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domenica 25 marzo 2018

Niceforo Foca il vecchio

Niceforo Foca il vecchio*
*cosiddetto per distinguerlo dal nipote suo omonimo, l'imperatore Niceforo II Foca (963-969).


E' il primo membro noto della potente famiglia dei Foca, originari della Cappadocia ed esponenti di spicco dell'aristocrazia militare bizantina tra il IX e l'XI secolo.

Genealogia dei Foca
 
Nacque probabilmente intorno all'855 da un padre militare di carriera che fu nominato spatario e turmarca dall’imperatore Basilio I (867-886) nell’872 e in seguito divenuto probabilmente protospatario e stratego di Cherson, drungario dell’Egeo e infine stratego di Anatolia.

Intrapresa a sua volta la carriera militare, probabilmente partecipò in Asia Minore alla campagna condotta da Basilio I contro i pauliciani (872) e fu insignito del titolo di manglavite (1).
Nell’873 accompagnò l’imperatore nella spedizione contro gli arabi nella regione dell’Eufrate, che riconquistò le città di Zapetra e Samosata. Distintosi per le sue capacità militari fu elevato al rango di protostrator e ottenne un palazzo a Costantinopoli che si trovava nei pressi della chiesa di Santa Tecla. Successivamente ricoprì la carica di stratego dell'importante thema di Charsianon.
Versò la metà dell'885, a seguito della rovinosa sconfitta subita da parte degli arabi dell'Emirato di Amantea sotto le mura di Santa Severina, l'imperatore decise di richiamare il comandante in capo delle truppe bizantine in Italia, Stefano Massenzio, e di sostituirlo con Niceforo a cui affidò cospicui rinforzi, tra cui un contingente di pauliciani che si erano arruolati nell''esercito bizantino dopo la dissoluzione dello stato pauliciano (2).

Giunto in Italia Niceforo riorganizzò le forze a sua disposizione in tre colonne che lanciò contemporaneamente all'assalto delle roccaforti di Amantea, Tropea e Santa Severina, guidando personalmente l'assedio di quest'ultima ed espugnandole una dopo l'altra.
Eliminata l'enclave araba, Niceforo Foca portò a termine la campagna strappando ai Longobardi dei Principati di Salerno e di Benevento – che sottopose a vassallaggio - la valle del Crati e i territori della Lucania orientale, ristabilendo così la sovranità imperiale su quasi tutto il Mezzogiorno.
Nei confronti delle popolazioni locali, Niceforo tenne un atteggiamento estremamente rispettoso, evitando che i suoi soldati le vessassero in alcun modo e stabilendo presidi militari a difesa del territorio (3), cose che gli valsero la loro riconoscenza a cui non sembra estranea la diffusione nel Meridione del culto del santo suo omonimo. Nello stesso tempo incoraggiò l'insediamento dei suoi veterani nelle terre riconquistate favorendo il ripopolamento della regione.

Nell’886 il nuovo imperatore Leone VI (886-912), subentrato al padre Basilio I, richiamò Niceforo Foca a Costantinopoli e gli conferì il titolo di patrizio e la carica di domestikos delle scholai, ossia di comandante supremo dell’esercito. Il generale fu quindi inviato a combattere gli arabi in Asia Minore dove rimase alcuni anni.
Nell'894 Leone VI – su pressione del logoteta del dromo Stiliano Zautse - spostò la sede del mercato delle merci bulgare da Costantinopoli a Tessalonica, dove i mercanti erano sottoposti a pesanti dazi (4). Viste ignorate le proteste inoltrate per via diplomatica, nell'autunno dell'894 lo zar bulgaro Simeone invase il thema di Macedonia incontrando scarsa resistenza. L'imperatore gli mandò contro un esercito formato dalla sua guardia e dalle unità stanziate nella capitale che fu però rovinosamente sconfitto.
Firmata una tregua con gli arabi, Niceforo Foca assunse il comando del fronte occidentale e attaccò la Bulgaria da sud. Contemporaneamente la diplomazia bizantina convinse gli Ungari ad attaccare i bulgari da nord appoggiati dalla flotta imperiale, al comando di Eustazio, che riuscì a traghettarli oltre il Danubio nonostante le contromisure disposte dalla zar bulgaro. Simeone si diresse quindi verso nord per contrastare gli ungari che lo sconfissero in due scontri in campo aperto, lasciando dietro di sé alcune unità per fronteggiare l'esercito di Niceforo Foca con cui però probabilmente non vennero a contatto. Nell'estate dell'895, lo zar bulgaro addivenne momentaneamente a più miti consigli e firmò una tregua.

La storiografia non è del tutto concorde sulla data di morte di Niceforo. Molto probabilmente morì nell'895-896. Secondo la cronaca di Teofane continuato invece – scritta su commissione di Costantino VII Porfirogenito (912-959) – subito dopo l'armistizio con i bulgari, Niceforo, divenuto inviso all'influente logoteta del dromo, Stiliano Zautse, per aver rifiutato di sposare una sua figlia sarebbe stato rimosso dalla carica di domestikos delle scholai e sostituito con Leone Katakalon. Dopo un periodo di inattività sarebbe stato nominato strategos del thema di Tracia dove avrebbe trascorso i suoi ultimi anni morendo intorno al 900 (5).
Da una moglie di cui non si conosce il nome Niceforo ebbe due figli, Leone, che ricoprirà a sua volta la carica di domestikos delle scholai, e Barda, padre del futuro imperatore Niceforo II Foca (963-969).

Note:

(1) In origine i manglavites erano un'unità speciale della guardia imperiale, i cui membri avevano il compito di aprire davanti all'imperatore alcune porte del sacro palazzo e di precederlo nelle processioni facendogli largo tra la folla maneggiando una sorta di clava (il manglavion, la cui etimologia deriva probabilmente dalla fusione delle parole latine manus e clava). Successivamente, come per molti altri titoli di corte, divenne un titolo onorifico che veniva conferito a persone che non avevano nulla a che fare con questo ufficio.

(2) Secondo alcune fonti al comando del contingente pauliciano era un certo Diaconitze, un luogotenente del condottiero pauliciano Chrisocheir, che si era trovato al suo fianco quando questi fu catturato e decapitato dai bizantini dopo la disfatta del passo di Bathys Ryax (872).

(3) Su un alto colle che sovrasta il lago di Angitola in Calabria, si trovano le rovine di una città, abbandonata nel corso del XVIII secolo, oggi nota come Rocca Angitola. Fino al 1420 ricorre però nelle fonti con il nome di Rocca Niceforo. Si tratta infatti di uno dei presidi fortificati fatti costruire dal generale bizantino (probabilmente sulle rovine dell'antica Crissa). Rasa al suolo dagli Arabi nel 950 fu ricostruita dai Normanni e raggiunse la sua massima espansione nel XV secolo.

Rovine di Rocca Niceforo
 
(4) Asceso al trono alla morte del padre Basilio I (29 agosto 886), Leone VI confermò Stiliano Zautse nella carica di logoteta del dromo (equivalente a quella di primo ministro) che ricopriva già sotto suo padre. Secondo molti storici Zautse – che era anche il padre dell'amante di Leone VI Zoe Zautsina - esercitò il potere de facto. Nell'891-893 l'imperatore creò per lui il titolo di basiliopator che, per quanto enigmatico, sembra implicare una sorta di tutela. Rimasto vedovo della prima moglie Teofano, nell'898 l'imperatore sposò finalmente Zoe Zautsina che gli diede una figlia (Anna) ma morì l'anno seguente insieme al padre Stiliano. Sembra che Stiliano abbia spinto per il trasferimento a Tessalonica del mercato delle merci bulgare per favorire due suoi protetti che colà incassavano i forti dazi imposti.

(5) E' però del tutto inusuale che un ex comandante supremo dell'esercito venga successivamente destinato a ricoprire la carica di strategos. La figlia di Stiliano Zautse di cui Niceforo avrebbe rifiutato la mano compare inoltre solo in questo testo. Queste considerazioni portano a ritenere poco probabile la versione riportata dalla cronaca di Teofane Continuato.






domenica 18 marzo 2018

L'eresia pauliciana e lo stato pauliciano autonomo

L'eresia pauliciana e lo stato pauliciano autonomo


Per quanto riguarda la dottrina, l'eresia pauliciana si sviluppa a partire dal tema gnostico delle due divinità: per i pauliciani esistono infatti un Dio malvagio creatore del cielo e della terra (identificabile in Jahweh, il Dio vendicativo dell'Antico Testamento) ed un Dio buono (il Dio del Nuovo Testamento), più alto e lontano, che risiede nelle sfere superiori, che ha creato lo spirito e l'anima e ha inviato il Cristo.
I Pauliciani riconoscevano come testi sacri solo il Nuovo Testamento (più probabilmente il Canone pauliciano comprendeva soltanto i quattro Vangeli e le Lettere di San Paolo) e consideravano Cristo un angelo, o un eone, inviato agli uomini brancolanti nelle tenebre terrene per rivelare il vero Dio buono e indicare la via della salvezza. Rifiutavano inoltre le gerarchie ecclesiastiche, ritenevano inutili i sacramenti e superflui i riti e tutte le forme esteriori delle chiese organizzate, fra cui il culto delle immagini. Rifiutavano però il battesimo e la comunione nelle loro forme esteriori (l'acqua, il pane, il vino) poiché il vero battesimo e la vera comunione non sono che le parole del Cristo che si definisce “acqua vivente” (Giovanni, IV, 1-15) e si offre come cibo mistico.
Le loro comunità si articolavano in pochi “Perfetti”, casti, astemi e vegetariani, che si astenevano da qualunque tipo di violenza contro gli esseri viventi; e una più numerosa schiera di “Catecumeni” o “Uditori”, che erano tenuti ad osservare una morale meno austera, fino a che non si sentissero pronti per assumere lo “status” di “Perfetti”.

Storicamente la setta venne fondata nel 655 da un certo Costantino di Manamali (così detto dal suo luogo di nascita, un villaggio della Commagene nei pressi di Samosata); egli si sentì investito della missione di restaurare il puro spirito del cristianesimo quale era stato predicato da Paolo di Tarso, e pertanto, dopo aver cambiato il suo nome in Silvano (come quello di uno dei discepoli di San Paolo) (1), fondò la sua chiesa a Kibossa, in Armenia.

Nel 682 – durante il regno di Costantino IV - egli fu condannato alla lapidazione per eresia, ma il comandante delle truppe bizantine che l’avevano arrestato ed eseguito la condanna, Simeone, colpito dal contegno dignitoso e ascetico del capo religioso, si convertì inaspettatamente alla dottrina dei pauliciani e divenne il nuovo capo della comunità con il nome di Tito, fino al 690, anno nel quale anch’egli fu a sua volta condannato alla morte sul rogo.
Dopo un momentaneo declino, i seguaci di Simeone (Tito) si diedero una salda organizzazione, stabilendo il loro quartier generale nella città di Episparis, in età più antica detta Eupatoria, (l'odierna Erek, nella Turchia orientale). In questo periodo si susseguirono diversi maestri, tra i quali Paolo l’Armeno, dal quale secondo alcuni avrebbe tratto il nome la setta (2).
Alla morte di Paolo l’Armeno nel 715, gli succedette nella guida della comunità suo figlio Genesio, che assunse il nome di Timoteo. Questi fu ricevuto a Costantinopoli dall’imperatore Leone III Isaurico (717-741) che lo prosciolse dall’accusa di eresia e gli consentì di tornare ad Episparis dove morì nel 746 nel corso di un'epidemia di peste.
Gli imperatori della dinastia isaurica - in particolare Costantino V (741-775) del quale si dice fosse egli stesso pauliciano (Giorgio Monaco, Cronikon) – concessero ampia libertà di culto a questa eresia sia per la comune iconoclastia, sia per il fatto che molti pauliciani accettarono di arruolarsi nelle truppe dislocate alla frontiera con il califfato.

Già nella seconda decade del IX secolo tuttavia- quando a capo del movimento pauliciano era il suo settimo e ultimo maestro Sergio (Tychikos) - Michele I Rangabe (811-813) e gli imperatori della dinastia amoriana dovettero fronteggiare numerose rivolte di stampo autonomista nei territori dell'Asia Minore dove il paulicianesimo era particolarmente diffuso, a cui risposero con la repressione e le persecuzioni.
Durante il regno di Leone V (813-820) i disordini culminarono con l'assassinio da parte di bande armate pauliciane (i cosiddetti astatoi, l'ala militare del movimento) del vescovo di Neocesarea, Tommaso, e di un alto funzionario imperiale, Parakondakes, a Kynochorion, considerati come i loro principali persecutori (3).

Alla morte di Sergio (Tychikos), la guida del movimento passò nelle mani di un consiglio formato dai suoi discepoli che furono detti synekdemoi, tra questi si ricordano Michele, Kanakares e Giovanni Aoratos - che ebbero anche il titolo di hiereis (sacerdoti) – Teodoto, Basilio e Zosimo.

Nell'843-844 un ex ufficiale dell'esercito bizantino di nome Karbeas prese la direzione politico-militare del movimento. Fino a questo momento il capo religioso del movimento ne era stato anche il capo politico-militare, Karbeas, e il suo successore Chrysocheir, furono invece soprattutto dei comandanti militari, sembra quindi probabile che i synekdemoi ne mantennero la guida spirituale.


Lo stato pauliciano autonomo (843-878)

Nell'843 l'imperatrice Teodora (all'epoca reggente per il figlio Michele III), determinata assieme al suo primo ministro Teoctisto a stroncare l'eresia, emise un decreto che rese obbligatoria per i pauliciani l'apostasia e la conversione all'ortodossia costantinopolitana e che, in caso di rifiuto, prevedeva la pena di morte. Fu quindi inviato un esercito in Asia Minore che attaccò le roccaforti dei pauliciani che furono uccisi in gran numero, quelli che accettarono di abiurare furono deportati in Tracia mente altri (circa 5.000), guidati da Karbeas, si decisero a passare il confine mettendosi sotto la protezione dell'emiro di Melitene Umar al-Aqta per il quale avrebbero da questo momento combattuto.
L'emiro assegnò ai pauliciani alcune aree di confine lungo l'alto corso dell'Eufrate dove questi poterono insediare una sorta di stato pauliciano autonomo che ebbe come capitale la roccaforte di Tephrike (l'attuale Divrigi in Turchia), sulla riva meridionale del fiume Çaltısuyu, un affluente dell'Eufrate occidentale.
Dalle loro basi i pauliciani cominciarono a lanciare periodicamente dei raid contro i territori bizantini in collaborazione con gli emiri di Tarso e di Melitene.
Nell'856 un esercito bizantino al comando di Petronas, zio di Michele III, cinse d'assedio Tephrike ma fu costetto a ritirarsi senza prenderla.

Lo stato pauliciano
 
Battaglia di Lalakon (3 settembre 863): nell'estate dell'863 Umar al-Aqta attraversò le Porte Cilicie alla testa del suo esercito, rinforzato dalle milizie pauliciane guidate da Karbeas, invadendo e saccheggiando i territori dell'impero. L'incursione araba si spinse in profondità, fino alle rive del Mar Nero dove fu messa a sacco la città di Amisos.
Appreso della caduta della città, Michele III formò tre armate: una settentrionale, composta dai soldati dei themata del Mar Nero e posta sotto il comando dello strategos dei Bucellari Nasar, l'altra meridionale, composta da soldati dei themata Anatolico, Opsiciano e Cappadociano e un'armata occidentale, composta da soldati dei themata di Tracia e Macedonia e dai tagmata stanziati a Costantinopoli e posta sotto il comando dello zio materno Petronas, strategos del thema di Tracia.
Gli eserciti bizantini circondarono quello arabo, inferiore di numero, in una località chiamato Poson (Πόσων) o Porson (Πόρσων) nei pressi del fiume Lalakaon (4). Nel tentativo di sfuggire all'accerchiamento l'emiro attaccò l'armata di Petronas ad ovest ma i bizantini ressero l'urto, dando il tempo alle altre due ali di avvicinarsi e attaccare i fianchi e la retroguardia esposti dell'esercito arabo. Nel massacro che seguì trovarono la morte lo stesso emiro e Karbeas.

Alla morte di Karbeas, il comando dei pauliciani passò a Chrysocheir che era nipote, in quanto figlio della sorella, e genero di Karbeas di cui aveva sposato la figlia. Il nuovo capo, che come Karbeas era anch'egli un ex ufficiale dell'esercito imperiale, continuò la politica del suo predecessore lanciando micidiali scorrerie in territorio bizantino. Tanto che nell'869 Basilio I inviò a Tephrike il monaco Pietro Siculo per trattare il rilascio dei prigionieri e intavolare negoziati di pace che dopo nove mesi di trattative non approdarono a nulla.
Nella primavera dell'871, l'imperatore ruppe quindi gli indugi e guidò egli stesso una campagna contro i pauliciani. Mise a sacco la città di Amara e le fortezze di Spathe e Koptos ma il tentativo di prendere la capitale pauliciana fu respinto da Chrysocheir che quasi riuscì a catturare lo stesso imperatore.
L'anno successivo Chrysocheir rispose lanciando un profondo raid contro l'Anatolia bizantina raggiungendo Ancyra (Ankara) e devastando la Galazia meridionale. Mentre i pauliciani si stavano ritirando verso le loro basi, l'imperatore gli mandò contro il cognato Cristoforo (5), che ricopriva la carica di domestico delle Scholae.

Battaglia del passo di Bathys Ryax (l'attuale passo di Kalınırmak a ovest di Sivas in Turchia): Cristoforo si accampò nei pressi di Siboron (l'attuale Karamadara) e, avuta notizia che l'esercito pauliciano marciava verso il passo di Bathys Ryax inviò un distaccamento di 4-5.000 uomini al comando degli strategoi dei themata d'Armenia e di Charsian con il compito di seguirli e riferire circa le loro intenzioni, se cioè intendessero rientrare a Tephrike, nel qual caso avrebbero incrociato le sue forze, o se intendessero dirigersi ad ovest e continuare l'incursione.
 
 
Il distaccamento raggiunse il passo di notte e, senza essere notato dai pauliciani, si accampò su un rilievo che dominava il loro accampamento. Le fonti narrano l'insorgere di una disputa tra gli uomini dei due reggimenti tematici su chi fosse il più coraggioso. I due strategoi decisero quindi di sfruttare l'alto morale e l'impetuosità delle proprie truppe per attaccare, nonostante gli ordini ricevuti. All'alba 600 uomini per ogni thema furono lanciati all'attacco, mentre i rimanenti fecero più rumore possibile con trombe ed altro per far intendere l'approssimarsi del grosso dell'esercito bizantino. Colti di sorpresa i pauliciani ripiegarono disordinatamente verso Tephrike e la rotta fu completa quando incrociarono le forze di Cristoforo che li incalzarono per 50 km. Chrysocheir, rimasto solo con un piccolo drappello della sua guardia personale, fu catturato e decapitato a Konstantinou Bounos (probabilmente la moderna Yildiz Dagı) e la sua testa inviata a Costantinopoli.

Questa disastrosa sconfitta segnò la fine della potenza militare pauliciana anche se la capitale Tephrike fu conquistata da Cristoforo soltanto nell'878, data che segna la definitiva scomparsa dello stato pauliciano.
Molti pauliciani furono ridotti in schiavitù e deportati nei territori dell'impero, mentre una parte fu arruolata nell'esercito bizantino e inviata in Italia meridionale al seguito di Niceforo Foca il vecchio. Molti sopravvissero in Anatolia in comunità isolate e non organizzate.
Nel 970 la maggior parte di questi ultimi (forse circa 200.000) furono deportati a Filippopoli (l'odierna Plovdiv in Bulgaria) e in altre zone della Tracia dall’imperatore Giovanni Zimisce, il quale in cambio della libertà religiosa chiese loro di difendere i confini settentrionali dell’Impero. Da questo trasferimento in massa avrebbe avuto origine la setta dei Bogomili, che fiorì in Bulgaria nei secoli seguenti e dalle cui idee dualistiche e gnostiche sarebbe a sua volta germogliata la dottrina dei Càtari diffusasi dal XII secolo in diversi luoghi dell’Europa occidentale.
 
Nelle fonti non compaiono opere edilizie di particolare interesse realizzate dai pauliciani eccezion fatta per le mura di Tephrike che però furono rase al suolo da Cristoforo e di cui non rimane alcuna evidenza archeologica. Le rovine delle fortificazioni che si osservano oggi sulla collina che sovrasta l'attuale abitato di Divrigi sul sito dove sorgeva la capitale pauliciana, risalgono infatti al XII-XIII secolo e sono opera dei turchi mengugekidi.
 
Note:
 
 
(1) L'usanza di adottare il nome di uno dei discepoli dell'apostolo sarà seguita da tutti i capi religiosi pauliciani (didaskaloi).
 
 
(2) L'autentica origine della denominazione di "Pauliciani" è incerta, oltre a quella avanzata nel testo esistono altre ipotesi come quella di Paolo di Tarso suffragata dall'usanza dei maestri pauliciani di prendere il nome di uno dei discepoli dell'apostolo. Un'altra ipotesi fa riferimento a due leggendari missionari, Paolo e Giovanni, che avrebbero importato le dottrine pauliciane in Armenia: da essi sarebbe derivato il termine “Pauloioannoi”, trasformatosi poi in Paulicianoi.

(3) Secondo alcuni storici, il primo nucleo di uno stato pauliciano autonomo si formò in seguito a questi omicidi. Per sfuggire alla rappresaglia imperiale, Sergio-Tychikos e molti suoi seguaci avrebbero varcato il confine per porsi sotto la protezione dell'emiro di Melitene che avrebbe concesso loro d'insediarsi nella città di Argoun. Sergio-Tychikos guidò ad ogni modo la setta dall'801 all'834-835 quando cadde assassinato per mano bizantina mentre si era recato a far legna nelle alture vicine ad Argoun.

(4) L'esatta ubicazione del fiume Lalakon e del sito della battaglia non sono stati identificati, ma la maggior parte degli studiosi concorda che si trovassero nei pressi del fiume Halys, a circa 130 km a sudest di Amisos.

(5) Basilio I non aveva sorelle, l'ipotesi più probabile – avanzata da Tougher - è quindi che Cristoforo fosse cognato dell'imperatore avendo sposato una sorella della sua seconda moglie Eudocia Ingerina.



lunedì 12 marzo 2018

Monastero di Gastria

Monastero di Gastria (Sancaktar Hayrettin Mescidi )

L'edificio come appariva prima del terremoto del 1894
da A.G. Paspates, Byzantinai meletai topographikai, 1877 

Il monastero di Gastria si trovava nel quartiere di Psamathia, ai piedi del versante meridionale del VII colle di Costantinopoli, e viene menzionato per la prima volta agli inizi del IX secolo. A quel tempo Teoctista, madre dell'imperatrice Teodora - moglie dell'imperatore Teofilo (829-842) e poi reggente per il figlio Michele III dall'842 all'856 - acquistò nel quartiere di Psamathia una casa dal patrizio Niceta, ed ivi stabilì un convento di suore. Alla sua morte il titolo di Ktētorissa (fondatrice), insieme alla proprietà degli edifici, venne ereditato da Teodora.
 
 
 
L'etimologia del nome deriverebbe probabilmente dalla presenza nei paraggi di numerosi giardini fioriti favorita da una falda acquifera che scorreva sotto il monastero (letteralmente gastria=vasi). E' invece da ritenersi molto poco fondata la leggenda che lega l'origine del nome e la fondazione del monastero all'imperatrice Elena che, al ritorno dal suo pellegrinaggio in Terrasanta (326-327) in cui ritrovò la vera croce, sarebbe sbarcata alla porta di Psamathia e avrebbe depositato dei vasi contenenti erbe aromatiche raccolte sul Calvario nel punto dove avrebbe successivamente fondato il monastero. Non si ha infatti notizia di alcun monastero fondato a Costantinopoli prima dell'ultimo quarto del IV secolo.
 

Insieme con le figlie Anna, Anastasia e Pulcheria, l'imperatrice Teodora, dopo essere stata deposta, venne rinchiusa in questo monastero per volere di suo fratello il cesare Barda che l'accusò di aver ordito un complotto per assassinarlo (856).
Costantino VII Porfirogenito scrive nel De ceremoniis che la chiesa del convento servì anche come mausoleo per i membri della famiglia di Teodora. L'Imperatrice, suo fratello Petronas, la madre Teoctista e le figlie Tecla, Anastasia e Pulcheria furono tutti sepolti lì.
L'ultima menzione di Gastria prima del 1453 compare nel resoconto di un pellegrino russo, che visitò la città durante il secondo quarto del XV secolo. Egli cita un convento di suore posto in prossimità della Porta d'oro, dove venivano venerate le reliquie delle sante Eufemia ed Eudocia e che può essere identificato con il monastero di Gastria.

Poco dopo la caduta di Costantinopoli, Hayrettin Effendi, Sancaktar (alfiere) del Sultano Mehmed II, trasformò l'edificio in una Mescit (piccola moschea) e venne qui sepolto.
Il grande terremoto del 1894, che ebbe il suo epicentro sotto il Mar di Marmara, danneggiò gravemente l'edificio (determinando tra l'altro il crollo della cupola), che è stato restaurato e riaperto al culto soltanto tra il 1973 e il 1976.

L'interno dell'edificio prima dei restauri

L'edificio visibile attualmente, il cui aspetto è fortemente condizionato dal restauro degli anni '70 a cui si deve anche l'aggiunta di un minareto assai più alto del precedente, presenta un perimetro ottagonale irregolare entro cui si sviluppa una pianta a croce inscritta con abside - semicircolare all'interno e pentagonale all'esterno - orientata ad est, mentre l'ingresso si apre sul lato occidentale.
Prothesis e Diakonikon sono rappresentate da due nicchie poco profonde ricavate nello spessore delle pareti laterali dell'abside.
La luce penetra all'interno attraverso le finestre aperte sui lati alterni dell'ottagono, che illuminano le braccia dell’interno cruciforme. Ogni finestra si apre entro un arco cieco che abbraccia tutto il lato.

Lato sud
 
La muratura, a corsi alterni di mattoni e blocchetti di calcare, ne suggerisce la datazione all'epoca paleologa. Quella dell'abside differisce tuttavia da quella del corpo principale per la mancanza dei corsi di blocchetti di calcare (è presente un'unica fascia), sì da far pensare che si tratti di un'addizione più tarda realizzata per trasformare in cappella un edificio che aveva una diversa destinazione d'uso (forse una biblioteca).

Lato sudest e abside prima dei restauri
 
Appare inoltre di dimensioni troppo ridotte per poter essere identificato con la chiesa conventuale. Più probabilmente si tratta di un martyrion o di una cappella funebre annessa al complesso monastico.

particolare dell'abside

domenica 11 marzo 2018

Teodora armena

Teodora armena

Teodora nacque in Paflagonia, probabilmente intorno all'815, da una famiglia aristocratica di origini armene. Il padre, Marinos Mamikonian, era un ufficiale dell'esercito bizantino che aveva sposato Teociste detta Florina. Oltre a Teodora dal matrimonio nacquero altri cinque figli, due maschi (Barda e Petronas) e tre femmine (Calomaria, Sofia ed Irene).
Nell'829, alla morte del padre Michele II, Teofilo salì al trono appena sedicenne e ancora celibe. La matrigna Eufrosine si preoccupò di trovargli moglie organizzando una gara di bellezza in cui Teodora venne prescelta dall'imperatore. Le nozze furono celebrate in Santa Sofia il 5 giugno dell'830.
Teodora diede a Teofilo ben sette figli:
1. Costantino, compare come coimperatore su alcune monete emesse tra l'833 e l'835 quando probabilmente morì.
2. Tecla, condivise formalmente con la madre la reggenza. Fu rinchiusa nel monastero di Karianos e tonsurata subito dopo l'assassinio di Teoctisto (28 novembre 855).
3. Anna.
4. Anastasia.
5. Pulcheria.
Anna, Anastasia e Pulcheria furono rinchiuse e tonsurate nel monastero di Gastria assieme alla madre nell'856.
6. Maria, che morì a soli 4 anni.
7. Michele, che succederà al padre con il nome di Michele III nell'842, alla morte di questi e all'età di soli tre anni.

Segretamente devota al culto delle immagini, l'imperatrice cercò di usare la sua influenza sul marito, che perseguiva una politica rigorosamente iconoclasta (cfr scheda L'Iconoclastia), in favore degli amici e nel tentativo di mitigare la repressione degli iconoduli.

Alla morte di Teofilo (20 gennaio 842), Teodora assunse la reggenza (formalmente assieme alla figlia maggiore Tecla) per il piccolo Michele III.

Solido aureo coniato durante la Reggenza
al dritto il busto di Teodora, sul rovescio quelli di Michele III e Tecla

L'imperatrice mantenne l'incarico di logoteta del dromo all'eunuco Teoctisto, che già lo aveva ricoperto sotto Michele II e Teofilo e che divenne rapidamente l'uomo forte del consiglio di Reggenza (1), mentre rimosse dal seggio patriarcale Giovanni VII Grammatico, che era stato precettore di Teofilo e ne aveva ispirato la politica iconoclasta, sostituendolo con l'iconodulo Metodio (4 marzo 843).

Teodora, Michele III e Teoctisto (in piedi con il copricapo bianco)
da un'edizione miniata prodotta in Sicilia nel XII secolo della Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze (Madrid Skylitzes)
Biblioteca Nacional de Espana, Madrid
 

Il nuovo patriarca convocò quindi un sinodo che condannò l'iconoclastia e ripristinò il culto delle immagini (2). La restaurazione del culto delle immagini fu sancita da una solenne cerimonia che si tenne in Santa Sofia l'11 marzo, prima domenica di Quaresima. In ricordo di ciò la chiesa ortodossa celebra tutt'oggi nella prima domenica di Quaresima la Festa dell'Ortodossia.

Solido aureo coniato durante la Reggenza
a significare la restaurazione del culto delle immagini, viene reintrodotta nella monetazione l'immagine del Cristo, assente per tutto il periodo iconoclasta

Ripristinata l'ortodossia la Reggenza condusse la repressione degli iconoclasti in maniera piuttosto blanda – tanto da entrare in conflitto con i monaci di Studion che avrebbero voluto una mano più pesante – mentre durissima fu la lotta all'eresia pauliciana che aveva prosperato sotto gli imperatori iconoclasti, in particolare sotto Costantino V (741-775).
La reggenza emise un decreto che rese obbligatoria per i pauliciani l'apostasia e la conversione all'ortodossia costantinopolitana, in caso di rifiuto era prevista la pena di morte. Fu inviato un esercito in Asia Minore che attaccò le roccaforti dei pauliciani che furono uccisi in gran numero (alcuni storici parlano di circa 100.000 morti), quelli che accettarono di abiurare furono deportati in Tracia mente altri si decisero a passare il confine mettendosi sotto la protezione dell'emiro di Melitene per il quale avrebbero da questo momento combattuto (3).

Il massacro dei Pauliciani
da un'edizione miniata prodotta in Sicilia nel XII secolo della Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze (Madrid Skylitzes)
Biblioteca Nacional de Espana, Madrid
 

Verso la metà degli anni '50, l'approssimarsi di Michele III alla maggiore età determinò un indebolimento della reggenza. Teodora cercò di ribadire la propria autorità indicendo un concorso di bellezza e costringendo il figlio – che aveva invece come amante Eudocia Ingerina – a sposarne la vincitrice, Eudocia Decapolitissa.
Il forzato matrimonio produsse però nel giovane imperatore solo un forte risentimento, fomentato ad arte dal fratello dell'imperatrice Barda che Teoctisto aveva estromesso dalla gestione del potere. Barda e i suoi vennero riammessi a corte e il 28 novembre 855 Teoctisto venne assassinato nella skyla, una sorta di anticamera che portava dal palazzo imperiale al kathisma.
Michele III dovette però attendere fino al marzo dell'856 per veder confermata dal Senato la sua intronizzazione. L'imperatore rimase comunque restio ad esercitare il potere direttamente, delegandolo di fatto a Barda che fu successivamente investito delle cariche di magistros, domestico delle Scholae, kuropalates e infine di cesare (862).
Nell'856 il cesare Barda scampò miracolosamente ad un attentato di cui accusò Teodora di esserne la mandante. In conseguenza di ciò l'imperatrice madre fu tonsurata e rinchiusa nel monastero di Gastria assieme alle figlie.

Teodora morì poco dopo l'assassinio di Michele III (25 settembre 867) e fu sepolta nel monastero di Gastria. Per i suoi meriti nella lotta contro le eresie fu canonizzata poco dopo la sua morte.
Dal monastero di Gastria, secondo il Sinassario, i suoi resti furono prelevati dai Veneziani il 14 maggio del 1489 e trasportati a Paramythia in Epiro dove rimasero fino al 1496 quando furono portate a Corfù dal prete Gregorio Kalohairetis. Dal 1841 sono conservati nella ricostruita chiesa cattedrale di Corfù della Vergine Speliotissa.

Note:

(1) A questo consiglio, oltre a Teoctisto, parteciparono inizialmente anche lo zio dell'imperatrice, Sergio Niceziate e i fratelli Barda e Petronas. Verso la fine dell'843, con un colpo di mano, Teoctisto convinse l'imperatrice ad estromettere dal consiglio i suoi parenti, esercitando da questo momento il potere de facto.

(2) Come unica condizione per il ripristino del culto delle immagini, Teodora chiese ed ottenne dal patriarca Metodio l'assoluzione del defunto marito. Venne quindi divulgata la pia menzogna di un pentimento di Teofilo in punto di morte ed il suo nome sfuggì alla condanna che invece toccò agli altri imperatori iconoclasti.

(3) L'emiro assegnò ai pauliciani alcune aree di confine dove questi poterono insediare una sorta di stato pauliciano autonomo che aveva i suoi punti di forza nelle roccaforti di Tephrike (l'attuale Divrigi in Turchia), sulla riva meridionale del fiume Çaltısuyu, un affluente dell'Eufrate occidentale e Argaun.


domenica 4 marzo 2018

Le terme di Cellomaio e la chiesa di San Pietro apostolo, Albano

Le terme di Caracalla

Vennero fatte costruire sul lato occidentale dei castra albana da Caracalla (211-217), forse per ingraziarsi i legionari della II Parthica in subbuglio dopo l'assassinio del fratello e coimperatore Geta (dicembre 211). Sono note anche con il nome di terme di Cellomaio, probabile corruzione della locuzione Cella maior con cui venivano indicate per distinguerle da quelle più piccole, costruite all'interno dei castra.

 
L’impianto termale appare realizzato in opera cementizia a scaglie di peperino, ricoperta da una cortina laterizia di colore rossastro, e presenta una pianta quadrangolare, ai cui spigoli si ergono torri-contrafforti. L'alzato era articolato su tre piani, il primo con funzione di sostegno alla struttura era utilizzato come ambiente di servizio; mentre gli altri due, costituiti da stanze ampie ed ariose e da finestroni sormontati da arcate, erano decorati da mosaici ed adibiti alle attività delle terme, quali il frigidarium, il calidarium, la palestra ed altri servizi.

Inserti murari in opera saracinesca realizzati in epoca medioevale
 
L'unico ambiente rimasto integro è un'aula di 37 metri per 12 occupata fin dall'alto Medioevo dalla chiesa di San Pietro fondata durante il pontificato di Ormisda (514-523). Le rovine dell'imponente complesso termale costituirono quindi la base di un perimetro difensivo al cui interno si sviluppò il nuovo centro abitato, il castellum albanense di epoca medioevale.
 
Chiesa di San Pietro apostolo

La chiesa fu fondata molto probabilmente da papa Ormisda (514-523), o comunque sotto il suo pontificato, sfruttando – come già detto - un'aula del preesistente complesso termale. Sul lato verso Cellomaio sono ancora visibili i resti di due volte a botte che univano l'aula al complesso termale.
Nel X secolo prese il sopravvento, nel governo della Chiesa, la famiglia dei Conti di Tuscolo che succedono ai Crescenzi, ed iniziano una lunga dittatura della città di Roma e della Sede Pontificia, attraverso il cosiddetto “papato di famiglia”. Questa famiglia, originaria dei Colli Albani, estese il suo potere anche ad Albano e prese possesso anche della chiesa di San Pietro Apostolo, che passò direttamente alla sua dipendenza. L’ufficiatura venne affidata ai monaci benedettini.
 
Lato verso la via Appia
 
Nel sec. XII la chiesa subì un radicale restauro: lungo i muri perimetrali furono aperte due strette finestre con arco tondo ad oriente e cinque ad occidente. Lavori che furono rinvenuti in occasione dei restauri del 1931. In quello stesso anno i restauri scoprirono le fondazioni dell’abside, sotto i gradini dell’attuale ingresso principale, e sul muro ora di facciata si rinvennero internamente l’arcone a laterizi della stessa abside, ben riconoscibile anche all’esterno, insieme ad alcuni resti di pitture decorative risalenti al XII secolo.
Lato verso Cellomaio, su cui si nota l'impronta della volta a botte che collegava l'aula al complesso termale, e ingresso attuale della chiesa.
 
Il fronte della Chiesa “medioevale”, che si trova nell’opposta parete corta, ove è ora appoggiato l’altare maggiore, presentava esternamente, anche prima del restauro, un parametro di bolognini intercalati con filari di laterizi. Appariva coronata da un timpano con cornice a mensole di marmo e denti di sega in cotto, anch'esse scoperte nel 1931.
 
L'ingresso della chiesa mediovale
 
Nel 1440 i principi Antonio e Francesco Savelli, signori di Albano (1), acquistarono dai monaci benedettini la chiesa – di cui mantennero il patronato fino al 1697 - con l'intento di farne la chiesa palatina del vicino palazzo baronale (2). Alla fine si riservarono però soltanto la cappella dei Santi Rocco e Sebastiano dove vennero tumulati Antonello Savelli (1517) e la figlia Ersilia (1544) (3).
 
Tombe di Antonello ed Ersilia Savelli
 
Campanile:
eretto nel XII secolo e di stile romanico, presenta una pianta quadrata ed è articolato in quattro piani. Nei primi due piani si aprono finestre binate monofore ad arco tutto sesto, mentre quelle che si trovano negli altri piani sono bifore, divise invece che da colonnine, da un piedritto quadrangolare di marmo.
 
 
Le facciate del campanile appaiono inoltre riccamente decorate da inserti ceramoplastici e di marmi policromi. In corrispondenza del secondo piano del lato prospiciente la via Appia si nota inoltre la presenza di un'edicola formata da due colonnine che sostengono arco a tutto sesto, che un tempo racchiudeva i resti pittorici (oggi completamente scomparsi) di una Vergine dalle forme bizantine.
Interno:
sotto il muro in cornu evangelii si trova un affresco detto Il Santaro, risalente al XIV secolo, diviso in due zone da una fascia ondulata a fondo rosso cupo. Nella parte superiore è dipinto Sant' Onofrio anacoreta, coperto da lunghi capelli stilizzati a cordelle e una santa indicata dalla didascalia ancora leggibile come Margherita, con il fuso nella mano destra e la rocca stretta al petto dalla sinistra; la figura è parzialmente inserita in un fondo con una sgargiante cornice a disegni geometrici. In basso a destra notiamo tre cagnolini bianchi sovrapposti, che corrono verso la santa (4). La ieraticità delle figure, l’assenza di naturalismo e gli squillanti accordi cromatici dell’insieme, permettono di confrontare questa parte superiore con gli affreschi più antichi dell'Abbazia di San Nilo a Grottaferrata (1272 c.ca).
 
Santa Margherita
 
Ben diverso l’artista che dipinse la fascia inferiore ove, a fianco del Cristo Flagellato e grondante di sangue per le ferite prodotte dai flagelli dei due fustigatori laterali e rappresentati in proporzioni ridotte, compaiono la Vergine dal dolcissimo volto, con le mani protese verso il Figlio quasi voglia presentarlo ai fedeli, e Maria Maddalena in profondo dolore. La gamma cromatica, la pennellata pastosa e volumetrica rimandano in questo caso ad un artista di ambito tutto italiano a cui non è estranea la lezione del Cavallini (1240-1330).
 
La Flagellazione
 
Da notare inoltre, sulla parete destra dell'attuale controfacciata, una piccola nicchia decorata da un affresco, dove è riprodotta l’immagine della Vergine orante con in petto il medaglione recante l’effigie del Bambino. L’impianto stilistico e iconografico è tipicamente bizantineggiante. Si tratta del tipo iconografico della Vergine blacherinitissa, la Vergine del Segno: Colei che, secondo la profezia di Isaia, presenta al mondo l’avvento dell’era della salvezza nell’Incarnazione del Verbo (Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele, Isaia, VII,14). Portatrice privilegiata, anzi protagonista di questo “segno”, la Vergine orante è al tempo stesso colei che intercede per gli uomini e trasmette la grazia divina.
L’immagine, nonostante sia abbastanza rovinata, lascia intravedere una figura viva della Madonna che è assisa in trono e presenta, appunto, il medaglione con l’immagine di Gesù giovinetto benedicente.
 
 
Note:
 
(1) I Savelli furono infeudati ad Albano sotto il pontificato di Onorio III (1216-1227), al secolo Cencio Savelli.

(2) Il palazzo comunicava con la chiesa per mezzo di un arco che scavalcava la via Appia e che originariamente sosteneva il condotto che conduceva l'acqua al complesso termale dalle cisterne poste sotto palazzo Savelli. Questo arco fu demolito soltanto nel 1828.

(3) Nel 1946 per isolare il campanile fu deciso l’abbattimento della cappella e le tombe principesche, con i relativi epitaffi, vennero trasportati nel vano della Chiesa: oggi sono visibili accanto all'entrata laterale della chiesa.

(4) La leggenda vuole che Santa Margherita da Cortona, vissuta nel XIII secolo, venisse guidata da un cane alla scoperta del cadavere del compagno che era stato assassinato durante una partita di caccia. Morta nel 1297 ed onorata sin da subito come beata, santa Margherita da Cortona fu tuttavia canonizzata soltanto nel 1728. La santa raffigurata nell'affresco dovrebbe quindi essere molto più probabilmente Santa Margherita di Antiochia a cui l'anonimo frescante ha sovrapposto la leggenda legata invece alla omonima santa cortonese, non ancora venerata come tale all'epoca di esecuzione dell'affresco.
 


venerdì 2 marzo 2018

I castra albana, Albano

I castra albana, Albano

La datazione ad oggi considerata più corretta per i castra albana li fa risalire a Settimio Severo (193-211) che, non appena divenuto imperatore dopo una violenta guerra civile, pensò di sciogliere temporaneamente la guardia pretoriana e di acquartierare vicino a Roma per la sua sicurezza personale e politica la Legio II Parthica (vedi scheda), unità da egli stesso creata nel 197 per la campagna contro i Parti del 195-198.
I castra si presentano come un grande rettangolo fortificato, dotato di quattro porte (praetoria, decumana, principalis sinixtra e principalis dextra), con gli angolo arrotondati e rinforzati da torrette circolari.
Il perimetro della cerchia muraria è di 1334 metri: il lato nord-ovest misura 434 metri, mentre il parallelo lato sud-est misura 437 metri, ed i lati corti misurano 224 metri quello a nord-est e 239 quello a sud-ovest. L'area complessiva si aggira di conseguenza sui 95.000 metri quadrati e si sviluppa su un terreno in forte pendenza (circa 40 metri di dislivello).


Lato NE: il tratto del muro romano meglio conservato – lungo circa 50 m. - è quello che attualmente funge da divisione tra le proprietà del seminario vescovile e dei Missionari del Preziosissimo Sangue che reggono la chiesa di San Paolo.
 
 
Appare particolarmente robusto perchè doveva contenere la spinta del terrapieno esterno. Non c'è traccia invece della Porta decumana che doveva aprirsi a metà di questo tratto.
Proseguendo verso sud, all'angolo con via Castro Partico, si nota l'angolo arrotondato del muro romano, ancora visibile, che non presenta segni della presenza di una torretta circolare, ma solo di una disposizione dei blocchi di peperino più accurata.

Lato SE: scendendo lungo la via Castro Partico, ad una sessantina di metri dall'angolo arrotondato, il muro ingloba una torretta di guardia rettangolare adibita attualmente ad uso colonico. Sporge di circa 40 cm. all'esterno del muro ed è alta 8 m. ma, non essendovi traccia di cresta o di una finestra si può supporre che in origine fosse più alta.

 
Circa duecento metri più a valle si trovano i resti della porta principalis sinixtra, l'unica delle due portae principales di cui ad oggi siano visibili resti.
 
Porta principalis sinixtra
 
Consta di un unico fornice dove i conci si riuniscono ad incastro con i blocchi orizzontali del muro: è larga 3.85 metri e non si trovano tracce di torrette di guardia ai suoi lati. A valle della porta non è più possibile riconoscere alcuna traccia del muro.

Lato SO: i resti più evidenti sono quelli relativi alla Porta Praetoria. Situata al centro del muro, la porta era inglobata in un edificio moderno fino a che il devastante bombardamento aereo anglo-americano del febbraio 1944 non permise la "liberazione" del monumento romano.
 
Porta Praetoria, lato esterno

La porta consta di tre fornici e due ambienti laterali a base quadrata, supposti essere altrettante torri di guardia.

Porta Praetoria, lato interno (fornice e torre di guardia di sinistra)
 
La Porta praetoria affacciava sulla via Appia, il cui tracciato correva sotto l'attuale corso Matteotti.
 
Porta Praetoria, planimetria attuale

Da via San Pancrazio si accede ai resti dell'unica torretta di guardia circolare ben conservata, situata 3.40 metri sotto l'attuale piano di calpestìo di via Alcide de Gasperi. In realtà l'edificio si presenta di problematica decifrazione: la volta dell'unica stanza è situata solo 1.60 metri sopra il piano dell'intervallum (la strada che girava attorno alle mura dall'interno), ed anche ammettendo che esistesse un secondo piano, la torre non avrebbe raggiunto un'altezza plausibile per essere una torre di guardia. La conclusione è pertanto che questa sia una costruzione speciale, simmetrica forse solo alla torre dell'angolo sud-est oggi perduta.

Lato NO: la maggior parte del muro di questo lato dopo la summenzionata torretta circolare è interrata sotto alla case moderne: si può intuire il sito della porta principalis dextra, situato in un cortile interno su via don Giovanni Minzoni.

I castra albana rimasero in uso come quartier generale della Legio II Parthica fino al suo scioglimento da parte di Costantino il grande dopo la battaglia di Ponte Milvio (ottobre 312).
Durante la guerra greco-gotica Albano viene indicata da Procopio (De bello gothico, I, 14; II, 4 e 7) come uno dei presidi della cerchia posta da Belisario a difesa di Roma nonchè al controllo della via Appia che costituiva la principale arteria di comunicazione con l'Italia meridionale. E' presumibile che a quest'epoca la popolazione risiedesse ancora all'interno dei castra mentre molti indizi suggeriscono che in epoca altomedievale questa si sia trasferita sul lato opposto della via Appia, abbandonando i castra e sfruttando le rovine delle terme di Cellomaio per costituire una nuova cinta difensiva.