La Campagna d'Africa (533-534)
I Bizantini avevano ragioni sia
politiche che strategiche per riconquistare le province dell'Africa
proconsolare sottratte dai Vandali all'impero d'Occidente nel 435.
Nel 530 il re vandalo Ilderico,
favorevole a Costantinopoli, era stato deposto e imprigionato
dall'usurpatore Gelimero,
fornendo a Giustiniano un pretesto legale per intervenire. In ogni
caso Giustiniano voleva il controllo del territorio dei Vandali nel
Nord Africa, vitale per garantire ai Bizantini l'accesso al Mar
Mediterraneo occidentale.
Giustiniano chiese inizialmente la
restaurazione di Ilderico, ma Gelimero ovviamente rifiutò.
L'imperatore chiese quindi che almeno Ilderico venisse liberato e
inviato in esilio a Costantinopoli, minacciando la guerra nel caso
anche questa richiesta fosse stata rifiutata. Gelimero, non
intendendo consegnare un rivale per il trono a Giustiniano, che lo
avrebbe utilizzato per gettare discordia nel regno vandalico, e
probabilmente sospettando che la guerra sarebbe scoppiata in ogni
caso, rifiutò affermando che era una questione di politica interna
del regno vandalico.
Gelimero raffigurato al verso di una moneta da 50 denarii
Poco dopo la sua ascesa al potere, la posizione di Gelimero
cominciò comunque ad indebolirsi in quanto prese a perseguitare i
suoi avversari politici tra l'aristocrazia vandalica,
confiscandone le proprie proprietà e giustiziando molti di essi.
Queste azioni minarono la già dubbia legittimità del suo regno agli
occhi di molti, e contribuirono allo scoppio di due rivolte nelle
province remote del Regno vandalico: in Sardegna, dove il governatore
locale, Godas, si autoproclamò re indipendente dell'isola, e, poco
tempo dopo, in Tripolitania, dove la popolazione nativa si era
rivoltata contro la dominazione vandalica sotto il comando di un
certo Pudenzio, un romano lì residente.
Il fatto che entrambe le rivolte siano scoppiate proprio poco
tempo prima della spedizione romana contro i Vandali, e che sia Godas
che Pudenzio chiesero immediatamente rinforzi a Giustiniano, sembra
suggerire un coinvolgimento diplomatico attivo dell'Imperatore nello
scoppio delle rivolte.
Gelimero reagì alla rivolta di Godas inviando la maggior parte
della sua flotta, 120 dei suoi migliori vascelli, e 5.000 uomini
sotto il comando di suo fratello Tzazon
(detto anche Zano o Zazo) per reprimerla. La decisione del re
vandalo giocò un ruolo cruciale nell'esito finale della guerra, in
quanto, con la potente flotta vandalica (insieme a parte
dell'esercito) impegnata altrove a reprimere la rivolta in Sardegna,
lo sbarco dei Romani in Africa poté procedere senza ostacoli.
Gelimero scelse inoltre di trascurare la rivolta in Tripolitania,
in quanto era una rivolta molto meno seria e in una regione più
remota. Giustiniano inviò invece dalla confinante Cirenaica un piccolo contingente di truppe per sostenere la rivolta di Pudenzio.
Nello stesso tempo l'imperatore si assicurò il sostegno del Regno ostrogoto d'Italia, il quale era in urto con i Vandali a causa dei maltrattamenti subiti della principessa ostrogota Amalafrida, sorella di Teodorico il grande e vedova del re vandalo
Trasamundo (1). La corte ostrogota accettò quindi di buon grado di
consentire alla flotta di invasione romana di adoperare il porto di
Siracusa in Sicilia e aprì un mercato per l'approvvigionamento
delle truppe romane in quel luogo.
Nella tarda estate del 533 Belisario - posto da Giustiniano al comando della campagna con il titolo di strategos autokrator -
salpò da Siracusa per l'Africa al comando del corpo di spedizione
bizantino e, dopo aver fatto scalo a Malta, sbarcò con l'esercito
nei pressi di Caput Vada, sulla costa occidentale
dell'attuale Tunisia a circa 162 miglia romane (240 km) a sud da
Cartagine.
Secondo Procopio, che era al seguito del generale in
qualità di suo segretario, il corpo di spedizione imperiale era
formato da 10.000 fanti - in parte provenienti dall'esercito di campo
(comitatenses)
e in parte dai foederati,
e da 5.000 cavalieri. Vi erano inoltre circa 1.500–2.000 dei
soldati privati di Belisario (bucellarii),
un reggimento d'élite (che potrebbe essere stato incluso nel totale
di Procopio per la cavalleria). In aggiunta, facevano parte della
spedizione anche due corpi di truppe alleate, con arcieri a cavallo,
600 Unni e 400 Eruli. L'esercito era condotto da ufficiali di
esperienza, come l'eunuco Salomone, che fu scelto da Belisario come
suo domesticus,
e l'ex prefetto del pretorio Archelao, al quale fu affidato il
compito di provvedere all'approvvigionamento dell'esercito. L'intera
armata fu trasportata su 500 vascelli contenenti 30.000 marinai sotto
la guida dell'ammiraglio Calonimo di Alessandria.
Da Caput Vada, Belisario marciò alla testa dell'esercito
lungo la strada costiera che conduceva a Cartagine mentre la flotta
risaliva a sua volta la costa fiancheggiando l'esercito.
Il generale distaccò 300 cavalieri al
comando di Giovanni l'Armeno come avanguardia a circa 3 miglia (4,5
km) davanti all'esercito principale, mentre i 600 Unni coprivano il
fianco sinistro. Belisario stesso con i suoi bucellarii
condusse la retroguardia, per prevenire ogni attacco di Gelimero, che
sapeva trovarsi nelle vicinanze.
Battaglia di Ad Decimum
Gelimero, con 11.000 uomini sotto il
suo comando, inizialmente avanzò con decisione per posizionarsi in
un punto favorevole posto sulla strada per Cartagine e da lì
affrontare i 15.000 uomini di Belisario.
Divise quindi le proprie forze inviando
2.000 uomini sotto il comando del nipote Gibamondo
nel tentativo di attaccare il fianco sinistro dell'esercito di
Belisario, che in quel punto della strada era costretto ad avanzare
in una stretta e lunga colonna.
Un altro contingente formato da
altrettanti uomini e richiamato da Cartagine al comando del fratello
di Gelimero, Ammata, ricevette il
compito di contenere l'esercito nemico in una gola presso Ad Decimum
(al decimo miglio della strada per Cartagine). Gelimero stesso, con
il grosso dell'esercito, sarebbe arrivato alle spalle degli imperiali
completando l'accerchiamento.
La mattina del 13 settembre, il decimo
giorno dall'inizio della marcia a Caput Vada, l'esercito imperiale
giunse nelle vicinanze di Ad Decimum, dove Gelimero aveva pianificato
di preparare l'imboscata e accerchiarli.
Sviluppo del piano di accerchiamento predisposto da Gelimero
Il piano, tuttavia, fallì, in quanto i
tre eserciti vandali non riuscirono a sincronizzare i loro movimenti
in modo esatto: Ammata arrivò troppo in anticipo e fu ucciso mentre
alla testa di un numero troppo esiguo di soldati si scontrava con
l'avanguardia romana. Il distaccamento di Gibamundo fu intercettato
dai mercenari unni posti da Belisario a difesa del fianco sinistro e
annientato mentre lo stesso Gibamundo trovava la morte.
Ammata viene sconfitto dalla cavalleria di Giovanni l'Armeno (1) che insegue i superstiti che ripiegano su Cartagine (3); il distaccamento di Gibamundo viene messo in rotta dagli unni che proteggono il fianco sinistro dell'avanzata imperiale
Ignaro di questi avvenimenti, Gelimero
marciò con l'esercito principale, e si scontrò con le truppe romane che avevano raggiunto Ad Decimum.
Il grosso delle truppe di Gelimero
inflisse serie perdite alle truppe di Belisario: i foederati al
comando di Salomone furono infatti messi in rotta dai Vandali che,
anche se inferiori sul piano numerico, combattevano in maniera più
efficace.
Quando tuttavia Gelimero raggiunse le
posizioni di Ammata e scoprì che anche il fratello era stato
ucciso, si perse d'animo e, perdendo tempo prezioso nel seppellirne
il corpo sul campo di battaglia, non diede l'ordine finale d'assalto,
che avrebbe probabilmente distrutto le fiaccate truppe romane e
impedito ai mercenari Unni che poco prima avevano sconfitto Ammata e
Gibamondo di ricongiungersi con l'esercito di Belisario.
Guadagnato del tempo prezioso,
Belisario fu abile nel raggruppare le proprie forze a sud di Ad
Decimium e a lanciare il contrattacco, che respinse i Vandali e li
mise in fuga. Gelimero fu costretto allora ad abbandonare Cartagine.
Belisario si accampò vicino al campo
di battaglia, non volendo avvicinarsi troppo alla città durante la
notte.
Il mattino dopo marciò su Cartagine,
ordinando ai propri uomini di non uccidere o ridurre in schiavitù la
sua popolazione poiché riteneva i suoi abitanti cittadini romani
sottoposti al giogo vandalo.
Domenica 15 settembre, con al fianco la
moglie Antonina, fece solenne ingresso a Cartagine fra urla di
giubilo di una popolazione provata dal duro giogo barbaro e
stupefatta dalla generosità con la quale era stata ordinata alle
soldatesche l'astensione da ogni razzia. Decise inoltre di
ricostruire immediatamente le fortificazioni intorno a Cartagine.
Cacciato da Cartagine, Gelimero si
stabilì a Bulla Regia in Numidia (le cui rovine sono poste
oggi lungo il confine occidentale della moderna Tunisia), all'incirca
100 miglia a Ovest dalla capitale del Regno.
Consapevole di non potere far fronte da
solo alle preponderanti forze di Belisario, inviò dei messaggeri al
fratello Tzazon, ancora impegnato con le proprie truppe in Sardegna per reprimere la rivolta di Godas.
Non appena ricevuto il messaggio,
quest'ultimo si affrettò a ritornare in Africa per unire le proprie
truppe a quelle del fratello.
Nel frattempo Gelimero cercava con
tutti i mezzi di dividere le forze alleate a Belisario. Offrì
ricompense alle tribù berbere e puniche locali per ogni testa di
soldato romano che queste gli avessero portato e inviò dei
messaggeri a Cartagine cercando di portare nei propri ranghi con
forti offerte di denaro i mercenari Unni al seguito del condottiero
bizantino, decisivi nella battaglia di Ad Decimum.
Tzazon e le sue truppe si unirono a
Gelimero nel dicembre.
Ritenendo il suo esercito abbastanza
forte per sconfiggere il nemico, il re vandalo passò dunque
all'offensiva distruggendo il grande acquedotto che riforniva di
acqua potabile la città di Cartagine.
Nelle 12 settimane che erano trascorse
da Ad Decimum Belisario aveva intanto fortificato la città ma,
venuto a conoscenza dei piani di Gelimero e ritenendo di non potersi
fidare per lungo tempo dei mercenari Unni, invece di aspettare un
probabile assedio, uscì da Cartagine con il proprio esercito e con
gli Unni in coda alla colonna.
Battaglia di Tricamarum
Il 15 dicembre i due eserciti si
scontrarono a Tricamarum, 30 miglia ad ovest di Cartagine. 15.000
romani contro circa 50.000 vandali.
Le due forze si incontrarono appena
fuori la città e la cavalleria catafratta romana, guidata da
Giovanni l'Armeno, immediatamente ruppe le linee dei Vandali
attaccando e ritirandosi per tre volte.
Durante la terza carica Tzazon fu
ucciso sotto gli occhi di Gelimero che, come era già successo ad Ad
Decimum, si perse d'animo e fece arretrare le truppe che in
breve ripiegarono disordinatamente verso il campo fortificato.
Gelimero, compreso che tutto era
perduto, fuggì con un piccolo seguito in Numidia, mentre i rimanenti
Vandali cessarono di resistere e abbandonarono il loro accampamento
al saccheggio dei Romani.
Gelimero si ritirò prima ad Hippo
Regius (Ippona) e poi si asserragliò nella cittadina di Medeus sul Monte
Papua, dei cui abitanti Mauri poteva fidarsi. Belisario inviò un
distaccamento di 400 eruli al comando di Fara ad assediare
la roccaforte. L'assedio si protrasse per tutto l'inverno, soltanto
in marzo infatti, dopo
aver ricevuto l'assicurazione che sarebbe stato risparmiato e
trattato bene, il re dei Vandali accettò la resa.
Nell'aprile
534, venne restaurato il vecchio sistema provinciale romano con la
ricostituzione della prefettura del pretorio d'Africa - a cui fu
preposto l'eunuco Salomone - che perdurò fino al 590 circa quando l'imperatore
Maurizio (582-602) la riorganizzò in Esarcato.
(1) La sorella di Teodorico il grande, Amalafrida, aveva sposato nel 500 Trasamondo, re dei Vandali - a cui aveva portato in dote la città siciliana di Lilibeo - nell'ottica di consolidare l'alleanza tra i due popoli. Alla morte del marito (523), quando il suo successore Ilderico diede seguito ad una politica filobizantina e richiamò dall'esilio i vescovi ortodossi, Amalafrida si pose a capo della fazione ariana che si ribellò anche con le armi a questa politica. Fu quindi arrestata e gettata in prigione dove morì.