lunedì 9 maggio 2022

Abbazia di Sant'Elia, Castel Sant'Elia

 Abbazia di Sant'Elia, Castel Sant'Elia


La basilica di Sant'Elia sorge nella valle Suppentonia, subito al di sotto del borgo di Castel Sant'Elia.

La prima testimonianza dell'esistenza di un insediamento monastico in questo sito ricorre in un documento relativo ad una contesa di proprietà datato 5 giugno 557. Nel documento compaiono i nomi dell'abate Anastasio, di Papa Vigilio, che ricompone la controversia, e del generale Belisario.
Il monastero è nominato inoltre nei Dialoghi di Papa Gregorio Magno (590-604). Il fatto che nei Dialoghi non venga menzionato in riferimento al monastero l'ordine benedettino, fa avanzare l'ipotesi che si trattasse di un insediamento legato piuttosto al monachesimo orientale.
I Dialoghi indicano sant'Anastasio come primo abate del monastero. Alla sua morte – tra il 550 e il 577 – gli successe molto probabilmente il suo amico Nonnoso. I corpi dei due santi furono tumulati nella cripta della basilica dove rimasero fino al 602, quando Papa Gregorio Magno li fece nascondere per evitare fossero profanati dai Longobardi.

L'abside vista dall'esterno

La basilica, fondata tra VIII ed il IX secolo, fu poi ricostruita all’inizio dell’XI secolo. Compare per la prima volta nelle fonti scritte nel 1076 in una citazione di Gregorio VII.
I Benedettini rimasero al monastero di Sant’Elia fino al 1256, quando Alessandro IV lo concesse ai Canonici dell’Ospedale di Santo Spirito in Saxia di Roma, possesso confermato dallo stesso pontefice con una bolla del 14 Luglio 1258.
Nel 1260, i canonici di Santo Spirito eressero un nuovo campanile, come attestato da un’epigrafe, già murata sul lato frontale dello stesso, ora giacente nel camposanto sotto le sue rovine.
Nel 1541 la Camera Apostolica vende il “Castrum S. Eliae” a Pierluigi Farnese; in tale data, probabilmente, il monastero non esisteva più, in quanto, di esso, non se ne fa menzione.
Nel 1607 la caduta di un masso dalla rupe danneggiò la parete laterale sinistra: la riparazione fu curata dai Farnese che possedettero la basilica fra il 1540 e il 1649, quando la Basilica di Sant’Elia e i suoi possedimenti, già inclusi nel ducato di Castro, vennero incamerati dal Governo pontificio in pagamento dei debiti contratti da Ranuccio II Farnese.
Nel 1855 precipitò la torre campanaria, devastando una porzione della navata centrale e di quella laterale sinistra, e la cappella dedicata alla Vergine posta a ridosso dell’entrata laterale destra.

Costruita completamente in tufo, la chiesa ha una facciata a doppio spiovente di semplice struttura e che risale all' XI sec. La parte superiore è caratterizzata da tre sezioni rientranti delimitate in alto da archetti pensili. Una lapide ivi apposta ricorda il restauro di Pio IX.

Presenta nella parte superiore la decorazione delle arcatelle pensili ed ospita tre portali: nel portale sinistro sono reimpiegati frammenti marmorei provenienti dall’antico ciborio, anche quello centrale, che ingloba il precedente del X secolo, è stato realizzato con frammenti di marmo; in alto emergono due teste di arieti: quella di sinistra assiste alla negatività delle scene sottostanti, mentre quella di destra è appagata dalla visione benefica.
Il portale destro presenta un affresco raffigurante la Madonna col Bambino sulla lunetta.  


L'interno, in stile romanico, presenta una pianta a tre navate con transetto, il tutto contenuto in un rettangolo sghembo.
Il transetto e parte della navata centrale presentano un pavimento cosmatesco verosimilmente ascrivibile alla fine del XII e più probabilmente ai primi decenni del XIII secolo.

Nella navata sinistra, si trovano lesene, plutei, transenne, alcuni sarcofagi di età imperiale romana, frammenti di epigrafi.
La navata centrale presenta sette archi per lato, sorretti da sei colonne con differenti capitelli corinzi e da due semi colonne terminali.
Le colonne di cipollino e di bigio che delimitano la navata centrale, provengono quasi certamente dallo spoglio di ville e monumenti romani sono corredate da capitelli, pure di spoglio, corinzi a doppio o triplo giro di foglie, dai quali si differenziano i quattro impiegati sui semipilastri in muratura addossati alla controfacciata e all’arco trionfale.


Affreschi

Nella parete di sinistra, al registro sottotetto, intercalata alle due monofore, inizia la teoria dei Profeti nimbati, che prosegue poi sulla parete di fondo e sul transetto destro, decorazione pittorica omogenea e della stessa mano di quella dell’abside, di cui si dirà in seguito.


Profeti nimbati

Al registro inferiore una scena con ampie lacune e non decifrabile, poi due raffigurazioni tratte dal libro dell’Apocalisse: la Donna vestita di Sole e il Drago rosso affrontato da San Michele Arcangelo (1).



Nella parete di fondo, al registro superiore continua la serie dei Profeti nimbati, parzialmente perduta, ai due registri inferiori inizia quella dei Ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse diretti verso l’Agnello che sollevano in alto coppe d’oro velate: avanzano in processione verso l’abside, sollevando in alto le velate coppe d’oro ripiene di profumi.
Al registro inferiore tre riquadri votivi, raffiguranti Santo Stefano, una Santa non riconosciuta e Santa Lucia.


Il catino absidale è dominato nella parte alta dalla figura del Cristo Redentore con al fianco Pietro e Paolo – che mostrano dei cartigli con passi tratti dalle Sacre Scritture - e ai lati Sant’Elia e Sant’Anastasio (l’interpretazione di quest’ultima figura è controversa, secondo alcuni raffigura Mosè, secondo altri San Nonnoso).
Ai piedi del redentore si legge la scritta:

IOH(annes) ET/ STEFANUS/ FR(a)T(re)S PICTORES/ ROMANI/ ET NICO/LAUS NEPU(s) IOHANNIS

Ed è piuttosto raro trovare firmato un affresco di quest'epoca.

I cinque personaggi si muovono su un verde prato disseminato di fiorellini bianchi, al centro del quale, ai lati del Cristo, sgorgano i quattro fiumi dell'Eden (Pison, Ghicon, Tigri e Eufrate, Genesi, II, 11-14) corredati dalle relative iscrizioni.
Chiude il catino una fascia decorativa con fioroni policromi, che corre anche nell’intradosso dell’arco absidale, profilata da strisce rosse: sul bordo superiore è dipinta in bianco un’iscrizione esortativa, con cui si invitano coloro che entrano nella chiesa a guardare per prima la figura del Cristo (Vos qui intratis me primu(m) respiciatis).

Più in basso, sul tamburo, Dodici agnelli in movimento verso l’Agnello di Dio.
Questi, provenienti dalle città paradisiache (Gerusalemme, identificata dall’iscrizione IERUSA/LEM, e Betlemme, perduta insieme agli ultimi tre agnelli sulla destra) si muovono su un fondo giallo scanditi da esili palmizi a gruppi di tre, per la presenza delle monofore, e convergono verso l’Agnello divino.

La finestra di sinistra, è stata tamponata e dipinta con un San Giovanni Battista nel XVI secolo.
Nella parte inferiore è rappresentato un Corteo di sante - due sole riconoscibili dalle iscrizioni: Caterina e Lucia - che portano corone da offrire ad una figura assisa in trono (probabilmente la Vergine), tra i due arcangeli, Michele e Raffaele, di cui rimangono parte della veste in rosso mattone, del braccio e della mano che impugna la croce astile gemmata.
Alla sinistra del trono è raffigurato, come d’uso di ridotte dimensioni, il committente, un monaco benedettino, in prossimità della figura si legge la scritta: [—]EAT [—] [m]O[n]ACHUS PA[—]. 

L'Arcangelo Michele e, in scala molto ridotta, il monaco fondatore della chiesa

Il transetto destro è anch’esso ricoperto di affreschi, realizzati dagli stessi artisti dell’abside, articolati su quattro registri.
Al registro superiore, sia nella parete frontale che in quella destra, prosegue la lunga teoria di Profeti nimbati, nei due registri inferiori la processione dei Ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse diretti verso l’Agnello.
Segue, al registro più in basso, Morte e funerali dell’abate Anastasio e il dolore dei monaci con l’arcangelo Michele che chiama, dopo gli altri monaci, lo stesso Anastasio.

Il transetto destro è anch’esso ricoperto di affreschi, realizzati dagli stessi artisti dell’abside, articolati su quattro registri.

Al registro superiore, sia nella parete frontale che in quella destra, prosegue la lunga teoria di Profeti nimbati, nei due registri inferiori la processione dei Ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse diretti verso l’Agnello.

Il corteo dei 24 Vegliardi 

Segue, al registro più in basso, Morte e funerali dell’abate Anastasio e il dolore dei monaci con l’arcangelo Michele che chiama, dopo gli altri monaci, lo stesso Anastasio.  

Nella parete di destra del transetto sono raffigurate scene tratte dall'Apocalisse.

Il primo riquadro a sinistra contiene momenti diversi della narrazione e cioè l'apparizione del Figliuolo dell'Uomo a Giovanni fra i sette candelabri (I, 12) , poi nuovamente l'evangelista a colloquio con un angelo, evidente allusione agli scritti inviati alle sette chiese, ed infine la visione dell'Anonimo fra i simboli degli evangelisti e con i ventiquattro vegliardi che pregano dopo aver gettato le corone e lasciato i loro troni (IV, 12 e ss.).
Nel secondo riquadro è l'apertura dei primi quattro sigilli (VI, 1-3) ; ma a causa dello stato frammentario vi si scorge solo l'evangelista a colloquio con l'aquila e i primi due cavalieri.

Il sesto sigillo

Nel registro successivo la narrazione continua con l'apertura del sesto sigillo (VI, 12 e ss.) : Giovanni è sempre ripetuto in basso a sinistra, eretto ed impassibile; al centro, ai quattro angoli della terra, rappresentata come un solido informe, quattro angeli trattengono i venti, figurette ignude di gusto classicheggiante, pronte a soffiare nelle lunghe trombe; l'angelo in alto a mezzo busto ordina di attendere che vengano segnati gli eletti del popolo d'Israele. 
Nel secondo riquadro di questo registro, Giovanni questa volta prende parte attiva alla cerimonia alzando la destra nel gesto dell'acclamazione, l'angelo con il turibolo sta presso l'altare d'oro mentre un altro suona la tromba (Poi venne un altro angelo e si fermò presso l’altare, reggendo un incensiere d’oro. Gli furono dati molti profumi, perché li offrisse, insieme alle preghiere di tutti i santi, sull’altare d’oro, posto davanti al trono. E dalla mano dell’angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme alle preghiere dei santi. Poi l’angelo prese l’incensiere, lo riempì del fuoco preso dall’altare e lo gettò sulla terra: ne seguirono tuoni, voci, fulmini e scosse di terremoto. I sette angeli, che avevano le sette trombe, si accinsero a suonarle, VIII, 3-6).

La sesta tromba

Nel primo riquadro del registro più basso sembra di poter riconoscere il flagello della sesta tromba (Diceva al sesto angelo, che aveva la tromba: «Libera i quattro angeli incatenati sul grande fiume Eufrate». Furono liberati i quattro angeli, pronti per l’ora, il giorno, il mese e l’anno, al fine di sterminare un terzo dell’umanità. Il numero delle truppe di cavalleria era duecento milioni; ne intesi il numero. Così vidi nella visione i cavalli e i loro cavalieri: questi avevano corazze di fuoco, di giacinto, di zolfo; le teste dei cavalli erano come teste di leoni e dalla loro bocca uscivano fuoco, fumo e zolfo, IX, 14-17). Nel riquadro si vede Giovanni assistere al galoppo dei tre cavalieri che
travolgono gli uomini, uccidendoli in uno squallido paesaggio chiuso al fondo da fantastici picchi.

Nell'ultimo riquadro è narrata invece la settima calamità, l'apparire della bestia e della Donna vestita di sole (XII, I e ss, per il testo cfr. nota 1). La narrazione proseguiva sulla parete opposta, dove un primo riquadro è perduto, ma in un secondo dopo la battaglia il mostro perseguita la donna, cui però sono state date le ali (vedi sopra). Quattro ulteriori riquadri legati a questo ciclo sono del tutto mancanti. 

I dipinti votivi disseminati lungo le navate e nella parte bassa del transetto sinistro sono invece di epoche più tarde.


La cripta

Si accede alla cripta tramite una ripida scala, aperta nel fondo della navatella destra, che introduce in un ambiente voltato a botte, di forma rettangolare e di piccole dimensioni con un’absidiola ricavata nello spessore di muro della parete di fondo, in cui si apre una finestra centinata un tempo schermata da una transenna in stucco, oggi trafugata.

L'ambiente è precedente all’intero complesso chiesastico, probabilmente è parte del primitivo cenobio, sotto l’intonaco di rivestimento sono emersi i resti di una decorazione ad affresco.
Si accede quindi alla Cripta vera e propria, che si può datare al tardo XI secolo e costituiva parte di una struttura di culto anteriore all’attuale.


La pianta ha la forma di un rettangolo absidato, è suddivisa in sei campate coperte a volta a crociera, oggi intonacate, con pesanti sottarchi che si dipartono dai due sostegni centrali per poi ricadere sui pilastri semicilindrici in muratura sormontati da capitelli, addossati al perimetro dell’ambiente, formando così delle specchiature arcuate sulle pareti.
L’intero ambiente è circondato da un basso sedile in muratura, conservato per tutta la sua estensione, tranne che in un tratto nell’abside.
La muratura è di grandi blocchi di tufo, regolarmente squadrati, con poca malta, dotata di due sole aperture, corrispondenti alla fila inferiore di finestre nell’abside: la meridionale mantiene il suo profilo originale di stretta monofora a feritoia strombata verso l’interno, mentre quella centrale è stata chiaramente ampliata. Nella cripta si trova oggi un altare a cassa indicato come tomba di sant'Anastasio.

 

Note


(1) Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.
Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo. E il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli. (Apocalisse XII,1-9).





domenica 1 maggio 2022

Abbazia di San Clemente, Casauria

Abbazia di San Clemente, Casauria


Secondo il Chronicon Casauriensis - manoscritto compilato intorno alla seconda metà del XII secolo dal monaco Giovanni di Berardo su incarico dell' Abate Leonate - la fondazione dell'abbazia, voluta dall'imperatore e re d'Italia Ludovico II (844-875) quale ex-voto per essere scampato alla congiura del principe longobardo Adelchi ed essere stato liberato dalla prigionia nel ducato di Benevento - risale al settembre 871 e fu inizialmente dedicata alla SS.Trinità. 
Nell'872, su concessione del papa Adriano II, l'imperatore vi fece traslare le reliquie di san Clemente papa e martire (88-97) – martirizzato sotto Traiano - che erano state portate a Roma nell'868 da Cirillo e Metodio. 
Quale fosse la configurazione originaria della chiesa e del complesso abbaziale non è pero noto.
Nel 1176 divenne abate Leonate dei conti di Manuppello (1155-1182), che avviò un ambizioso intervento di ristrutturazione della chiesa che, dopo il sacco saraceno della seconda decade del X secolo e quello del conte normanno di Manoppello Ugo di Malmozzetto (1078) – era andata incontro a una progressiva decadenza. L'abate progettò il portico antistante e l'oratorio soprastante dedicato a san Michele Arcangelo, alla Santa Croce e a Tommaso Becket (che era stato canonizzato nel 1173). I lavori furono terminati sotto il suo successore Giole (1182-1189) che fece anche realizzare la porta bronzea del portale centrale. 
I secoli seguenti videro la progressiva decadenza del cenobio benedettino, non soltanto per cause naturali (ad esempio, per il terremoto del 1348), ma soprattutto a motivo dell’incuria in cui venne abbandonata l’abbazia.

L’edificio è stato ripristinato nei primi decenni del XX secolo sotto la guida di Carlo Ignazio Gavini e, successivamente. alla fine degli anni ’60.

La facciata della chiesa è dunque preceduta da un portico a tre fornici divisi da pilastri rettangolari con colonne addossate su ogni faccia. È coperto da volte a crociera innervate da costoloni prismatici. Fornice centrale a tutto sesto, laterali a sesto acuto. In corrispondenza di questi, tre portali con lunette istoriate. 
I capitelli delle colonne del fornice centrale presentano i Dodici Apostoli, sei per parte. Nel fornice di destra bue di San Luca e aquila di San Giovanni.

Portale centrale

Il portale centrale ha l’archivolto formato da tre archi a ferro di cavallo concentrici e gradualmente rastremanti; nella lunetta rilievo in cinque scomparti: nei due laterali grande rosa, in quello di sinistra sormontata da aquila stringente lepre, in quello centrale San Clemente papa in trono con la destra benedicente e nella sinistra il pastorale, a sinistra San Cornelio Martire con manipolo e san Febo con manipolo e stola, a destra l'Abate Leonate che presenta il modello della chiesa.

particolare dell'architrave

Nel sottostante archistrave sono scolpiti quattro episodi della storia dell'abbazia, in tutti è raffigurato Ludovico II. Da sinistra a destra:
1) a Roma, Papa Adriano II consegna all'imperatore le reliquie di San Clemente;
2) L'imperatore, seguito dal conte Suppone con la spada sguainata, da il beneplacito ai monaci Celso e Beato (1) per trasportare le reliquie dove si sta costruendo l'abbazia;
3) Nella parte destra del rilievo Ludovico II consegna lo scettro all'abate Romano, il primo che resse il monastero;
4) il milite Sisenando e il vescovo di Penne Grimoaldo (871-876) cedono all'imperatore – affiancato dal conte Eribaldo – i diritti sul territorio dell'isola pescariense (qui rappresentato dal cesto di frutta).

Negli stipiti quattro benefattori coronati (probabilmente quattro re d'Italia) a sinistra dall’alto Ugo di Provenza (926-947) e Berengario I (888-924), a destra dall’alto Lotario II (947-950) e Lamberto II (894-898) con in mano un rotolo; le parti della chiesa visibili sopra le loro teste corrispondono probabilmente a quelle che essi concorsero a restaurare. Nei capitelli e sopra le figure dello stipite sinistro sono raffigurati simbolicamente i vizi: Avarizia (uomo con gambe divaricate) e Calunnia (drago che sussurra a un uomo); nel capitello di destra toro cavalcato da figura che si congeda dal male passato, rappresentante la Vittoria della virtù sul vizio.


Ugo di Provenza

Nella lunetta del portale sinistro San Michele Arcangelo uccide il drago. L’imbarcazione sottostante, emersa dallo strato di intonaco durante i lavori di restauro, simbolizza l’ultimo viaggio in cui le anime sono appunto accompagnate dall'arcangelo psicopompo.


Lunetta del portale sinistro

Nella lunetta del portale destro Madonna con Bambino, nell’iconografia dell’hodegetria-protettrice dei viandanti.


Lunetta del portale destro

La parte superiore della facciata, sopra l’attico coronato da cornici e da archetti pensili, presenta quattro bifore, due architravate e due leggermente ogivali, provenienti dall'antico monastero e qui ricollocate nel 1448. 

A sinistra del portico si notano i resti della originaria torre campanaria mentre a destra si trova il convento ricostruito in epoca settecentesca.  


Interno: presenta una pianta a croce latina con bracci del transetto poco sporgenti, tre navate longitudinali divise da sette arcate ogivali su pilastri rettangolari, eccetto il primo e il terzo di sinistra, cruciformi e due con mezze colonne addossate. La navata mediana è illuminata da tre monofore per lato. L’interno si conclude con un transetto sopraelevato e abside semicircolare; copertura a capriate realizzata con mattoni dipinti a losanghe.

Nel presbiterio l'altare maggiore è costituito da un sarcofago romano-cristiano figurato e strigilato (fine IV, inizio V sec.).


Il ciborio di epoca quattrocentesca è sostenuto da quattro colonne che poggiano su una predella con un’iscrizione che ricorda che insieme ai resti di S. Clemente sono conservati nella chiesa anche quelli di SS. Pietro e Paolo (pur dubitando dell’affermazione contenuta sul gradino, si deve comunque ricordare che nel Medioevo l’affermarsi del culto per la Vergine e i Santi, implica come conseguenza che le loro reliquie comincino ad essere spartite ). I capitelli di tre colonne presentano ornamentazioni a palma, il quarto ha invece una composizione di foglie massicce in quattro ordini. Il prospetto (in cui l’arco trilobato presenta ai margini un’Annunciazione) è scandito da sette formelle, con la Vergine fra due angeli in quelle centrali e i simboli dei quattro evangelisti (l'angelo, il leone, l'aquila, il bue) nelle altre. Nell’arco trilobato di sinistra una testa con tre volti (la Trinità), da due dei quali escono Adamo ed Eva: questo lato privo di sculture fu completato ai tempi del restauro del 1920 da Cesare Ventura. Nell’arco di destra due angeli reggono uno stemma. Nella facciata posteriore è invece ripetuta la storia della fondazione dell’abbazia, con gli stessi caratteri che si ritrovano sull’architrave del portale maggiore. Il ciborio costruito, eccetto le colonne, con stucco durissimo termina con una piramide ottagonale. All’interno della cupola spicca, su fondo celeste, un Cristo Pantocrator.


Nella navata sinistra è collocato dal 1931 il sarcofago marmoreo del vescovo di Boiano, Berardo Napoleoni (1364-1390), recuperato dalla chiesa madre di Castiglione a Casauria. E' opera quattrocentesca che ha al centro del lato più lungo della cassa uno stemma araldico( forse dei Brancaccio).

Note

(1) I due monaci non sono affatto figure di secondo piano: Celso era il praepositus (l'amministratore dei beni dell'abbazia) e Beato il secondo abate. Il conte Suppone II, membro dell'influente famiglia dei Supponidi, rappresentava invece la massima autorità civile (simboleggiata dalla spada che impugna) in assenza dell'imperatore.