venerdì 8 maggio 2020

Cristoforo Garatone

Cristoforo Garatone, vescovo di Corone


Figura di spicco della diplomazia pontificia del XV secolo, Cristoforo Garatone nasce a Treviso, probabilmente prima del 1398, da Pietro, un militare al servizio della Serenissima, e da Riccardina. Frequenta la facoltà delle arti a Padova, dove si laurea nel 1420, due anni dopo supera l'esame per accedere al notariato ma non sembra che eserciti la professione.
Si trasferisce invece a Verona, alla scuola di Guarino Guarini, dove frequenta il corso di greco fino al luglio del 1423. In settembre è già a Costantinopoli, in qualità di cancelliere del bailo veneziano Pietro Contarini, carica che ricopre almeno fino al 1428. Non molto è noto delle relazioni che strinse in questo soggiorno costntinopolitano da cui comunque ricavò un perfezionato controllo del greco parlato e letterario e una conoscenza dell'ambiente che si sarebbero rivelate di grande utilità nelle missioni diplomatiche cui in seguito fu chiamato.
Tornato in patria, nel 1432 si fece chierico. Nello stesso anno o nel successivo fu chiamato a Roma da Eugenio IV, il veneziano Gabriele Condulmer, a ricoprire l'incarico di scrittore apostolico e segretario pontificio, probabilmente su suggerimento del gruppo di giovani trevigiani vicini al papa, come il nipote Daniele Scoti.
Grazie alla sua conoscenza della lingua e dell'ambiente, nel 1433 gli fu affidata la prima missione diplomatica a Costantinopoli, dove si trattanne da luglio a settembre intavolando con l'imperatore Giovanni VIII e con il patriarca Giuseppe II trattative per la definizione di una comune piattaforma che consentisse di celebrare un concilio ecumenico, cui partecipassero la Chiesa d'Oriente e quella di Roma, nella speranza di ricomporre l'unità dei cristiani. Seguendo le direttive del papa, si dimostrò arrendevole come non era mai stata la diplomazia pontificia, concordando con i Greci che il concilio si sarebbe tenuto a Costantinopoli: la Chiesa romana sarebbe stata rappresentata da un legato pontificio assistito da un gruppo di prelati e teologi.
Nel 1434, per concretizzare la trattativa, fu nuovamente inviato nella capitale bizantina da cui fece ritorno accompagnato da una delegazione imperiale formata dai fratelli Giorgio e Manuele Dysiphatos.
Nello stesso tempo però i padri conciliari riuniti a Basilea avevano intavolato trattative con altri emissari greci sulla base di una diversa ipotesi, che prevedeva la riunione del concilio in Occidente, con pregiudiziale quasi assoluta per la città svizzera, al fine di garantirsi la massima indipendenza dal pontefice. Eugenio IV inviò pertanto Garitone e i fratelli Dysiphatos a Basilea nel tentativo di dimostrare che l'accordo da lui negoziato era il più vantaggioso e aveva le maggiori probabilità di successo; ma la missione non portò ad alcun ammorbidimento dei conciliaristi.
A fine maggio del 1435 partì nuovamente per Costantinopoli e ancora vi fu inviato per la quarta volta l'anno seguente per rientrare a Bologna (dove si era trasferita la Curia) insieme a due emissari greci, Giovanni Dyshipatos e Manuele Tharcaniotes Bullotes, ai primi del 1437. In segno di riconoscenza per i suoi servigi, lo stesso anno il papa gli assegnò la sede vescovile di Corone.
Ai primi di settembre è di nuovo a Costantinopoli, in qualità di nunzio apostolico, per concludere le trattative preconciliari.
Giunto a Venezia al seguito dell'imperatore nel febbraio 1438, durante le sessioni conciliari di Ferrara e Firenze svolse un'opera preziosa d'interprete, di assistenza e di cura dei problemi logistici e amministrativi. Alla chiusura del Concilio (5-6 luglio 1439), fu incaricato di riaccompagnare i prelati greci e di risiedere a Costantinopoli come nunzio. Probabilmente sottovalutò l'estensione del movimento antiunionista e le sue ragioni profonde (il decreto d'unione non fu mai promulgato a Bisanzio) e verso la fine del 1441 fu richiamato in Curia dal papa, insoddisfatto del suo operato.

Nel marzo 1442, Eugenio IV decise una missione diplomatica in Ungheria per tentare l'organizzazione di una crociata, designando come legato il card. Giuliano Cesarini, e come nunzio Cristoforo Garatone. Di questa missione si sa solo che fu piuttosto breve e che si svolse prevalentemente in Ungheria (dove emergeva il prestigio militare del voivoda transilvano Giovanni Hunyadi), mentre il Cesarini si diresse in Polonia.
A metà febbraio del 1443 è nuovamente designato come nunzio in Ungheria ma a metà aprile lo troviamo già a Treviso. Sul finire dell'anno ricevette dal papa l'incarico di coadiuvare il cardinal nipote Francesco Condulmer nell'allestimento della flotta pontificia destinata a soccorrere l'impero bizantino e si recò quindi a Venezia dove questi si trovava. Verso la metà del 1444 fu inviato a Candia con l'incarico di riscuotere la decima per la flotta pontificia e rimase nell'isola per circa un anno. Ne l frattempo ci fu la disfatta a Varna (10 novembre1444) della crociata contro i Turchi che aveva contribuito a promuovere ed il mesto rientro a Venezia della flotta guidata dal cardinal nipote. Ma papa Eugenio IV non si rassegnò alle sconfitte e nel settembre del 1446, Garatone partì nuovamente per l'Ungheria – adesso sotto la reggenza di Giovanni Hunyadi – assieme all'oratore bizantino presso la Santa Sede, Nicola Gudeles.
Il 23 febbraio 1447 muore papa Eugenio IV ma il suo successore, papa Niccolò V, mantenne una inalterata fiducia nel diplomatico e nel maggio 1448 Garatone viene designato legato in Ungheria per la futura crociata. Trova la morte combattendo contro i turchi a fianco degli ungheresi di Hunyadi nella disastrosa battaglia di Kosovo Polje (18 ottobre 1448).


lunedì 4 maggio 2020

L'abbazia di sant'Angelo in Formis

L'abbazia di sant'Angelo in Formis
(orari: feriali: ore 9.00-17.00; festivi: ore 9.00-12.30 e 15.00-18.00)

Interno

Le origini dell’edificio sono tuttora ignote, anche se la maggior parte degli studiosi tende ad attribuirne la fondazione ai Longobardi.
Compare per la prima volta, in un documento della prima metà del X secolo, con cui il vescovo di Capua, Pietro I, concede ai monaci dell’abbazia di Montecassino, la chiesa di San Michele Arcangelo, prima detta ad arcum Dianae nei documenti coevi, poi, in quelli successivi, ad Formas, e, infine, Informis, o in Formis.
Assai controversa è l’interpretazione etimologica: basandosi sul significato del vocabolo latino forma (acquedotto) si è ipotizzato che tale denominazione fosse legata alla presenza di falde o di condutture d’acqua nel territorio circostante; altri, invece, attenendosi al significato della parola informis, ossia privo di forma, e quindi spirituale, propendono per un’interpretazione “teologica”.
Nel 943 il vescovo di Capua, Sicone, più volte accusato di negligenza nell’esercizio dei suoi poteri, si impossessò della chiesa, sottraendola ai monaci di Montecassino. In quello stesso anno i monaci cassinesi fecero ricorso al pontefice Marino II, il quale ingiunse al vescovo la restituzione dell’edificio.
Nel 1065 la chiesa, divenuta nel frattempo nuovamente di proprietà vescovile, fu ceduta a Riccardo Drengot, principe normanno di Capua e conte di Aversa, affinché questi, desideroso di purificare la propria anima dai peccati di una vita violenta, vi costruisse un cenobio.
Nel 1072 Riccardo concesse all’abate di Montecassino, Desiderio (il futuro papa Vittore III), il cenobio con tutte le sue pertinenze. Fu probabilmente proprio in quella occasione che l’abate iniziò la ricostruzione del complesso monastico fin dalle fondamenta.

Il Tempio di Diana Tifatina: la chiesa insiste sulle rovine di un santuario pagano di età repubblicana (alcune iscrizioni latine testimoniano attività edilizia già nel 135 a.C.) dedicato al culto di Diana.
La pianta del tempio è perfettamente ricostruibile grazie alla conservazione del pavimento a mosaico nella cella, e a canestro nella peristasi. 



Il pronao era molto profondo e nel suo pavimento si conservano i resti dell’iscrizione dedicatoria che ricorda rifacimenti del pavimento, delle colonne e di altre parti dell’edificio eseguiti nel 74 a.C. La fronte era esastila e 6 colonne si trovavano probabilmente anche sui lati lunghi (quelle attualmente riutilizzate nelle navate della chiesa appartengono però a restauri di età imperiale o ad un altro edificio del santuario). 




La facciata è preceduta da un porticato a cinque arcate ogivali, quella centrale più alta realizzata con elementi marmorei di reimpiego. Le arcate sono sorrette da quattro fusti di colonna, due a destra in marmo cipollino e due a sinistra in granito grigio, con capitelli corinzi non pertinenti e diversi tra loro, e sorrette da altri elementi architettonici diversi riutilizzati in funzione di basi.


A destra della basilica sorge la massiccia torre campanaria a pianta quadrata e a due piani (il terzo è crollato) che fungeva anche da torre di avvistamento. Il primo piano è formato da enormi blocchi di marmo di spoglio. Su uno dei blocchi che compongono l'arco del fornice di accesso al campanile si nota una testa ricciuta che faceva parte dell'antica decorazione del blocco stesso. Il cornicione che separa il primo dal secondo piano è ornato da una serie di motivi fitomorfici classicheggianti che si alternano a motivi zoomorfici, a piccoli animali e ad elementi fantastici mentre due strette feritoie (sul lato ovest ed est) ne alleggeriscono la massa.
Il secondo piano è formato da una cortina muraria rivestita con mattoni rossi; su ogni lato una stretta bifora con archi a tutto sesto spartita da una colonnina di spoglio. Una cornice segna anche qui il termine del piano. Elementi decorativi fitomorfici sono però presenti solo sul lato nord-ovest.

Secondo alcuni studiosi il portico sarebbe stato ricostruito sul finire dell' XII secolo a seguito dei danni provocati dal crollo della torre campanaria. 
Il portico (o nartece) precede un portale di gusto tipicamente cassinese poiché riprende, da tale tipologia, sia l’idea di racchiudere l’architrave e gli stipiti in semplici cornici lineari, sia quella di decorare l’archivolto con la cosiddetta “cornice benedettina”. L’architrave reca incisa l’iscrizione che rievoca Desiderio come fondatore della basilica.  L'apparato decorativo del portico risalirebbe al suo rifacimento di fine XI secolo e comprende due lunette al di sopra del portale centrale, con S. Michele Arcangelo in basso e la Madonna Regina tra due angeli in alto (quello di destra rifatto in epoca successiva)

L'Arcangelo Michele

e quattro lunette nelle campate laterali, con le storie dei santi eremiti Paolo di Tebe e Antonio Abate.
Da sinistra a destra: 1. S. Antonio ed il satiro, S. Antonio giunge alla grotta di S. Paolo; 2. I due santi si scambiano il segno della pace; 3. I due santi dividono il pane portato da un corvo; 4. S. Antonio vede l'anima di Paolo portata in cielo da due angeli.

Sant' Antonio Abate vede l'anima di Paolo portata in cielo da due angeli.

All'interno l’edificio presenta una pianta basilicale a tre navate, con quella centrale larga il doppio delle laterali, e segue il modello architettonico benedettino-cassinese con l’abside centrale più larga e più alta delle laterali. A differenza della basilica cassinese, ricostruita da Desiderio tra il 1066 ed il 1071, si presenta però priva di transetto.


La navata centrale è separata da quelle laterali, per mezzo di due serie di sette colonne sostenenti otto archi a tutto sesto. Nel pavimento si scorgono ora i resti dell'antico tempio (in nero sulla pianta), ora i mosaici dell'antica chiesa distrutta di S. Benedetto in Capua, ora mattoni di epoca più recente.

Affreschi: furono probabilmente realizzati da alcune maestranze locali, che operarono ispirandosi a modelli bizantini. Va infatti osservato come l’uso di schemi bizantini, evidenziato dalla suddivisione dell’intero ciclo pittorico in pannelli mediante colonnine dipinte, e dalla disposizione delle figure all’interno dei singoli riquadri (si noti, ad esempio, la scena della Crocifissione), sia attenuato da un primo, seppur timido, tentativo di caratterizzazione delle figure, reso evidente dal rosso che colora le guance dei personaggi, e dalle rughe che, con tratti fortemente marcati, ne segnano i volti.

La Crocefissione

Il Cristo Pantocratore giganteggia nel catino absidale, circondato dai simboli dei quattro Evangelisti. Nella fascia inferiore sono, invece, rappresentati i tre Arcangeli (nell’ordine: Gabriele, Michele e Raffaele), affiancati dall’abate Desiderio a sinistra (raffigurato con il modello della chiesa tra le mani), e da San Benedetto a destra che si presenta oggi in una stesura pittorica dell’inizio del sec. XIV, sovrapposta ad un’immagine più antica, che si è supposto potesse effigiare non già il santo, ma Riccardo I Drengot, principe di Capua (1058-1078). Sull'arco trionfale dovevano esserci due angeli; se ne intravede solo uno a sinistra.

Catino absidale


L'abate Desiderio (futuro papa Vittore III) con il modellino della chiesa ed il nimbo quadrato (particolare dell'affresco del catino absidale)

Anche nell’abside destra l’affresco è diviso in due fasce sovrapposte: in quella superiore vi è raffigurata la Vergine col Bambino fiancheggiata da due angeli ai quali si aggiunge, nella fascia inferiore, una teoria di sante martiri (ne rimangono solo tre).

Abside di ds.

L'abside di sinistra presenta in basso sei santi, mentre in alto compare Cristo (rimane solo la testa) tra due santi,  Giovanni Battista e Giovanni Evangelista o Pietro e Paolo.

Abside di sn.

Le pareti longitudinali della navata centrale sono occupate da episodi neotestamentari, disposti su tre registri e corredati da tituli

Il bacio di Giuda

Al di sotto sono inserite, tra gli archi, le figure dei profeti e di una sibilla, visti nell’atto di preannunziare gli eventi della vita di Cristo e la sua seconda venuta. Tra i pennacchi delle prime due colonne di sinistra, nelle figure di Davide e Salomone, sarebbero raffigurati Riccardo I di Capua ed il figlio Giordano I.

Re Davide

Le navate laterali sono invece riservate al Vecchio Testamento, di cui sopravvivono solo pochissime scene. Qui la zona più bassa era completata, con ogni probabilità, da un ciclo agiografico, oggi attestato solo dagli episodi di Gedeone e l’angelo e del Martirio di S. Pantaleone. Nei pennacchi degli archi erano invece inserite figure di santi e sante, tra i quali, a sinistra, sei santi appartenenti all’Ordine benedettino.  

Sulla controfacciata è dipinto il Giudizio universale.
In alto, tra le finestre, sono raffigurati i quattro angeli con le trombe del Giudizio; nella fascia centrale è rappresentato Cristo Giudice entro la mandorla apocalittica (mostra il palmo aperto della mano destra ai beati in segno di accoglienza e il dorso della mano sinistra ai dannati in segno di rifiuto), tra gli Apostoli seduti sui troni schierati come una corte di giustizia; più in basso i Beati, ed infine i Dannati.

Giudizio universale

Sotto la mandorla tre angeli con cartigli.
L'angelo di centro proclama: "Et tempus iam amplius non erit".
Quello a sinistra di chi guarda invita: "venite benedicti patris mei" rivolto ai beati disposti su due registri; su quello superiore le autorità: re, principi e monaci; su quello inferiore la plebe, il popolo di Dio.

I dannati (particolare)

L'angelo di destra detta la condanna: "ite maledicti in ignem aeternum" rivolto ai dannati disposti su due registri; su quello superiore le autorità: principi e religiosi; su quello inferiore i demoni, le fiamme. Lucifero e Giuda legati da una catena.

Le figure di Santi, dipinte nei pennacchi delle navate laterali, sono successive all’XI secolo. Tale ipotesi potrebbe essere confermata dal confronto con i Profeti dipinti nei pennacchi della navata centrale. Risulta, infatti, evidente dal confronto non solo la posizione statica, ma anche la maggiore imponenza di queste figure, che presentano caratteristiche affini agli affreschi che ornano le lunette del portico. 
 Sebbene eseguiti da più mani, questi affreschi rientrano senz’altro in un orizzonte figurativo unitario, quello dell’irradiazione in Italia meridionale della koinè tardocomnena, allineandosi peraltro anche alla consuetudine, sempre più diffusa in area bizantina nel sec. XII, di collocare le vite dei santi nei narteci delle chiese.