lunedì 31 dicembre 2012

chiesa di S.Demetriano

chiesa di S.Demetriano, Dali


E' una piccola chiesa che si trova nei pressi della cittadina di Dali lungo la strada che conduce a Potamia.
L'aspetto esterno è quello di una chiesa a croce greca inscritta ma i bracci laterali della croce sono talmente accorciati che all'interno la chiesa si presenta in realtà a navata unica sormontata al centro da una cupola traforata da quattro finestre.


Fino a non molto tempo fa la si riteneva dedicata a San Demetriano, vescovo di Chytri (829-919 c.ca), ma un'iscrizione sulla parete occidentale all'interno della chiesa la dedica esplicitamente a San Demetriano Andridiote, evidentemente un santo locale.
La stessa iscrizione dice anche che la chiesa fu restaurata e fatta decorare dall'arconte bizantino Michele Kastouroumpos e dalla sua famiglia nel 1317. L'arconte e la moglie sono inoltre raffigurati, sempre nella stessa parete, nell'atto di offrire al santo il modello della chiesa.

parete occidentale

La chiesa fu affrescata due volte, la prima all'atto della sua fondazione nel XIII secolo e la seconda appunto nel 1317.
All'esterno, la fila di incassi al di sopra dell'ingresso sul lato meridionale, lascia supporre la presenza di un portico oggi completamente scomparso.

Il sacro Mandylion raffigurato al di sopra dell'ingresso meridionale


parete settentrionale

Nella parete settentrionale è ritratta a figura intera Santa Ciriaca, nei medaglioni che appaiono sul vestito della santa (ne rimangono integri soltanto tre) erano raffigurate le personificazioni dei giorni della settimana, tutte femminili tranne il sabato come è nella lingua greca.




mercoledì 26 dicembre 2012

La chiesa di Santa Caterina (Cappella Reale), Pyrga

La chiesa di Santa Caterina (Cappella Reale), Pyrga

Lato SE

La piccola cappella di Santa Caterina si trova lungo la strada che da Nicosia conduce a Limassol , appena ad ovest dell'abitato di Pyrga. Sorge su una altura che domina un ramo del fiume Trimethos.
Secondo un'iscrizione oggi perduta fu costruita ed affrescata nel 1421-1422.
Presenta una pianta rettangolare a navata unica priva di abside con altrettante porte d'ingresso lungo i lati nord, sud ed ovest. E' voltata a sesto acuto con gli archi innervati da costoloni e impostati su mensole aggettanti dalle pareti laterali. Sul lato orientale si aprono tre finestre gotiche ed una sola sulla facciata occidentale.

Lato occidentale

Un tempo era circondata da un portico che l'avvolgeva su tre lati e fino alla fine del XIX sec. Erano ben visibili i resti di un edificio (una residenza nobiliare o un convento) a cui era annessa.
La muratura è costituita per la maggior parte da una pietra vulcanica rossastra o verdastra proveniente dal territorio circostante.
Originariamente la cappella era completamente affrescata come le chiese dei monti Trodos. Lo stile della pittura murale è uno dei migliori esempi della mescolanza di elementi bizantini e latini nell'isola con un prevalere dei primi sui secondi. Le iscrizioni in francese, la lingua ufficiale del regno dei Lusignano, appaiono trascrizioni fonetiche (“La Cène”, ad esempio, è scritto come si pronuncia, “La Sene”), probabilmente l'artista era quindi un greco che aveva imparato il francese parlato.

Il programma iconografico ha inoltre lasciato supporre una iniziale dedica della cappella alla Passione di Cristo.

Parete orientale

Nella parete orientale è dipinta una Crocefissione di cui si conserva solo la parte inferiore. Inginocchiati ai piedi del Cristo crocefisso sono rappresentati re Janus e la sua seconda moglie Carlotta di Borbone, forse in qualità di donatori della chiesa che potrebbe essere stata annessa ad una residenza reale. A questo affresco la chiesa deve l'appellativo di Cappella Reale (Vasiliko Pareklisi) con cui è maggiormente conosciuta.
Nella Sepoltura di Cristo, rappresentata al di sotto della Crocefissione, il personaggio con la mitria vescovile inginocchiato ai piedi del Cristo dovrebbe essere Ugo, il fratello del re che era arcivescovo di Nicosia (1).

Emivolta settentrionale

Nell'emivolta settentrionale si distinguono La Resurrezione di Lazzaro, L'ingresso a Gerusalemme e L'Ultima cena.

Veduta dell'interno
 
Note:
 
(1) Ugo di Lusignano, fratello minore di re Janus, fu nominato nel 1424 arcivescovo di Nicosia da papa Martino V, carica che mantenne anche dopo aver ricevuto la porpora cardinalizia ed il titolo della chiesa di S.Adriano al foro (1426). Per undici mesi, tra il 1426 ed il 1427, durante la prigionia di re Janus in Egitto, fu reggente di Cipro. Nel 1431 lasciò la sede di Nicosia per la sede cardinalizia di Palestrina trasferendosi successivamente (1436) in quella di Frascati. Nel 1438 si schierò con l'antipapa Felice V (il duca Amedeo VIII di Savoia) e fu privato da papa Eugenio IV del titolo vescovile e del cardinalato. Morì a Ginevra nel 1422.






sabato 22 dicembre 2012

La Pala d'oro della basilica di S.Marco

La Pala d'oro della basilica di S.Marco




La pala nella sua forma attuale misura 334x212 cm e vi sono racchiusi ben 83 smalti grandi e numerosi altri di più piccole dimensioni.

La prima pala menzionata nei documenti – di dimensioni molto minori di quella attuale - fu commissionata a botteghe costantinopolitane dal doge Pietro I Orseolo (976-978) ed a questo periodo apparterrebbero gran parte degli smalti piccoli.

La parte inferiore risale al periodo del doge Ordelaffo Falier (1102-1118) che commissionò sempre ad artigiani di Costantinopoli una seconda pala, come si può desumere dall’iscrizione che scorre su due lamine d’argento dorato nella parte inferiore ai lati del trittico - formato dalla Vergine orante, dal doge Falier e dall' imperatrice Irene - e che precisa che “nova facta fuit” sotto il dogado di Ordelaffo.
Dello stesso periodo è la disposizione degli smalti, sia sulle cornici laterali, con le storie di San Marco, sia sulla cornice superiore con i sei diaconi e le feste cristologiche del calendario liturgico, nonché del gruppo centrale del Pantokrator.

Poco più di un secolo dopo, precisamente nel 1209, al tempo del dogado di Pietro Ziani (1205-1229), la pala venne nuovamente ampliata grazie a pietre preziose ed agli smalti che erano stati trafugati durante il sacco crociato di Costantinopoli (1204).
Infatti l’iscrizione della pala stessa ricorda che la pala “rennovata fuit” nel 1209 sotto il dogado di Pietro Ziani.
A questa fase va assegnato il fregio nella parte superiore della pala che raffigura al centro l'Arcangelo Michele ai cui lati si dispongono sei formelle raffiguranti altrettante Grandi Feste liturgiche (l'Ingresso a Gerusalemme, l'Anastasis, la Crocefissione, l'Ascensione, la Pentecoste e la Dormizione della Vergine).

La crocefissione

Durante il dogado di Andrea Dandolo, infine, tra il 1342 e il 1345, la Pala fu completamente restaurata e assunse l’aspetto attuale. In questa circostanza gli smalti furono nuovamente montati con lavori di oreficeria che si sovrappongono in parte agli orli delle antiche placchette. Furono aggiunte inoltre altre sette placchette cosicché non si può dire quale fosse in antico l’aspetto della Pala.
Un'iscrizione attesta che le pietre preziose furono aggiunte per merito dei procuratori Marco
Loredan e Francesco Quirini.
Conosciamo il nome del restauratore: Giovanni Paolo Bonesegna (veneto o forse toscano) per aver lasciato nome e data del restauro sul retro (1342). Un maestro Perin eseguì i lavori di falegnameria allargando di 4 cm per lato la parte superiore della Pala. L’orlo fu riccamente ornato di strisce
decorate con racemi e medaglioni mentre alcuni smalti furono tagliati ed altri sostituiti.


Il Cristo Pantokrator attorniato dai quattro evangelisti

Il fregio della parte superiore

Si è supposto che il fregio della parte superiore provenisse dal monastero del Pantokrator perchè fu riconosciuto come tale dal patriarca costantinopolitano Giuseppe II (1416-1439) che visitò la basilica di S.Marco nel 1438 mentre si recava, al seguito dell'imperatore Giovanni VIII, al Concilio di Ferrara-Firenze.
Polacco avanza però qualche riserva riguardo la possibilità che il patriarca potesse ricordare con tanta precisione la provenienza di questi smalti (che non erano poi tanto singolari a Costantinopoli, ma al contrario assai diffusi nelle chiese della capitale) 234 anni dopo la loro asportazione dal luogo originario. L’unica spiegazione che lo studioso accoglie è che forse appartenevano alla chiesa del Pantokrator perchè gli smalti riproducono “uno stile aulico e commeno e la residenza del podestà della colonia veneziana si trovava accanto alla chiesa del Pantokrator.”
Gli smalti potrebbero essere stati asportati dall'iconostasi della chiesa dedicata all'Arcangelo Michele, fatta costruire tra il 1118 ed il 1136 da Giovanni II Comneno con funzioni di mausoleo funebre dei Comneni ed interposta tra quelle della Vergine Eleusa e del Cristo Pantokrator.
Come sottolinea il Polacco “la singolarità della forma quadrilobata e la tecnica à fond répoussé del grande smalto centrale raffigurante l’arcangelo, assai più raffinata e diversificata della tecnica cloisonnè che connota le altre sei feste, ci inducono a credere che esso costituisse un importante icona, forse la più prestigiosa del templon, perchè raffigurante il titolare di questo mausoleo dedicato appunto a S. Michele e destinato ad essere il monumento sepolcrale dei componenti della dinastia regnante a Bisanzio”.

L'Arcangelo Michele tra due serafini

A riprova che il fregio superiore con il S. Michele e le sei feste liturgiche proviene dal sacco di Costantinopoli del 1204 abbiamo le iscrizioni di queste formelle tutte in greco.
Le iscrizioni delle formelle ordinate da Ordelaffo Falier a Costantinopoli nel 1105 sono invece in latino tranne alcune scritte in greco per incompatibilità del latino con il tema iconografico in esse
raffigurato come dimostrato dal Polacco.

Il fregio della parte inferiore
L'identificazione delle due figure che fiancheggiano la Vergine orante nel fregio inferiore della Pala pone invece qualche problema.


Sono identificate dalle didascalie rispettivamente come il doge Ordelaffo Falier e l'imperatrice Irene. La figura di Ordelaffo è stata però molto probabilmente rimodellata su quella di un imperatore bizantino di cui presenta il caratteristico abbigliamento. L'ipotesi più probabile è che si trattasse di Alessio I Comneno (1081-1118) raffigurato qui con la moglie Irene Dukaina in qualità di donatori della pala all'allora alleata Repubblica di Venezia.

L'imperatrice Irene

Il doge Ordelaffo Falier

Secondo un'altra ipotesi proverrebbero invece anch'essi dall'iconostasi della chiesa di S.Michele Arcangelo   – sarebbero quindi stati inseriti nella risistemazione della Pala del 1209 - e avrebbero raffigurato l'imperatore Giovanni II Comneno (1118-1143) e la moglie Irene d'Ungheria, fondatori del monastero del Pantokrator.


domenica 16 dicembre 2012

La basilica di S.Giovanni evangelista a Efeso

La basilica di S.Giovanni evangelista a Efeso

Sorge sulla collina detta Ayasoluk, 5 km a nord dell'antica città di Efeso.



Secondo la tradizione, San Giovanni evangelista, nell'ultimo periodo della sua vita si stabilì su questa collina disabitata. Quando il Signore gli comunicò che la sua fine era prossima, si scavò una tomba a forma di croce e si sdraiò al suo interno. Quando la morte sopravvenne (Nel 98-99, secondo S.Girolamo) i suoi discepoli furono accecati da una luce abbagliante. Riacquistata la vista scoprirono che il suo corpo era scomparso ed un odore dolciastro emanava dalla tomba vuota. La leggenda racconta inoltre che la terra con cui fu ricoperto il suo sepolcro continuasse a muoversi come sollevata dal respiro del santo da cui deriverebbe il nome della collina (sacro respiro=aya soluk).

Le origini della prima chiesa risalgono al IV, se non addirittura al III sec., quando, al di sopra di un gruppo di stanze sotterranee, nelle quali evidentemente la tradizione venerava il luogo di deposizione di Giovanni Evangelista, fu innalzata una memoria quadrata (di m 18 di lato), coperta verosimilmente da una vòlta a crociera impiantata su quattro colonne e con quattro porte sui lati (successivamente la porta del lato E fu sostituita con un'abside).
Agli inizi del V sec. la memoria fu racchiusa entro un'ampia basilica cruciforme. Il corpo anteriore, preceduto da nartece, esonartece e protiro, era a tre navate; pure a tre navate erano i bracci laterali; a cinque invece il corpo posteriore, terminato da un'abside.

Nel 548, Giustiniano fece costruire, al di sopra di quella preesistente, un'imponente chiesa a pianta cruciforme, che ricalcava quella dei SS. Apostoli, da lui fatta edificare a Costantinopoli qualche anno prima.

Pianta della basilica giustinianea

All'estremità ovest, su una terrazza artificiale, costruita per annullare il pendio della collina e appoggiata su una cisterna, sorgeva un atrio, circondato da portici su tre lati. Sul quarto lato si apriva il nartece, che introduceva al corpo centrale della chiesa tramite cinque porte.

Le sostruzioni della terrazza su cui sorgeva l'atrio della basilica


L'ingresso occidentale alla basilica


Veduta aerea

All'interno la chiesa si articolava in tre navate, quella centrale più ampia, intersecate da un transetto, al centro del quale, prima dell'abside, è visibile la tomba dell'evangelista.
Il soffitto della tomba appare rialzato rispetto al piano del terreno ed era originariamente ricoperto a mosaico.

 
Tomba dell'evangelista, alle sue spalle l'abside provvisto di syntronon

Il colonnato a doppio ordine della navata nord, con pilastri in pietra squadrata e archi in laterizi.

Le colonne presentano un capitello ionico del tipo a imposta, costituito da un unico pezzo con il pulvino su cui l'arco poggia direttamente, molto diffuso nell'architettura bizantina. Sui capitelli si notano i monogrammi di Giustiniano e Teodora.


Il battistero a pianta ottagonale che si trova sul lato settentrionale della chiesa risale all'edificio pregiustinianeo e presenta al centro una vasca circolare entro una pianta cruciforme a cui si accede per mezzo di due brevi scalinate lungo i bracci della croce. Due vasche per l'acqua completano gli altri due bracci della croce.


Il battistero cessò di funzionare dopo la costruzione della basilica giustinianea e le acque che vi affluivano per mezzo di una canalizzazione furono deviate verso una fontana di marmo riccamente scolpita presso la porta.


Accanto al battistero, addossato all'estremità settentrionale del transetto, si trova un ambiente rettangolare che termina con due absidi pavimentate a mosaico. Un'iscrizione sopra la porta d'ingresso lo identifica come il sekreton, la sala dove il vescovo sedeva quando teneva un giudizio. Fu terminato durante il vescovado di Giovanni alla fine del VI secolo. Il sekreton comunica a nord con il Tesoro (Skeuophylakion), un ambiente circolare a due piani su cui si aprono delle stanze angolari e nicchie nello spessore delle pareti dove era conservato il tesoro della basilica.

Il Sekreton

Posizione del Tesoro e del Sekreton


Porta della Persecuzione (Porta dell'Inseguimento)
Nel VII-VIII sec., la collina dove sorgeva la chiesa fu fortificata per difendere gli abitanti dalle incursioni arabe. Questa porta, inserita tra due torrioni, ne costituiva l'ingresso dal lato meridionale; il dispositivo di accesso prevedeva due porte, una interna e l'altra esterna, non in asse tra loro che si aprivano su una doppia cinta muraria.


La porta fu in parte costruita - probabilmente nell'VIII secolo quando Efeso, durante il regno di Leone III (717-741), divenne il capoluogo del thema dei Thrakesion e le sue fortificazioni furono rinforzate - con materiali di reimpiego provenienti soprattutto dallo stadio di Efeso. Fu chiamata Porta della persecuzione da due francesi – il conte di Choiseul-Goffier, ambasciatore presso la Sublime Porta nel XVIII secolo e Chandler - che interpretarono un bassorilievo di età romana (databile al secondo quarto del III secolo) inserito nell'architrave e raffigurante l'inseguimento di Ettore da parte di Achille come una scena di persecuzione dei primi cristiani massacrati nel teatro di Efeso.
Pitton de Tournefort, Porta della Persecuzione, incisione, 1701

Di questo bassorilievo rimane in situ solo un piccolo frammento, che rappresenta un baccanale. Il resto è stato asportato agli inizi del XIX sec. ed è attualmente conservato nella collezione di antichità della Woburn Abbey (Inghilterra) dove è stato ricomposto nella forma di sarcofago che si ritiene avesse originariamente. Nella collocazione in situ il bassorilievo era incorniciato da una serie di elementi rettangolari formanti un fregio d'acanto anch'essi di recupero. Possiamo avere un'idea di come doveva apparire grazie ad alcuni disegni e incisioni lasciateci da alcuni viaggiatori del XVIII secolo.

Modello ricostruttivo della basilica giustinianea










sabato 8 dicembre 2012

I sarcofagi imperiali in porfido di Costantinopoli

I sarcofagi imperiali in porfido di Costantinopoli


Ricostruzione della pianta della chiesa dei SS. Apostoli


La chiesa dei SS.Apostoli si trovava lungo il ramo settentrionale della Mese che dal Philadelphion conduceva alla porta di Carisio (l'attuale Fevzi Pasa caddesi), nel punto dove ora sorge la Mehmet Fatih camii.



E' incerto se la sua fondazione originaria debba essere attribuita a Costantino il grande o a Costanzo II, fu comunque ampiamente ristrutturata in epoca giustinianea assumendo la forma di una chiesa a croce libera, sopravanzata da nartece e esonartece e sormontata da una cupola centrale e da altre quattro lungo i bracci della croce. Nel suo De Aedificiis, Procopio la definisce molto simile nella pianta alla chiesa di S.Giovanni ad Efeso, fatta costruire da Giustiniano nel 548.

Pianta della chiesa di S.Giovanni evangelista ad Efeso


Dalla morte di Costantino il grande fino all'XI secolo la chiesa fu utilizzata come mausoleo imperiale. L'ultimo imperatore ad esservi sepolto fu Costantino VIII (1025-1028).
Quando Cristoforo Buondelmonti visitò Costantinopoli nel XV sec. la descrisse in stato di abbandono e fu completamente demolita dai Turchi nel 1461 per fare spazio alla Moschea del Conquistatore (Mehmet Fatih Camii). Alle spalle della moschea si trova il cimitero nel cui ambito si erge il mausoleo del Conquistatore, oggi visibile nel suo rifacimento settecentesco. Si dice che il sultano volle fosse edificato nel punto esatto dove precedentemente si trovava la tomba di Costantino il grande.  
Nel suo De cerimoniis, Costantino Porfirogenito (913-959) elenca la presenza all'interno della chiesa di 9 sarcofagi imperiali realizzati in porfido.
Nel X secolo, quando scrive Costantino Porfirogenito, le tombe degli imperatori si trovavano nel Mausoleo di Costantino, in quello di Giustiniano e nei colonnati settentrionale e meridionale della chiesa.

Mausoleo di Costantino (a pianta rotonda, sul cui perimetro si aprivano dodici nicchie, tante quenti erano gli apostoli) 
1. Costantino il grande con la madre Elena*
2. Costanzo II
3. Teodosio I
4. Marciano con la moglie Pulcheria

Colonnato meridionale
5. Arcadio
6. Teodosio II
7. Eudocia

Colonnato settentrionale
8. Giuliano
9. Gioviano

* Le spoglie della madre dell'imperatore furono inizialmente collocate in un sarcofago all'interno del mausoleo di Elena a Roma e successivamente traslate nella chiesa costantinopolitana (cfr. N. Gallerini, Il sarcofago di Elena).

Nell'elenco di Costantino Porfirogenito sono quindi presenti i sarcofagi di tutti gli imperatori che regnarono dopo Costantino fino a Marciano (450-457) che è l'ultimo ad aver avuto un sarcofago di porfido. Manca solo il sarcofago di Valente perchè questi morì nella battaglia di Adrianopoli ed il suo corpo non venne mai ritrovato.
Non è del tutto chiaro invece perchè dopo Marciano i sepolcri degli imperatori non furono più realizzati in porfido giacchè la conquista araba dell'Egitto, che avrebbe definitivamente sottratto all'impero l'accesso alle cave di porfido di Djebel Dukhan - usualmente indicata come causa - non avvenne che 150 anni dopo la sua morte.

A.Vasiliev (Imperial Porphyry Sarcophagi in Constantinople, Dumbarton Oak Papers, 1948) riconosce esattamente 9 sarcofagi in quelli o in frammenti di essi ritrovati a Costantinopoli e pervenuti fino ai nostri giorni.

1, 2 e 3: i tre sarcofagi ritrovati interrati nel cortile del Serraglio e ricostruiti nel 1916 che oggi si trovano all'ingresso del Museo archeologico di Istanbul.

1

2

3


Di questi tre sarcofagi, due presentano coperchi a tetto spiovente con acroteri agli angoli. Sul frontone è scolpita la croce monogrammatica racchiusa in una corona d'alloro. Solo in uno dei due la croce è fiancheggiata dalle lettere alfa e omega (n.1).
Il terzo sarcofago presenta invece un coperchio arrotondato e quattro colonnette cilindriche agli angoli ed è privo di simboli cristiani.

4, 5: i due sarcofagi che si trovano nell'atrio della chiesa di Hagia Eirene.

4

5

6: il sarcofago ritrovato nei pressi della colonna di Marciano e trasportato anch'esso al Museo archeologico.

6

7: il sarcofago che si trova nel cortile della moschea Nuri-Osmaniye

7

8: un frammento ritrovato nei pressi del ponte della ferrovia (M.archeologico)

9: il frammento del lato lungo di un sarcofago proveniente dalla chiesa di Hagia Eirene (M. archeologico)

9

Tutti i sarcofagi ritrovati sono privi di epigrafi* e solo per alcuni sono state avanzate delle ipotesi di attribuzione.

* Nel 1197 Alessio III Angelo (1195-1203) fece rimuovere dai sarcofagi imperiali tutti gli ornamenti in oro e argento e li fece fondere per rimpinguare le esauste casse dello stato.

Sarcofago n.3

In genere si accetta che le spoglie di Giuliano siano state traslate dalla sua iniziale sepoltura a Tarso alla chiesa costantinopolitana dei SS.Apostoli, dove venivano sepolti gli imperatori. Costantino VII Porfirogenito (912-959) la include infatti, come detto sopra, nel catalogo dei sepolcri imperiali in porfido che si trovavano nella chiesa dei SS. Apostoli nel suo De cerimoniis, in cui lo descrive di forma cilindrica.
Secondo la maggior parte degli storici moderni il trasferimento avvenne inoltre molto precocemente, entro la fine del IV secolo.
Questo sarcofago, che gli viene per solito attribuito, è l'unico, tra quelli ritrovati a Costantinopoli, che può essere descritto come cilindrico oltre ad essere privo di simboli cristiani (Giuliano infatti non lo era).
Due storici bizantini dell'XI e del XII secolo – Giorgio Cedrenus e Giovanni Zonara - riferiscono entrambi che i resti di Giuliano furono traslati a Costantinopoli dopo una iniziale sepoltura a Tarso ma entrambi aggiungono anche che sul suo sarcofago era stato inciso il seguente epitaffio:
“Nell'argentea Cydnus, sulle acque dell'Eufrate, in Persia, dopo aver mosso l'esercito per un'azione rimasta incompiuta, Giuliano, imperatore e potente guerriero, ricevette questa sepoltura”. Di questa epigrafe non c'è però alcuna traccia sul sarcofago.
David Woods (On the alleged reburial of Julian the Apostate at Constantinople, Byzantion Revue internationale des études byzantines, 2006) sostiene invece che i resti di Giuliano non furono mai rimossi dalla tomba di Tarso e che il sarcofago a lui generalmente attribuito appartenga invece a Crispo, il primogenito di Costantino da lui nominato cesare nel 317 e fatto uccidere nel 326 con l'accusa di avere una relazione con la moglie Fausta. A sostegno della sua ipotesi porta sostanzialmente i seguenti argomenti:
1. Il patriarca ed il popolo di Costantinopoli non avrebbero mai permesso che un apostata mai riabilitato come Giuliano – è indicato infatti come tale anche nel citato catalogo di Costantino Porfirogenito – fosse sepolto in questa chiesa.
2. La traslazione compare solo nelle fonti bizantine più tarde. Appare difficile che tutti gli storici che pure hanno scritto di Giuliano in epoche precedenti abbiano potuto omettere questo fatto.
3. Nessuna delle fonti che parlano della traslazione fornisce dettagli su quando, ad opera di chi e perchè questa avvenne.
Secondo Woods il sarcofago attribuito a Giuliano venne ritenuto tale perchè era l'unico a trovarsi nel porticato settentrionale accanto a quello di Gioviano e ci si aspettava di trovare vicini i due compagni d'armi.

Sarcofago n.4

La sua attribuzione a Costantino il grande è discussa nel capitolo dedicato alla chiesa di Hagia Eirene dove attualmente si trova.

Sarcofago n.9

Questo frammento di porfido, ritrovato nella chiesa di Hagia Eirene (conservato al Museo archeologico di Istanbul), che raffigura due putti in mezzo ad altrettante girali d'acanto, mentre raccolgono grappoli d'uva e li depositano nelle ceste, presenta una straordinaria analogia della decorazione con quella del sarcofago di Costanza (Costantina) rinvenuto a Roma nell'omonimo mausoleo. I due sarcofagi furono probabilmente scolpiti in Egitto quasi contemporaneamente e successivamente inviati rispettivamente a Roma e Costantinopoli. Quello da cui proviene il frammento sarebbe stato destinato al fratello Costanzo II che regnò dal 337 al 361.


Narrativa moderna e contemporanea:

A.Gualchierotti, L.Camerini, Il trionfo del magister militum in Byzantium, Italian Sword&Sorcery Books, ebook, 2018.
Il racconto è ambientato nella Costantinopoli del 534, il giorno successivo il trionfo decretato da Giustiniano a Belisario al suo rientro nella capitale dopo la riconquista di Cartagine e della provincia d'Africa. Costante, l'ex ufficiale della guardia palatina protagonista di altri racconti di Gualchierotti e Camerini, è coinvolto in un tentativo di trafugare la Menorah originale, ritrovata da Belisario a Cartagine nel tesoro dei Vandali e riposta – immaginano gli autori – nel mausoleo di Costantino annesso alla chiesa dei Santi Apostoli.







sabato 1 dicembre 2012

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (V)



Teodosio I il grande (379-395)



Teodosio I raffigurato nel missorio di Teodosio, piatto d'argento coniato in occasione dei suoi decennalia, 388 c.ca, Real Academia de la Historia, Madrid.


Dopo il disastro di Adrianopoli, in cui perì lo stesso imperatore d'Oriente Valente, suo nipote Graziano, l'imperatore d'Occidente, dovette farsi carico anche della metà orientale dell'impero. Per fronteggiare i Goti, ormai liberi di saccheggiare i territori dell'impero, richiamò dalla Spagna il generale Teodosio che era stato accantonato da Valentiniano I dopo essere stato duramente sconfitto dai Sarmati (374).
Teodosio non riuscì a ricacciare i Goti al di là della frontiera danubiana ma riuscì a contenerli efficacemente sicchè il 19 gennaio del 379, a Sirmio, Graziano lo elevò al rango di Augusto e gli affidò la parte orientale dell'impero.
Dopo alterne vicende di guerra che avevano condotto ad una situazione di stallo, il 3 ottobre del 382 Teodosio stipulò un foedus con i Goti: grazie ad esso i barbari si poterono insediare nella diocesi di Tracia divenendo federati dell’Impero con ampia autonomia. Per la prima volta un popolo non soggetto alla legge romana si stanziò dentro i confini imperiali: i Goti, infatti, ebbero il permesso di farsi governare dalle loro leggi e dai loro capi a patto di fornire soldati e contadini all’Impero, dando con ciò inizio alla progressiva barbarizzazione dell' esercito romano. Erano trascorsi sei anni dall’ingresso dei profughi Goti nel territorio romano.

Mentre cercava di pacificare in qualche modo i confini, Teodosio, di fede nicena come Graziano e Valentiniano II, dovette anche affrontare la questione religiosa e contrastare la diffusione dell'arianesimo, che avendo goduto del favore di Costanzo II e Valente, era particolarmente forte nelle regioni orientali.
Il 27 febbraio 380 venne emesso l'Editto di Tessalonica, conosciuto anche come Cunctos populos, firmato congiuntamente dagli imperatori Teodosio I, Graziano e Valentiniano II (quest'ultimo all'epoca aveva solo nove anni). Il decreto dichiara il credo niceno religione ufficiale dell'impero, proibisce in primo luogo l'arianesimo e secondariamente anche i culti pagani. Per combattere l'eresia si esige da tutti i cristiani la confessione di fede conforme alle deliberazioni del concilio di Nicea. Il testo venne preparato dalla cancelleria di Teodosio I e successivamente verrà incluso nel codice Teodosiano da Teodosio II.

Nel 383 il governatore della Britannia, Magno Massimo, si proclamò imperatore, sbarcò in Gallia e sconfisse Graziano nei pressi di Parigi. Mentre ripiegava verso sud, Graziano fu raggiunto e assassinato dal magister equitum Andragazio (25 agosto).
L'usurpatore avviò delle trattative con Teodosio e Valentiniano II – il fratellastro di Graziano che regnava sull'Italia ed il Nordafrica – che lo riconobbero imperatore. Magno Massimo stabilì quindi la sua capitale a Treviri.
Nel 387 con il pretesto di sostenere l'ortodossia contro l'arianesimo a cui Valentiniano II, spinto dalla madre Giustina, stava facendo ampie concessioni, Magno Massimo varcò le Alpi alla testa delle sue legioni costringendo l'imperatore e la madre a rifugiarsi a Tessalonica sotto la protezione di Teodosio.
Teodosio – rimasto vedovo nel 385 della prima moglie Elia Flaccilla che gli aveva dato i figli Arcadio, Onorio e Pulcheria – s'invaghì della bellissima principessa Galla, figlia di Giustina, che acconsentì al matrimonio solo se Teodosio avesse mosso guerra a Magno Massimo rimettendo sul trono il figlio Valentiniano. Teodosio accettò ma pretese in cambio che Giustina e tutta la sua famiglia si convertissero all'ortodossia abbandonando l'arianesimo.
Nell'estate del 388 le truppe di Teodosio sconfissero ripetutamente Magno Massimo nell'Illirico (a Siscia sul fiume Sava ed a Petovio, l'attuale Ptuj in Slovenia) fin quando l'usurpatore, ritiratosi ad Aquileia, non  venne catturato e messo a morte.



Teodosio reinsediò quindi Valentiniano II sul trono d'occidente e rimase in Italia tre anni (dall’agosto del 388 al giugno del 391) e durante questo periodo visitò Roma (389).
Nel luglio del 391 Teodosio ripartì per Costantinopoli, prima di partire affidò il giovane Valentiniano II alla guida esperta del generale franco Arbogaste che avrebbe controllato l’Occidente per conto di Teodosio con il grado di magister equitum (subentrando al franco Flavio Bautone, amico dell’imperatrice Giustina, morto nel 388).

Nel 392 Valentiniano II cercò di esautorare Arbogaste inviandogli una lettera in cui lo dimetteva dalla carica e che il generale ignorò. Valentiniano II morì poco dopo a Vienne nelle Gallie il 15 maggio in circostanze poco chiare (il suo corpo fu ritrovato impiccato ad un albero). Arbogaste, che deteneva il potere reale, fece proclamare dal Senato romano augusto d'Occidente il magister scriniorum (capo della cancelleria) Flavio Eugenio che, per quanto battezzato, assunse un atteggiamento favorevole ai pagani ripristinando nella Curia l'altare della Vittoria che era stato fatto rimuovere da Teodosio.

BATTAGLIA DEL FIUME FRIGIDO (5-6 settembre 394, attuale valle dell'Isonzo)
Fu combattuta dall'esercito d'Occidente guidato dall'usurpatore Eugenio e dal suo magister equitum Arbogaste contro l'esercito d'Oriente guidato da Teodosio I, coadiuvato dai suoi generali Stilicone, Timasio e Bacurio e affiancato dai visigoti di Alarico.

Le forze in campo
L’esercito occidentale era comandato da Arbogaste in quanto Eugenio, ex funzionario di Stato ed ex insegnante nelle scuole di retorica, non aveva competenze militari e, di fronte alle truppe, svolgeva un ruolo puramente simbolico. Al contrario, Arbogaste era un ottimo generale: ufficiale agli ordini di Graziano, prima, poi dello stesso Teodosio, aveva avuto parte nella sconfitta di Magno Massimo e individuato con lucidità gli errori di quest’ultimo. Massimo, infatti, aveva sottovalutato l’importanza strategica dei Claustra Alpium Juliarum, il complesso difensivo creato a nord-est dell’Italia a partire dal III secolo. Lasciando sguarnite le fortificazioni di quel settore, aveva infatti agevolato l’ingresso in Italia dell’avversario, finendo con il trovarsi rinchiuso e assediato dentro le mura di Aquileia. Arbogaste badò bene ad assicurarsi il controllo dei Claustra, elaborando un piano per intrappolare Teodosio tra i valichi alpini.
Da parte sua, Teodosio era un comandante altrettanto esperto, pur non essendo al meglio delle proprie facoltà: non godeva, infatti, di ottima salute ed era moralmente provato dalla scomparsa della giovanissima moglie, Galla, morta di parto insieme al bambino che portava in grembo all’inizio del 394. il lutto aveva provocato un rinvio della spedizione, regalando tempo prezioso ad Arbogaste.
Ciascuno dei due eserciti poteva schierare diverse migliaia di uomini. Teodosio aveva ricevuto dai Goti un contingente che, secondo alcune fonti, comprendeva ventimila uomini, posti agli ordini di Gainas. Questi svolgeva funzioni di ufficiale di collegamento tra lo Stato Maggiore romano e il contingente goto, che conservava il proprio capo nazionale: probabilmente Alarico, futuro avversario dei Romani. Marciavano con i Goti reparti di Alani, che costituivano un corpo specializzato di arcieri a cavallo, agli ordini di un ufficiale di nome Saul, e le truppe regolari romane. L’Imperatore aveva nominato Timasio capo del proprio Stato Maggiore, in cui figuravano Bacurio - uno dei pochi ufficiali scampati al disastro di Adrianopoli - e Stilicone, destinato a svolgere un ruolo politico-militare determinante negli anni successivi.
Da parte sua Arbogaste aveva arruolato soldati soprattutto in Gallia, ottenendo truppe dagli alleati Franchi. Si trattava, dunque, di eserciti tipici del tardo Impero Romano, caratterizzati da un ruolo significativo degli ausiliari barbari e dall’impiego tattico della fanteria leggera. Legionari romani e guerrieri barbari, del resto, tendevano sempre più ad assomigliarsi: dopo la riforma militare di Costantino, le corazze andavano scomparendo e il cuoio prendeva il posto delle piastre metalliche, I barbari, da parte loro, adottavano spade ed elmi di foggia o fabbricazione romana.

La dinamica dello scontro
Ai primi di settembre deI 394, l’esercito di Teodosio giunse in prossimità dei Claustra Alpium Juliarum. Il tratto di strada che si preparò a forzare si trovava a sud di Emona e si articolava sulle due piazzaforti di Nauportus (attuale Vrhnika) e Castra ad fluvium Frigidum (Ajdovscina): per raggiungere la seconda e quindi puntare sulla pianura friulana attraverso la Valle del Vipacco, era necessario oltrepassare un valico presidiato dalla fortezza di Castrum ad Pirum (Hrusica), posta a circa ottocento metri di altitudine. Teodosio la raggiunse - pare -senza incontrare difficoltà: ma ciò corrispondeva al piano di Arbogaste che, intanto, aveva occupato Castra ad Frigidum e sbarrato la Valle del Vipacco. Teodosio, a quel punto, era imbottigliato a Castrum ad Pirum, in una situazione critica. Come scrive Paolo Orosio: “bloccato sulle vette delle Alpi, non poteva ricevere rifornimenti né rimanere a lungo sulle sue posizioni”. Per proseguire, avrebbe dovuto condurrre un atttacco contro un avversario saldamente attestato settecento metri più in basso, lanciando i propri uomini alla disperata giù per i fianchi della montagna. L’alternativa, era ripiegare, ma Arbogaste aveva inviato un proprio ufficiale, Arbizione, a tagliare la ritirata, occupando la strada alle spalle di Teodosio.
Frenetiche riunioni dello Stato Maggiore dovettero svolgersi tra le mura di Castrum ad Pirum. Infine Teodosio decise di giocare il tutto per tutto.
All’alba del 5 settembre l’esercito riprese la marcia, avanzando per una quindicina di chilometri, e si portò a un’altitudine di circa seicento metri, presso una postazione fortificata situata poco oltre l’attuale paese di Col. Proseguendo lungo la strada militare, l’esercito di Teodosio avrebbe dovuto condurre un attacco diretto su Castra ad Frigidum, calando per un pendio scosceso in uno spazio ristretto: gli uomini di Arbogaste avrebbero potuto respingerlo con facilità, appoggiandosi alla linea difensiva imperniata sulla città e sul torrente che la lambiva. Inoltre, macchine da lancio erano certamente in dotazione alla guarnigione di Castra, e pronte a essere usate contro gli attaccanti.
Per questi motivi, è più credibile che Teodosio preferisse deviare dalla strada e tentare la discesa in valle attraverso l’ampia conca che si apriva alla sua sinistra, digradando sino a Castrum Minor (Vipacco). Lo stesso Arbogaste doveva aver tenuto in conto tale eventualità, predisponendo difese anche in quel settore. In ogni caso, dunque, si trattava di un attacco praticamente suicida, come i fatti dimostrarono. Attacco la cui forza d’urto principale fu rappresentata dai ventimila ausiliari goti.
Nel pomeriggio del 5 settembre i Goti iniziarono a scendere superando il dislivello di circa cinquecento metri, marciando in linea di colonna lungo i fianchi delle montagne: non potevano dispiegare le proprie forze, né manovrare, né giovarsi dell’appoggio tattico della cavalleria. Via via che giungevano a valle, le truppe di Arbogaste erano pronte a caricarli e abbatterli con tutta comodità. Le fonti parlano di diecimila caduti nel contingente goto: la metà circa dei loro effettivi. Verso sera Teodosio ordinò di sospendere le operazioni.
L’esercito di Arbogaste, contemplando il massacro dei Goti, credette di aver vinto la battaglia. Eugenio alimentò gli incauti entusiasmi distribuendo onoreficenze: si festeggiò ci fu allegria e si perse la concentrazione. Era quanto, verosimilmente, si aspettava Teodosio, che aveva riservato per l’indomani un secondo attacco, quello vero, affidato soprattutto alle truppe regolari romane. La scelta di sacrificare i Goti, forse, non era stata casuale: dopo Adrianopoli i Romani subivano la loro alleanza e ridimensionarne la forza non poteva che giovare all’impero. Lo stesso Orosio non ha nulla da eccepire in merito: “averli persi fu un gran bene e una vittoria il fatto che fossero vinti”.
Inoltre Teodosio aveva segnato un altro punto a proprio favore ottenendo la defezione di Arbizione, l’ufficiale che avrebbe dovuto sbarrargli la ritirata. Arbizione doveva assalire Teodosio alle spalle: manovra che, dopo il disastroso esito del pomeriggio di battaglia, nelle speranze di Arbogaste sarebbe stata decisiva. Invece l’ufficiale mise le proprie forze a disposizione di Teodosio, “indotto a soggezione dalla presenza dell’imperatore”, scrive Orosio. O forse convinto dopo trattative intercorse nella notte.
All’alba del 6 settembre Teodosio scatenò il secondo attacco. Lo guidò Bacurio, l’ufficiale forse più motivato, dato che, sedici anni prima, aveva avuto una parte di responsabilità nel disastro di Adrianopoli: era giunta per lui l’occasione di riscattarsi. I legionari iniziarono la discesa coperti dalle tenebre e assalirono le linee avversarie di sorpresa. Bacurio, scrive Rufino “si aprì un varco tra le schiere dense e serrate dei nemici. Sfondò le loro linee e avanzò tra caterve di morti, in mezzo a migliaia di soldati che cadevano uno dopo l’altro, sino all’usurpatore”.
La prosa altisonante di Rufino esprime l’asprezza del secondo giorno di battaglia. Malgrado l’effetto sorpresa, le truppe di Arbogaste erano ancora in grado di organizzare una difesa e tentare di recuperare il vantaggio, grazie alla posizione favorevole. Fu in questa fase che si inserì la bora. Nella valle del Vipacco la bora può soffiare in qualunque stagione dell’anno, raggiungendo velocità di 80-100 chilometri orari e anche oltre. Era stata la presenza di questo vento a indurre i Romani ad abbandonare una precedente linea di comunicazione lungo la valle e a costruire la strada che s’inerpicava sino a Castrum ad Pirum per giungere a Castra.
La direzione della bora - vento da nord-est - faceva sì che soffiasse alle spalle dei soldati di Teodosio e frontalmente a quelli di Arbogaste. Gli effetti delle raffiche di vento sono così descritti da Orosio: “I dardi scagliati per mano dei nostri ricevevano una spinta per aria superiore alle forze umane e non cadevano quasi mai se non infliggendo colpi più profondi. Inoltre quel turbine di vento, strappando gli scudi, sferzava i volti e i petti dei nemici”. Il vento, per di più, scompaginava le formazioni di Arbogaste e rigettava indietro le loro frecce.
Non è possibile determinare in che misura la bora abbia condizionato il risultato della battaglia. La tattica di Teodosio, basata sul secondo attacco a sorpresa, aveva forse già riequilibrato l’iniziale inferiorità. Non trascurabile era poi stato il peso della diserzione di Arbizione. Con queste premesse, la bora trasformò la sconfitta dell’esercito pagano in disfatta totale. Eugenio, catturato, “fu condotto con le mani legate dietro la schiena ai piedi di Teodosio. E questa fu la fine, della sua vita e della battaglia”, conclude Rufino.

Flavio Eugenio raffigurato al recto di una moneta d'argento da lui fatta coniare (392-394)

Eugenio venne decapitato. La testa dell’ultimo imperatore pagano, infissa su una lancia, fu portata in trionfo e mostrata alle truppe. Ogni resistenza cessò e la città di Castra aprì le porte al vincitore. Arbogaste riuscì a fuggire ma i soldati di Teodosio lo braccarono due giorni in mezzo ai monti: infine, vistosi perduto, si uccise. Teodosio, ormai, era padrone di tutto l’Impero Romano.

Teodosio si spense a Milano colpito dall’idropisia il 17 gennaio del 395. L’8 novembre di quell’anno il suo corpo fu tumulato nel mausoleo imperiale della chiesa dei Santi Apostoli di Costantinopoli dove rimase fino al saccheggio crociato del 1204. Alla sua morte, come da lui stabilito, l'impero fu diviso tra i suoi due figli Onorio (Occidente) - ancora minorenne sotto la tutela di Stilicone che Teodosio aveva nominato magister utriusque militiae - e Arcadio (Oriente).
Edilizia:
A Costantinopoli, Teodosio fece realizzare diverse opere pubbliche come il forum Tauri, l'erezione dell'obelisco di Tutmosi III nella spina dell'ippodromo ed il porto teodosiano accanto a quello d'Eleuterio sul litorale meridionale della città.

Teodosio fu l'ultimo imperatore a governare su entrambe le metà dell'Impero Romano.