Nell'estate dell'877 gli Arabi, al
comando dell'emiro Giafar Ibn Muhammed, cinsero d'assedio Siracusa.
La città fortificata dell'Ortigia (1),
in cui si erano rifugiati gli abitanti dei quartieri situati sulla
terra ferma, delle campagne e dei paesi vicini, si preparò a
resistere. Gli Arabi posero i loro campi nella basilica di S.Giovanni fuori le mura e nelle latomie che circondavano la città e
posero l'assedio alla città strenuamente difesa dall'intera
popolazione che vegliava dall'alto delle mura.
L'Ortigia
La flotta inviata in soccorso da Costantinopoli fu sbaragliata da quella musulmana e l'emiro prese il controllo dei due porti tagliando alla città ogni via di rifornimento.
La città veniva battuta incessantemente dal tiro delle macchine da lancio, giganteschi mangani scaraventavano enormi macigni contro ed oltre le mura.
Bloccata la città per mare e per
terra, l'emiro se ne tornò a Palermo, convinto che fosse ormai
prossima a cadere.
La popolazione riuscì a resistere per
mesi mangiando le
erbe che crescevano sulle mura, le pelli degli animali morti, le ossa
spolpate, rosicchiando il cuoio e cibandosi perfino dei cadaveri dei
caduti in battaglia.In primavera, visto che la città ancora resisteva, arrivò a dirigere l'assedio Abu Isa insieme a truppe fresche.
Sotto il suo comando l'assedio prese nuovo vigore.
Verso la fine di aprile crollò un lato della torre del porto grande, seguita pochi giorni dopo da quello di un tratto di mura adiacente (grosso modo nei pressi dell'attuale Porta Marina): la breccia era aperta. Per venti giorni greci e siracusani, per quanto stremati dalle privazioni, respinsero gli assalti degli arabi alla breccia sotto il comando del governatore bizantino (2).
Nella notte tra il 20 ed il 21 di maggio sembrò che gli arabi avessero deciso di dare tregua agli assediati ed il governatore insieme a gran parte dei difensori si concessero un po' di riposo lasciando a guardia della breccia un esiguo numero di soldati al comando del capitano Giovanni Patriano.
Alle sei del mattino tutti i mangani degli arabi entrarono in azione e gli assedianti irruppero attraverso la breccia travolgendo lo sparuto manipolo di difensori e dilagando per la città. Il tentativo dei difensori di formare una linea di fronte alla chiesa del Salvatore (3) viene rapidamente soverchiato, a questo punto il governatore si asserraglia insieme a 70 nobili siracusani in una torre dove resisterà fino al giorno successivo.
Il bottino fu fra i più ricchi che gli
arabi avessero mai conquistato in Sicilia. L'eccidio che seguì al
saccheggio fu degno della fama che gli arabi da secoli si erano
guadagnata; il governatore ed i settanta nobili furono messi a morte,
le mura furono abbattute, le case, le chiese ed i monasteri dati alle
fiamme. Migliaia di cittadini furono trucidati, migliaia incarcerati e molti altri
deportati in Africa come schiavi.
Note:
(1) Dopo l'assedio dell'emiro Ased Ibn
Forât dell'827 i governatori bizantini avevano capito che era molto
più agevole difendere soltanto la penisola dell'Ortigia abbandonando
i sobborghi di terraferma.
(2) Conosciamo la cronaca dell'assedio sopprattutto per mezzo di una lunga lettera indirizzata dal monaco Teodosio, che ne fu testimone oculare, dal carcere palermitano dove era stato tradotto all'arcidiacono Leone. L'epistola ci è pervenuta nella traduzione latina - Epistola de expugnatione Siracusarum – realizzata da un monaco basiliano di nome Giosafà su un manoscritto del Monastero del SS.Salvatore di Messina oggi perduto. Stranamente, pur descrivendone l'abnegazione e l'eroismo, Teodosio tace il nome del governatore della città “per esser noto – egli dice - a chiunque”.
(2) Conosciamo la cronaca dell'assedio sopprattutto per mezzo di una lunga lettera indirizzata dal monaco Teodosio, che ne fu testimone oculare, dal carcere palermitano dove era stato tradotto all'arcidiacono Leone. L'epistola ci è pervenuta nella traduzione latina - Epistola de expugnatione Siracusarum – realizzata da un monaco basiliano di nome Giosafà su un manoscritto del Monastero del SS.Salvatore di Messina oggi perduto. Stranamente, pur descrivendone l'abnegazione e l'eroismo, Teodosio tace il nome del governatore della città “per esser noto – egli dice - a chiunque”.
(3)
Era la chiesa cristiana edificata all'interno del tempio di Apollo (indicato come Tempio di Diana nella cartina).
La trasformazione non coinvolse però l'intero tempio, che
evidentemente non versava in buone condizioni, ma ne utilizzò il
solo naos
che, di per sé, con la sua partizione in tre navi, era del tutto
idoneo a essere trasformato in chiesa cristiana.
Si osservano ancora, fra le colonne
dell'antico pronaos,
due monconi di stipiti che facevano parte dell'ingresso del tempio
cristiano. II riadattamento era stato ottenuto con la parziale
occlusione dell'intercolumnio, utilizzando il materiale apprestato
dalla rovina stessa del tempio... il coronamento era dato da un
semplice architrave monolitico... il breve spazio fra gli stipiti e
le colonne era ricolmato con muratura a pezzate ( L. Bernabò
Brea, 1971).
Già in epoca bizantina
l'innalzamento del piano stradale non faceva più corrispondere il
piano della chiesa cristiana con quello del tempio pagano, e si
dovette procedere a una rozza sopraelevazione, utilizzando materiale
proveniente dallo stesso tempio.
Si provvide, in quella occasione, a
munire di un altro gradino il crepidoma, rimasto troppo in basso.
Altri lavori riguardarono una sorta di vasca battesimale ricavata
dai tre gradini inferiori dello stilobate [che]... rotti con un
profondo taglio rettangolare... [vennero rivestiti all'interno] da un
grande lastrone calcare monolitico, con il lembo superiore riccamente
sagomato (P. Orsi).
Sul lato occidentale, al di fuori della
riadattata parte del tempio si nota un massiccio basamento (m 9,10 x
8) che probabilmente appartiene ad un torrione di epoca bizantina
assieme ai resti della contigua cortina muraria, il cui materiale da
costruzione fu in parte ricavato dalle pietre squadrate tolte al
tempio classico in quelle parti rimaste non utilizzate dalla chiesa
bizantina.
Sulla destra dell'immagine si notano il massiccio basamento del torrione bizantino ed i resti della cortina muraria che era stata addossata al tempio
Con l'avvento dei normanni, al
tempio venne ridata una destinazione, anche se non è certo che venne
riutilizzato come chiesa.
Ciò che rimane delle opere normanne
sono un arco (che costituiva l'ingresso della chiesa se di chiesa si
può parlare) dalla caratteristica struttura ogivale, aperto nel
settore più orientale del superstite muro della cella, resti della
volta ed una leggera sopraelevazione, posta direttamente sopra le
opere murarie greche ed ottenuta con l'apposizione di vari filari di
piccoli conci calcarei.
La chiesa ottenuta, orientata
diversamente dalla greca verso sud-nord, era di proporzioni assai più
ridotte che non l'originale.
L'ingresso della chiesa di epoca normanna ricavato nella parete del naos
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