sabato 24 novembre 2012

S.Demetrio di Tessalonica

S.Demetrio di Tessalonica

Martirio di S.Demetrio, chiesa di S.Demetrio (Mitropolis), Mistrà, fine XIII sec. 


La passio prima, pervenuta in diverse versioni, racconta che a Tessalonica, durante le persecuzioni di Massimiano (286-305), tra i cristiani arrestati si trovava il predicatore Demetrio. Costui viene mostrato in catene all'imperatore diretto allo stadio per assistere a un combattimento gladiatorio, e rinchiuso per suo ordine nelle vicine terme. Nello stadio un lottatore di gran fama, un vandalo di nome Lyaeus, favorito imperiale, è affrontato dal giovane Nestore, che rifiuta il denaro offertogli da Massimiano perchè rinunci a uno scontro che gli sarebbe fatale: Nestore colpisce a morte il gladiatore, e l'imperatore si allontana incollerito; ma, quando gli viene detto che erano state le preghiere di Demetrio a guidare la mano del vincitore, ordina che egli venga ucciso a colpi di lancia nel luogo stesso dove si trovava prigioniero. Qui il suo corpo viene seppellito sotto uno strato sottile di terra da alcuni compagni di fede e a lungo dimenticato.
Successivamente i miracoli di guarigione che avvengono sul luogo rivelano la potenza del martire, sicchè l'eparca dell'Illirico Leone fa ripulire l'area e vi fa edificare una chiesa.
Il racconto mostra come l'agiografo non disponesse di alcuna informazione su Demetrio, ma ricostruisse la narrazione a partire dal luogo in cui si trovava la basilica intitolata al santo, tra le terme e lo stadio (e pertanto in un'area urbana inconsueta per un martyrion), e tendesse ad accreditarvi la presenza delle reliquie.

Martirio di S.Nestore, chiesa di S.Demetrio (Mitropolis), Mistrà, fine XIII sec.

La passio altera, pervenuta in un gran numero di manoscritti, aggiunge al primo racconto particolari e circostanze diverse: Demetrio proviene da una famiglia di rango senatorio e percorre una brillante carriera nell'amiministrazione imperiale; predica il vangelo nel portico occidentale del Foro di Tessalonica e raduna i discepoli in una sala sotterranea delle vicine terme. Uno di costoro, Nestore, chiede a Demetrio di benedirlo in vista della lotta, prega il suo Dio e uccide l'avversario nello stadio; interrogato da Massimiano, attribuisce al Dio di Demetrio la vittoria: e l'imperatore fa allora mettere a morte prima Nestore e poi Demetrio, il cui servo ne raccoglie il sangue che opera ogni sorta di guarigioni. In seguito l'eparca per l'Illirico Leone, miracolosamente risanato da una grave malattia sul luogo stesso del martirio, vi fa costruire una chiesa; dovendo far ritorno in Illirico, vuole portare con sè una reliquia del santo, ma Demetrio gli appare in sogno e glielo proibisce: Leonzio allora chiude in un cofanetto la clamide imbevuta del sangue del martire e la depone a Sirmio nella chiesa che fa edificare in suo onore.

 
S.Demetrio con l'arcivescovo Giovanni e l'eparca Leone, fondatori della chiesa, con un'inscrizione che si riferisce al terzo assedio di Tessalonica da parte degli Slavi (inizi VII sec.), chiesa di S.Demetrio, Tessalonica

La caratterizzazione di Demetrio come santo militare va dunque probabilmente attribuita alla fama dei suoi miracolosi interventi in armi a difesa della città di Tessalonica contro gli attacchi di Avari e Slavi (nel 586 Tessalonica fu a lungo assediata dagli attacchi di Avari e Slavi ma la città, benché allo stremo, resistette all’assedio): le tre raccolte di miracoli pervenute (le prime due del sec. VII e la terza molto piu' tarda, del sec. X), i racconti che ne derivano e la luga serie dei panegirici episcopali, distribuiti su un lungo arco cronologico, illlustrano la diffusione e l'evoluzione del culto, e il progressivo precisarsi nella figura di Demetrio degli attributi e dei caratteri della santità militare in ragione delle prodigiose vittorie sui nemici attribuite ai suoi interventi in favore della città minacciata.

San Demetrio
Chiesa del Salvatore in chora, Costantinopoli, 1316-1321

[I barbari] Assediarono la città per lungo tempo, fino all’esaurimento di tutte le loro forniture, tanto per l’uomo che per le bestie. Avendo deciso di attaccare la città tutto il mattino del giorno successivo, la circondarono su ogni lato con le loro macchine di guerra. E quando ormai l’urbe stava per essere presa, fu vista uscire dalla città una moltitudine di uomini armati, come uno sciame di api, che era preceduta da un certo giovane dai capelli rossi, di bellissimo aspetto, recante tra le mani il segno della croce; lo portava un cavallo bianco, e con impeto si scagliarono contro di quelli. Atterriti, [i barbari] lasciarono la città, prendendo riparo con la fuga. Tuttavia pochi, che non erano riusciti a fuggire, rimasero lì mezzi morti. Quando questi furono catturati dai cittadini, fu chiesto loro perché una così grande moltitudine era in fuga, senza alcun motivo. I barbari quindi [risposero], "La moltitudine di uomini che si nascondevano, insieme con il loro coraggiosissimo comandante, ha messo in fuga le nostre truppe". Ma quelli [i cittadini] si resero conto che il comandante era il martire Demetrio, che insieme ad un esercito di angeli aveva messo in fuga il nemico. (Anastasio Bibliothecario, Incipit a Passio Sancti Demetrii martyris, IX sec.) 
Il santo è spesso raffigurato in armatura da soldato romano, sebbene soprattutto le sue prime rappresentazioni lo vedono vestito della semplice clamide diaconale. Dopo la caduta di Costantinopoli viene sempre più spesso associato a San Giorgio ed insieme raffigurati a dorso di un cavallo, di colore rosso per San Demetrio e bianco per San Giorgio.

S.Giorgio e S.Demetrio mentre trafiggono il drago, Monastero di Sumela, Trebisonda



domenica 18 novembre 2012

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (IV)

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (IV)


Valente (364-378)
Nominato augusto per l'Oriente dal fratello Valentiniano I pochi giorni dopo la sua elezione ad imperatore, Valente ereditò la parte orientale di un impero che si era appena ritirato da gran parte dei propri possedimenti in Mesopotamia e Armenia in seguito al trattato firmato da Gioviano col re di Persia Sapore II.
Nel 365, mentre si trovava in Cappadocia per organizzare una nuova avanzata verso est, fu raggiunto dalla notizia che Procopio, un cugino di Giuliano che aveva comandato il corpo di spedizione in Armenia durante la sfortunata campagna contro i sasanidi, si era proclamato imperatore il 28 settembre a Costantinopoli. Grazie al suo imparentamento con la dinastia costantiniana, l'usurpatore si guadagnò il sostegno della popolazione di Costantinopoli e di alcune legioni.
Lo scontro decisivo avvenne nell'aprile/marzo del 366 nei pressi di Thyatira (l'attuale Akhsar in Turchia) e l'esito a favore di Valente fu determinato dal tradimento del generale Goamario che nel corso della battaglia passò dalla sua parte con i suoi uomini. Procopio, fuggito dal campo di battaglia con pochi fedelissimi, fu catturato poco dopo nei pressi di Nacoleia e giustiziato il 27 maggio.
 
Testa di Valente
Musei capitolini, Roma
 
Tra l'estate e l'autunno del 376, decine di migliaia di profughi goti e di altri popoli, scacciati dalle proprie terre e incalzati dagli unni, premevano sul Danubio, confine dell'Impero romano, chiedendo di poterlo attraversare e stabilirsi in territorio romano.
Valente accettò di accogliere i Tervingi di Fritigerno e Alavivo allo scopo di rafforzare il suo esercito in vista di una nuova campagna contro i sasanidi e promise loro terre da coltivare e la distribuzione di razioni alimentari. La struttura logistica romana, in parte per la corruzione di alcuni funzionari e ufficiali che speculavano sui profughi, non resse l'impatto di questa immigrazione controllata e rapidamente i Goti furono ridotti alla fame.

Tra la fine del 376 e l'inizio del 377 le zone a ridosso del Danubio vennero saccheggiate dai Goti; ai Tervingi di Fritigerno si unirono tutti i Goti entrati in territorio romano, come pure schiavi, minatori e prigionieri. Le guarnigioni romane dell'area riuscirono a difendere i centri fortificati, ma la maggior parte delle campagne furono alla mercé dei Goti, i quali si trasformarono in breve tempo da gruppi separati di profughi ribelli in una massa organizzata per la guerra e il saccheggio.
A questo punto la situazione per i Romani divenne difficile: Valente aveva sottovalutato la minaccia dei Goti rispetto al nemico di sempre, i Sasanidi, e teneva impegnato l'esercito presenziale (così era detto l'esercito che accompagnava l'imperatore nelle campagne militari) in oriente, né le truppe in Tracia potevano reggere alla pressione di Unni, Alani e altre popolazioni germaniche lungo i confini e, al tempo stesso, infliggere una sconfitta decisiva ai Goti.
Al tempo stesso i Goti si trovavano in una posizione altrettanto difficile, profondamente in territorio nemico e con la necessità di procacciarsi notevoli quantità di cibo, cosa che li costringeva a muoversi in gruppi di numero ridotto, possibile preda di attacchi di forze romane; il loro obiettivo poteva essere quello di infliggere ai Romani una sconfitta tale da imporre loro dei termini non distanti dall'accordo di ingresso nel territorio imperiale (la concessione di terre da coltivare), ma dovevano farlo presto, prima dell'arrivo di altre truppe romane.
Valente, che si trovava con l'esercito presenziale ad Antiochia, in attesa di completare i preparativi per trasferirlo in Tracia, inviò due dei suoi generali, Traiano e Profuturo. Nel frattempo, a testimonianza della gravità della situazione, l'imperatore d'Occidente, Graziano, nipote di Valente, inviò due legioni, al comando di Ricomere e Frigerido, in Tracia, sia per impegnare i Goti che per assicurarsi che non passassero in Occidente.
I due generali di Valente non impegnarono il nemico attaccandolo quando era diviso in piccoli gruppi, ma decisero di ingaggiarlo nel suo insieme con le truppe dell'esercito d'Armenia, che avevano dato prova di valore; con queste spinsero i Goti all'interno delle valli per prenderli per fame.



Battaglia dei salici (estate 377).
Non giungendo l'atteso aiuto di Frigerido, caduto ammalato e attardatosi lungo la strada, Traiano e Profuturo, affrontarono I goti guidati da Fritigerno con le loro due legioni affiancate da quella di Ricomere in una località a sud del delta del Danubio nota come Ad Salices. Le legioni romane impegnarono a lungo un'enorme massa di barbari trincerati dietro un muro di carri, fino allo scontro in campo aperto: dopo un iniziale cedimento dell'ala sinistra romana, rafforzata dall'arrivo di truppe ausiliarie locali, la battaglia si trasformò in una mischia corpo a corpo che durò fino al calar della notte. La battaglia fu in effetti senza vincitori: i Romani, sebbene in inferiorità numerica e con numerose perdite (incluso Profuturo stesso), riuscirono ad evitare un tracollo totale grazie al proprio superiore addestramento e a ripiegare su Marcianopoli (la città, fondata da Traiano agli inizi del II secolo in onore della sorella Ulpia Marciana, sorgeva nei pressi dell'attuale Devnja, in Bulgaria).

La battaglia dei salici interruppe momentaneamente le ostilità aperte: Ricomere tornò, all'inizio dell'autunno, in Gallia, dove si trovava Graziano, per raccogliere altre truppe per la campagna dell'anno successivo, mentre Valente nominò Saturnino magister equitum e lo inviò in Tracia con un contingente di cavalleria ad affiancare Traiano.
Saturnino e Traiano riuscirono a bloccare i Goti nei passi dell'Haemus, in Tessaglia, formando una linea di avamposti che respinsero i tentativi di sfondamento dei Goti: lo scopo dei generali romani era quello di sottoporre il nemico ai rigori dell'inverno e alla mancanza di cibo e di costringerlo alla sottomissione; in alternativa, avrebbero tolto successivamente le sentinelle, attirando Fritigerno in una battaglia in campo aperto nelle pianure tra il monte Haemus e il Danubio, in cui contavano di sconfiggerlo. Fritigerno, però, non avanzò verso nord accettando battaglia, ma arruolò contingenti di Unni e Alani in suo rinforzo; Saturnino, resosi conto di non poter più fronteggiare il nemico, abbandonò il blocco dei passi ed arretrò. Davanti ai Goti si aprirono allora vasti spazi e poterono invadere e saccheggiare un vasto territorio che giungeva sino ai monti Rodopi a sud e che andava dalla Mesia all'Ellesponto.
Valente chiamò allora Sebastiano ad occuparsi dell'organizzazione dell'esercito, nominandolo magister peditum ed esonerando Traiano. Sebastiano scelse duemila soldati, che addestrò e comandò personalmente. Si avvicinò alle città prese dai barbari, tenendo sempre l'esercito al sicuro da attacchi improvvisi; quando i barbari tentavano delle sortite per procurarsi il cibo, Sebastiano li sorprendeva massacrandoli.

Raggiunta Costantinopoli, Valente non volle attendere l'arrivo dei rinforzi inviati dall'imperatore d'Occidente e, nonostante l'inferiorità numerica, schierò l'esercito a battaglia a ridosso del campo trincerato dei goti nei pressi di Adrianopoli.

Battaglia di Adrianopoli (9 agosto 378)
La battaglia fu combattuta dall'esercito romano guidato da Valente e forte di circa 15.000 uomini e i goti di Fritigerno affiancati da unità alane e unne.
I goti inizialmente inviarono dei parlamentari e l'imperatore accettò di trattare. Ricomere si offrì come ostaggio per garantire l'incolumità di Fritigerno che sarebbe venuto a negoziare di persona come richiesto da Valente. In realtà Fritigerno voleva soltanto prendere tempo per attendere il rientro della cavalleria che era uscita per una scorreria.
Quando il generale franco uscì dalle linee romane per andare dai Goti, la guardia a cavallo degli Scutari, comandata da Bacurio, troppo vicina alle linee nemiche, accese una mischia con i Goti. Ricomere fu costretto a tornare indietro, il negoziato era fallito.


La cavalleria gotica, con gli alleati unni e alani, guidata da Alateo e Safrax , sbucò da dietro le colline e investì la cavalleria romana che finì addosso alla fanteria dell’ala sinistra.


Dopo un momento di smarrimento, i Romani iniziarono ad avanzare e la cavalleria giunse quasi a ridosso dei carri. La vittoria era a portata di mano, sarebbe bastato travolgere i carri e irrompere nel campo. Con sgomento i cavalieri si accorsero di essere soli, la fanteria romana non li aveva seguiti, intanto la cavalleria gotica, messa in fuga la cavalleria dell’ala sinistra dello schieramento romano, tornò indietro e investì i cavalieri di fianco e di spalle. La cavalleria pesante romana, bloccata tra i carri e i nemici, fu fatta a pezzi.


I legionari erano rimasti soli, con terrore videro che i Goti li circondavano, allora si compattarono e lentamente iniziarono a ritirarsi; i Goti cercavano di colpirli con frecce e con cariche di cavalleria, ma inutilmente, così fecero intervenire la fanteria che si gettò sui legionari con impeto, ma quelli erano i migliori veterani di tutto l’Impero d’Oriente e avrebbero venduta cara la pelle.
Tra questi reparti (i Lanciarii e i Mattiarii) ancora combattenti si rifugiò Valente che era rimasto privo della cavalleria di scorta. Traiano vide l’imperatore in pericolo e gridò di aiutarlo, il comes Vittore si diresse dai Batavi (che erano rimasti di riserva) e disse loro di aiutare il sovrano. I Batavi invece fuggirono, con loro scapparono Vittore, Ricomere, Saturnino, e tutti coloro che avevano un cavallo.
Valente rimase solo con i fanti. Alla fine però le lance si spezzarono, gli scudi si ruppero, la stanchezza e la disperazione ebbero la meglio; la fanteria perse ogni speranza e, sebbene veterana, fuggì. I barbari iniziarono a inseguire e a massacrare i soldati romani senza sosta, ebbri di sangue e di vittoria.
Giunse infine la notte, e con essa la fine del massacro. Nella fuga generale la strage fu immensa, i due terzi dei veterani dell’Impero furono annientati, tra gli altri morirono 35 tribuni (con e senza comando militare), i generali Traiano e Sebastiano, Valeriano, amministratore delle scuderie imperiali, Equizio, amministratore del palazzo e Potenzio, tribuno dei Promoti.
Incerta è la fine di Valente. Ammiano Marcellino riporta due versioni: la prima vuole che, al calare delle tenebre, cadesse fra i soldati semplici colpito a morte da una freccia.
“Altri dicono che Valente non esalò subito l’anima, assieme ai candidati e a pochi eunuchi fu portato in una baracca di campagna il cui secondo piano era ben difeso: qui morì, perché curato da mani inesperte. Circondato da nemici che non sapevano chi fosse, fu esentato dalla vergogna della prigionia. I nemici tentarono di sfondare le porte sbarrate, ma dalla parte alta della casa erano attaccati con il lancio di frecce; per non perdere la possibilità di fare bottino a causa di un indugio da cui sarebbe stato impossibile venire a capo, ammucchiarono paglia e legna cui dettero fuoco così bruciando l’edificio e chi vi stava dentro. Uno dei candidati (soldati della guardia personale dell'imperatore) fuggì da una finestra e, catturato dai Goti, raccontò loro chi c’era nella casa, i Goti si dispiacquero molto di aver perso un così illustre prigioniero. Questo stesso soldato poi fuggì dai barbari e, tornato tra i Romani, riferì che quella era stata la fine dell’imperatore.”
Era dai tempi di Canne che Roma non subiva una sconfitta di questa portata.
Valente sposò, prima della sua ascesa al trono, Alba Dominica da cui ebbe due figlie (Anastasia e Carosa) ed un figlio (Valentiniano galata) morto all'età di quattro anni.
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sabato 17 novembre 2012

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (III)

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (III)


Costanzo II (337- 361)


Testa colossale di Costanzo II, 337-361, Musei capitolini, Roma


Sposò in prime nozze una figlia di Giulio Costanzo e poi nel 354, alla morte di questa, Eusebia, la figlia del suo magister militum Eusebio. Nel 361 sposò in terze nozze ad Antiochia Faustina da cui ebbe finalmente una figlia – Costanza – nata dopo la sua morte.
Sul finire del 354, in parte perchè stanco delle crudeltà perpetrate dal cesare Gallo e da sua sorella Costantina (Costanza) nell'amministrazione delle provincie orientali ed in parte sobillato dai cortigiani che lo convinsero che il cesare tramava di rivoltarsi contro di lui, convocò entrambi a Milano.
Costantina morì di febbre durante il viaggio mentre Gallo fu arrestato a Poetovio (l'attuale Ptuj, in Slovenia), tradotto e processato a Pola per l'assassinio del prefetto del pretorio d'Oriente, Domiziano, e del questore Monzio e colà giustiziato.
Nel 355 Costanzo dovette fronteggiare la rivolta del magister militum per le Gallie, Claudio Silvano, che fu catturato e ucciso ed il 6 novembre a Milano, non avendo figli, elevò al rango di cesare, Giuliano, il fratellastro di Gallo.
Nel 360 le truppe galliche, rifiutandosi di partire per l'Oriente come richiesto da Costanzo, proclamarono Giuliano augusto ma Costanzo il 3 novembre 361 morì di febbre mentre si trovava ancora in Asia (a Mobsucrene, in Cilicia) e lo scontro fratricida non ebbe luogo. Giuliano fu riconosciuto imperatore anche dalle regioni orientali. Si dice che in extremis Costanzo II lo abbia nominato ufficialmente suo successore.

Giuliano detto l'Apostata (361-363)

Giuliano l'Apostata, IV secolo, Museo archeologico nazionale, Atene

Discendente del ramo costantiniano (quindi cugino di Costanzo) derivante dalle nozze tra Costanzo Cloro e Teodora fu nominato cesare da Costanzo II nel 355.
Nel 356 ottenne il comando dell'esercito di tutte le Gallie. Sposò Elena, sorella di Costanzo, da cui non ebbe figli e che fu tumulata a Roma accanto alla sorella Costanza (Mausoleo di S.Costanza). Nel novembre del 361, mentre svernava con l'esercito a Naisso (l'attuale Niš in Serbia, città natale di Costantino il grande) preparandosi ad attaccare Costanzo, ricevette la notizia della sua morte e la sottomissione delle provincie orientali.
E' detto “l'apostata” perchè cercò di restaurare l'antica religione, a scapito di quella cristiana, imperniandola sul culto del dio Sole. Il 17 giugno 362 emise un editto con il quale stabiliva l'incompatibilità tra la professione di fede cristiana e l'insegnamento nelle scuole pubbliche e fece riaprire molti templi consacrati alle divinità pagane che erano stati fatti chiudere dai cristiani. Scrisse anche un opera andata perduta – Contro i Galilei – di propaganda anticristiana. Giuliano non vietò comunque la professione del cristianesimo né perseguitò apertamente i cristiani anche se, soprattutto nelle regioni orientali, tollerò episodi di violenza anticristiana.
Sul piano militare, il 5 marzo 363 diede inizio alla campagna contro i Sasanidi muovendo da Antiochia alla testa di 65.000 uomini. Giunto a Carre, divise le sue forze inviando metà delle truppe, al comando di Procopio e Sebastiano in Armenia, per unirsi al re Arsace, ridiscendere per la Corduene, devastare la Media e, costeggiando il Tigri, ricongiungersi poi in Assiria con Giuliano che intanto, con i suoi 35.000 uomini, sarebbe disceso a sud lungo l'Eufrate, dove una grande flotta al comando di Lucilliano navigava a vista portando altri soldati, vettovaglie, armi, macchine d'assedio, barconi.
Alla fine di marzo Giuliano attraversò il fiume Chabora entrando in territorio sasanide ed avanzò senza incontrare forte resistenza (i persiani si ritiravano allagando i campi e bruciando i raccolti) fino alla capitale Ctesifonte che rinunciò ad assediare temendo di essere preso tra due fuochi dal sopraggiungere dell'esercito di Sapore. Aggregati al suo esercito i 20.000 uomini sbarcati dalla flotta, puntò verso nord sperando di ricongiungersi alle forze di Procopio e di costringere il re Sapore ad una battaglia campale. Il re sasanide si limitò invece a seguire a distanza l'esercito romano senza mai accettare uno scontro in campo aperto.
Il 26 giugno, durante la marcia, presso il villaggio di Toummara, si accese un combattimento nella retroguardia: Giuliano accorse senza indossare l'armatura, si lanciò nella mischia e un giavellotto lo colpì al fianco (1). Cercò subito di estrarlo ma cadde da cavallo e svenne. Adagiato su uno scudo fu portato nella sua tenda, si rianimò, credette di star meglio, volle le sue armi ma le forze non gli risposero. Il giorno seguente l'imperatore spirò.
Secondo la sua volontà Giuliano fu sepolto a Tarso in un mausoleo a fianco di un piccolo tempio sulle rive del fiume Cydnus. Di fronte, sorgeva la tomba di un altro imperatore, Massimino Daia (2).

 (1) Secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (XIII secolo), l'imperatore venne ucciso per ordine della Vergine da San Mercurio di Cesarea, rappresentazione che ricorre nell'iconografia del tardo medioevo. (cfr. San Mercurio uccide Giuliano l'apostata in un affresco di Larino e in un quadro di Toro, 2009) 

(2) In genere si accetta che le spoglie di Giuliano siano state traslate dalla sua iniziale sepoltura a Tarso alla chiesa costantinopolitana dei SS.Apostoli, dove venivano sepolti gli imperatori. Costantino VII Porfirogenito (912-959), nel suo De cerimoniis, include infatti il suo sarcofago nel catalogo dei sepolcri imperiali in porfido che si trovavano nella chiesa dei SS. Apostoli e lo descrive di forma cilindrica.
Secondo la maggior parte degli storici moderni il trasferimento avvenne inoltre molto precocemente, entro la fine del IV secolo.
David Woods (On the alleged reburial of Julian the Apostate at Constantinople, Byzantion Revue internationale des études byzantines, 2006) ha invece recentemente sostenuto con vari argomenti che i resti di Giuliano non furono mai rimossi dalla tomba di Tarso.


Gioviano (363-364)
Generale di Giuliano fu acclamato imperatore dall'esercito alla morte di questi.
Gioviano concluse con l'Impero persiano una pace molto svantaggiosa per Roma, abbandonando i territori conquistati dai suoi predecessori in Mesopotamia e lasciando di fatto gran parte dell'Armenia sotto il controllo persiano. Di fede cristiana abrogò i decreti del suo predecessore contrari alla chiesa cristiana, pur mantenendo una politica di tolleranza verso tutte le religioni.
Morì il 17 febbraio 364, dopo soli otto mesi di regno, probabilmente per le esalazioni di un braciere che teneva nella sua stanza a Dadastana in Bitinia mentre tornava con l'esercito dalla disastrosa spedizione militare contro l'Impero persiano.

Valentiniano I (364-375)
Nominato dall'esercito alla morte di Gioviano, dopo il rifiuto del prefetto del pretorio Salustio, nominò quasi subito suo fratello Valente augusto d'Oriente (364-378).

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sabato 10 novembre 2012

Il Milion

Il Milion



Pietra miliare d'oro. Quando Costantino I ricostruì la città di Bisanzio per farne la sua nuova capitale, decise di riprodurvi molte caratteristiche di Roma, tra cui il Milion. La nuova costruzione richiamava il Miliario aureo di Roma: era considerato l'inizio di tutte le strade che da Costantinopoli portavano nelle città europee dell'Impero, e sulla base erano incise le distanze tra la capitale e le principali città dell'Impero.
Il monumento costantinopolitano era molto più complesso del suo omologo romano.


Resti del basamento del Milliarum aureum (una colonna marmorea rivestita di bronzo fatta erigere da Ottaviano Augusto nel 20 a.C.) nel Foro romano

Il Milliarum aureum romano, ricostruzione

Si trattava infatti di un tetrapylon sormontato da una cupola, poggiata su quattro arcate. Sulla sommità si trovavano le statue di Costantino e di sua madre Elena, rivolte a oriente, e dietro di loro una statua della Tyche della Città.

Il Milion, ricostruzione

Fu eretto a oriente dell'Augustaion, all'inizio della via principale della nuova città, la Mese.
Giustiniano I vi aggiunse una meridiana, mentre Giustino II adornò la parte inferiore con le statue di sua moglie Sofia, sua figlia Arabia e sua nipote Elena.
Durante la prima metà dell'VIII secolo, le volte della costruzione furono adornate dagli imperatori Filippico e Anastasio II con dipinti raffiguranti i concili ecumenici precedenti, ma durante il periodo iconoclasta, l'imperatore Costantino V (741-775) li sostituì con scene dell'ippodromo.

Dopo la conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani (1453), l'edificio rimase intatto fino alla fine del XV secolo. Scomparve probabilmente all'inizio del XVI secolo a causa dell'ingrandimento del vicino Acquedotto di Valente e la successiva erezione del vicino serbatoio idrico a torre (suterazi).
Negli anni '60, a seguito di studi sulla localizzazione del monumento e dopo la demolizione degli edifici posti sopra di esso, gli scavi rivelarono alcune fondazioni e un frammento, ora ri-eretto come pilastro, pertinenti all'edificio. Questi resti sono stati identificati come appartenenti al Milion grazie alla loro vicinanza ad una parte di una canalizzazione bizantina incurvata, che sembra corrispondere all'angolo della Mese, come riportata dalle fonti scritte.


venerdì 9 novembre 2012

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (II)

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (II)

Testa della statua colossale di Costantino il grande proveniente dalla basilica di Massenzio, 330 circa, Musei capitolini, Roma


Costantino il grande (306-337; dal 324 come unico imperatore)
Nel 325 convocò e presiedette a Nicea il primo concilio ecumenico della Chiesa.
Nel 326 fece uccidere, a breve distanza l'uno dall'altra, il figlio Crispo a Pola e la moglie Fausta a Nicomedia, affogata a palazzo in un bagno portato ad alta temperatura, accusati di avere una relazione clandestina.
Sul finire dello stesso anno diede inizio ai lavori di ampliamento e ammodernamento della città di Bisanzio, di cui intendeva fare la nuova capitale dell'impero, la cui inaugurazione ufficiale avverrà l'11 maggio del 330.
Secondo la tradizione fu lo stesso Costantino a tracciare con la propria lancia il perimetro sacro della mura, il pomerium, assegnando alla città lo stesso nome segreto di Roma e battezzandola ufficialmente Nova Roma (Il termine non entrò però mai nell'uso comune, preferendo gli abitanti della città e dell'Impero riferirsi ad essa come alla città di Costantino, Costantinopoli).
Nella nuova capitale venne probabilmente trasportato anche il Palladio, la statuetta già protettrice di Troia e poi di Roma, dove l'avrebbe portata Enea, che venne seppellita al centro del foro della nuova città, sotto la Colonna di Costantino. Vennero poi individuate sette alture a ricalcare i sette colli dell'antica capitale e la città venne divisa come Roma in quattordici regiones. Come a Roma, venne infine posto un cippo per indicare il centro dell'Impero, la prima pietra miliare da cui misurare tutte le distanze, il Milion.
Costantino muore a Nicomedia il 22 maggio del 337, dopo aver ricevuto il battesimo in limine vitae dal vescovo Eusebio. Viene sepolto a Costantinopoli, nella chiesa dei SS.Apostoli (cfr. il sarcofago ritrovato nella chiesa costantinopolitana di Hagia Eirene).

Alla morte di Costantino, l'impero risultava così diviso tra i quattro cesari da lui nominati (i suoi tre figli ed il nipote Delmazio) :

 

  • Costante I (Italia, Africa, Pannonia e Dacia)
  • Flavio Delmazio (Tracia, Acaia e Macedonia)
  • Costantino II (Gallie, Britannia e Spagna)
  • Costanzo II (provincie d'Asia e orientali)
Ad Annibaliano, fratello di Delmazio e quindi suo nipote nonchè marito della figlia Costanza (Costantina), Costantino aveva dato il titolo di “re delle genti pontiche”, affidandogli il controllo delle regioni di confine minacciate dall'impero persiano (Armenia, Mesopotamia e Cappadocia).

Alla morte di Costantino, Flavio Delmazio, figlio del fratellastro dell'imperatore (Delmazio il censore), fu assassinato dai suoi stessi soldati ed i suoi territori spartiti tra Costante e Costanzo, mentre i tre figli dell'imperatore furono proclamati augusti. Contemporaneamente anche Annibaliano viene eliminato (settembre 337, probabilmente dai sicari di Costanzo).
Costantino II, venuto a contrasto col fratello Costante, fu ucciso in battaglia nei pressi di Aquileia nel 340 mentre Costante fu successivamente rovesciato e ucciso da Magnenzio – il comandante delle truppe scelte dell'esercito campale - che fu proclamato imperatore (350). Nello stesso anno insorse anche Vetranione, che aveva il comando dell'Illirico, ma Costanzo lo convinse a desistere consentendogli di ritirarsi a vita privata mentre i suoi reggimenti passavano dalla sua parte.

Riepilogo
Alla morte di Costantino I il grande regnano insieme Costantino II (Gallie), Costanzo II (in Oriente) e Costante (Italia e Africa).
Designati cesari da Costanzo: Flavio Costanzo Gallo (351-354) e poi Giuliano (dal 355), entrambi figli di Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino il grande.
Usurpatori nelle Gallie: Flavio Magno Magnenzio (350-353) e Magno Decenzio (351-353), fratello del precedente e da lui nominato cesare.
Usurpatore a Roma: Flavio Popilio Nepoziano*, imparentato con la famiglia di Costantino, si proclama augusto il 3 giugno del 350 e viene ucciso il 30 dello stesso mese.
Usurpatore in Illirico: Vetranione (350: si ritira a vita privata e muore poi nel 356).

Flavio Popilio Nepoziano raffigurato al dritto di un centelionalis da lui fatto battere (350)

* Flavio Popilio Nepoziano ("l'imperatore dei 28 giorni"): figlio di Eutropia, sorellastra dell'imperatore romano Costantino I, e di Virio Nepoziano, probabilmente morto nel 337 in occasione delle purghe della famiglia imperiale. Da parte di madre Nepoziano era nipote dell'imperatore Costanzo Cloro e di Flavia Massimiana Teodora. Fu probabilmente console nel 336.
Dopo la rivolta di Magnenzio, Nepoziano decise di prendere il potere, conquistando Roma: una volta morto Costante I, ucciso da Magnenzio, si era trovato ad essere l'unico rappresentante della dinastia costantiniana in occidente, e contava su questo fatto per riscuotere la lealtà dei sudditi nel suo conflitto con l'usurpatore.
Raccolse un certo numero di gladiatori, predoni e altri personaggi abituati al crimine, e il 3 giugno 350 si diresse su Roma, presentandosi con le vesti imperiali. Il praefectus urbi Tiziano, alleato di Magnenzio, armò alcuni civili e li condusse fuori dalla città per attaccare Nepoziano. Le milizie di Tiziano erano indisciplinate, e a causa della loro disorganizzazione vennero messe in fuga nello scontro contro le truppe di Nepoziano. Il prefetto, vedendole fuggire verso la città, diede ordine di chiudere le porte, per paura che gli uomini di Nepoziano entrassero con loro: senza un luogo dove fuggire, furono facile preda delle truppe del costantinide, che li massacrarono tutti.
Magnenzio mandò rapidamente a Roma il suo fidato magister officiorum Marcellino. Nepoziano fu ucciso nella conseguente battaglia il 30 giugno e la sua testa fu posta in cima ad una lancia e portata lungo le vie della città. Nei giorni seguenti vi fu gran massacro della nobiltà, per lo più senatori: anche la madre Eutropia venne probabilmente uccisa.
La ribellione di Nepoziano e l'uccisione di esponenti della nobiltà della città di Roma sta a significare che l'usurpazione di Magnenzio, nata per rispondere allo scontento cresciuto nella corte imperiale e nei circoli militari della Gallia contro Costante, non ebbe però il sostegno della popolazione dell'Urbe: la casata di Costantino riscuoteva ancora la lealtà ottenuta dal suo fondatore, e Magnenzio ne ebbe una ulteriore prova con la sollevazione di Vetranione.

Sgombrato il campo dagli altri pretendenti, Costanzo, al comando dell'esercito orientale rafforzato dai reggimenti illirici, mosse contro l'usurpatore Magnenzio.

Flavio Magno Magnenzio raffigurato al dritto di una maiorina da lui fatta battere dalla zecca di Aquileia (350-353)

Battaglia di Mursa Maggiore (nei pressi dell'attuale Osijek in Croazia, 28 settembre 351):
Il nerbo dell'esercito di Costanzo era costituito dalla cavalleria pesante sul modello persiano, i catafratti, e arcieri a cavallo, quasi tutti reclutati in Asia; le fanterie legionarie, erano in pratica quelle illiriche del precedente usurpatore Vetranione.
Magnenzio poteva contare su un numero di soldati molto inferiore ma notoriamente più validi di quelli asiatici; galli, germani, britanni, pannoni, perlopiù legionari e ausiliari.
Poco prima dell'inizio della battaglia, il tribuno Claudio Silvano, uno dei comandanti di Magnenzio, disertò con la propria cavalleria a favore di Costanzo.
Costanzo dispose le proprie truppe con il fiume Drava alla propria destra e il Danubio alle spalle, in modo che ai suoi soldati fosse chiaro che potevano solo vincere o essere massacrati. Ai fianchi si trovava la cavalleria pesante  mista ad arcieri, al centro la fanteria pesante con, dietro, altri arcieri e frombolieri.
La battaglia ebbe inizio nel tardo pomeriggio. Lo squilibrio delle forze era soprattutto nell'ala sinistra dello schieramento di Costanzo, rispetto a quella destra di Magnenzio, e proprio da lì partì l'attacco, in linea obliqua e avvolgente; al centro la cavalleria pesante non sfondò la linea delle fanterie legionarie. Gli ausiliari germani, nudi, affrontarono le frecce degli arcieri, e il muro di ferro della cavalleria pesante: si assistette a una duplice dimostrazione di valore, con i legionari che disciplinatamente serravano la linea e si riordinavano ad ogni carica, i germani che facevano strage di asiatici con la loro foga guerriera. Secondo Giuliano, l'ala sinistra di Costanzo II, composta dai potenti cavalieri catafratti, aggirò il lato destro di Magnenzio calando sulla fanteria, che fu gettata nella confusione e sopraffatta. Magnenzio rischiò la cattura e abbandonò il campo di battaglia, ma i suoi soldati gallici si rifiutarono di arrendersi e combatterono al comando di Marcellino, che cadde combattendo.
I soldati di entrambi gli schieramenti, presi dalla furia della battaglia, continuarono a combattere anche dopo l'arrivo della notte.
Le perdite tra i vincitori furono maggiori che tra i vinti, a testimonianza della grande resistenza di questi ultimi, 30.000 contro 24.000, ma la proporzione delle perdite fu irreparabile per Magnenzio. Giuliano incolpa Magnenzio per la sconfitta, accusandolo di aver sbagliato lo schieramento della fanteria e di essere fuggito dal campo di battaglia lasciando ad altri il compito di combattere.
Magnenzio, dopo aver riparato in Gallia, fu definitivamente sconfitto nella battaglia di Monte Seleuco (l'attuale La Batie Monsalèon in Francia, agosto 353), preferendo suicidarsi piuttosto che arrendersi a Costanzo. Stessa sorte ebbe il fratello Magno Decenzio, da lui nominato cesare, che guidava i rinforzi provenienti dall'Italia.
Costanzo II rimase l'unico imperatore.

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giovedì 8 novembre 2012

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (I)

Dalla Tetrarchia all'Impero romano d'Oriente (I)

La divisione dell'Impero voluta da Diocleziano, 300 c.ca


Diocleziano (284-305): validissimo generale fu elevato alla porpora dalle legioni orientali che si rifiutarono di riconoscere Carino, primogenito dell'imperatore Caro (282-283).
Nel novembre del 285 nominò come suo vice in qualità di cesare, un valente ufficiale di nome Marco Aurelio Valerio Massimiano, che pochi mesi più tardi (1 aprile 286) elevò al rango di augusto, formando così una diarchia in cui i due imperatori si dividevano su base geografica il governo dell'impero e la responsabilità della difesa delle frontiere e della lotta contro gli usurpatori.
Diocleziano, che si considerava sotto la protezione di Giove (Iovio), mentre Massimiano era sotto la protezione "semplicemente" di Ercole (Massimiano Erculio), manteneva però la supremazia.
Data la crescente difficoltà a contenere le numerose rivolte all'interno dell'impero, nel 293 si procedette a un'ulteriore divisione funzionale e territoriale, al fine di facilitare le operazioni militari: Diocleziano nominò come suo cesare per l'oriente Galerio e Massimiano fece lo stesso con Costanzo Cloro per l'occidente. L'impero fu diviso in quattro territori (prima Tetrarchia):
  1. Diocleziano controllava le province orientali e l'Egitto (capitale: Nicomedia)
  2. Galerio controllava le province balcaniche (capitale: Sirmio)
  3. Massimiano governava su Italia e Africa settentrionale (capitale: Milano)
  4. Costanzo Cloro ebbe in affidamento la Spagna, la Gallia e la Britannia (capitale: Treviri)
Vennero create dodici circoscrizioni amministrative (le "diocesi", tre per ognuno dei tetrarchi), rette da un pretor vicarius e a loro volta suddivise in 101 province. Restava da mettere alla prova il meccanismo della successione.

Il 1º maggio del 305 Diocleziano e Massimiano abdicarono: i loro due cesari diventarono augusti, Galerio per l'oriente e Costanzo Cloro per l'occidente, e provvidero a nominare a loro volta i propri successori designati: Galerio scelse Massimino Daia e Costanzo Cloro scelse Flavio Valerio Severo (seconda tetrarchia).
L'anno seguente tuttavia, con la morte di Costanzo Cloro (306), il sistema andò in crisi: il figlio illegittimo dell'imperatore defunto, Costantino venne proclamato augusto dalle truppe al posto del legittimo erede, Severo, e qualche mese dopo i pretoriani a Roma proclamarono imperatore Massenzio, figlio del vecchio augusto Massimiano Erculio, ripristinando il principio dinastico.

Testa di Massimiano, fine III secolo
Museo Archeologico di Milano
 
Nel 308 Diocleziano e Massimiano Erculio, in rotta con il figlio, si riunirono a Carnunto per cercare di riportare l'ordine: essendo stato eliminato l'anno prima Severo – catturato da Massenzio e trascinato a Roma come ostaggio fu fatto uccidere o si uccise il 16 settembre 307 - per l'Oriente restarono rispettivamente augusto e cesare Galerio e Massimino Daia, mentre per l'Occidente fu nominato un nuovo augusto, Licinio, indicando come cesare il ribelle Costantino.
 
Testa di Diocleziano, IV secolo
proveniente dagli scavi di Nicomedia (Izmit)
Museo Archeologico di Istanbul
 
Né Costantino, né Massimino Daia accettarono la posizione subordinata che veniva loro offerta e si considerarono entrambi augusti. Si ebbero dunque quattro augusti, Galerio e Massimino Daia in Oriente, Licinio in Illirico e Costantino in Gallia, Spagna e Francia, mentre Massenzio restava, come usurpatore, in Italia e Africa.

Nel 311 con la morte di Galerio, Massimino Daia si impadronì di tutto l'Oriente e i tre augusti rimasti (ufficialmente elencati nell'ordine di anzianità al potere: Massimino, Costantino e Licinio) si coalizzarono contro Massenzio, che Costantino sconfisse nella battaglia di Ponte Milvio, alle porte di Roma, il 28 ottobre del 312.
 
Testa di Massenzio, IV secolo
Skulturensammlung, Dresda

Nel 313 moriva Massimino Daia e rimasero solo due augusti: Costantino per l'Occidente e Licinio per l'Oriente. L'alleanza tra i due augusti fu rafforzata dal matrimonio di Licinio con Costanza, sorellastra di Costantino, così che l'Editto di Milano, che sanciva in tutto l'impero la libertà di culto, fu promulgato con in calce la firma di entrembi gli augusti.
Nel 315 Costantino diede in sposa a Bassiano Anastasia, un'altra delle sue sorellastre, e lo nominò cesare, quindi inviò a Licinio, Flavio Costanzo, in qualità d'ambasciatore per farne riconoscere il rango: Bassiano avrebbe governato la Pannonia facendo da cuscinetto tra i due imperi. Licinio, per mezzo del fratello di Bassiano, Senacione, che era un suo consigliere, convinse il cesare a ribellarsi a Costantino. Tradito dai suoi ufficiali fedeli a Costantino la cospirazione di Bassiano venne scoperta sul nascere. Costantino lo mise a morte (316) e intimò a Licinio di consegnargli Senacione. Al rifiuto di Licinio, Costantino rispose con la guerra.
 
Testa di Licinio, IV secolo
Museo Chiaramonti, Città del Vaticano

Battaglia di Cibalae (8 ottobre 1316): Licinio aveva riunito il suo esercito a Cibalae (l'attuale Vinkovci), città della Pannonia, posta su una collina. Stretta è la strada che portava alla città, circondata in gran parte da una palude profonda, larga cinque stadi. Il resto è montagna, dove si ergeva un colle sopra il quale sorgeva la città. Da lì si apriva una pianura vasta e sconfinata nella quale Licinio decise di accamparsi, disponendo le proprie schiere in lunghezza sotto il colle per nascondere la debolezza delle ali (di cavalleria).
Gli arcieri diedero inizio alla battaglia con una serie di lanci, seguiti dallo scontro delle fanterie, che durò l'intera giornata. La battaglia fu decisa da un iniziale attacco della cavalleria di Costantino (posta dallo stesso in prima fila e comandata dall'imperatore in persona), che attaccò l'ala sinistra, distruggendola, mentre Licinio resisteva al centro. Costantino lo attaccò quindi sul fianco, costringendolo a fronteggiare la nuova minaccia, alla quale seguì una carneficina degli uomini di Licinio: 20.000 di loro morirono, e l'imperatore sconfitto dovette fuggire con la cavalleria verso Sirmio (città della Pannonia bagnata dalla Sava prima di gettarsi nell'Istro), approfittando del calar delle tenebre, ma abbandonando viveri, bestiame ed ogni altro equipaggiamento.

Da Sirmio, Licinio arretrò verso la Tracia dove pensava di raccogliere un nuovo esercito, tagliando dietro di sé il ponte sulla Sava. Costantino una volta conquistati Cibalae e poi Sirmio (l'attuale Sremska Mitrovica) fece ricostruire in due mesi il ponte sulla Sava e lanciò l'esercito all'inseguimento di Licinio.
Nel frattempo Licinio decise di elevare al rango di co-augusto (o cesare secondo Zosimo) Aurelio Valerio Valente, un atto che mostrava disprezzo per Costantino, il quale rifiutò le offerte di pace e lo affrontò nuovamente nella:

Battaglia di Mardia - l'attuale Harmanli in Bulgaria – (fine 316 o inizi 317): La battaglia ebbe inizio alle prime luci dell'alba. Durante il primo attacco gli eserciti, mantenendosi ad una certa distanza, si servirono degli arcieri, poi esauriti tutti i dardi si affrontarono nella mischia con lance, spade e pugnali in un corpo a corpo.
Costantino vinse la battaglia, anche se di misura (secondo Zosimo fu molto equilibrata fino a quando ad un segnale convenuto entrambi gli eserciti si ritirarono), inviando un contingente di cinquemila fanti a conquistare un'altura: al momento opportuno, questi uomini attaccarono alle spalle le truppe di Licinio, causando gravi perdite al nemico. L'esercito di Licinio riuscì ad evitare una rotta rovinosa, disponendosi su due fronti e continuando a combattere fino all'arrivo della notte, quando poté sganciarsi con ordine e rifugiarsi tra le montagne della Macedonia.

Il 1º marzo 317, i due avversari firmarono una pace che prevedeva la cessione dell'Illirico a Costantino e l'esecuzione di Aurelio Valerio Valente.
Nello stesso anno vennero nominati cesari Crispo, figlio di Costantino e della sua prima moglie Minervina morta di parto, per l'Occidente e Liciniano di appena due anni, figlio di Licinio e Costanza per l'Oriente. Si riproponeva così nella forma l'organizzazione tetrarchica voluta da Diocleziano, snaturandone però la sostanza con l'introduzione del principio dinastico nel meccanismo di successione.

Nel 323 lo sconfinamento dell'esercito d'Occidente in Mesia e Tracia – territori nella sfera d'influenza di Licinio – per contrastare un'invasione dei Goti, fornì il casus belli per il riaccendersi della guerra civile.

Battaglia di Adrianopoli (3 luglio 324):


Licinio era accampato presso Adrianopoli (l'attuale Edirne), Costantino giunse da Tessalonica con l'esercito, mentre la flotta raggiunse la foce dell'Ebro, proveniente dal Pireo, e si accampò presso il fiume. I due eserciti si disposero su un fronte di circa 20 stadi (Zosimo sostiene 200 – pari a poco più di 35 km. - ma la cifra appare inverosimile), Licinio a partire dal monte che sovrasta la città di Adrianopoli al punto in cui il fiume Tonzos si butta nell'Ebro.
I due eserciti si fronteggiarono per diversi giorni dalle opposte sponde dell'Ebro finchè Costantino, stanco di attendere, non ordinò ai suoi di portare legna e intrecciare funi nei pressi di un punto dove il fiume si restringeva per far intendere al nemico che vi intendeva costruire un ponte. Distolta l'attenzione del nemico con questo diversivo, portò 5.000 arcieri e 80 cavalieri su una collina al riparo di una fitta boscaglia, quindi, al comando di un piccolo contingente di cavalieri (Zosimo sostiene solo 12 ma anche in questo caso la cifra è poco credibile), guadò il fiume e piombò inatteso sul nemico seminando il panico.
Appena l'Ebro fu superato, anche altri cavalieri e poi tutto l'intero esercito, seguì l'augusto facendo strage del nemico che lasciò sul campo ben 34.000 morti.
Al tramonto Licinio, radunati i superstiti, si ritirò verso Bisanzio.

Battaglia dell'Ellesponto (Stretto dei Dardanelli, luglio 324): mentre Costantino cingeva d'assedio Bisanzio, il cesare Crispo, a capo della flotta, ricevette l'ordine di portarsi prima all'imboccatura dell'Ellesponto (l'attuale Stretto dei Dardanelli), e poi di forzare il blocco nemico. Crispo entrò nello stretto con sole 80 navi, le migliori della sua flotta; Abanto – che comandava la flotta di Licinio - al contrario, volle schierare tutte le sue 200 navi, in modo da essere certo di poter circondare la flotta avversaria. La scelta di Abanto si dimostrò errata, in quanto le sue navi, in uno spazio ridotto, si intralciarono a vicenda, urtandosi tra loro ed avanzando verso il nemico in modo disordinato; al contrario quelle di Crispo poterono manovrare meglio, affondando molte navi avversarie. Il calare della notte pose fine alla battaglia: Abanto si ritirò con alcune navi ad Aianton, altre trovarono rifugio ad Eleunte, in Tracia.
Il giorno successivo, spirando il vento da nord, Abanto esitò in un primo momento a schierare la flotta per l'attacco; Crispo portò all'interno dello stretto tutta la sua flotta, mettendo in difficoltà Abanto. Verso mezzogiorno il vento cambiò, spirando ora da sud e spingendo alcune navi di Abanto, prossime alla riva asiatica, contro la costa, alcune facendole arenare, altre affondandole contro gli scogli. Abanto si salvò raggiungendo la riva a nuoto dopo aver visto colare a picco la propria ammiraglia e mettendosi in salvo con sole 4 imbarcazioni. La flotta di Crispo completò l'opera, affondando tutte le restanti navi nemiche.

Dopo la disfatta navale che permise all'esercito di Costantino di ricevere i rifornimenti, Licinio arretrò ulteriormente ritirandosi verso Calcedonia con le sue truppe migliori e lasciando quelle più deboli a difesa di Bisanzio, pensando di poter raccogliere in Asia minore un nuovo esercito per continuare la guerra. Costantino traghettò a sua volta il grosso del suo esercito sulla sponda asiatica del Bosforo all'inseguimento del nemico. Licinio, messo con le spalle al muro, uscì dalla città e schierò l'esercito a battaglia nei pressi di Crisopoli.

Battaglia di Crisopoli (l'attuale Uskudar, 18 settembre 324): senza particolari accorgimenti tattici, Costantino lanciò un massiccio attacco frontale che travolse l'esercito di Licinio mettendolo in rotta. Licinio riuscì a riparare su Nicomedia con i pochi superstiti.
Assediato da Costantino e ormai senza speranza, Licinio decise di arrendersi ed uscì dalla città consegnandogli la porpora imperiale. Costantino gli risparmiò la vita e lo esiliò a Tessalonica ma l'anno successivo, accusandolo di aver complottato contro di lui, lo fece giustiziare.
La Tetrarchia era definitivamente finita e Costantino era l'unico signore di tutto l'impero.








lunedì 5 novembre 2012

I santi anargiri (agioi anárgyroi)

I santi anargiri (Agioi Anárgyroi)
Sono detti anárgyroi (letteralmente senza denaro) i santi medici che prestarono la loro opera con assoluto disinteresse, senza mai chiedere retribuzione alcuna, né in denaro, né di altro genere, in applicazione del precetto evangelico: "Gratis accepistis, gratis date".

Cosma e Damiano
Secondo la tradizione agiografica che, sebbene non storicamente verificabile, è supportata dall'antichità del culto loro tributato, i due erano gemelli originari dell'Arabia, appartenenti ad una ricca famiglia. Il padre si convertì al Cristianesimo dopo la loro nascita, ma morì durante una persecuzione in Cilicia; mentre la madre, Teodota (o Teodora), da più tempo cristiana, si occupò della loro prima educazione.
Dopo aver appreso l'arte medica in Siria, praticarono la loro professione nella città portuale di Egea, in Cilicia, sul golfo di Alessandretta.
Uno dei loro più celebri miracoli, tramandati dalla tradizione, fu quello di aver sostituito la gamba ulcerata di un loro paziente con quella di un etiope morto di recente.
Secondo la passio, tuttavia, in una sola occasione era stata elargita ai santi una ricompensa, di tre uova nelle mani del fratello minore Damiano, da parte di una contadina emorroissa, Palladia, miracolosamente guarita. Cosma era rimasto tanto deluso e mortificato per quel gesto da esprimere la volontà che le sue spoglie fossero deposte, dopo la morte, lontane da quelle del fratello.
Durante le persecuzioni dei cristiani promosse da Diocleziano (284-305) furono fatti arrestare dal prefetto di Cilicia, Lisia.
Avrebbero subito un feroce martirio, così atroce che su alcuni martirologi è scritto che essi furono martiri cinque volte. I supplizi subiti da Cosma e Damiano differiscono secondo le fonti. Secondo alcune furono dapprima lapidati ma le pietre rimbalzarono contro i soldati, secondo altre furono crudelmente fustigati, crocefissi e bersagliati dai dardi, ma le lance rimbalzarono senza riuscire a fare loro del male; altre fonti ancora narrano che furono gettati in mare da un alto dirupo con un macigno appeso al collo, ma i legacci si sciolsero e i fratelli riuscirono a salvarsi, e ancora incatenati e messi in una fornace ardente, senza venire bruciati.
Cosma e Damiano infine vennero decapitati, assieme ai loro fratelli più giovani (o discepoli), Antimo, Leonzio ed Euprepio, nella città di Cirro, nei pressi di Antiochia.
Dopo il loro martirio coloro che avevano assistito al macabro spettacolo vollero dare degna sepoltura a coloro che tanto bene avevano elargito in vita, cercando anche di rispettare la volontà di Cosma circa la separata sepoltura: ciò fu loro impedito da un cammello che, secondo la leggenda, prese voce dicendo che Damiano aveva accettato quella ricompensa solo perché mosso da spirito di carità, onde evitare che quella povera donna potesse sentirsi umiliata dal rifiuto. I presenti diedero dunque sepoltura ai loro corpi deponendoli l'uno a fianco dell'altro.

SS.Cosma e Damiano, Oratorio delle catacombe di S.Lucia, Siracusa, prima metà VIII secolo

S.Paolo (a ds.) e S.Cosma (a sn), chiesa dei SS. Cosma e Damiano, Roma, VI secolo

SS.Cosma e Damiano, chiesa di S.Demetrio (Mitropolis), Mistrà, prima metà XIV secolo

Ciro e Giovanni
Spesso S.Ciro ricorre come S.Abbaciro (corruzione di abbàs Cyrus=padre Ciro).
Ciro era un monaco di Alessandria esperto nell'arte medica e Giovanni un soldato di Edessa divenuto suo discepolo. Avendo un giorno saputo che quattro cristiane di Canopo, Teodosia (o Teodota), Teotista, Eudossia, e la loro madre Atanasia erano state arrestate i due santi si portarono a Canopo per incoraggiarle a non venire meno alla loro fede, ma furono anch'essi arrestati e condannati a morte, come avveniva contemporaneamente per le quattro cristiane. Gli uni e le altre furono decapitati verso il 303, sotto Diocleziano.
Il Patriarca di Alessandria, Cirillo, fece traslare le salme dei due martiri a Menouthis (l'odierna Abukir), presso la locale chiesa.
Nel 407, due monaci di nome Grimoaldo ed Arnolfo, dopo un sogno premonitore, prima della conquista araba dell' Egitto, portarono i resti dei due martiri a Roma per custodirle.
Giunti a Roma, furono accolti e ospitati nella casa dalla ricca Teodora, in Trastevere. Durante la notte i due martiri apparvero in sogno alla padrona di casa e le ordinarono di trasportare i loro corpi fuori città, nella chiesetta che aveva fatto costruire nei suoi possedimenti lungo l'antica via Portuense, in onore della vergine Prassede (attualmente conosciuta come chiesa di S.Passera)

S.Abbaciro, S.Maria Antiqua, Roma, seconda metà VIII secolo


Il nome con il quale la chiesa, ridedicata ai santi Abbaciro e Giovanni dopo la traslazione dei loro resti, è attualmente conosciuta (non è mai esistita ovviamente alcuna santa Passera) sembra derivare dalla corruzione di quello di Abbaciro, progressivamente deformato in Appacìro - Appacèro - Pacèro - Pàcera - Passera. 
Cristo benedicente tra i santi Abbaciro e Giovanni
chiesa di S.Passera, Roma, XIII secolo

San Abbaciro e San Giovanni, al centro, nel medaglione, San Ermolao
chiesa di S.Maria dell'Ammiraglio, Palermo, XII secolo

Pantaleone (detto anche S.Panteleimon=che ha compassione di tutti)
Secondo la leggenda Pantaleone, nativo di Nicomedia in Bitinia, educato cristianamente dalla madre Eubule, ma non ancora battezzato, è affidato dal padre pagano Eustorgio al grande medico Eufrosino e apprende la medicina tanto perfettamente da meritarsi l'ammirazione e l'affetto dell'imperatore Galerio.
Si avvicina alla fede cristiana grazie all'esempio di Ermolao, presbitero cristiano che vive nascosto per timore della persecuzione, il quale lo convince progressivamente ad abbandonare l'arte di Asclepio, garantendogli la capacità di guarire ogni male nel solo nome di Cristo: di ciò fa esperienza lo stesso Pantaleone, il quale, dopo aver visto risuscitare alla sola invocazione del Cristo un bambino morto per il morso di una vipera, si fa battezzare. La guarigione di un cieco, che si era rivolto a lui dopo aver consumato tutte le sue sostanze appresso ad altri medici, induce la conversione alla religione cristiana sia del cieco che del padre del santo.
Alla morte del padre, Pantaleone, distribuito il patrimonio ai servi e ai poveri, diventa il medico di tutti, suscitando per l'esercizio gratuito della professione l'invidia e il risentimento dei colleghi e la conseguente denunzia all'imperatore. Il cieco, chiamato a testimoniare, nell'evidenziare la gratuità e la rapidità della guarigione, nonché l'incapacità e la venalità degli altri medici, fa l'apologia di Cristo contro Asclepio, guadagnandosi perciò il martirio. San Pantaleone fu condannato a morte nel 305, durante le persecuzioni ordinate da Galerio.

Martirio di San Pantaleone

Fu dapprima messo al rogo, ma le fiamme si spensero, poi fu immerso nel piombo fuso, ma il piombo si raffreddò miracolosamente; a questo punto Pantaleone fu gettato in mare con una pietra legata al collo, ma il masso prese a galleggiare; venne condannato ad feras, ma le belve che avrebbero dovuto sbranarlo si misero a fargli le feste; fu poi legato ad una ruota, ma le corde si spezzarono e la ruota andò in frantumi.  Infine gli furono inchiodate le braccia sulla testa, che poi il boia gli mozzò.
Secondo la passio, mantre il santo subiva il martirio, una voce dall'alto cambiò il nome del giovane: “non ti chiamerai più Pantaleone, ma il tuo nome sarà Pantaleimon, perché avrai compassione di molti: tu infatti sarai porto per quelli sballottati dalla tempesta, rifugio degli afflitti, protettore degli oppressi, medico dei malati e persecutore dei demoni”.

S. Panteleimon e S. Ermolao, chiesa della Panagia Olympiotissa, Elassona, XIII sec.

S.Pantaleone, chiesa rupestre di S.Nicola dei Greci, Matera, seconda metà XIII sec.