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sabato 26 ottobre 2024

La chiesa di "Santa Passera", Roma

La chiesa di “Santa Passera”, Roma


La chiesa, di cui si ha notizia già nell'VIII secolo, deriva dalla trasformazione di un sepolcro a tempietto di epoca romana (II-III secolo) che si può ancora intuire negli ampi lacerti di muro in laterizi ancora visibili e nelle due finestrelle decorate con cornici fittili ai lati della porta d'ingresso. Ampliato nel XIII secolo con l'aggiunta di un timpano e l'inserimento di una finestra chiusa da una grata di marmo traforato al di sopra della porta d'ingresso, nella facciata anteriore, e di un abside semicircolare al cui centro si apriva una bifora in quella posteriore,  l'edificio appare oggi caratterizzato da tre unità architettoniche sovrapposte:



1. La chiesa superiore (C nella pianta), a navata unica e pianta quadrangolare che, nella sua forma attuale, risale al XIII secolo;
2. La chiesa inferiore (B), già trasformata in oratorio nel V secolo;
3. La cripta ipogea.

In basso, lungo il lato settentrionale si notano ancora, inoltre, i resti delle arcate del portico - successivamente tamponate per creare la sagrestia- che era stato addossato alla chiesa.


Purtroppo la decorazione parietale, presente in tutti e tre i livelli, è molto malridotta a causa dell'incuria e delle piene del fiume che, nel corso dei secoli, l'hanno gravemente danneggiata.
La chiesa affaccia infatti sul Tevere e ha, come detto, una facciata in laterizi sopravanzata da una piccola terrazza rettangolare a cui si accede per mezzo di una doppia rampa di scale simmetriche.


Nella chiesa superiore, nel catino absidale, è raffigurato il Cristo benedicente contornato dai santi Paolo, Pietro, Giovanni Evangelista e Giovanni Battista;


nel registro inferiore abbiamo invece a destra un affresco con Cristo tra i santi Ciro e Giovanni ed a sinistra un pannello con la Vergine ed il Bambino affiancati dall'Arcangelo Michele da un lato, e dall'altro da San Giacomo (identificato dalla conchiglia) e San Francesco che pongono la mano in segno di protezione sulla testa di due figure più piccole inginocchiate che raffigurano i patroni della chiesa.
È stato ipotizzato che nella figura femminile ai piedi del poverello di Assisi si possa identificare Jacopa de Settesoli, vedova di Graziano Frangipane, che, nel 1213 ospitò proprio San Francesco all’interno della Torre della Moletta al Circo Massimo e nella figura maschile, il figlio Giacomo, protetto appunto dall’omonimo santo. Probabilmente la chiesa doveva un tempo essere connessa alle proprietà dei Frangipane e la nobildonna volle farsi effigiare assieme al figlio sotto la protezione dei santi a cui erano fortemente devoti.

    Santa Pudenziana

L'arco trionfale presenta al centro l'agnus dei affiancato da ciò che resta dei simboli dei quattro evangelisti mentre nei piedritti – in delle false nicchie – sono raffigurate le sante Prassede e Pudenziana.
Nella parete sinistra sono infine visibili due pannelli: uno raffigura una teoria di santi orientali e l'altro figure devozionali.


La "chiesa inferiore", cui si accede da una porta esterna oggi sotto elevata rispetto al terreno, sorge su un oratorio fatto realizzare dalla matrona Teodora nel V secolo, è costituita da un'aula quadrangolare (i cui affreschi rappresentano tre vescovi, i cui nomi sono evocati da un'epigrafe). La porta esterna introduce ad un vano che fu costruito davanti alla chiesa per arginare le piene del fiume.
Sull'architrave della porta (subito dietro la porta di ferro che oggi chiude la chiesa inferiore) è ancora leggibile l'iscrizione:

«CORPORA SANCTI CYRI RENITENT HIC ATQVEE IOANNIS QVOÆ QUONDAM ROMÆ DEDIT ALEXANDRIA MAGNA. »
(Qui risplendono i santi corpi di Ciro e Giovanni che un giorno la grande Alessandria dette a Roma)

Da una stanzetta rettangolare più piccola si accede alla "cripta ipogea" tramite una stretta scala.

Il caratteristico nome di "Santa Passera" preso nel corso del tempo dalla chiesa, originariamente dedicata ai santi Ciro e Giovanni, due martiri uccisi in Egitto durante la persecuzione di Diocleziano, sembra derivare dalla storpiatura dalle parole "Abba Cyrus" (Padre Ciro), deformate poi in "Abbacìro" - "Appacìro" - "Appacèro" - "Pacèro" - "Pàcera" - "Passera".
La tradizione vuole infatti che i corpi dei due martiri(un medico di Alessandria ed un soldato, suo discepolo) siano stati sepolti nella la cripta ipogea dopo essere stati decapitati in Egitto nel 303. In particolare i due corpi sembra fossero stati fatti traslare da San Cirillo, Patriarca di Alessandria, in un primo tempo a Menouthis, dove sorse un importante santuario loro dedicato; in seguito, nel 407, due monaci (Grimoaldo e Arnolfo), spinti da un sogno premonitore, per paura di un'imminente invasione araba trasportarono i due corpi a Roma e, sotto indicazione di una ricca vedova, Teodora, li seppellirono in un fondo di suo possesso, lungo le rive del Tevere, fondo in cui aveva fatto edificare un piccolo oratorio dedicato a Santa Prassede.

                             Facciata posteriore della chiesa con l'abside aggettante
                                          

Una stretta scalinata conduce dalla chiesa inferiore alla cripta ipogea dove, su un fondo d'intonaco chiaro delimitato da fascioni, si intravedono partiture semicircolari e quadranti rossi, con soggetti di repertorio funerario riferibili al III secolo. Nella parete settentrionale sono rappresentati una figura femminile – probabilmente la dea della Giustizia (Dike) – che tiene in mano una stadera, un uccello e un pugile. La volta presenta grandi stelle a 6 e 8 punte e motivi decorativi. Sulla controparete alla fine XIII sec. fu dipinta una Vergine con Bambino, poi rubata nel 1968.

L'ipogeo, interrato dopo il 1706, è stato riscoperto solo nel 1904.



venerdì 3 maggio 2024

L'avorio di Romano

 L'avorio di Romano

L'avorio detto di Romano, cm. 24x15
X secolo
Cabinet des Medailles, BNF, Parigi

Questa placca d'avorio ornava la legatura di un evangeliario dell'XI secolo conservato nella cattedrale di Besancon. Nel 1805 fu acquistata per il Cabinet des Medailles dell'allora Biblioteca imperiale dal barone de Roujoux. Originariamente il cosiddetto Avorio di Romano non fu creato per
ornare una rilegatura, poiché la sua forma rimanda a quella della parte centrale di un trittico, tuttavia nessuna traccia di cerniera o di un sistema che permetta di fissare delle ante è individuabile sulla sua superficieAl centro è raffigurato il Cristo su un piedistallo finemente intarsiato mentre incorona una coppia imperiale. L'imperatore indossa lo scaramargion – la lunga tunica decorata con cerchi e perle – e sopra questa il loros decorato da un motivo a quadri bordati di perle. Sulla fodera dello strascico del loros che ricade dal braccio sinistro dell'imperatore s'intravede ricamata una croce. La corona dell'imperatore è sormontata da una croce e provvista di perpendulia. L'imperatrice anzichè il loros indossa sopra la tunica una clamide decorata a motivi circolari e orlata da un filo di perle e fermata sulla spalla destra. Il mantello è impreziosito sul petto dal tablion con riquadri e foglie d’edera.

Nonostante il fatto che le didascalie identifichino la coppia come Romano ed Eudocia, due diverse ipotesi sono state avanzate per l'identificazione della coppia imperiale incoronata da Cristo.
La prima è che si tratti di Romano II e Berta, figlia naturale di Ugo di Provenza, conte di Arles e re d'Italia, che quando sposò l'imperatore Romano II nel 944 assunse il nome di Eudocia. Romano II fu incoronato coimperatore il 6 aprile 945 mentre la moglie Berta (Eudocia) morì nel 949. Se dovesse trattarsi di questa coppia, la placca sarebbe stata realizzata a Costantinopoli entro questo intervallo di tempo.
La seconda ipotesi identifica la coppia con Romano IV Diogene e Eudocia Macrebolitissa. Il matrimonio tra Romano IV e la vedova di Costantino X fu celebrato nel 1068 mentre Romano IV morì nel 1071.

domenica 24 marzo 2024

Il ritorno a Gerusalemme della vera croce di Miguel Ximenez e Martin Bernat

 Il ritorno a Gerusalemme della vera croce di Miguel Ximenez e Martin Bernat

Eraclio riporta a Gerusalemme la vera croce
olio su tavola, cm.195x115, 1481-1487
Museo di Saragozza, Spagna

Nel 614 i Persiani conquistarono Gerusalemme e la vera croce su cui il Cristo era stato crocefisso, ritrovata da Sant'Elena circa trecento anni prima e custodita nella basilica del Santo Sepolcro, fu trasportata in Persia dal re Cosroe II come bottino di guerra.
Il 12 dicembre 627 l'imperatore Eraclio I(610-641) sconfisse l'esercito di Cosroe nella decisiva battaglia di Ninive. Cosroe venne deposto e ucciso ed il suo successore, Kavadh II, accettò nel 628 la pace proposta da Eraclio e si ritirò dai territori occupati dai Sasanidi nel corso della guerra, restituendo la reliquia della vera croce. Lo stesso anno Eraclio riportò la reliquia nella basilica gerosolimitana da cui era stata predata.
La pala d'altare dipinta tra il 1481 ed il 1487 da Miguel Ximenez e Martin Bernat per la chiesa della Santa Croce del paesino di Blesa – oggi conservata nel Museo di Saragozza – illustra l'episodio del ritorno della vera croce (restitutio Sanctae Crucis) come narrato nella Legenda Aurea.
Eraclio voleva ricondurre la croce in città in pompa magna, passando attraverso la Porta d'oro, la stessa da cui era entrato il Cristo la domenica delle Palme. Quando però il corteo giunse di fronte alla porta le sue pietre crollarono e formarono un muro invalicabile. Un angelo apparve al di sopra della porta e disse: Quando il re dei Cieli passò attraverso questa porta, non lo fece in pompa magna ma a dorso di un misero asino per lasciare ai suoi discepoli un esempio di umiltà.

Udite queste parole, Eraclio scese da cavallo e, spogliatosi dei simboli della dignità imperiale, prese la croce in spalla e si avviò verso la porta. Immediatamente le pietre tornarono nella posizione originaria, liberando il passo all'imperatore.
Nel dipinto accanto ad Eraclio cavalca l'imperatrice Sant'Elena – che tra le mani giunte tiene due chiodi della crocefissione - colei che per prima ritrovò la vera croce ma che, ovviamente, storicamente non potè presenziare fisicamente all'evento della restitutio.

sabato 9 marzo 2024

Niceforo II Foca (963-969)

 Niceforo II Foca (963-969)

Nato intorno al 912 in una famiglia di antiche tradizioni militari – sia il padre Barda, sia il nonno Niceforo raggiunsero il grado di Domestikos delle Scholae - fu avviato giovanissimo alla carriera militare. Nel 945, durante il regno di Costantino VII, diviene strategos del thema degli Anatolici, carica che di solito preludeva alla nomina a comandante in capo dell'esercito. Nel 954, infatti, subentra al padre Barda – che era stato ripetutamente sconfitto dagli arabi - al comando dell'esercito di Bisanzio e passa all'offensiva contro gli arabi dell'emirato di Aleppo.


Niceforo II Foca
katholikon del Monastero della Gran Lavra, 1535, 
Monte Athos

Nel 959 l'imperatore Romano II sdoppia il comando supremo militare affiancando a Niceforo il giovane fratello Leone Foca come Domestikos delle Scholae occidentali.

L'anno successivo gli viene affidato il comando della spedizione contro l'emirato di Creta.
Il 6 marzo 961, dopo nove mesi di assedio entra a Candia (l'attuale Iraklion) e poco dopo, riportata l'intera isola sotto controllo imperiale, rientra a Costantinopoli dove gli viene tributato non il trionfo ma un'ovazione nell'Ippodromo.

Niceforo II Foca
da Codex Mutinensis, Gr.122, fol.209, 1425 c.ca
Biblioteca Estense, Modena

Niceforo si spostò quindi sul fronte orientale e nel dicembre 962 prese e mise a sacco Aleppo infliggendo un duro colpo al prestigio dell'emiro hamanide.
Molto popolare tra i suoi soldati e temuto dai nemici – era soprannominato la morte bianca dei Saraceni - il 15 marzo del 963, fu raggiunto dalla notizia dell'improvvisa morta di Romano II mentre si trovava nella roccaforte dei Foca a Cesarea di Cappadocia, fu raggiunto dalla notizia dell'improvvisa morta di Romano II. Mentre a Costantinopoli la vedova di Romano, Teofano, assumeva la reggenza per i suoi figli Basilio II e Costantino VIII, Niceforo fu proclamato imperatore dalle truppe. Il 14 agosto, il generale entrò in città e, grazie anche all'appoggio del patriarca Polieucte e di Basilio Lecapeno (1), sbaragliò la resistenza opposta dal parakoimomenos Giuseppe Bringas e due giorni dopo fu incoronato in Santa Sofia.
Basilio Lecapeno riottenne la carica di parakoimomenos che già aveva ricoperto sotto Costantino VII e fu insignito del titolo di proedros, dignità assimilabile a quella di presidente del Senato, ma di fatto puramente rappresentativa. Il fratello Leone Foca mantiene il comando delle Scholae occidentali mentre al comando di quelle orientali, Niceforo promuove uno dei suoi più fidati luogotenenti, lo stratego del thema degli Anatolici, Giovanni Zimisce. Il 20 dicembre, infine, in cambio della promessa di garantire la successione ai suoi figli, sposa nella Nea Ekklesia la vedova di Romano II, Teofano, legittimando ulteriormente la sua posizione.

Oltre ad essere un grande soldato, Niceforo era un asceta – da giovane voleva farsi monaco e dormiva in terra – e un fanatico religioso (chiese alle autorità religiose, senza ottenerlo, che tutti i suoi soldati morti combattendo contro i musulmani fossero proclamati martiri della fede) che sognava la riconquista delle perdute provincie dell'Asia minore. Zimisce fu inviato sul fronte orientale con l'incarico di prendere Adana che cadde e fu rasa al suolo prima della fine dell'anno. L'anno seguente Niceforo guidò la campagna in prima persona e prese Mopsuestia e Tarso completando la riconquista della Cilicia che era in mano agli Arabi dal VII secolo. Sempre nel 964, una spedizione guidata da uno dei suoi generali, Niceta Chalkoutzis, riportò anche l'isola di Cipro nell'orbita imperiale.

Dopo la conquista della Cilicia, l'imperatore, per ragioni non del tutto chiare, perse del tutto la fiducia in Giovanni Zimisce che rimosse da tutte le cariche e confinò nei suoi possedimenti lontano dalla capitale.

Nel 966 riprese l'offensiva in Asia minore. L'imperatore assediò senza successo Antiochia ma conquistò altre piazzeforti e impose a Tripoli e Damasco il pagamento di un tributo. Nel 968 assediò nuovamente Antiochia ma, giacchè i tempi dell'assedio si protraevano, rientrò a Costantinopoli lasciando a Michele Bourtzas e allo statopedarca Petrus (2) il compito di prendere la città per fame. Il 28 ottobre del 969 finalmente la città si arrese.

L'estensione dell'impero bizantino dopo le conquiste di Niceforo II e del suo successore Giovanni I Zimisce

Poche settimane dopo la caduta di Antiochia – nel dicembre del 969 – Niceforo venne assassinato nella sua camera da letto da una congiura guidata da Giovanni Zimisce ma a cui non furono estranei l'imperatrice Teofano e il parakoimomenos Basilio Lecapeno. Fu sepolto nella chiesa dei SS.Apostoli.

Oltre che per le conquiste territoriali Niceforo Foca è ricordato anche per le sue fondazioni ecclesiastiche. Tra queste anche quella della Gran Lavra, il più antico monastero athonita. Dopo la conquista di Creta, Niceforo destinò parte del bottino di guerra alla fondazione del monastero ad opera del monaco Atanasio – a cui in seguito fu dedicato il katholikon – di cui era stato allievo e che lo aveva accompagnato nell'impresa.


Note:

(1) Figlio illegittimo dell'imperatore Romano I Lecapeno e di una sua concubina (forse una schiava di origini bulgare), Basilio Lecapeno era nato tra il 910 e il 920 e fu probabilmente castrato per ragioni politiche già in età infantile. Legatissimo alla sorellastra Elena – moglie di Costantino VII – durante il colpo di stato dei suoi fratellastri (944) si schierò dalla parte del cognato ricevendone in cambio titoli e cariche, tra cui quella di megas baioulos, cioè responsabile dell’educazione dell’erede al trono (nella fattispecie, del giovane figlio di Costantino ed Elena, Romano). Nel 947 divenne parakoimomenos, che letteralmente indicava “l’incaricato di proteggere il sonno dell’imperatore”, ma che in realtà all'epoca, dato il rapporto di prossimità con l'imperatore che implicava, era assimilabile a quella di gran ciambellano. Sostituito nella carica con Giuseppe Bringas da Romano II, appoggiò il colpo di stato di Niceforo mettendogli a disposizione tremila uomini armati da lui assoldati.

(2) Petrus era un eunuco al servizio dei Foca che, adottato dal fratello dell'imperatore Leone Foca, intraprese la carriera militare. La carica di "Statopedarca" fu inventata ad hoc giacchè, in quanto eunuco, non poteva accedere a quella di Domestikos delle Scholae.


martedì 27 febbraio 2024

La chiesa di Niceforo a Cavusin, Cappadocia

La chiesa di Niceforo a Cavusin, Cappadocia

La cosiddetta chiesa di Niceforo (1) è una chiesa rupestre che si trova nel villaggio di Cavusin, a pochi chilometri da Goreme, in Cappadocia. Fu costruita e decorata durante il regno di Niceforo II Foca, probabilmente nel 963-964, per volontà di donatori locali che intendevano celebrare l'imperatore originario di queste terre. Non è nota la dedicazione originaria della chiesa ma potrebbe essere stata dedicata ai Tassiarchi, che ricorrono a più riprese nelle decorazioni parietali. Presenta una pianta trapezoidale a navata unica, sopravanzata da un nartece la cui parte occidentale è completamente crollata lasciando a vista un affresco che raffigura appunto gli arcangeli Michele e Gabriele.


All'interno, nell'absidiola di sinistra è ritratta la famiglia imperiale con al centro Niceforo II e, alla sua destra la moglie Teofano con un'altra figura femminile (forse la moglie del fratello dell'imperatore, Leone) mentre alla sinistra dell'imperatore si dispongono il padre Barda e il fratello Leone

Nel riquadro soprastante l'absidiola è raffigurato un episodio veterotestamentario poco consueto: l'apparizione dell'arcangelo Michele a Giosuè sotto le mura di Gerico (2), a simboleggiare che il mandato divino concesso a Giosuè è adesso rinnovato all'imperatore che conduce i suoi eserciti alla riconquista della Terrasanta. Il condottiero israelita è raffigurato due volte, una in piedi e l'altra nel momento in cui s'inginocchia.

Giosuè s'inginocchia davanti all'arcangelo Michele

Sulla parete opposta, nella fascia inferiore, sono raffigurati i Quaranta Martiri di Sebaste, che erano molto popolari tra i soldati dei thema di Anatolia e Cappadocia. 


Il corteo è preceduto da due cavalieri, in cui Jerphanion identifica i due donatori. 


Giovanni Zimisce (?) e il magister Melias cavalcano alla testa dei Quaranta Martiri di Sebaste

Entrambi i cavalieri indossano il klibanion (la corazza a lamelle di cuoio) e sotto una cotta di maglia (lorikion) mentre impugnano una lancia lunga secondo l'uso della cavalleria pesante (catafratti) dell'esercito bizantino. Il secondo è identificato dall'iscrizione come Magister Melias (magister era un grado dell'esercito bizantino) (3). Per il primo, nel cui caso l'iscrizione è ormai illeggibile, avanza l'ipotesi che possa invece trattarsi di Giovanni Zimisce, che all'epoca era ancora il fidato braccio destro dell'imperatore. Jerphanion ipotizza inoltre che l'affresco possa essere stato commissionato per celebrare la nomina di Zimisce a Domestikos delle Scholae orientali. La raffigurazione del loro comandante alla testa dei Quaranta Martiri avrebbe avuto anche lo scopo di rafforzare nelle truppe il richiamo alla guerra santa contro i musulmani proclamata da Niceforo.


Note:

(1) La chiesa è nota anche come “chiesa colombaia”, giacchè a questo uso venne adibita in epoca ottomana.

(2) Mentre Giosuè era presso Gerico, alzò gli occhi ed ecco, vide un uomo in piedi davanti a sé che aveva in mano una spada sguainata. Giosuè si diresse verso di lui e gli chiese: «Tu sei per noi o per i nostri avversari?». Rispose: «No, io sono il capo dell'esercito del Signore. Giungo proprio ora». Allora Giosuè cadde con la faccia a terra, si prostrò e gli disse: «Che dice il mio signore al suo servo?». Rispose il capo dell'esercito del Signore a Giosuè: «Togliti i sandali dai tuoi piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo». Giosuè così fece. (Giosuè, V, 13-15)

(3) Secondo la tradizione Melias o Meliton sarebbe anche il nome del più giovane dei martiri di Sebastea nonché quello di un generale di origini armene dell'epoca di Niceforo e Zimisce, ma non sarebbe inusuale che un personaggio storico con lo stesso nome di un santo rappresenti allo stesso tempo se stesso e il santo di cui porta il nome.


Narrativa moderna e contemporanea

Sonia Aggio, Nella stanza dell'imperatore, Fazi, 2024
Il romanzo ripercorre le tappe della carriera di Giovanni Zimisce, brillante esponente dell'aristocrazia militare anatolica – era imparentato con le potenti famiglie dei Curcuas, dei Foca e degli Sclera - che culminò con la sua ascesa al trono imperiale. La spettacolare riconquista bizantina della Cilicia, della Siria occidentale e della Palestina settentrionale, intrapresa da Niceforo II Foca e dallo stesso Zimisce – che, nella seconda metà del X secolo, condusse le armi di Bisanzio in vista di Gerusalemme - è narrata con accuratezza storica, così come gli intrighi di corte che favorirono l'ascesa al trono dei due imperatori soldato al di fuori della linea dinastica macedone. Scarso il ricorso a personaggi di fantasia mentre quelli storici sono tratteggiati in maniera molto attendibile e convincente anche nei rapporti che intercorsero tra loro. Più fantasiose le descrizioni dei luoghi.




venerdì 17 novembre 2023

L'imperatore Alessandro (912-913)

L'imperatore Alessandro (912-913)

Eudocia Ingerina con i figli Leone (a sn.) e Alessandro (a ds.)
illustrazione tratta da Omelie di Gregorio Nazianzeno, 879-883
Par.gr. 510, fol.Br
Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi

Terzogenito di Basilio I e Eudocia Ingerina Alessandro era nato il 23 novembre dell'872 (1). Il padre lo associò al trono nell'879. Dopo la morte del padre fu tenuto ai margini del potere dal fratello Leone VI (886-912), che diffidò di lui per tutta la vita, condusse un'esistenza vacua dedita al piacere e all'alcool fin quando non rimase unico imperatore.
Le principali fonti primarie che narrano gli eventi succedutisi durante i suo breve regno sono essenzialmente la Cronaca del Logoteta, opera di uno storico e poeta bizantino vissuto nel X secolo e la Cronaca di Psamathia, un testo agiografico dedicato al patriarca Eutimio (907-912) – è noto infatti anche come Vita di Eutimio - scritto da un anonimo monaco del monastero di Psamathia – dove il patriarca era stato igumeno - tra il 920 ed il 925 e sono entrambe decisamente ostili all'imperatore.

L'attentato a Leone VI
da un'edizione miniata prodotta in Sicilia nel XII secolo della Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze 
(Madrid Skylitzes)
Biblioteca Nacional de Espana, Madrid

L'11 maggio del 903, Leone VI, mentre presenziava ad una funzione nella chiesa di San Mocio, fu gravemente ferito al capo da un uomo che brandiva un bastone. L'attentatore – un certo Stiliano - prima di essere messo al rogo nell'Ippodromo fu interrogato sotto tortura ma non rivelò il nome di eventuali complici. In città circolarono voci sul possibile coinvolgimento di Alessandro, il fratello minore dell'imperatore ma non si riuscì a provare nulla.
Sul letto di morte, notandolo tra gli astanti, Leone avrebbe pronunciato la frase: “Eccolo qua, tredici mesi di malora!”, profetizzando l'effettiva durata che avrebbe avuto il regno del fratello.
Come già detto, l'imperatore Leone VI, considerandolo comunque infido, ebbe sempre cura di tenere il fratello minore ben lontano dalla gestione della cosa pubblica, cosicchè Alessandro, rimasto imperatore unico alla morte del fratello (11 maggio 912) – nonché reggente per il nipote Costantino – si adoperò subito per estrometterne gli uomini che erano stati più vicini e devoti a Leone. L'anziano patriarca Eutimio – cha aveva favorito la dispensa che aveva permesso a Leone di contrarre il quarto matrimonio - fu umiliato con il taglio della barba, percosso e costretto all'esilio. Al suo posto, Alessandro richiamò Nicola Mystikos, che invece era stato defenestrato da Leone, con la cui compiacenza ripudiò la moglie legittima (non se ne conosce il nome) per sposare la su amante. Destituì quindi dalla carica di comandante della marina imperiale l'ammiraglio Imerio, marito della sorella di Zoe Carbonopsina, peraltro reduce da una rovinosa sconfitta nelle acque di Chio ad opera degli arabi. La stessa Carbonopsina, ultima moglie di Leone VI e madre dell'erede al trono, fu cacciata dal Sacro Palazzo. Per contro elevò al rango di rettore di Santa Sofia il suo compagno di partite a polo, Giovanni Lazares, che morì poco dopo durante una partita allo tzycanisterion della residenza imperiale di Hebdomon.
Minato nel fisico da una vita di eccessi, divenne anche impotente. Nel tentativo di risolvere il problema si rivolse a dei maghi che lo convinsero che la statua di un cinghiale che si trovava all'Ippodromo era il suo doppio e che le loro esistenze erano strettamente connesse l'una all'altra (con ciò sottintendendo che conduceva una vita da maiale) e che avrebbe dovuto provvedere la statua dei denti e del sesso che gli mancavano. Ciò fatto, l'imperatore indisse anche delle corse in onore della statua e prelevò dalle chiese candelabri ed altri arredi per decorare l'Ippodromo suscitando scandalo.

Per quanto attiene la politica estera, le fonti primarie imputano alla sua dissennatezza (2) la responsabilità di aver creato i presupposti per la ripresa del rovinoso conflitto con i bulgari. Alessandro si sarebbe rifiutato di pagare il tributo annuale concordato dal suo predecessore e avrebbe scacciato in malo modo l'ambasceria inviata da Simeone di Bulgaria. E' però probabile che Simeone non chiedesse soltanto il rispetto degli accordi presi ma pretendesse qualcosa di più – come il titolo di imperatore (tzar) dei Bulgari che gli verrà concesso in seguito – e che Alessandro non fu disposto a concedergli.

Sulle circostanze della sua morte esistono due versioni. Secondo la prima, riportata dalla cronaca di Simeone Logoteta (X sec.), Alessandro, dopo un lauto pranzo abbondantemente innaffiato di vino, nonostante il caldo, volle recarsi a giocare a polo nello tzycanisterion che si trovava all'interno del Sacro Palazzo e qui ebbe un colpo apoplettico a seguito del quale morì due giorni dopo, il 6 giugno 913. La Vita di Eutimio colloca invece la scena nel palco imperiale dell'Ippodromo dove l'imperatore, mentre commetteva gli atti sacrileghi sopra descritti, si sarebbe accasciato al suolo colpito dall'ira del Signore e condotto moribondo a Palazzo. Le sue esequie furono condotte in maniera sciatta e sbrigativa – il cadavere cadde fuori dalla bara e ne emanò un gran fetore – mentre l'aristocrazia non partecipò al corteo funebre che fu seguito solo da popolani. Prima di morire Alessandro nominò il Consiglio di reggenza che avrebbe governato durante la minore età del nipote Costantino e vi pose a capo il patriarca Nicola Mystikos.

                                Il nipote Costantino e altri notabili al capezzale di Alessandro
                                                          (Madrid Skylitzes)

Di lui resta un magnifico ritratto a figura intera nella chiesa di Santa Sofia, sia pure in una collocazione piuttosto appartata, analizzato nei dettagli qui.

L'imperatore Alessandro 
912-913
chiesa di Santa Sofia

 
Durante il suo regno – nel luglio del 912 – si registrò infine il passaggio della cometa di Halley, considerata annunciatrice di sciagure.


Note:

(1) Michele III aveva fatto sposare la sua amante Eudocia Ingerina al suo parakoimomenos Basilio per poterla avere comodamente a disposizione a Palazzo senza destare scandalo. Essendo Alessandro l'unico dei tre figli maschi di Basilio ed Eudocia ad essere nato dopo la morte di Michele III (867) era anche l'unico ad essere sicuramente figlio di Basilio.

(2) La Cronaca del logoteta parla di “insensata follia” dell'imperatore.


sabato 28 ottobre 2023

La profezia incisa sul sarcofago di Costantino il grande

 La profezia incisa sul sarcofago di Costantino il grande


Non pochi manoscritti, a partire dal XV secolo, riportano un crittogramma che sarebbe stato inciso sul sarcofago di Costantino il grande e la sua interpretazione che sarebbe stata opera di Gennadio Scholario.

Il sarcofago attribuito a Costantino il grande oggi nell'atrio della chiesa di Sant'Irene

Nella prima indizione, il regno di Ismaele chiamato Mohammed sconfiggerà la stirpe dei Paleologi e conquisterà la città dei sette colli (Heptapholos= Costantinopoli) e regnerà su essa: impererà su molti popoli, devasterà le isole fino al Ponto Eusino, compirà distruzioni alle foci dell'Istro (il Danubio). Nell'ottava indizione sottometterà il Peloponneso. Nella nona indizione farà una campagna nelle regioni settentrionali. Nella decima indizione sconfiggerà i Dalmati e ritornerà di nuovo dopo qualche tempo per fare una grande guerra contro i dalmati e in parte li distruggerà.

E le moltitudini e le nazioni (lett. "Tribù") d'Occidente, [numerose come] foglie,insieme porteranno guerra per terra e per mare e sconfiggeranno Ismaele il cui discendente regnerà per un brevissimo periodo di tempo. E la razza bionda, insieme con i precedenti possessori, sconfiggerà l'intero Ismaele e conquisterà la città dei sette colli con i [suoi] privilegi. Poi provocheranno una selvaggia guerra civile fino alla quinta ora e una voce griderà tre volte:
“Fermatevi, fermatevi, e con timore affrettatevi verso l'area sulla destra [e] troverete un uomo coraggioso, mirabile e robusto. Costui avrete come vostro capo perché lui è il mio diletto; scegliendolo compirete la mia volontà”.

Gennadio avrebbe decrittato il testo 1101 anni dopo la morte di Costantino (erroneamente posta dal redattore del resoconto nel 329 mentre l'imperatore morì nel 337) quindi nel 1430 o nel 1438.
Non c'è però alcuna traccia di questa interpretazione negli scritti attribuiti a Gennadio o spuri. Oltre a ciò il testo contiene riferimenti cronologici alle imprese di Maometto II estremamente precisi: prima indizione (1453), caduta di Costantinopoli; ottava indizione (1460), conquista della Morea; nona indizione (1461), conquista delle coste del Mar Nero; decima indizione (1462), conquista della Bosnia.
Si tratta quindi molto probabilmente un falso creato nel 1463 per avallare la crociata per la riconquista di Costantinopoli che papa Pio II Piccolomini stava cercando di promuovere e al cui esito positivo allude chiaramente il testo: E le moltitudini e le nazioni d'Occidente, [numerose come] foglie,insieme porteranno guerra per terra e per mare e sconfiggeranno Ismaele il cui discendente regnerà per un brevissimo periodo di tempo.

La morte del papa (15 agosto 1464) determinò però il naufragio del progetto di riconquista della città da parte dell'Occidente.
Gennadio Scholario, all'epoca patriarca di Costantinopoli (1), di cui era peraltro nota la tendenza ad interpretare profeticamente gli avvenimenti del suo tempo, è presumibilmente chiamato in causa per avvalorare l'autenticità del documento.

immagine tratta dal Cod.Berolin., gr.297, (fol.62), XVI sec.


In molti dei manoscritti che riportano il crittogramma e la sua decodifica da parte di Gennadio, figura infatti anche un'illustrazione che che ritrae il patriarca seduto accanto al sepolcro di Costantino nell'atto di trascrivere l'interpretazione.

Note

(1) Gennadio Scholario ricoprì la carica di Patriarca di Costantinopoli con il nome di Gennadio II in tre diversi periodi (1453-1457, 1462, 1464-1465)