Giovanni il Cappadoce e la rivolta di Nika
Nato probabilmente a Cesarea di
Cappadocia da una famiglia di basso ceto, entrò nella pubblica
amministrazione bizantina come scrinarius (archivista).
Secondo alcuni storici conobbe Giustiniano prima della sua ascesa al
trono, quando questi ricopriva la carica di magister militum
praesentialis (520) e Giovanni fu assegnato al suo servizio,
facendosi notare dal futuro imperatore soprattutto per le sue
capacità in materia di esazione fiscale. Nel 531 – nonostante il
fatto che fosse alquanto illetterato e soprattutto non parlasse
latino, il che lo rendeva culturalmente estraneo al progetto
giustinianeo della renovatio imperii, fu dapprima elevato al
rango di vir illustris e quindi posto dall'imperatore a capo
della prefettura del pretorio d'Oriente. Da questa carica diresse per
circa un decennio – salvo una breve interruzione a seguito della
rivolta di Nika – l'amministrazione statale, reperendo i fondi
necessari alle campagne militari e alle grandiose opere pubbliche
volute dall'imperatore.
La rivolta di Nika
Le due fazioni superstiti di tifosi
delle corse all'
Ippodromo all'epoca di Giustiniano avevano assunto
quasi la forma di partiti politici. I Verdi erano monofisiti e
raccoglievano consensi soprattutto tra l'aristocrazia e i
legittimisti raccolti attorno ai nipoti di Anastasio, mentre gli
Azzurri, a cui andava il favore della coppia imperiale, erano invece
di credo calcedoniano e di estrazione popolare. Il livello di scontro
tra le due fazioni crebbe enormemente durante il regno di
Giustiniano, gli estremisti di ambo le fazioni giravano armati e non
di rado ci scappava il morto. Nel gennaio del 532, la settimana
precedente l'inizio delle corse, era già stata funestata da diversi
omicidi. L'eparca di Costantinopoli, Eudemone, fece arrestare i
responsabili, due verdi e due azzurri, e li fece condannare a morte.
Il patibolo fu eretto il 12 gennaio a Sycae sulla riva del Corno
d'oro ma dopo le prime due esecuzioni crollò, permettendo la fuga
degli altri due condannati (un verde e un azzurro) che trovarono
rifugio nel convento di San Conone che venne immediatamente
circondato dai soldati.
Il giorno successivo, all'Ippodromo,
prima dell'inaugurazione delle corse, il capo dei Verdi e quello
degli Azzurri fecero un appello congiunto all'imperatore perché
risparmiasse la vita ai due condannati. Giustiniano ignorò l'appello
e questo diede fuoco alla rivolta. Al grido di “Nika! (Vinci!)”,
lo stesso usato per incitare gli aurighi, la folla sciama nella città
abbandonandosi ad atti vandalici e di violenza.
Il 18 gennaio, seguendo l'esempio di
Anastasio I (491-518), Giustiniano si presenta all'Ippodromo con i
Vangeli in mano nel tentativo di placare la folla. Viene ricoperto
d'insulti ed è costretto a rinchiudersi nel Sacro palazzo mentre i
rivoltosi danno fuoco finanche alla cattedrale di Santa Sofia (1) e proclamano
Ipazio, un nipote di Anastasio che accetta a malincuore (2),
imperatore. Iniziata come un torbido sportivo, la rivolta assume un
colore più politico e pretende le teste di Eudimone, l'eparca di
Costantinopoli responsabile della repressione, di Giovanni il
Cappadoce, responsabile dell'intollerabile pressione fiscale,
accusato di avidità e di condurre una vita dissoluta e del giurista
Triboniano che ricopriva la carica di Questor sacri palatii
(in pratica il ministro di Giustizia di Giustiniano a cui è in gran
parte dovuto il Corpus iuris civilis) accusato anche lui di avidità
e corruzione. Giustiniano sostituisce il Cappadoce con Foca, un
conservatore colto e illuminato, e Triboniano con Basilide, un
aristocratico di alta cultura. Ma questo non basta a placare la
folla.
Alcuni senatori rimasti a
Costantinopoli passano dalla parte dei rivoltosi, tra questi Origene
che suggerisce una tattica attendista, insediando il nuovo governo in
un altro palazzo. Bramosi di agire e forse su ordine di Ipazio gli
insorti confluiscono invece nuovamente nell'Ippodromo. Nel frattempo
nel Sacro Palazzo Giustiniano e i suoi fedelissimi valutano l'ipotesi
di lasciare la città e proseguire altrove la lotta. L'imperatrice
interviene con un appassionato discorso che conclude con una frase
passata alla storia: il trono è un magnifico sepolcro e la
porpora uno splendido sudario. Giustiniano e i suoi decidono
quindi di restare e combattere. Non essendo certa la fedeltà della
guardia palatina, si decide di puntare tutto sulle milizie personali
di Belisario e Mundo rimasti fedeli all'imperatore.
Ipazio aveva preso posto sul palco
imperiale, Belisario e i suoi uomini entrarono nell'Ippodromo dai
carceres mentre i miliziani di Mundo entrarono dalla Porta
della morte che si trovava dalla parte opposta. Presa in mezzo la
massa confusa e disordinata dei rivoltosi, i veterani dei due
generali ne fecero strage (Procopio parla di circa trentamila morti).
I nipoti di Giustiniano, Giusto e Boraide, catturarono Ipazio e il
fratello Pompeo e li consegnarono all'imperatore che li mise a morte
il giorno dopo.
Non molto tempo dopo la conclusione
della rivolta, nell'ottobre dello stesso anno, Giustiniano richiamò
al governo sia Triboniano che il Cappadoce che riteneva
indispensabili alla realizzazione del suo programma. Nonostante il
fatto, ad esempio, che Giovanni fosse apertamente ostile alla
campagna d'Africa – che giudicava eccessivamente dispendiosa - fino
al punto di sabotare le derrate della spedizione. Il Cappadoce
diresse l'amministrazione dell'impero fino al 541 quando cadde
vittima di un tranello tesogli dall'imperatrice stessa per mano di
Antonina, la moglie di Belisario. Profittando dell'ingenuità di
Eufemia, l'unica figlia di Giovanni, Antonina lo attirò in un
incontro riservato alle Rufinianae (2) in cui gli propose
l'appoggio proprio e del marito in caso di rivolta contro
Giustiniano. Giovanni accettò immediatamente mentre non visti
Narsete e Marcello ascoltavano la conversazione. Non appena il
Cappadoce dichiarò di aderire al progetto, i due generali ed i loro
uomini si avventarono su di lui che fu però difeso dalle sue guardie
private da cui – non fidandosi del tutto di Antonina – si era
fatto scortare. Sottrattosi alla cattura, fu estromesso dal governo e
costretto controvoglia a farsi sacerdote, prendendo il nome di
Pietro. In un primo momento tutti i suoi beni furono sequestrati ma
successivamente Giustiniano decise di restituirgliene una parte.
Non volendo in alcuna maniera
esercitare le funzioni dell'ordine sacerdotale, onde non precludersi
la possibilità di riottenere una carica civile importante, entrò in
contrasto con il vescovo di Cizico – Eusebio -da cui dipendeva, sì
che alla sua morte fu arrestato e processato per il suo assassinio.
La sua colpevolezza non fu dimostrata ma l'imperatore lo esiliò in
una località ancora più lontana, Antinoopolis in Egitto dove
continuò ad essere perseguitato dall'odio di Teodora – che
probabilmente temeva l'ascendente che il Cappadoce aveva
sull'imperatore – e che cercò finanche di corrompere due falsi
testimoni per farlo condannare per l'assassinio del vescovo.
Giovanni, dal canto suo, non perse mai la speranza di poter rientrare
nel gioco politico. Alla morte di Teodora (548) Giustiniano gli
permise di tornare a Costantinopoli ma non di rinunciare all'abito
talare né gli vennero affidati incarichi nella pubblica
amministrazione. Morì in pace – come riporta lo storico Giovanni
Malala – poco tempo dopo.
Note:
(1) Oltre alla chiesa di Santa Sofia, la furia dei rivoltosi ridusse in macerie anche la vicina Sant'Irene e la Magnaura (all'epoca sede del Senato). Fu anche gravemente danneggiata la Chalke e molte delle colonne dell'Augusteion vennero abbattute.
(2) Pompeo e Ipazio erano figli di
Cesaria, sorella dell'imperatore Anastasio I. Procopio riporta un
accorato appello della moglie di Ipazio – Maria – che scongiura
il marito di resistere alle pressioni della folla. L'incoronazione
avvenne nel Foro di Costantino – l'unico che non era stato
incendiato dagli insorti – e la corona venne sostituita da una
catena d'oro spuntata fuori da chissà dove.
(2) Le Rufinianae erano un
sobborgo di Costantinopoli – dava sul Mar di Marmara, poco a sud di
Calcedonia - dove si trovava un palazzo residenziale di Belisario
(3) All'epoca dei fatti Marcello
ricopriva la carica di comes excubitorum, comandava cioè la
guardia palatina ed era un fedelissimo di Giustiniano.
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