mercoledì 30 ottobre 2013

La cappella dei SS. Primo e Feliciano

La cappella dei SS. Primo e Feliciano

Pianta della chiesa di S.Stefano Rotondo

Nel VII secolo papa Teodoro I (642-649) fece traslare nella chiesa di Santo Stefano Rotondo al Celio (1) i resti dei santi martiri Primo e Feliciano, che precedentemente riposavano in una catacomba al XV miglio della via Nomentana, ritenuta non più sicura dopo le ripetute scorrerie dei Longobardi.
Sul nuovo sepolcro dei martiri, collocato nel braccio nord-orientale della chiesa, venne eretto un altare, alle spalle del quale il muro esterno venne demolito per realizzarvi una piccola abside, configurando in questo modo una cappella radiale.
Il catino absidale venne decorato da un mosaico a fondo d’oro.


Su un'irregolare striscia verde simboleggiante il terreno, si stagliano, al di sotto di un menisco in cui la dextera dei offre a Primo e Feliciano la corona del martirio, una croce gemmata sormontata da un clipeo contenente il busto di Cristo, ed ai lati, i due santi titolari della cappella.
Anche se il busto di Cristo è palesemente frutto di un rimaneggiamento successivo, il clipeo sembra essere originale (Matthieu), e ciò lascia pensare che, come per la base della croce (anch'essa fortemente rimaneggiata), i restauratori abbiano rispettato l'impianto originale.
Gran parte della critica, speculando sui natali gerosolimitani di papa Teodoro I, ha considerato l'intero impianto una sorta di "commosso omaggio" alla Gerusalemme da poco caduta in mano agli arabi (637), con la croce gemmata a simboleggiare dunque la stauroteca presente sul Golgota.
La croce gemmata, coronata dal busto clipeato del Cristo, potrebbe anche riflettere, sotto il profilo iconografico, le immagini venerate nei santuari di Terrasanta. Perduti gli originali, ne resta memoria nelle repliche realizzate su alcuni oggetti devozionali riportati dai pellegrini come questa ampollina della seconda metà del VI secolo che mostra appunto una croce sormontata dal busto clipeato di Cristo.

Ampolla devozionale
Tesoro del Duomo di Monza (2)

Secondo una passio piuttosto tarda (VI sec.), Primo e Feliciano erano due fratelli ottantenni che furono decapitati nei pressi di Mentana nel 303 circa per essersi rifiutati di fare sacrifici agli dei pagani. Nel mosaico Feliciano è invece rappresentato in età giovanile.
Entrambi sono vestiti come dignitari bizantini, con in mano il rotulo avvolto e legato che sostengono con un gesto manieratamente elegante, particolare anche questo bizantineggiante come l'acconciatura.
Secondo Matthiae, la cultura pittorica dell'autore del mosaico appare imbevuta dell'arte bizantina ma non al punto di farne del tutto un bizantino. Caratteristiche prettamente autoctone affiorerebbero infatti in una certa rigidità del contorno, nei valori più decisamente lineari delle pieghe, nell'allungamento delle figure, nell'incarnato più rossiccio e sanguigno delle carni o nel modo più crudo e realistico di rendere l'aggrottata e severa fissità dello sguardo.
Ciònonostante, nel contesto della produzione romana, questo mosaico rappresenta comunque uno dei momenti di maggiore aderenza ai canoni dell'arte di Bisanzio.

Nell’XI secolo la cappella fu ristretta con tramezzi per ospitare una sacrestia e un coro secondario e nel 1586 le pareti furono affrescate da Antonio Tempesta con le storie del martirio dei due santi. L’attuale altare risale al 1736 ed è opera di Filippo Barigoni.

 
 
Note:
 
 
(1) Santo Stefano Rotondo è la più antica chiesa romana a pianta circolare. Iniziata negli ultimi anni del pontificato di Leone I (440-461) fu terminata ed inaugurata da papa Simplicio (468-483). La chiesa fu costruita sul modello della Rotonda (chiesa della Resurrezione) della basilica costantiniana del Santo Sepolcro a Gerusalemme (335).

(2) Era consuetudine dei pellegrini riportare nei propri luoghi d'origine delle piccole ampolle di forma lenticolare in stagno (ma anche di ceramica o di vetro), contenenti piccole quantità dell'olio che ardeva nelle lampade poste vicino a sepolcri di santi o anche olio "santificato" dal loro contatto. Nel Tesoro del Duomo di Monza se ne conservano 16 esemplari, raccolti da Teodolinda, regina dei Longobardi, tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo.



 

sabato 19 ottobre 2013

Il reliquiario di Bessarione

Il reliquiario di Bessarione


Il 29 agosto del 1463 il Guardian grando della Scuola grande della Carità (1), Marco da Costa, e altri confratelli si erano recati al monastero veneziano di San Giorgio Maggiore da Bessarione per nominarlo confratello d’onore al posto del cardinale Prospero Colonna da poco deceduto. In segno di riconoscenza, Bessarione donò alla Scuola un prezioso reliquiario contenente frammenti della vera croce e della veste di Cristo, già appartenuto a una principessa della famiglia imperiale e poi donato negli anni ‘30 da Giovanni VIII (1425-1448) al suo confessore Gregorio Mammas, futuro patriarca di Costantinopoli (1443-1450). Deposto dagli antiunionisti nel 1450, Gregorio III Mammas, riparò a Roma e donò a sua volta il reliquiario a Bessarione in punto di morte (1459). Bessarione stese l’atto di donazione del reliquiario con la precisazione che lo avrebbe tenuto con sé fino alla sua morte.
Nove anni piu tardi, sentendo prossima la fine e dovendo affrontare un viaggio duro e faticoso in Francia in qualità di legato pontificio, il cardinale dispose che il reliquiario venisse consegnato da tre suoi emissari che lo avrebbero portato da Bologna a Venezia. Fu così che il 24 maggio 1472 il reliquiario giunse in laguna e fu accolto prima in San Marco e poi con solenne processione portato
nella chiesa di Santa Maria della Carità e da qui nella sala dell’albergo della Scuola stessa.
Nella missiva con cui Bessarione comunicava ai confratelli la sua decisione dichiarava anche che Ornandam curavi argento quo est conclusa: et adhibendam astam, ut ad gestationem in supplicationibus sit accomodata.
Il cardinale si era quindi premurato di impreziosire il manufatto e renderlo adatto a un uso processionale dotandolo di asta d’argento; l’intervento rinascimentale è da collocare, pertanto, in un momento precedente l’arrivo dell’oggetto a Venezia e da attribuire probabilmente a maestranze centroitaliane.
L’importante donazione fu onorata dalla Scuola della Carità con la realizzazione di un tabernacolo che la potesse degnamente custodire e a chiusura dello stesso venne commissionato a Gentile Bellini un dipinto che costituiva una sorta di pala feriale in grado di evocare l’oggetto sacro quando non era esposto.
Nella tavola, oggi conservata alla National Gallery di Londra, compare il cardinale Bessarione assieme a due confratelli inginocchiati ai piedi della stauroteca raffigurata in primo piano e di proporzioni maggiori del reale.

Gentile Bellini,
Il cardinale Bessarione e due membri della Scuola della Carità
in preghiera davanti al Reliquiario, 1472
National Gallery, Londra
 
Il reliquiario è formato di una croce a triplice trasversa col Crocifisso e piccoli dischi in smalto verde, incassata in una tavoletta smaltata a stelle d'oro entro la quale sono pure quattro piccole teche contenenti altrettante reliquie, due targhette in argento dorato con due mezze figure a sbalzo degli arcangeli Michele e Gabriele e due immagini di Elena e Costantino dipinte su vetro.
 
La croce a triplice traversa smontata ed aperta

La parte centrale anteriore è mobile, a saracinesca. Anteriormente è in legno con una parte fissa formante cornice ed una al centro mobile a guisa di saracinesca. Sui tre lati della cornice sono dipinte sette scene della Passione (la Cattura, la Derisione di Cristo, la Flagellazione, la Salita al Calvario, la Salita alla croce, la Deposizione dalla croce e la Deposizione nel sepolcro), separate da fasce di gemme e filigrana. Nella tavola di centro, mobile, è la scena della Crocifissione, con Gesù in croce tra il gruppo delle Marie da un lato (con la Vergine con il capo nimbato), San Giovanni, il buon centurione e i soldati dall'altro.
 
Il reliquiario con la tavoletta centrale inserita
 
La tavola rettangolare così composta è completata da un’asta d’argento di fattura rinascimentale, che si raccorda al resto del reliquiario con un sostegno a foglie e volute; il retro, infine, è ricoperto da una lamina, sempre in argento, divisa in due parti con una targa celebrativa del dono fatto alla Scuola Grande di Santa Maria della Carità da Bessarione, vescovo di Sabina, metropolita di Nicea e patriarca di Costantinopoli.
 
Il reliquiario senza la tavoletta centrale
 
Eccezion fatta per l'intervento d'innesto del reliquario sull'asta d'argento fatto realizzare dal cardinale in Italia, la stauroteca è interamente opera di maestranze costantinopolitane.
 
Lungo il bordo esterno della croce centrale una prima iscrizione recita:
Questo tipo della croce adorata in tutto il mondo viene adornato in argento da Irene Paleologina, figlia del fratello dell’imperatore, per la salvezza e remissione dei peccati.
Irene Paleologina è identificata con la figlia di Demetrio Paleologo, il più giovane dei figli di Andronico II e Teodora Comnena – fratello quindi di Michele IX co-imperatore dal 1295 alla sua morte nel 1320 - che fu despota di Tessalonica dal 1322 alla sua morte (1340 c.ca). Nel 1340 sposò Matteo Cantacuzeno, figlio dell'imperatore Giovanni VI Cantacuzeno, che fu nominato co-imperatore dal padre nel 1354 e persistette nel rivendicare il trono anche dopo l'abdicazione del padre (nel novembre dello stesso anno) fin quando non fu definitivamente sconfitto nel 1357 e si ritirò a Mistrà presso la corte del fratello Manuele, despota di Morea. Alla morte del fratello (1380) ne ereditò il titolo che mantenne fino alla sua morte (1383).
Il fatto che nell'iscrizione non vi sia alcun riferimento al marito, né al suo status di imperatrice, lascia supporre che il lavoro fatto eseguire e celebrato da Irene sia precedente al 1354.

Una seconda iscrizione indica Gregorio Confessore. Per la maggior parte della critica si tratta di un'aggiunta posteriore che indica il patriarca Gregorio III Mammas a cui la stauroteca fu donata dall'imperatore Giovanni VIII di cui era appunto il confessore.
Soppressa la Scuola della Carità con il decreto napoleonico del 1806, il prezioso reliquiario fu dapprima acquisito dal conte Luigi Savorgnan e poi dall’abate Celotti e da questi ceduto, nel 1821, all’imperatore Francesco I d’Austria.
Rientrata in Italia in seguito alle restituzioni conseguenti alla guerra del 1915-1918, la stauroteca
del cardinale Bessarione fu assegnata alle Gallerie dell’Accademia che nel frattempo avevano trovato sede proprio nell’antico complesso della Carità, venendo nuovamente collocata nel locale che fu l’antica sala dell’Albergo della Scuola.

Note:

(1) La Scuola della Carità, fondata nel 1260, era una delle più antiche tra le istituzioni laico-religiose di Venezia nonché la prima ad aver ricevuto l'appellativo di “grande” (tali erano solo le Scuole dei Battuti ovvero quelle che, come tipo di penitenza, imponevano ai propri fedeli la flagellazione).
Le vicende della Scuola, soprattutto economiche, permisero ai suoi sostenitori di acquistare nel corso dei secoli gran parte dell’area di proprietà del monastero adiacente, dando così la possibilità di erigere l’Albergo, nel quale ospitare i bisognosi, nonché di servirsi dei terreni vicini.
Nel 1806, a causa del noto editto napoleonico, anche questa scuola, così come le altre, venne soppressa e destinata, insieme alla Chiesa e al monastero, prima a sede dell'Accademia di Belle Arti e poi delle Gallerie dell'Accademia.








venerdì 11 ottobre 2013

La crociata di Varna (1443-1444)

La crociata di Varna (1443-1444)

Marcello Bacciarelli, Ladislao III, 1768-1771
Castello Reale, Varsavia 

Il 1° gennaio dell'anno 1443 papa Eugenio IV (1431-1447) proclamò una crociata contro i Turchi, non solo per mantenere gli impegni presi con Giovanni VIII Paleologo al Concilio di Firenze, ma anche perché la nazione cristiana d'Ungheria era minacciata dagli ottomani dopo la perdita di Belgrado avvenuta nel 1440. Venne quindi creata una coalizione a cui parteciparono Ladislao III Jagellone, re di Polonia (dal 1434) e d'Ungheria (dal 1440 con il nome di Ulaszlo I), il Voivoda di Transilvania e comandante militare della coalizione, Giovanni Hunyadi, il despota serbo Giorgio (Durad) Branković e Mircea II di Valacchia, figlio del Voivoda Vlad II Dracula.
L'esercito crociato, forte di 25.000 uomini e accompagnato dal legato pontificio cardinale Giuliano Cesarini, mosse dall'Ungheria nell'estate e, attraversato il Danubio in ottobre, penetrò vittoriosamente in Bulgaria, liberando Nissa e Sofia e sconfiggendo a più riprese le truppe ottomane, tanto che queste si dovettero ritirare.

Cristofano dell'Altissimo, Il cardinale Giuliano Cesarini, 1552-1568
Galleria degli Uffizi, Firenze

I ripetuti successi dei crociati, uniti al fatto che si trovava costretto a combattere su più fronti (Anatolia, Albania, Morea), spinsero il sultano Murad II a firmare nel luglio 1444 il Trattato di pace di Seghedino (Szeged) in cui stipulava che l'Impero Ottomano per dieci anni non avrebbe più attaccato nessun paese cristiano e accettava di cedere alcuni territori all'Ungheria e alla Serbia.
Tale esito del conflitto non soddisfece papa Eugenio IV, secondo il quale tutta l'area dei Balcani avrebbe dovuto essere liberata dal controllo degli Ottomani. Il Trattato di Seghedino fu invalidato ed il re di Polonia e Ungheria fu convinto a riprendere la guerra.
La flotta veneziano-pontificia, comandata dal nipote del papa, il cardinale Francesco Condulmer, e dall’esperto Alvise Loredan, fu inviata a presidiare lo stretto dei Dardanelli per impedire al sultano di far affluire rinforzi nei Balcani.
Il 20 settembre l'esercito crociato attraversò nuovamente il Danubio ed il 10 ottobre fu raggiunto da 7.000 cavalieri valacchi al comando di Mircea II.
Quando Murad II venne a conoscenza delle manovre dei cristiani, non esitò a radunare tutto il suo esercito e a traghettarlo al di là del Bosforo. Questa impresa fu favorita dalle avverse condizioni atmosferiche oppure, secondo alcuni cronisti dell'epoca, fu resa possibile dal tradimento di alcune navi genovesi e veneziane i cui comandanti si lasciarono corrompere dal sultano.
Il 9 novembre l'esercito ottomano, al comando del sultano e forte di circa 60.000 uomini, apparve ad ovest stringendo l'esercito crociato tra il lago Varna, la costa del Mar Nero e i ripidi pendii boscosi dell'altopiano di Franga.


La battaglia di Varna (10 novembre 1444)

La mattina del 10 Giovanni Hunyadi che aveva il comando militare della spedizione crociata, dispose l'esercito – che contava circa la metà degli effettivi schierati dal sultano - ad arco tra il lago Varna e l'altopiano di Franga. Al centro dispose i due contingenti della guardia reale polacca e ungherese, rafforzati da mercenari e nobili ungheresi con alle spalle di riserva la cavalleria valacca di Mircea. All'ala destra, che si allungava sulle colline fin quasi al villaggio di Kamenar, al comando del vescovo di Varadin, Jan Domenek, il suo contingente personale, i mercenari tedeschi e bosniaci del cardinale Cesarini, il contingente del vescovo di Eger Simon Rozgonyi e i croati di Franco Talotsi, governatore della Slavonia, alle spalle dei vescovi.
Ancora più indietro, alle spalle dell'ala destra, era stato allestito il wagenburg (letteralmente “forte di carri” ottenuto disponendo questi in cerchio) presidiato da circa 4-500 cechi e rinforzato da postazioni di bombarde.
Al comando dell'ala sinistra, formata da transilvani, bulgari, mercenari tedeschi e nobili ungheresi era Michele Szilágyi, cognato di Hunyadi.
Il sultano rispose schierando al centro, dietro una linea fortificata tra due tumuli sepolcrali, i Giannizzeri, dietro i quali si trovava lui stesso con i Sipahi della Porta. All'ala destra dispose i Sipahi di Rumelia al comando di Dawud pasha e a sinistra i Sipahi di Anatolia al comando di Karadzha pasha. Sul fianco delle colline di Franga, a continuare lo schieramento dell'ala sinistra, dispose gli arcieri giannizzeri e la cavalleria leggera (Akincis).

 
Le ostilità furono aperte dagli Ottomani che attaccarono contemporaneamente l'ala destra e quella sinistra dello schieramento crociato. Bersagliati dagli arcieri ottomani, i vescovi che comandavano l'ala destra, nonostante l'ordine di Talotsi di mantenere la linea, ordinarono la carica (4) ed in breve furono presi in mezzo tra i Sipahi d'Anatolia (2) e la cavalleria leggera ottomana (3) che scendeva dalle colline. In questa mischia fu probabilmente ucciso anche il cardinale Cesarini. Talotsi, dopo un infruttuoso tentativo di liberare i vescovi dalla trappola (5), ripiegò ordinatamente con le sue truppe verso il wagenburg.
 
 
Nel frattempo l'ala sinistra di Szilagyi aveva retto alla carica dei Sipahi di Rumelia ed il contrattacco di Hunyadi dal centro li aveva messi in fuga mentre la cavalleria valacca avanzava prendendo il posto delle truppe usate da Hunyadi nel contrattacco.
A questo punto l'esito della la battaglia era ancora incerto giacché entrambi gli schieramenti avevano perso un'ala.
La cavalleria valacca avanzò nel vuoto lasciato dall'ala sinistra ottomana e si diresse a saccheggiare il campo nemico, uscendo dalla battaglia. Hunyadi, lasciato un piccolo contingente ad inseguire le truppe di Rumelia, caricò con il grosso delle sue forze l'ala sinistra ottomana adesso in formazione disordinata. I turchi si difesero strenuamente e sbandarono soltanto quando fu ucciso il Beylerbey d'Anatolia. Al sultano rimaneva adesso soltanto la fanteria giannizzera.
 
 
 
Hunyadi aveva chiesto al re Ladislao di attendere che l'esercito si riorganizzasse prima di attaccare ma il re ignorò il consiglio e caricò la fanteria nemica con la sua guardia polacca (circa 500 cavalieri) che s'infranse contro la muraglia dei giannizzeri. Il re stesso trovò la morte e questo rovesciò le sorti della battaglia determinando la rotta dei crociati.
 
Jana Matejki, La battaglia di Varna, 1879
Szépművészeti Múzeum, Budapest.
Re Ladislao guida la carica della Guardia Reale Polacca.
 
Con il disastro di Varna la spinta propulsiva antiturca innescata dal Concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439) si esaurì definitivamente. Le potenze cristiane non tentarono più un'azione comune per espellere il Turco dall'Europa.








 
 

giovedì 3 ottobre 2013

La cappella funeraria di Bessarione


La Cappella funeraria di Bessarione
(chiesa dei SS.Apostoli, Roma).

Il 18 dicembre 1439, appena terminato il Concilio di Firenze e mentre ancora si trova a Costantinopoli, papa Eugenio IV (1431-1447) nomina Bessarione cardinale titolare della chiesa dei SS.Apostoli a Roma, carica che ricoprirà fino al 1449; nei primi anni Cinquanta, sotto il pontificato di Niccolò V (1447-1455), ne diverrà amministratore perpetuo e commendatario.

La cappella funeraria di Bessarione – dedicata a S.Giovanni Battista, S.Eugenia e S.Michele Arcangelo – fu affrescata tra il 1464 ed il 1468 da Antoniozzo Romano con la collaborazione di Melozzo da Forlì.
Coperti da una mano di calce già nel 1545, per i gravi danni causati dalle continue inondazioni del Tevere e dal sacco lanzichenecco (1527), gli affreschi furono in parte obliterati (1650) dal monumentale altare di S. Antonio, che Carlo Rainaldi addossò all’abside della cappella stessa e definitivamente perduti con la costruzione della attuale cappella Odescalchi (1719-23) di Ludovico Rusconi Sassi. La loro esistenza, rimasta nota attraverso alcune descrizioni seicentesche, fu scoperta solo nel 1959 dall’architetto Clemente Busiri Vici nel corso di alcuni lavori di manutenzione del lato di Palazzo Colonna attiguo alla basilica.
Nel primo testamento del cardinale, redatto nel mese di febbraio del 1464 a Venezia - dove Bessarione si era recato quale legato pontificio a latere per organizzare l’intervento crociato della Serenissima - sono riportati i lavori strutturali da eseguire nella cappella e la minuziosa descrizione di una recinzione presbiteriale, una sorta di iconostasi, atta ad isolare la zona più sacra della cappella dallo spazio dei fedeli. Il testo in questione - dove vengono esposti in dettaglio i lasciti del cardinale alla propria cappella funeraria e le volontà inerenti la realizzazione del suo sepolcro - presenta altresì la raffigurazione dedicatoria che doveva campeggiare in controfacciata alla parete di ingresso: Cristo in trono affiancato da Maria, S. Giovanni Battista, l’Arcangelo Michele, S. Eugenia e il cardinale Bessarione; nell’affresco votivo il prelato doveva comparire inginocchiato accanto ai santi eponimi e, sotto di lui, le sue armi. Lo schema iconografico sembra far riferimento a quello tradizionale bizantino della Deesis nel quale Maria e Giovanni Battista, ai lati di Cristo, intercedono per le anime dei fedeli, tema che ribadisce la destinazione funeraria della cappella. È importante rilevare che nel documento si rinvia ad un accordo precedentemente preso con il magister a noi non pervenuto, nel quale era forse descritto a grandi linee l’intero schema della decorazione e, più precisamente, le pitture da realizzare nella parte absidale.

Dalle descrizioni antiche sappiamo che il ciclo pittorico doveva comprendere dal basso verso l’alto le storie di Giovanni Battista (oggi perdute e già in antico sostituite da scialbe raffigurazioni sacre); le due storie dell’arcangelo Michele (conservate in gran parte) e culminare in alto con la presentazione dell’uomo al Cristo trionfatore, circondato dalle nove schiere angeliche (solo parzialmente conservato).


Particolarmente importante per la sua valenza simbolica, storica e teologica è il grande affresco centrale dedicato a due celebri episodi legati alle apparizioni dell’Arcangelo Michele (1).
A sinistra, è l’apparizione dell’Arcangelo nelle sembianze di un toro presso la città di Siponto nel Gargano - APPARITIO EIUSDEM IN MONTE GARGANO, come recita il titulus sottostante - (2); a destra, il sogno di san Oberto a Mont Saint Michel nel golfo di Saint Malo in Bretagna, sede di un altro importante santuario dedicato al Santo (3).

Apparitio Eiusdem in monte Gargano

Nel riquadro sinistro è ben riconoscibile la città di Siponto (4), cinta da mura, ed il paesaggio montuoso con la grotta di Monte Sant’Angelo sul Gargano dove nel 490 sarebbe avvenuta l’apparizione dell’Arcangelo nelle sembianze di un toro, che miracolosamente respingeva le frecce scagliate dagli arcieri. Si attribuisce la scena alla mano di Antoniazzo con l’intervento di Melozzo per la figura del toro e dell’arciere in abito viola sulla destra della composizione.

Apparitio Eiusdem in monte Tumba
 
A destra è raffigurata una scena storica di più complessa lettura. Il titulus sottostante, APPARITIO EIUSDEM IN MONTE TUMBA, permette di riferire la pittura alla leggenda francese di S. Michele e alla sua apparizione in sogno a san Oberto, vescovo di Avranches, rappresentato benedicente in sontuosi paramenti sacri al centro di una processione di dignitari. Attendono la processione, raffigurati in primo piano ed attribuiti alla mano di Melozzo da Forlì, due prelati a capo scoperto e di spalle, vestiti con piviali d’oro arabescati e sullo destra, due gruppi salmodianti di sei frati francescani e cinque monaci basiliani orientali in abito nero. Sullo sfondo, l’insenatura marina con tre imbarcazioni; sulla destra una collinetta, dall’alto della quale assiste alla scena un toro legato ad un albero, che simboleggia lo stesso Arcangelo Michele, che esorta il vescovo a fondare il monastero.
Le conchiglie visibili sulla spiaggia ci permettono di collocare la scena sulla spiaggia di Mont Saint Michel, raggiungibile dalla costa a piedi solo durante la bassa marea.
La scena sembra alludere con esplicito riferimento al tentativo politico perseguito in quegli anni da Bessarione di coinvolgere Luigi XI, re di Francia, all’epoca monarca della nazione cristiana più ricca e militarmente potente, in un’ultima crociata, che di fatto però non fu realizzata, per liberare Costantinopoli caduta in mano ottomana nel 1453 e per riunire la chiesa latina e greca (rappresentate nell' affresco dalla presenza dei monaci basiliani e dei frati francescani).
 
Particolare del volto di San Oberto
 
Nella speranza di ottenerne l’appoggio, secondo certa critica nelle sembianze del santo vescovo Oberto sarebbe raffigurato Luigi XI (5). Di fatto, solo quest’ultimo per il dotto cardinale sarebbe stato in grado di difendere la cristianità e liberare il toro, ossia S. Michele, rappresentato legato ad un albero sulla collina in alto sulla destra, a causa dell’immobilismo della Francia.
 
 
Tra il corteo dei partecipanti alla processione è possibile riconoscere due importanti personaggi dell’epoca di Bessarione: Francesco Maria Della Rovere, il futuro papa Sisto IV (1471-1484), identificato nella figura alle spalle del santo vescovo, vestita di rosso porpora e suo nipote, Giuliano Della Rovere, il futuro papa Giulio II (1503-1513), in abiti viola.
Nella figura con le mani giunte ed il copricapo rosso (l'unica che guarda in direzione opposta agli altri partecipanti alla processione) si celerebbe invece lo stesso Antoniozzo Romano ed il quella in abito verde con un cero in mano Melozzo da Forlì.
 
I cori angelici
 
Nel registro superiore della cappella è riapparsa dopo il recente restauro una parte delle nove schiere angeliche, disposte in cerchi concentrici, che circondavano la figura del Cristo trionfante, di cui non resta, purtroppo, nulla. Anche il coro degli angeli, ispirato non solo teologicamente alla tradizione medievale, viene attribuito ad Antoniazzo Romano e bottega in collaborazione con Melozzo da Forlì. In alto si conserva un frammento superstite del manto di Cristo eseguito dallo stesso Antoniazzo.
 

Tra la fine del ‘500 e inizi del ‘600 il rialzamento della pavimentazione della cappella comportò la distruzione del registro inferiore degli originari affreschi di Antoniazzo sostituiti dalle attuali e mediocri raffigurazioni delle sante Eugenia e Claudia.
 
 
Al centro si trova un'edicola marmorea che risale all'epoca della cappella e che doveva ospitare la tavola della Madonna con Bambino – la cosiddetta Madonna di Bessarione – opera di Antoniazzo oggi collocata sull'altare della prima cappella della navata destra della chiesa e qui sostituita da una copia. Di fronte all'edicola, attraverso un'apertura del muro, si può vedere una vasca di porfido rosso destinata ad accogliere i resti delle sante Eugenia e Claudia qui traslati nell'XI secolo.
 
Antoniozzo Romano, Madonna detta di Bessarione, XV secolo
 

Note:
(1) S. Michele arcangelo rappresenta nell’iconografia cristiana l’angelo guerriero che comanda gli eserciti celesti, specificatamente invocato nella lotta contro i Turchi.
(2) Secondo quanto riportato dal Liber de apparitione santi Michaelis in Monte Gargano, la cui stesura risale all'VIII secolo, l'8 maggio del 490 un certo Elvio Emanuele, un ricco signore del Gargano, che aveva smarrito il più bel toro della sua mandria, lo ritrovò casualmente dentro una caverna inaccessibile. Nell'impossibilità di accedere nell'antro per recuperarlo, in un impeto d'ira decise di ucciderlo scagliandogli una freccia con il suo arco; ma la freccia inspiegabilmente invertì la traiettoria e colpì il signorotto ferendolo ad un piede. Meravigliato dall'accaduto si recò da Lorenzo Maiorano, il santo vescovo di Siponto, per riferirgli l'episodio. Dopo averlo ascoltato, il vescovo indisse tre giorni di preghiera e di penitenza al termine dei quali san Michele Arcangelo gli apparve in sogno dicendo: "Io sono l'Arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna è a me sacra, è una mia scelta, io stesso ne sono vigile custode. Là dove si spalanca la roccia, possono essere perdonati i peccati degli uomini [...] Quel che sarà chiesto nella preghiera, sarà esaudito. Quindi dedica la Grotta al culto cristiano".
(3) Secondo la Revelatio ecclesiae sancti Michaelis in monte Tumba, composta nell'820 c.ca, San Michele nel 708-709 apparve in sogno ad Oberto, vescovo di Avranches, esortandolo a costruire sul monte Tumba una chiesa in suo onore affinchè la sua memoria vi fosse celebrata non meno che sul Gargano. Così il vescovo fece costruire la chiesa a pianta circolare a mo' di grotta nell'intento di riprodurre fedelmente il santuario del Gargano.
(4) L'antica colonia greca di Siponto, sede vescovile fin dalla metà del V secolo, fu pressochè completamente distrutta da un maremoto nel 1255. L'anno successivo Manfredi di Sicilia ne ordinò la ricostruzione a poco più di due chilometri a nord della città distrutta e diede il suo nome alla nuova città – Manfredonia - con cui essa è ancora conosciuta. Nel 1272, Carlo I d'Angiò, in occasione della visita di papa Gregorio X, ribattezzò la città con il nome di Nova Sipontum che però nel tempo non ebbe fortuna. Tra il 1447 ed il 1449 lo stesso Bessarione ricoprì la carica di vescovo di Siponto.
(5) Secondo altra interpretazione nel santo vescovo sarebbe raffigurato invece l'umanista Niccolò Perotti, che fu amico personale di Bessarione nonché suo segretario per un periodo (1446-1450) ed arcivescovo di Siponto dal 1458 al 1480.