelo ne raccoglie l'anima baciandolo.
Una descrizione esauriente delle formelle che compongono la porta si trova qui.