domenica 13 ottobre 2019

chiesa di S.Andrea di Lavina, Salerno

chiesa di S.Andrea di Lavina (o della Lama), Salerno

Per almeno tre secoli, a causa di un antico documento dell'866, questa chiesa fu confusa con un'altra omonima (oggi scomparsa) che risultava dislocata super porta Radeprandi constructa.
Un altro documento scoperto di recente ha rivelato che la "porta Radeprandi" (o Rateprandi) si trovava nella zona alta della città, all'incirca dove oggi si trova il Museo diocesano (probabilmente si trattava dell'antica Porta Rotese, detta in origine di Radeprandi dal nome proprio di qualche importante personaggio locale). A causa di tale equivoco, la strada davanti all'ingresso della chiesa si chiama ancora via Porta Radeprandi, ed un massiccio arco poco lontano è, da molto tempo, scambiato per la porta stessa.
La chiesa originaria dovrebbe risalire alla committenza del principe Guaimario III (989-1027). Con l’edificazione della basilica e la sua dedicazione all’apostolo Andrea – santo patrono di Amalfi - il principe intendeva probabilmente manifestare agli Amalfitani la sua protezione politica, già espressa in seguito al suo matrimonio con Porpora di Tabellaria. Ma questa chiesa potrebbe essere stata preceduta da un'altra edificata poco dopo la deportazione degli Amalfitani voluta dal duca di Benevento Sicardo dopo la conquista di Amalfi (838) (1).
La chiesa, inizialmente nota come Sant'Andrea della lama (2), sorse infatti nei pressi del quartiere amalfitano, delimitata a nord dalla zona del Plaium montis, a est dalla lama d’acqua, a sud dalla via Marina e ad ovest dal vico di santa Trofimena, dove l’omonima chiesa è attestata fin dal 940.

La chiesa sorge attualmente su un alto basamento prospiciente via della Lama alla quale è raccordato da una gradinata racchiusa da un cancello e si presenta attualmente nella veste conferitagli dalla ristrutturazione settecentesca.


In facciata, un ampio finestrone semicircolare sormonta l’ingresso principale ai cui lati paraste in stucco con capitelli ionici sorreggono un aggettante timpano con eco centrale. All’interno della cornice del portale un’epigrafe, fino a qualche anno fa sormontata dallo stemma della famiglia de Vicariis, di cui rimane la sola impronta, recita: templum hoc aetate vetustum rectore Hieronymo de Vicariis forma fuit elegantiori restauratum anno domini MDCCLXXXVIII.


Nonostante le alterazioni ed i rimaneggiamenti subiti nel corso del tempo è palese come il campanile, datato dal Kalby al XII secolo, con i suoi piani rientranti e il suo tamburo con copertura a calotta, rimandi a modelli architettonici di matrice islamica, ben attestati in costiera amalfitana tra XI e XIII secolo. Il primo ordine del campanile sul suo lato meridionale ha una monofora a tutto sesto, mentre gli ordini superiori presentano monofore a sesto acuto anche sul lato orientale. La cella campanaria, a forma di tamburo con copertura a calotta emisferica, mostra aperture ogivali distribuite a raggiera. il linguaggio decorativo è del tutto assente nelle partizioni architettoniche, mentre vi appare una compatta massa muraria, ricordo dei tozzi campanili altomedievali, come il poco noto campanile del S. Michele di Grottaminarda, in provincia di Avellino. È tuttavia possibile che tale robustezza sia dovuta al fatto che in fondazione vi erano precedenti strutture di edifici in rovina posti presso la lama d’acqua che dava nome alla zona. Secondo alcuni, proprio da questo campanile Ippolito di Pastena estese a Salerno la rivolta contro il governo del viceré spagnolo scatenata a Napoli da Masaniello (1648).

Al suo interno l’edificio, orientato est-ovest, si presenta con le vesti del rifacimento settecentesco con una pianta longitudinale tripartita in modo disomogeneo, terminante con abside centrale semicircolare.
Il muro di fondo dell’abside reca tracce della tamponatura di precedenti finestre che una per lato davano luce all’ambiente; queste risultano ancora aperte secondo una descrizione della chiesa che risale al 1692. La loro chiusura e l’assenza di ulteriori prese di luce deve aver determinato, sul finire del settecento, la inusuale sistemazione dell’ampio finestrone in facciata.


Il muro perimetrale settentrionale presenta due archi ciechi di altezza diversa, in origine separati da una colonnina di cui si è conservata solamente la base. Il primo mostra un subsellium in muratura, il secondo mantiene sulla parete di fondo un affresco settecentesco, dipinto come un finto tabernacolo con scene tratte dalla vita di San Nicola, al di sotto di questo strato il santo appare nuovamente in una ulteriore raffigurazione più antica: l’aureola raggiata a rilievo, mostrata anche dalla santa non riconoscibile che lo affianca sulla sinistra, rimanda a espressioni pittoriche di XIV secolo.


L'asimmetria della pianta (la navata sinistra, attualmente adibita a sacrestia, è molto più stretta di quella destra) fa ipotizzare che la chiesa originaria non avesse l'attuale orientamento est-ovest bensì un inconsueto orientamento nord-sud, con l'abside posta dove ora si trova l'affresco di San Nicola e l'ingresso nella sacrestia, dove attualmente si trova inglobato nella muratura un architrave di epoca imperiale; l'ambiente oggi adibito a sacrestia avrebbe svolto la funzione di nartece.

1.Architrave di recupero; 2.Abside attuale; 3.Parete con l'affresco di san Nicola; 4.Colonna della chiesa originaria successivamente inglobata in un pilastrino.

La decorazione settecentesca della conca absidale

Al di sotto del pavimento della navata centrale nel lato sud, ad una profondità di cinque metri e ottanta è stata rinvenuta un’aula rettangolare absidata di circa quattro metri per sei. Un gradino e una transenna, le cui tracce sono ben evidenti al di sotto del muro perimetrale sud, mentre appaiono residue su quello nord, delimitavano lo spazio liturgico. Il battuto pavimentale della piccola aula appare in pendenza verso ovest nella cui direzione è possibile vi sia stato l’ingresso, non più visibile, poiché l’area è stata completamente devastata dalle successive costruzioni.
Planimetria della chiesa sottostante
 
L’aula rettangolare mostra due fasi costruttive immediatamente susseguenti. All’abside primitiva ne fu addossata dall’interno una seconda che determinò la riduzione della sua ampiezza, mentre sul fronte e ai lati della nuova abside furono ricavate due piccole nicchie semicircolari.

Resti di affresco nell'abside della chiesa sottostante

Dell’affresco dell’abside che vede come colori impiegati l’ocra, il rosso, il blu e il nero, rimangono i due terzi inferiori, poiché la calotta, già distrutta prima del cantiere di XI secolo, fu ulteriormente ridotta per sistemare le nuove strutture di fondazione. Le parti residue delle figure sono attribuibili a quattro angeli alati (gli Arcangeli?), posti due per lato; al centro della composizione si può immaginare una figura stante con i piedi su di un cuscino. Tutte le figure sono sorrette da onde di linee ocra che potrebbero rappresentare le nubi del cielo o le onde del mare, mentre una tratto scuro delimita l’orizzonte terreno dal quale germogliano racemi e fiori. E' stata avanzata l'ipotesi che possa trattarsi di una scena del Paradiso, in quanto secondo l’iconografia medievale le ondine rappresenterebbero il prato e i papaveri che si trovano nell’Eden.
Negli spazi tra l’abside e le nicchie laterali una decorazione a scacchiera fu eseguita con i medesimi colori.
In base ai rapporti stratigrafici delle strutture murarie altomedievali e all’analisi tipologica degli affreschi è possibile datare le due fasi costruttive entrambe al IX secolo, in pieno consolidamento del Principato longobardo di Salerno. Nello specifico i racemi in nero che sollevano rosse corolle rimandano agli analoghi motivi decorativi di area beneventano-volturnense, attestati anche nel materano tra l'VIII e il IX secolo. Il motivo geometrico della decorazione a scacchiera, inoltre, trova stringente confronto con il particolare pittorico della scena dei Santi Cecilia, Urbano e Valeriano nella chiesa ipogea di Santa Maria Assunta di Pago del Vallo di Lauro, in provincia di Avellino, e con l’analogo pilastrino presente nell’episodio dei Santi Zosimo e Maria Egiziaca nella chiesa di S. Maria de Gradellis a Roma, entrambi assegnati al IX secolo.
Intorno al X secolo, forse in seguito a un'alluvione, questo primo edificio fu in parte demolito e adibito a sepolcreto, e su di esso fu costruita una chiesa più ampia, di cui rimangono ancora due delle tre navate, oltre a qualche moncone di affresco raffigurante due santi ed un'iscrizione in greco, che testimonia una possibile diversa frequentazione dell'ambiente.


La planimetria di questo nuovo edificio potrebbe infatti anche essere stata quella di un edificio a due navate (una per il rito latino e l'altra per quello greco-orodosso molto diffuso tra gli amalfitani), una maggiore terminante nella zona absidale e una minore posta a settentrione e alla quale si aveva accesso mediante i varchi precisati dai pilastri e dalle due colonne. L’accesso sul fronte occidentale doveva essere preceduto dall’atrio dove venivano rogati degli atti notarili.

Note:
(1) Sicardo – che fu l'ultimo a regnare prima della divisione del Principato longobardo nei principati di Benevento e di Salerno - deportò gli amalfitani a Salerno con l'intento di sfruttarne la perizia nella costruzione di navi al fine di dotare il ducato longobardo di una marineria mai avuta in precedenza. Gli amalfitani furono insediati in un nuovo quartiere che divenne noto come “Le Fornelle”. Il quartiere aveva una forma planimetrica pressoché quadrangolare ed era delimitato a nord dalla attuale via Torquato Tasso, a sud da via Porta Catena, a est da via Porta Rateprandi e ad ovest dal vicolo S. Trofimena. Inizialmente extra moenia venne successivamente incluso dall'estensione della cinta muraria.

(2) Il toponimo de lavina, con cui la chiesa compare per la prima volta in un documento del 1312, allude alla presenza di un canale di scolo (lavinario) che sfruttava la lama d'acqua che scorreva dinanzi all'edificio.

domenica 6 ottobre 2019

Il Palazzo di Arechi II, Salerno

Il Palazzo di Arechi II, Salerno

Facciata meridionale e campanile della Cappella Palatina

All’indomani della sconfitta di Desiderio, re dei Longobardi, a opera di Carlo Magno nel 774 alle Chiuse di Pavia, Arechi II, duca di Benevento – che aveva sposato Adelperga, una delle figlie del re - assunse il titolo di Princeps gentis langorbadorum, accogliendo nell’area salernitana i profughi della gens langobarda del nord. Nel quadro di un riassetto del ducato beneventano decise anche di spostare la capitale da Benevento a Salerno, che evidentemente giudicava più difendibile dalla minaccia franca.
Ne fece quindi rafforzare le difese e vi fece anche costruire un sontuoso palazzo residenziale che venne edificato in pieno centro cittadino, ribadendo le scelte già fatte dai Longobardi a Pavia e a Benevento.
L'area del Palazzo doveva estendersi dal rione dei Barbuti al Vicolo Pietra del Pesce ed era disposto in senso longitudinale secondo una direzione nord-sud; il lato nord era allineato con l'attuale parete settentrionale della chiesa di San Pietro a Corte; il lato sud doveva coincidere con il vicolo Pietra del Pesce; il lato est era probabilmente poco oltre l'attuale Largo Antica Corte; il lato ovest doveva coincidere con l'allineamento della facciata occidentale della cappella palatina con la via Pietra del Pesce. La parte meridionale era innestata, probabilmente con una torre, sulle mura che affacciavano sulla spiaggia – che all'epoca era molto più vicina al palazzo di quanto lo sia attualmente, dove una scalinata monumentale introduceva al palazzo.


Ciò che rimane del palazzo è ancora leggibile nell'edificio superstite che affianca la chiesa di S. Stefano e nelle arcate sorrette da colonne e capitelli che si affacciano su via della Dogana Vecchia.
Arcate del Palazzo di Arechi II inglobate in nuovi edifici in via della Dogana Vecchia
L'edificio superstite corrisponderebbe alla Cappella Palatina del palazzo di Arechi (1).
I pilastri di fondazione della Cappella Palatina (due centrali affiancati da una serie di semipilastri laterali) poggiano sul frigidarium di un complesso termale romano di età flavio-traianea. L’antico edificio aveva un’altezza di circa 13 metri ed era coperto da volte a botte e volte a crociera ed era illuminato da grandi finestroni. Abbandonato probabilmente a seguito di un alluvione, nei primi secoli dell’età cristiana venne riutilizzato come aula religiosa e area di sepoltura, come testimoniano alcune epigrafi rinvenutevi e databili dal V all’VIII secolo.
Quando Arechi decise di fare erigere il palazzo, rafforzò le strutture romane preesistenti che dovevano sostenere ora il peso di piani superiori e divise in due l'ambiente sottostante erigendo un setto murario. Sulle volte ormai crollate posizionò un solaio che divenne il pavimento della soprastante chiesa, che dedicò ai SS. Pietro e Paolo (oggi nota come San Pietro a corte), decorandolo con splendidi mosaici in tessere marmoree di spoglio, di cui si conservano numerosi frammenti.

Frammento della pavimentazione della cappella palatina

La cappella, a navata unica, terminava originariamente con un abside rettangolare sostituito da uno semicircolare nel corso del rifacimento del 1576 quando venne realizzata anche l'attuale scala d'accesso. Un imponente Titulus dedicatorio – opera di Paolo Diacono - correva lungo i muri interni della chiesa magnificando l'opera del duca. L'iscrizione, di cui sono stati ritrovati alcuni frammenti, era incisa sul marmo su cui si applicavano le lettere di bronzo dorato.
Grazie alla tradizione manoscritta, del testo originario si conoscono i sette versi iniziali:

[Chri]ST[E SALUS UTRIUSQUE DECUS SPES UNICA MUNDI]
[DUC A] GE DUC C[LE]M[ENS ARICHIS PIA SUSCIPE VOTA
PERPETUUMQUE TIBI HAEC CONDAS HABITACULA TEMPLI.
REGNATORI TIBI SUMME DECUS TRINOMINIS ILLE
HEBREAE GENTIS SOLYMIS CONSTRUXIT ASYLUM
PONDERE QUOD FACTUM SIC CIRCUMSEPSIT OBRIZO
DUXIT OPUS NIMIUM VARIIS SCULPTUMQUE FIGURIS
BRAC(TEATIS)…]
(O Cristo, salvezza, Gloria ed unica speranza di entrambi i mondi orsù!,
Guida, indirizza benigno, e accogli i pii voti di Arechi
 e a tua gloria edificherai in eterno questo tempio. 
Per Te, sommo Sovrano, egli ha costruito 
una dimora degna della Gerusalemme ebrea dai tre nomi e,
 una volta portata a termine, l’ha ornata di purissimo oro
 accrescendole enormemente il valore con varie figure bratteate…)
Vi si accedeva originariamente soltanto dal Palazzo per mezzo di una galleria coperta che terminava con un ingresso (oggi murato) che si apriva lungo il lato meridionale della cappella.
La cappella era preceduta da un atrio di cui rimane soltanto il loggiato di cui sono visibili delle bifore con archi in mattoni che poggiano al centro su una colonna con capitello altomedievale e pulvino a stampella.

Il campanile romanico che sorge sul lato nord della chiesa sarebbe stato fatto erigere dal principe Guaimaro II intorno al 920, come testimonia il Chronicon Salernitanum, sebbene recenti scavi abbiano fatto ipotizzare che l’attuale campanile sia di epoca successiva al X secolo. L’altissimo prospetto della facciata occidentale contrasta con il campanile apparentemente sproporzionato, che deve la sua mole ridotta ad un cedimento delle fondazioni verificatosi in fase di costruzione.

La cripta, orientata come la chiesa superiore, in epoca normanna o sveva venne divisa in due ambienti distinti su livelli diversi chiudendo il vano di comunicazione esistente e rafforzando il setto murario arechiano; nell'ambiente più basso si trovano vasche per la preparazione di materiale edilizio, quello più elevato, che venne adibito ad oratorio, si conclude, all’estremità orientale, in un’abside rettangolare con presbiterio delimitato da muretti e fornito di un piccolo altare.
Tre pareti sono decorate da affreschi non riconducibili alla cultura longobarda.


Sul pilastro centrale – fatto erigere da Arechi per sostenere il solaio della cappella soprastante - è presente un affresco raffigurante a destra una Madonna in trono con Bambino e a sinistra Santa Caterina d’Alessandria. L’affresco è databile alla metà del XII secolo. Una semplice fascia bicroma bianca e rossa incornicia la rappresentazione. La Vergine è seduta su un trono composto da schienale, cuscino e suppedaneo decorato con perline bianche ed elementi geometrici. Maria regge nella mano destra una lunga croce astile mentre la sinistra è appoggiata sulla spalla del Figlio. Il Bambino ha nella mano sinistra un rotolo chiuso mentre la destra, mutila, doveva essere benedicente. A sinistra abbiamo Santa Caterina d’Alessandria identificabile dall’iscrizione E KATHER leggibili tra l’aureola e la spalla destra e dall’ampolla con il sangue del martirio. Nella vita di santa Caterina si narra come dopo il martirio per decapitazione della giovane egiziana sgorgasse dalle ossa senza sosta un olio in grado di sanare le malattie. Questa sua caratteristica taumaturgica legherebbe la sua raffigurazione in questa sede alla trasformazione in epoca medioevale di quest'ambiente in aula della Scuola medica salernitana.
Sul muro sud del vano orientale è presente una teoria di Santi databile all’inizio del XIII secolo. L’analisi degli affreschi mostra delle sensibili variazioni rispetto all’affresco sul pilastro; partendo da destra abbiamo la Vergine seduta su un trono con decorazioni che suggeriscono elementi di ricchezza e regalità; la Madonna ha in grembo Gesù che abbraccia la Madre accostando il suo volto a quello di Maria. Questo genere iconografico - caratterizzato dall'abbraccio tra la Vergine ed il Bambino - è definito Madonna Eleusa (misericordiosa). Immediatamente accanto è dipinto San Giacomo, identificabile dall’iscrizione "JAC" alla destra del suo capo. A seguire abbiamo San Pietro, Santa Caterina d’Alessandria e un santo vescovo non identificato.


Sul muro a destra, che separa i due ambienti, sono raffigurati San Giorgio e San Nicola di Myra datati al XIII-XIV secolo. I due Santi sono separati tra di loro da una riga appena leggibile. San Nicola, vestito in abiti vescovili, stringe il pastorale nella mano sinistra mentre la destra è benedicente. San Giorgio, in pessime condizioni di conservazione, è a cavallo con la mano destra sollevata nell’impugnare la lancia verso il basso contro il drago che è andato perso in seguito all’apertura dell’accesso di collegamento dei due ambienti.

Nel 1576 la chiesa superiore subì un considerevole restauro che ne modificò sostanzialmente l'aspetto interno, mentre nel Settecento fu realizzata l'imponente scala d'ingresso che conduce ad un protiro caratterizzato da con un timpano triangolare sostenuto da colonne.
Caduta successivamente in disuso, durante la prima guerra mondiale fu utilizzata come deposito militare finché, nel 1939 fu affidata in concessione alla confraternita di Santo Stefano dall'arcivescovado.


Secondo lo storico dell'arte Antonio Braca queste strutture lignee – oggi conservate nel Victoria and Albert Museum di Londra – che in origine probabilmente sostenevano un pulpito, potrebbero provenire dalla chiesa di San Pietro a Corte. Lo storico dell'arte sostiene, infatti, che le colonne furono acquistate nel 1886 a Napoli presso un certo Pepe. Nel 1914, il Tavenor-Perry, in un suo articolo storico, precisa, nel ritrarle, che le stesse provenivano dalla Cappella Palatina di Salerno.
Altri storici sostengono, tuttavia, la non appartenenza alla Cappella Palatina di Salerno, riconoscendovi, invece, origini siciliane (Negri Arnoldi, Williamson) (2).


Note:
(1) Secondo più recenti ipotesi interpretative, non confermate però da una storiografia certa, indicano l'ambiente di San Pietro a Corte non come Cappella Palatina ma come aula di rappresentanza della Reggia di Arechi II.