Ringrazio Nicoletta de Matthaeis e Reliquiosamente per la cortese collaborazione.
Mentre la città è stretta d'assedio Gregorio Eparco, un mercante greco, ed il suo socio, un ebreo veneziano, Malachia Bessan, intraprendono una frenetica caccia alle reliquie della Passione di Cristo che sarebbero state occultate durante l'occupazione latina e sostituite con delle copie.
Nel 1200 c.ca lo skeuophylakion della chiesa palatina della Vergine del Faro, Nicola Mesarites, stila questo elenco delle dieci più importanti reliquie della Passione conservate nella chiesa:
1. La corona di spine.
2. Un chiodo della crocefissione.
3. Il sudario di Cristo (il Mandylion di Edessa?).
4. I sandali di Cristo.
5. Un frammento della pietra tombale.
6. La tovaglia di lino (Lention) usata dal Cristo per asciugare i piedi degli apostoli dopo la Lavanda.
7. La sacra lancia.
8. Il manto di porpora che i soldati romani fecero indossare a Gesù.
9. La canna che posero nella sua mano destra a mò di scettro.
10. I ceppi con cui fu incatenato.
Il romanzo ipotizza che nel 1204 queste reliquie siano state nascoste in vari luoghi della città per sottrarle al sacco dei crociati nelle cui mani sarebbero finite soltanto delle copie. I due soci ne intraprendono la ricerca per porle in salvo dal Turco sulla scorta delle indicazioni criptate celate in un manoscritto, la Summa de reliquiis costantinopolitanis, scritto da un monaco francese, Guglielmo di Beyssac, ritiratosi nel Monastero di Chora nella seconda metà del XIV secolo.
Le reliquie sono però ridotte a nove, giacchè l'autore accredita la versione secondo la quale la vera sindone/mandylion sarebbe già stata portata in Occidente dal cavaliere crociato Ottone de la Roche dopo il sacco del 1204 (1). I nascondigli delle reliquie sono indicati da altrettanti indovinelli a ciascuno dei quali è accoppiata, come ulteriore indicazione, una sephirot della Cabala ebraica.
1. Chiodi della croce: Sub columna custoditur, reversus vultus adpsicit, infera atqua servat (è custodita sotto la colonna, il volto rovesciato la guarda, l'acqua infernale la conserva).
Si tratta della Basilica Cisterna, nei
pressi della colonna il cui basamento è una testa di Gorgone
rovesciata.
Grazie ad un importante ritrovamento avvenuto nel 1968, sappiamo con esattezza come erano i chiodi utilizzati per la crocefissione. A nord di Gerusalemme, a Giv’at ha-Mivtar, in un antico sepolcro fu rinvenuto, insieme ad altri resti, un chiodo conficcato in un osso di un calcagno destro appartenente a un uomo di nome Yehohanan ben Ha’Galqol di circa 25 anni, crocifisso fra il 6 ed il 65 d.C.
Il chiodo ha la punta spezzata, una lunghezza di 11,5 cm che può essere riportata ad un totale di 16 cm. e una sezione quadrangolare con un diametro massimo di 0,9 cm. Dal reperto si deduce che i piedi, e più precisamente le caviglie (non i tarsi), erano stati fissati alla croce inchiodandoli lateralmente con l’aiuto di un pezzetto di legno interposto per mantenerli fermi.
tratto da: N. de Matthaeis, Dove sono i veri chiodi di Cristo?
Nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, nella Cappella delle reliquie, viene da tempi immemorabili venerato un santo chiodo che sempre è stato ritenuto uno di quelli portati a Roma dall’imperatrice Elena dal suo pellegrinaggio in Terrasanta (326).
Ha una lunghezza di 11,5 cm
ed un diametro, nel punto più largo, di 0,9, con sezione
quadrangolare. Ne manca la punta, quindi doveva aver avuto
originariamente una lunghezza di circa 16 cm. La capocchia non è
originale e fu rifatta in epoca successiva. Però presenta le stesse
caratteristiche, sia morfologiche che di grandezza, di quello
scoperto a Giv’at ha-Mivtar.
Il chiodo descritto nell'inventario compilato da Nicola Mesarites potrebbe essere invece quello attualmente custodito nell'ospedale senese di Santa Maria della Scala oggi riconvertito in museo.
Presenta caratteristiche
simili a quello di Roma, ma è abbastanza più sottile (asportazione
di scheggie?). E’ lungo 15 cm, senza testa e ha la punta spezzata.
Fu acquistato a
Costantinopoli, insieme ad altre reliquie, nel 1357, da un mercante
veneziano, Pietro di Giunta Torregiani, che trattò probabilmente con
l'imperatrice Elena Cantacuzena (moglie di Giovanni V e figlia di
Giovanni VI Cantacuzeno). Nel 1359 lo donò (la compravendita
di reliquie era proibita) al rettore dell'ospedale senese Andrea de
Grazia, che intendeva fare della città una meta di pellegrinaggio,
dove ancora si trova.
2. Corona di spine:
In aqua et in argento, vox clamantis in deserto (nell'acqua e
nell'argento, la voce di uno che grida nel deserto).
Vox clamantis in
deserto è definito il Battista nei
Vangeli di Marco (I, 1-3) e Giovanni (I, 22-23). La sephirot
legata a questo indizio – la quarta,
la Chesed –
rimanda a virtù tipicamente materne (carità e amore per i figli) e
quindi alla Vergine, la madre per eccellenza. L'acqua indica inoltre
la presenza di una fonte miracolosa. L'unica monastero
costantinopolitano dedicata alla Vergine che ospiti anche una fonte
miracolosa - ancora oggi visibile nel monastero armeno (Sulu
Manastir) che ne ha preso il posto - e
che sia legato anche al Battista (vi era custodita la reliquia del
suo braccio destro) e all'argento, fu fondato dall'imperatore Romano
III Argiro (Αργυρος=argento), è quello della Vergine Peribleptos.
La corona di spine
Cattedrale di Notre Dame, Parigi
Francois de Mély suggerisce che la Corona di spine non venne portata a Bisanzio sino al 1063.
Nel 1238, Baldovino II, imperatore
latino di Costantinopoli, ansioso di procurarsi dei fondi per la
difesa del proprio impero, offrì la corona di spine a Luigi IX, re
di Francia. L'oggetto però si trovava all'epoca nelle mani dei
veneziani che l'avevano ricevuta a pegno di un forte prestito
concesso all'imperatore (13.134 pezzi d'oro), ma Luigi IX pagò il
prezzo richiesto e riscattò la reliquia facendo costruire per essa
la Sainte-Chapelle (completata nel 1248) per accoglierla degnamente
in Francia.
La reliquia rimase in questa sede sino alla Rivoluzione francese quando, dopo essere stata ospitata per qualche tempo alla Bibliothèque nationale, e sulla base poi del Concordato del 1801, la chiesa poté tornarne in legale possesso, deponendola presso la cattedrale di Notre-Dame. La reliquia ancora oggi visibile consiste in un cerchio di vetro al cui interno si trova una corona intrecciata con juncus balticus avente un reliquiario separato per alcune spine rimosse nel tempo dalla corona.
Luigi IX seguito dal fratello e da alcuni cortigiani trasporta la sacra reliquia
proveniente dalla cattedrale di S. Gatien (Tours)
Cloisters Museum, New York
La reliquia rimase in questa sede sino alla Rivoluzione francese quando, dopo essere stata ospitata per qualche tempo alla Bibliothèque nationale, e sulla base poi del Concordato del 1801, la chiesa poté tornarne in legale possesso, deponendola presso la cattedrale di Notre-Dame. La reliquia ancora oggi visibile consiste in un cerchio di vetro al cui interno si trova una corona intrecciata con juncus balticus avente un reliquiario separato per alcune spine rimosse nel tempo dalla corona.
3. La sacra Lancia:
In tertio dono regum, ubi primum fuit donum Dei (Nel terzo
dono dei re, dove per primo vi fu il dono di Dio).
Il terzo dono dei Re Magi,
nella consueta scansione, è la mirra, quindi la chiesa non può che
essere quella del Myrelaion (il posto della mirra) e il
primo dono di Dio la tomba di Teodora, la moglie di Romano I
Lecapeno che fu la prima ad esservi tumulata (922).
La lancia usata durante la Crocefissione per trafiggere il costato del Cristo ed accertarne la morte (Giovanni, XIX, 33-34) compare per la prima volta come reliquia nell'Itinerarium Antoninii (570 c.ca), in cui il pellegrino scrive di averla vista a Gerusalemme nella basilica sul monte Sion.
Secondo il Chronicon
Paschale (una cronaca bizantina redatta
nel VII sec.) nel 615, mentre l' armata sasanide di Cosroe II si
avvicinava alla città santa, la sacra reliquia fu portata a
Costantinopoli e riposta nella chiesa di Santa Sofia. La lancia
compare inoltre nel catalogo compilato da Nicola Mesarites (vedi
sopra) e la sua parte astile nel 1244 sarebbe
stata ceduta da Baldovino II, ultimo imperatore latino di
Costantinopoli, a Luigi IX di Francia. Riposta nella Sainte Chapelle,
insieme alle altre reliquie raccolte dal re francese, sarebbe andata
dispersa durante la Rivoluzione francese.
Nel 1492 il sultano ottomano
Bayezid II donò a papa Innocenzo VIII, che deteneva il suo fratello
minore Cem - pretendente al trono – usando la minaccia della sua
liberazione come deterrente alle mire aggressive del sultano nei
Balcani, quella che potrebbe essere la parte offensiva della lancia
donata a re Luigi e che sarebbe rimasta fino a quel momento a
Costantinopoli. Gli esami effettuati su questa reliquia, attualmente
custodita nella cappella della Veronica in San Pietro e non
accessibile al pubblico, ne mostrano la compatibilità con le lance
utilizzate dai romani nel I secolo.
Nel XVII secolo, inoltre,
papa Benedetto XIV fece realizzare un modello dell'asta allora
conservata nella Sainte Chapelle e potè constatare che si adattava
perfettamente alla parte offensiva della lancia di Roma.
La larghezza massima della
parte offensiva della lancia (4,5 cm.) appare inoltre compatibile con
la ferita laterale del Cristo impressa sulla sindone che mostra la
stessa larghezza.
4. La coppa dell'Ultima
Cena: In crypta sed non in crypta, sub martyrio cornus
(nella cripta, ma non nella cripta, sotto il martirio del corno).
Nel 726, secondo le fonti di
parte iconodula, l'imperatore Leone III (717-741) iniziò a predicare contro la
venerazione delle sacre immagini, decidendo di rimuovere un'icona
religiosa raffigurante Cristo (probabilmente un mosaico) dalla porta
bronzea (Chalkè) del palazzo imperiale, sostituendola con una
croce, e scatenando la protesta di un gruppo di donne che culminò
con l'uccisione del funzionario che era stato incaricato di rimuovere
l'icona e con il martirio di Santa Teodosia che aveva guidato la
sommossa popolare. Mentre le altre donne vennero decapitate, Teodosia
fu infilzata con un corno d'ariete (il
martirio del corno). La chiesa costantinopolitana ad essa dedicata ha inoltre la peculiarità di essere stata sopraelevata su
un edificio preesistente che ne andò a costituire la cripta pur
trovandosi a livello del piano stradale (nella cripta, ma non
nella cripta).
L'unica fonte che
colloca a Costantinopoli (da cui sarebbe stata trafugata dal vescovo
di Troyes durante il saccheggio del 1204) la coppa (calice)
utilizzata dal Cristo durante l'Ultima Cena per istituire
l'Eucaristia - Poi prese un calice e rese
grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è
il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”
(Marco XIV, 23-24) – è però un romanzo tedesco del XIII secolo,
lo Jüngere Titurel, completamento
e continuazione del frammento del Titurel
di Wolfram von Eschenbach, la cui prima edizione a stampa è del
1477.
5. La Vera Croce:
Secunda quae prima fuit, maior quae minor fuit servat
(conserva la seconda che fu la prima, la maggiore che fu la minore).
Una donna che, pur
importante, lo fu meno di chi venne dopo di lei (probabilmente il
figlio). Anche se la definizione potrebbe alludere alla stessa
Vergine, si tratta dell'imperatrice Elena, madre di Costantino il
grande, e la chiesa è quella dei SS.Apostoli, nel cui mausoleo
funebre destinato agli imperatori Costantino ne aveva fatto traslare
le spoglie.
La Vera Croce, ritrovata a Gerusalemme da Sant'Elena nel 326, andò definitivamente perduta nel disastro di Hattin (1187), quando l'esercito crociato che la portava in battaglia fu sbaragliato dal Saladino.
Al momento del suo
rinvenimento nel 326, l'imperatrice madre ne aveva però prelevato
alcuni frammenti che aveva fatto portare a Roma (dove sono ancora
conservati nella basilica di S.Croce in Gerusalemme) e a
Costantinopoli.
La stauroteca conservata nel
Tesoro nella cattedrale di Limburg An Der Lahn in Germania proviene
molto probabilmente dalla chiesa della Vergine del Faro
e custodisce sette di questi frammenti.
La stauroteca di Limburg
Sul retro del reliquario più antico è
presente un'incisione a sbalzo che lo riferiece agli imperatori
Costantino e Romano. Identificati in Costantino VII Porfirogenito
(912-959) e suo figlio Romano II (associato al trono nel 946).
Lungo i margini più esterni
della teca realizzata successivamente per fornire al reliquario una
ulteriore protezione, si trova un'altra iscrizione che nomina un
altro personaggio altolocato, l'eunuco Basilio, figlio illegittimo di
Romano I Lecapeno, a cui nell'epigrafe viene attribuito il titolo di
proedros, carica che questi ricoprì dal 963 al 985.
Predata durante il sacco
crociato e portata a Tessalonica (probabilmente al seguito di
Bonifacio di Monferrato che aveva ottenuta in feudo la città), nel
1206 fu data al cavaliere tedesco Heinrich Von Ulmen come compenso
dei servigi militari resi (2). Nel 1208, al suo ritorno in patria, il
cavaliere donò il reliquiario al convento delle Agostiniane a
Stuben. Nel 1778 il monastero fu soppresso e dopo vari spostamenti,
nel 1827 il reliquiario entrò a far parte del Tesoro della
cattedrale di Limburg dove è ancora custodito.
6. sconosciuta: Sub altis ex aere plumis aeterne custoditur et custodiit (sotto le alte piume di bronzo, in eterno è custodita e custodisce).
Si tratta della statua
bronzea di Giustiniano, posta sulla sommità di una colonna alta
quasi 100 m. eretta al centro dell'Augusteon. Il capo dell'imperatore
era infatti cinto dalla toupha, la corona piumata che gli
imperatori indossavano in occasione dei trionfi.
Stante la difficoltà di
scalare senza essere visti una colonna così alta e sprovvista di
scala elicoidale all'interno, i due cercatori di reliquie rinunciano
anche perchè la statua dell'imperatore si era abbattuta al suolo nel
1317 ed il restauro a cui era stata sottoposta prima di rialzarla
aveva molto probabilmente svelato il nascondiglio della reliquia.
7. sconosciuta: Leo audivit nuntium, postea dedir caeco, inde imperium habuit (il leone udì l'annuncio, poi diede al cieco, infine ebbe il comando).
Una leggenda vuole che il
futuro imperatore Leone I detto il Trace (457-474), quando era
ancora un semplice soldato, si trovasse poco fuori la Porta Aurea
quando udì i lamenti di un cieco che aveva perso l'orientamento.
Mentre cercava dell'acqua per dissetarlo udì una voce: - Leone,
perchè cerchi l'acqua? E' qui accanto a te! Leone si accorse
quindi che una fonte d'acqua limpida sgorgava lì nei pressi, ne
riempì l'elmo e diede da bere al cieco. La voce parlò ancora e
disse: - Leone, imperatore, se costruirai in questo luogo una
chiesa in onore della Vergine, il tuo regno sarà lungo e fortunato!
Un
mese dopo, Leone divenne imperatore, si ricordò della profezia e
fece erigere sul posto la chiesa dedicata alla Vergine
Zoodochos Pege (fonte che dona
la vita).
La
chiesa esistente all'epoca (fu completamente distrutta dai
giannizzeri nel 1821) si trovava però poche centinaia di metri fuori
della cinta muraria, in una località che prendeva il nome dalla
fonte (Pege) e che
corrisponde all'attuale quartiere stanbulino di Bailikli. Era quindi
irraggiungibile per i due cercatori di reliquie rinchiusi nella città
assediata.
8.
sconosciuta:
Apud regnum sub matris velo, ubi fluit fons vitae
(vicino al regno sotto il velo della madre, dove scorre la fonte
della vita).
Si
tratta della chiesa di Santa Maria delle Blachernae. La chiesa, fatta
costruire da Pulcheria – sorella di Teodosio II e moglie di
Marciano – tra il 450 ed il 453, custodiva infatti, in un'apposita
cappella (paraekklesion)
denominata Hagia Soros, il maphorion,
il velo indossato dalla Vergine (matris velo).
La chiesa era inoltre apud regnum
giacchè sorgeva nel quartiere delle Blachernae, nei pressi del
palazzo imperiale. Alla chiesa era annesso l'Hagion Lousma dove si
trovava un bacino che raccoglieva le acque di una fonte miracolosa
(fons vitae).
La
chiesa era però andata completmente distrutta nel 1434 in un
incendio appiccato incidentalmente da alcuni ragazzi che cacciavano i
piccioni sul tetto della chiesa.
9.
La Tunica di Cristo:
Certe non dormitur, sed ibi dormiis primus idolorum
defensor (di sicuro non si
dorme, ma lì dorme il primo difensore degli idoli).
Si
tratta del Monastero di San Giovanni in Studion. I suoi monaci erano
infatti detti akometoi
(i non dormienti) e dal'844 vi erano stati traslati i resti di San
Teodoro Studita, il più tenace antagonosta della politica
iconoclasta (primus idolorum defensor).
I soldati poi,
quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero
quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella
tunica era senza cuciture, tessuta tutta
d’un pezzo da cima a fondo. Perciò
dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca
(Giovanni
XIX, 23-24).
Secondo Gregorio di
Tours (VI sec.) la tunica, ricomprata da alcuni fedeli, sarebbe stata
inizialmente trasportata a Galata, in Asia minore, e consevata in una
basilica. Da qui sarebbe poi stata trasferita a Jaffa per sottrarla
alle incursioni persiane. Da qui nel 594 sarebbe stata solennemente
trasferita a Gerusalemme. Predata da Cosroe II insieme alla Vera
Croce nel 614, venne recuperata dall'imperatore Eraclio nel 627 e
portata a Costantinopoli.
Una tradizione vuole che
successivamente la tunica sia stata donata a Carlo Magno
dall'imperatrice Irene (797-802) nell'ambito di una trattativa
matrimoniale avviata poco prima della sua detronizzazione. Nell'806,
quando la figlia dell'imperatore, Teodrada, entrò come badessa nel
monastero di Argenteuil, la tunica avrebbe fatto parte della sua dote
e, dopo varie traversie sarebbe attualmente custodita nella chiesa di
St.Denis.
Durante la Rivoluzione
francese, il parroco della chiesa di St.Denis dove si trovava la
tunica, la tagliò in quattro parti, nella speranza che almeno una
potesse salvarsi dal furore iconoclasta dei rivoluzionari. In seguito
ne furono ritrovati soltanto tre che nel 1892 furono ricomposti e
cuciti su un’altra tunica di satin bianco.
Secondo una
descrizione che precede la sua divisione la tunica è di lana, la
parte inferiore ha una specie di orlo, ossia un bordo più resistente
ed è tessuta a maglia dall’alto verso il basso, senza cuciture. La
veste poteva arrivare fino a sotto le ginocchia, con maniche a mezzo
braccio, e le sue misure erano 1,45 m di altezza e 1,15 di larghezza.
La tunica presenta
inoltre grosse macchie di sangue che corrispondono a quelle rinvenute
nella Sindone (le ferite della flagellazione), tenendo presente che
non si sparge allo stesso modo il sangue in un corpo fermo (come
nella sindone) e in un corpo in movimento e con un carico sulle
spalle. Coincidono anche il gruppo sanguigno (AB) ed il DNA (formula
cromosomica di un uomo semita arabo).
In accordo con questa tradizione la
tunica inconsutile non figura nell'elenco compilato da Mesarites, ma Antonio di Novgorod nel suo Libro
del pellegrino scrive di averla vista insieme ad altre reliquie
nel Palazzo imperiale (3) durante il suo pellegrinaggio a
Costantinopoli compiuto nel 1200, pressapoco nello stesso periodo in
cui Mesarites compila il decalogo. Se la tunica non appare in questo
inventario, vi compare però il “manto di porpora”, quello che i
soldati romani posero per scherno sulle spalle del Cristo: Allora
i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e
convocarono tutta la truppa. Lo vestirono
di porpora, intrecciarono una
corona di spine e gliela misero attorno al capo
(Marco XV, 16-17).
Se le parole
dell'evangelista intendessero che al Cristo venne fatta indossare
sopra la tunica una sopravveste di porpora più che un mantello come
l'intendiamo oggi, questa sopravveste potrebbe essere quella mostrata
ad Antonio di Novgorod (4).
Nel romanzo ad ogni modo la reliquia è conservata in forma ufficiale (cioè pubblicamente esposta alla venerazione dei fedeli) nel monastero di Studion – dove in realtà non è mai stata - ed i due protagonisti convengono sull'impossibilità di venirne in possesso in quanto troppo sorvegliata.
Note:
(1) cfr. scheda La cacciatadel duca di Atene dell'Orcagna, nota 2.
(2) Dopo la conquista di
Costantinopoli, tra l'altro, Bonifacio aveva occupato proprio il
palazzo Bucoleone che sorgeva sul litorale del Mar di Marmara accanto
allo stesso faro da cui prendeva il nome la cappella delle reliquie.
(3) Nel 1200 il vecchio
Palazzo imperiale (Gran Palazzo)
era già stato abbandonato dagli imperatori come residenza in favore
di quello delle Blachernae, continuava però ad essere utilizzato con
funzioni di rappresentanza. Antonio di Novgorod fu ammesso molto
probabilmente proprio alla cappella della Vergine del Faro dove gli
furono mostrate le reliquie.
(4) Il "manto di
porpora" che sarebbe stato posto per scherno sulle spalle del
Cristo compare in tutti e quattro i Vangeli canonici ma per definirlo
gli evangelisti usano quattro parole diverse: Marco usa solo la
parola πορφυρα, senza ulteriori specifiche; Luca (XXIII, 11)
usa semplicemente il termine di εσθησ (veste) accompagnata da un
aggettivo che la definisce "splendida"; Matteo (XXVII,
27-29) lo chiama χλαμΰς
(la clamide, che consisteva in
un pezzo di stoffa, più o meno ampio, a forma di rettangolo, che
finiva in uno dei lati corti con taglio a semicerchio e si fermava
con una fibula sulla spalla); Giovanni (XIX, 2) parla di ἱμάτιον
(un panno di forma rettangolare che si avvolgeva attorno al corpo) e
ἱμάτιον è anche il termine impiegato da Mesarites nel suo
decalogo. Secondo alcune analisi condotte in tempi relativamente
recenti (Lucotte, 2004) inoltre, la tunica d'Argenteuil sarebbe stata
originariamente tinta di rosso. Una tunica ed un manto tipo la
clamide o l'himation, entrambi di colore rosso e conservati ripiegati
in quattro, avrebbero quindi potuto essere scambiati l'uno per
l'altro.
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