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mercoledì 30 novembre 2011

chiesa dei Santi Sergio e Bacco, Costantinopoli

chiesa dei Santi Sergio e Bacco (Küçük Aya Sofya)

abside e lato meridionale

Fu fatta edificare da Giustiniano tra il 527 e il 536 - fu quindi uno dei suoi primi atti di governo - e viene considerata un antecedente di Santa Sofia (il nome turco di Küçük Aya Sofya vuol dire infatti “piccola santa Sofia”).
La chiesa era annessa al palazzo di Ormisda che l'imperatrice Teodora - le cui opere pie sono ricordate in una lunga epigrafe che corre lungo l'architrave sostenuto dal primo ordine di colonne - aveva trasformato in monastero monofisita. L'imperatore e la corte si recavano in processione in questa chiesa il martedì di Pasqua. Pare che nel monastero alloggiassero gli inviati papali e nella chiesa officiasse il clero latino residente in città.


L'involucro interno è a pianta ottagonale e s'impernia su uno spazio circolare centrale definito da quattro coppie di pilastri, all'interno delle quali sorgono altrettante coppie di colonne (tranne che in corrispondenza del bema).
All'altezza della galleria, si ripete lo stesso ordine, con la differenza che i capitelli del primo ordine sono del tipo a "paniere", quelli del secondo ionici; la trabeazione sostenuta dal primo ordine di colonne è orizzontale, su quelle del secondo s'impostano viceversa degli archi.


Il nartece presenta cinque porte di comunicazione con l'interno della chiesa.

Da notare:
- La chiesa fu costruita a incastro tra il palazzo di Ormisda a Nord e la chiesa dei SS.Pietro e Paolo a Sud, da entrambi gli edifici si poteva accedere direttamente tanto al piano inferiore che alla galleria (l'attuale scala d'accesso alla galleria che si vede nel nartece è probabilmente postuma).
- L'irregolarità dell'esecuzione che contrasta con la raffinatezza del progetto, che fa propendere per una differente mano nell'ideazione e nell'esecuzione nonchè per la necessità di adeguarsi alle preesistenti strutture del palazzo di Ormisda e della chiesa dei SS.Pietro e Paolo;
- La cupola che s'imposta direttamente sull'ottagono in assenza dell'elemento di raccordo costituito dai pennacchi, risultando costituita da sedici spicchi alternati lisci, in corrispondenza dei lati dell'ottagono e concavi, in corrispondenza degli angoli.

Fu trasformata in moschea tra il 1506 e il 1512 da Huseyn, aga degli eunuchi bianchi, i cui resti riposano in una turbe vicino alla moschea.
Il portico è invece un'aggiunta di epoca ottomana.

martedì 29 novembre 2011

chiesa del Myrelaion

chiesa del Myrelaion (Bodrum camii)





L'imperatore Romano I Lecapeno (920-944) la fece costruire come cappella annessa alla sua residenza privata - oggi completamente scomparsa - nella IX regione di Costantinopoli, in un luogo  non distante dal Mar di Marmara che veniva detto il posto della mirra (myrelaion) per la vicinanza con il Foro Amastriano dove si vendeva questa essenza, sfruttando le sostruzioni di un edificio preesistente, successivamente adibito a cripta funebre per i membri della famiglia imperiale(bodrum=cantina).
Oltre allo stesso imperatore vi furono tumulati altri cinque membri della sua famiglia: la moglie Teodora ed il primogenito Cristoforo (coimperatore dal 921 al 931), il figlio Costantino con la moglie Elena e la figlia Elena, moglie dell'imperatore Costantino VII.

Esternamente le pareti laterali sono scandite da sei lesene rotonde, costruite con appositi mattoni ricurvi. All'interno - che presenta una pianta a croce greca inscritta (è la prima di questo tipo costruita a Costantinopoli) ed un nartece a forcipe (terminante cioè con due absidiole) - durante il periodo turco, le colonne furono sostituite da quattro pilastri e murate le finestre dell'abside. La cupola è quella originale.
Nella cripta, ove un tempo si trovavano le sepolture dei membri della famiglia Lecapeno e che ripete la pianta della chiesa sovrastante, sono ancora visibili i resti di un affresco di epoca paleologa raffigurante una donna inginocchiata e supplicante ai piedi della Vergine che tiene in braccio il bambino.

la rotonda

A 30 m. dalla chiesa in direz. NO si trovano i resti della rotonda su cui l'imperatore aveva costruito il suo palazzo - trasformato in convento poco dopo la sua ascesa al trono. Anche la rotonda su cui si ergeva il palazzo apparteneva ad un edificio preesistente, Lecapeno ne aveva trasformato una parte in cisterna (forma irregolare, circa 30x30 m.) rinforzandone la volta con 71 colonne.
La chiesa fu danneggiata da un incendio durante il sacco crociato del 1204. Abbandonata durante l'occupazione latina, fu restaurata dopo la riconquista bizantina (1261)
Fu convertita in moschea intorno al 1500 dal Gran Visir Mesih Pasa ed a lui intitolata.
Nel 1993-94 la cisterna fu ristrutturata e adibita a centro commerciale, la foto mostra gli estradossi delle volte prima che la terrazza fosse ricoperta da un pavimento di marmo.




le volte della cisterna

lunedì 28 novembre 2011

chiesa di S.Giovanni in Studion, Costantinopoli

chiesa del monastero di S.Giovanni in Studion (Imrahor camii)


Edificata nel 463, tra la Porta Aurea e il Mar di Marmara, per la committenza del patrizio Studios. Presentava una pianta basilicale a tre navate, divise da due file di 7 colonne che sostengono un'architrave orizzontale. Il sostanziale raccorciamento dell'asse longitudinale le conferisce una pianta quasi quadrangolare (25m, senza l'abside, x 24m), che sembra preludere allo sviluppo centripeto dello spazio che caratterizzerà l'architettura bizantina e la distingue dai coevi impianti basilicali realizzati in Occidente.


Dell'atrio quadrangolare, forse colonnato, che la precedeva, è oggi visibile solo una porzione del muro settentrionale.
Il nartece mostra un'ampia comunicazione tanto con l'atrio quanto con l'interno della chiesa, con quattro colonne con capitelli corinzi che sostengono un'architrave riccamente decorata.


All'interno, sopra le navate laterali e il nartece correva una galleria ad U. L'abside si presenta circolare all'interno e poligonale all'esterno, era illuminato da tre grandi finestroni e provvisto di synthronon.
Il presbiterio aggettava verso l'interno della chiesa su uno stilobate di breccia verde provvisto di ritti di marmo a cui si connettevano i pannelli. Al centro dell'abside una scala introduce alla cripta.
Da notare:
- Gli ingressi aperti ai lati dell'abside in corrispondenza delle navate laterali, legati evidentemente a esigenze liturgiche;
- La pavimentazione ad intarsio di cui rimangono tracce e che risale però ad un epoca successiva alla fondazione della chiesa, probabilmente all' XI-XII sec., giacchè presenta forti somiglianze con quella della chiesa meridionale del complesso del Pantokrator (1118-1124);
Nel XIII secolo la chiesa venne inoltre fatta restaurare da Costantino Paleologo (Porfirogenito), terzogenito di Michele VIII Paleologo (1259-1282);
 

- I mosaici che in origine decoravano l'abside e l'arco trionfale oggi scomparsi;
- L'impiego della muratura a fasce alternate di pietra e mattoni;
- L'uniformità degli elementi marmorei impiegati che indica che questi non provengono da spogli.
- I resti di un fregio di acanti circondato da modanature nella estremità est della chiesa.

Dopo la sua fondazione, il monastero divenne rapidamente il più importante della città (i suoi monaci venivano detti akometoi =non dormienti, i senza sonno).

S.Teodoro Studita raffigurato due volte con a destra la facciata orientale del Monastero di Studion
 in una miniatura del Menologion di Basilio II di Simeone Metafraste, 985
Biblioteca Vaticana
 
facciata orientale
 

Nel 797 – richiamato dall'imperatrice Irene dal suo esilio tessalonicense – divenne igoumeno del monastero di Studion, S.Teodoro, che verrà appunto conosciuto con l'epiteto di studita.
Sotto la sua guida il monastero raggiunse la sua massima espansione arrivando a contare settecento monaci, una scuola ed un ospizio per i forestieri ed i poveri.
Teodoro incentivò anche le attività intellettuali, imponendo ai suoi monaci lo studio della letteratura profana, della filosofia e della teologia. Le miniature e le icone realizzate a Studion resero il monastero famosissimo.
Sulla scorta delle convinzioni del suo igoumeno, il monastero di Studion divenne anche uno dei principali centri di resistenza alla politica iconoclasta

Tra l'815 e l'819, Teodoro fu fatto arrestare tre volte, flagellare ed infine esiliare dall'imperatore Leone V, al cui decreto che proibiva la venerazione delle icone, l'igoumeno si opponeva strenuamente.
Nell'821 fu richiamato dall'esilio, insieme ad altri iconoduli, dal nuovo imperatore Michele II senza però poter fare ritorno al suo monastero. Teodoro, seguito da alcuni monaci studiti, si stabilì allora nell'isola di Prinkipo dove morì nell'826. I suoi resti furono traslati nel Monastero di Studion nell'844.

 Il 20 aprile 1042 vi si rifugiò Michele V detto il Calafato (1041-1042) inseguito dalla folla inferocita per il suo tentativo di deporre l'imperatrice Zoe, che lo aveva adottato ed associato al trono, e rimanere unico imperatore. Raggiunto, fu accecato e castrato nonostante avesse preso i voti monacali. Rimase nel monastero come monaco fino alla sua morte sopraggiunta il 24 agosto dello stesso anno. 

Trasformata in moschea da Ilyas Bey, scudiero (Emir ahir=scudiere corrotto in Imrahor) di Beyazit II (1481-1512) a cui il sultano l'aveva donata, fu danneggiata da un incendio nel XVIII sec. e dal terremoto del 1894.
 

domenica 27 novembre 2011

Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna

Mausoleo di Galla Placidia (425-430)






E' molto dubbio che in questa piccola costruzione a croce latina sia stata sepolta Galla Placidia che, molto più probabilmente fu inumata a Roma (cfr. Mausoleo di Onorio annesso all'antica basilica di S.Pietro); è certa invece la sua destinazione a oratorio dedicato a S.Lorenzo. Originariamente era collegata, tramite un portichetto, all'ardica della vicina chiesa di Santa Croce. 
Nel 1602, per creare l’attuale via Galla Placidia, venne demolita l'ardica ed accorciata la facciata di S. Croce, rendendo così isolato il piccolo sacello di Galla Placidia.


L'esterno si presenta di estrema semplicità e non lascia minimamente immaginare la ricchezza dell'interno.
Raramente, come in questo caso, si percepisce l'immaterialità degli spazi paleocristiani e il reciproco integrarsi di architettura e decorazione musiva. Da notare la volta a botte che si presenta entrando: è di un azzurro profondo, con decorazioni circolari auree e corolle di bianche margherite.
Alle spalle, sopra la porta d'ingresso, il mosaico del Buon Pastore giovane e imberbe, sta a significare che solo attraverso il Cristo si raggiunge la pace eterna.


La cupola presenta una croce d'oro in cielo stellato, ai lati i simboli dei quattro evangelisti.
Da notare l'analogia con la cupola del battistero di S.Giovanni in fonte (Napoli, IV-V sec.), anche in quel caso i 4 animali non hanno tra le zampe (o tra le mani) i libri degli evangelisti.
Questo dovrebbe significare che per l'intero ambiente è sottolineato il connotato simbolico di Gerusalemme celeste, in quanto gli animali sono quelli del Tetramorfo citati dall'Apocalisse.


In basso, nelle lunette del tamburo, gli apostoli in coppia in atto di acclamazione della croce che li sovrasta (la presenza di soli otto apostoli è dovuta all'impostazione architettonica delle lunette che sono bipartite da una finestra centrale; i quattro apostoli mancanti sono probabilmente raffigurati nelle volte a botte dei bracci laterali in mezzo a racemi d'acanto).
Nella lunetta di fronte, San Lorenzo con la croce del martirio sulla spalla destra e il libro dei Salmi nella mano sinistra incede verso la graticola; nella parte sinistra della lunetta si vede un armadietto contenente i quattro Vangeli a simboleggiare la Fede per la quale il santo diede la vita.
Nel sottarco una greca dai vivissimi colori.


Nelle lunette dei bracci laterali due coppie di cervi, tra girali d'acanto, si abbeverano ad una fonte ("come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te o Dio", Salmo 41)



Sarcofagi:
1. Il sarcofago di fronte all'ingresso è considerato quello di Galla Placidia. Presenta un coperchio a doppia ala di tetto con acroteri laterali ed è nudo e rozzo. Secondo una tradizione, l'imperatrice giaceva all'interno assisa su un trono di legno ed era visibile attraverso un foro praticato nella parete posteriore, attraverso il quale nel 1577 alcuni giovani gettarono delle candele che diedero fuoco alla mummia e al trono. E' quindi plausibile che questo corpo sia stato introdotto nel sarcofago tra il XIII e il XIV sec. quando furono falsificate moltissime reliquie. Galla Placidia fu molto più verosimilmente inumata a Roma, nel Mausoleo di Onorio (poi ridedicato nel 737 da  papa Paolo II a S.Petronilla), dove già aveva fatto traslare le spoglie di Teodosio, il figlioletto avuto da Ataulfo (1).

2. Il sarcofago posto sulla sinistra è considerato quello di Costanzo, il generale sposato da Placidia in seconde nozze. Presenta nella fronte un agnello nimbato con il monogramma di Cristo che poggia su una roccia da cui sgorgano i quattro fiumi del Paradiso e affiancato da due agnelli che probabilmente rappresentano due apostoli.


3. Il sarcofago di destra è considerato quello di Valentiniano III o di Onorio, figlio e fratello dell'Augusta. Presenta un coperchio a baule lavorato a squame e nella fronte una edicola centrale con una croce, sui cui bracci laterali poggiano due colombe, e un agnello che appoggia su una roccia da cui sgorgano i quattro fiumi del Paradiso, scena che richiama chiaramente quella del sarcofago di fronte.

 
 
Note:
 
(1) Un'altra ipotesi indica come luogo di sepoltura di Galla Placidia un sarcofago situato all'interno della la cappella di S.Aquilino, nella basilica milanese di S.Lorenzo, che per questa ragione è detta anche cappella della Regina.
Una disamina delle varie ipotesi di attribuzione dei sarcofagi presenti nel mausoleo si trova in Corrado Ricci, Il sepolcro di Galla Placidia in Ravenna. Parte II (la Reggia - le salme), Bollettino d'arte, fasc. XII, 1913.

Repubblica di Ragusa, Introduzione

Repubblica di Ragusa

Possedimenti della Repubblica di Ragusa nel 1806


La città venne fondata col nome di Ragusium nella prima metà del VII secolo ad opera degli abitanti della vicina città di Epidaurum (l'attuale Ragusavecchia o Cavtat) in fuga dalle invasioni degli Slavi e degli Avari.
Secondo un famoso passo di Costantino Porfirogenito:
« Nella lingua dei Romani, la città di Ragusa non è chiamata Ragusa, ma, poiché si trova in cima a dei colli, nell'idioma romano è chiamata lau, "la rupe", sicché gli abitanti sono chiamati "Lausaioi", cioè "quelli che vivono sulla rupe". Ma la volgare consuetudine, che corrompe spesso i nomi alterando le loro lettere, ha mutato questo appellativo, e li chiama "Rausaioi". »
Nel tempo il nome della città venne scritto in vari modi, tutti derivanti dalla stessa radice: Lausa, Labusa, Raugia, Rausia, Rachusa e finalmente Ragusa.

614-1204 (periodo bizantino): successivamente alla sua fondazione, la città entrò sotto la protezione dell'Impero Bizantino ed iniziò a sviluppare un fiorente commercio nell'Adriatico e nel Mar Mediterraneo orientale. Nel XI secolo Ragusa era ormai una florida città mercantile e grazie alla salda alleanza con Ancona riuscì a resistere allo strapotere veneziano in Adriatico e poté svilupparsi ulteriormente come repubblica marinara.

1205-1358 (periodo veneziano): caduta Costantinopoli durante la IV Crociata (1204), la città passò sotto il dominio della Repubblica di Venezia e tale rimase, seppur con brevi interruzioni, fino al 1358. In questo periodo Ragusa mutuò dalla Serenissima il proprio assetto istituzionale.
 
Armi della Repubblica di Ragusa
Loggia interna del Palazzo del Rettore
Ragusa

Approfittando della sconfitta dei Veneziani (1358) per opera dell'Ungheria, Ragusa si sottomise formalmente a quest'ultima in cambio di un tributo annuale, che si pagava sia in termini di denaro che di imbarcazioni, garantendosi tuttavia un'indipendenza di fatto.
Ottenuta in questo modo la libertà i cittadini poterono di nuovo scegliere un proprio assetto istituzionale eleggendo un consiglio cittadino e un proprio senato. Ragusa iniziò a prosperare grazie ad una spiccata attitudine mercantile ed all'abilità dei suoi governanti. Nel giro di pochi decenni la città divenne un primario centro commerciale e culturale e giunse a rivaleggiare con la Serenissima.
Neppure il declino della potenza ungherese (battaglia di Mohács, 1526) riuscì a scalfire la prosperità di Ragusa: la città si diede, così come aveva fatto con gli ungheresi, all'Impero ottomano e preservò ancora una volta, tramite il pagamento di un tributo, la sua sostanziale indipendenza.
Nel 1416 la repubblica di Ragusa fu il primo stato europeo ad abolire la schiavitù e l'uso degli schiavi.
Il 6 aprile 1667 un terribile terremoto rase al suolo gran parte della città facendo 5.000 vittime. Sembra che, a seguito di tale evento catastrofico e del successivo ripopolamento, Ragusa iniziasse a perdere quelle connotazioni culturali latine che l'avevano sempre contraddistinta. Ragusa risorse velocemente dalle macerie dotandosi di un impianto urbanistico moderno grazie all'attività di molti scalpellini, ma la ripresa fu parziale e di breve durata.
Nel 1806 la città venne occupata militarmente dalle truppe napoleoniche al comando del Maresciallo Marmont, e nel 1808 un proclama del Maresciallo - nominato da Napoleone duca di Ragusa - pose fine alla secolare repubblica. L'amministrazione francese la riconobbe inizialmente parte del Regno d'Italia napoleonico e successivamente venne annessa alle Province Illiriche nel 1809.
 
Jean-Baptiste Paulin Guérin, Ritratto del Maresciallo Auguste de Marmont, 1834.
 
Assegnata definitivamente all'Austria con il Congresso di Vienna (1815), Ragusa fu unita alla Provincia della Dalmazia e rimase fino al 1918 (termine della prima guerra mondiale) sotto il dominio diretto degli Asburgo.
Nel 1919 Ragusa divenne parte del neonato Regno di Jugoslavia e nell'aprile 1941 fu occupata militarmente dal Regno d'Italia per un paio di anni.
Nel settembre 1941 Mussolini ne propose l'annessione al Governatorato della Dalmazia (cioè al Regno d'Italia) con la creazione della Provincia di Ragusa di Dalmazia, che però non fu fatta per l'opposizione del croato Ante Pavelić.

Stagno

Stagno (Ston)

L'antica Stagnum venne fondata in una zona paludosa – da cui il nome – in cui furono ricavate le prime saline. Situata in una posizione strategica, alla base della penisola di Sabbioncello, nel medioevo fu sotto il controllo della dinastia serba dei Nemanja che nel 1333 la vendettero alla Repubblica di Ragusa.

Appena acquisito il controllo della regione, la repubblica ragusea iniziò la costruzione di un enorme complesso fortificato: Stagno fu dotata di una cinta muraria pentagonale, al pari della città gemella di Stagno Piccolo, situata sul versante nord della penisola, con il porto rivolto verso la foce del fiume Neretva lungo cui si effettuava il trasporto del sale in Bosnia, che venne racchiusa da una cinta quadrangolare.



Palazzo della Cancelleria, in stile gotico-rinascimentale.

Stagno (Ston) e Stagno piccola (Mali Ston vennero poi collegate da una poderosa muraglia lunga 5,5 km, intervallata da 41 torri (31 quadrangolari e 10 circolari) e sette bastioni (6 circolari e uno quadrangolare). Il sistema fu inoltre rafforzato dall'edificazione di quattro forti.


Castello grande (Veliki Kastio)



Forte S.Bartolomeo, posto a protezione di Stagno grande, a rinforzare le mura sul versante opposto a quello del castello grande.


Forte della Corona (Koruna), a protezione di Stagno piccolo, edificato nel 1447 e provvisto di cinque torri d'avvistamento.


corte interna del forte della Corona

Castello nuovo (Pozvizd), posto alla sommità della collina che sovrasta entrambe le cittadine, completava le fortificazioni.

Con questa notevole opera di architettura militare, cui contribuirono tra gli altri Michelozzo Michelozzi (1461-64), Bernardino da Parma, Giorgio di Matteo il Dalmatico (1465) e Paskoje Miličević (1488-1506), Ragusa ottenne il duplice risultato di proteggere le preziose saline della città (che rappresentavano un terzo del reddito della repubblica) dall'attacco dei Turchi e di impedire alle truppe ottomane di penetrare nella penisola di Sabbioncello via terra attraverso l'istmo.
La città di Stagno appartenne per quasi cinque secoli alla Repubblica di Ragusa, finché quest'ultima non venne dissolta nel 1806. Dopo il Congresso di Vienna passò all'Impero austriaco, che la tenne fino al 1918.



San Polieucto martire

San Polieucto martire

San Polieucto
chiesa del Re, Monastero di Studenica (Serbia), 1313-1320
 

San Polieucto, soldato della XII Legio Fulminata stanziata a Melitene, in Armenia, subì il martirio sotto l'imperatore Decio (249-251) attorno al 250.
Con la promulgazione di un decreto detto del Libellus era stato prescritto a tutti i cittadini romani, sotto pena di morte, di proclamare pubblicamente e attraverso un sacrificio la propria devozione alle divinità romane. Questo dava diritto al Libellus, un certificato che attestava il rispetto degli antichi culti e quindi l'appartenenza a Roma. Polieucto rifiutò di farlo e confessò pubblicamente la sua fede in Cristo. Persistette nella sua scelta anche davanti alle esortazioni del suocero Felice, che era governatore, e della moglie Paolina. Mantenendo la promessa fatta al suo amico Nearco, che lo aveva convertito al Cristianesimo, il Santo si dimostrò fermo nel suo credo e per questo morì decapitato.


sabato 26 novembre 2011

chiesa di S.Polieucto, Costantinopoli

San Polieucto

I resti della chiesa di San Polieucto si trovano a Sarachane, nei pressi del monumento commemorativo del Conquistatore e lungo l'antica Mese, nel quartiere che prendeva il nome dalla presenza del palazzo costantinopolitano di Anicio Olibrio (Ta Olybria).


Fatta edificare una prima volta da Licinia Eudossia - moglie di Valentiniano III - subito dopo il 462. Fu in seguito completamente ricostruita su commissione della nipote Anicia Giuliana, una delle nobildonne più ricche di Costantinopoli, figlia di Placidia - la minore delle due figlie di Valentiniano III e Licinia Eudossia - e Flavio Anicio Olibrio, imperatore d'Occidente per pochi mesi nel 472, a sua volta moglie di Aréobindo console nel 506 sotto Anastasio I (491-518) - circa dieci anni prima di Santa Sofia (524-527), come si deduce dai bolli impressi sui mattoni.
Poche sono le notizie sulla storia tarda della chiesa, sappiamo tuttavia che fino ai primi anni dell’XI secolo era ancora in funzione e in eccellenti condizioni; in seguito, nel corso dello stesso secolo, il complesso sarebbe stato abbandonato, per cadere definitivamente in rovina alla fine del XII secolo ed essere quindi ridotto, soprattutto all’indomani della conquista latina di Costantinopoli (1204), a vera e propria cava di materiali.

Richard Martin Harrison, l'archeologo che diresse gli scavi, ha ricostruito la chiesa come una basilica di pianta all'incirca quadrata, con lato di 52 metri, una navata centrale e due laterali, con un nartece preceduto da un atrio di 26 metri di lunghezza.



A nord dell'atrio sono stati ritrovati resti di un altro edificio, identificato come il battistero della chiesa o con il palazzo di Giuliana.



Era probabilmente sormontata da cupola, come lascia ipotizzare la potenza dei muri di fondazione.
Dall'epigramma* che correva lungo i muri interni - alcuni frammenti del quale sono stati ritrovati e che è pubblicato per intero sull'Antologia palatina - si potrebbe ipotizzare che la cupola centrale fosse sostenuta da due semicupole poggianti su altrettante esedre, il che ne farebbe un antecedente di Santa Sofia: Dai due lati dell'andito centrale, colonne rizzate su colonne incrollabili sostengono i raggi di una cupola dal soffitto dorato, mentre, a destra e a sinistra, dalle incavature che si aprono in archi di cerchio, nasce un chiarore sempre cangiante come quello della luna (Antologia palatina, I,10, vv. 55-59).


elemento di trabeazione con inciso un verso dell'epigramma, la nicchia all'interno è decorata a coda di pavone

Secondo l'epigramma, la chiesa fu progettata come una replica del Tempio di Gerusalemme, con le proporzioni precise del Tempio di Salomone indicate nella Bibbia, utilizzando il cubito reale come unità di misura, come nell'originale.

Ne rimangono le fondazioni e un gran numero di elementi marmorei che presentano un'ampia gamma di motivi decorativi: pavoni che fanno la coda, alberi, racemi, vasi da cui fuoriescono strane forme vegetali.
Le straordinarie invenzioni plastiche create per la chiesa di Anicia Giuliana svolsero un ruolo innovatore, di rottura con il passato, sconvolgendo le tradizionali sintassi compositive e il classico vocabolario ornamentale, anche con esotici apporti sasanidi (C.Barsanti).
Sono stati anche ritrovati pannelli marmorei con busti del Cristo, della Vergine  e degli Apostoli sfigurati nel volto e nelle mani durante il periodo iconoclasta.

La Vergine con il Bambino, Museo archeologico, Istanbul

Alcuni pilastri e capitelli presentano decorazioni vegetali alternate a motivi geometrici del tutto identiche a quelle dei pilastri cosiddetti "acritani" della basilica di San Marco a Venezia. I pilastri, assieme ad altri elementi scultorei, sarebbero stati quindi asportati dai Veneziani da questa chiesa, che si trovava nel settore a loro assegnato, nell'ambito della spoliazione della città operata dai Crociati (1204-1261), epoca a cui risale la distruzione della chiesa.



Placidia, Musée Saint-Raymond di Tolosa


Questa testa marmorea, oggi conservata nel Musée Saint-Raymond di Tolosa, è stata identificata come ritratto di Placidia. Rappresenta una donna patrizia e proviene da Costantinopoli, dove è possibile che si trovasse nell'atrio della Basilica di San Polieucto, insieme ad un'altra statua, il cui busto si trova attualmente nel Metropolitan Museum di New York, che doveva rappresentare la figlia Anicia Giuliana.

Anicia Giuliana, Metropolitan Museum di New York
 
 

*L'epigramma trascritto dai compilatori dell'Antologia Palatina è composto da 76 versi. Secondo Paul Beck (1993) si tratterebbe però di due composizioni poetiche indipendenti: la prima delle quali (vv. 1-41) correva lungo il fregio interno della chiesa mentre la seconda (vv. 42-76) accompagnava i mosaici di un ciclo costantiniano che decoravano le pareti dell'atrio.
 
E scorgerà sulla volta del nartece una grande meraviglia: alcune composizioni sacre, che mostrano come il saggio Costantino, fuggendo gli idoli, spense in sé il fuoco dell'empietà e trovò la luce della Trinità purificando le sue membra nelle acque (vv. 69-73).

Gli studiosi sono concordi nel ritenere che questa descrizione rimandi alla versione leggendaria del battesimo di Costantino a Roma ad opera di papa Silvestro nel 314 anziché a quella storica ad opera di Eusebio di Cesarea in limine vitae dell'imperatore nel 337 a Nicomedia.
Gli Acta Silvestri, un testo agiografico che fu redatto in Occidente sul finire del V secolo come risultato della fusione di leggende eterogenee ed incoerenti tra loro, riportano che Costantino contrasse la lebbra nel corso di un'epidemia che imperversava sulla città di Roma. I sacerdoti di corte (Capitolii Pontifices), raccolti attorno al suo capezzale, sentenziarono che l'imperatore si sarebbe salvato bagnandosi nel sangue caldo di 300 fanciulli. I soldati cominciano a sequestrare i fanciulli ma, dinanzi al pianto delle madri, l'imperatore si commuove e da ordine di rilasciarli.
Durante la notte gli apostoli Pietro e Paolo appaiono in sogno all'imperatore e gli dicono che guarirà dalla lebbra se convocherà il vescovo di Roma Silvestro, rifugiatosi sul monte Soratte, e sradicherà il paganesimo dall’Urbe, rigettando nell’abisso i falsi dei che lo hanno abbandonato.
Silvestro gli impone una settimana di digiuno purificatore, poi lo conduce là dove un tempo sorgeva il tempio dei Dioscuri, tra le mura diroccate ed i marmi corrosi dove ancora sgorga l’acqua sacra della fonte Giuturna. Costantino si immerge per tre volte nelle acque mentre l’eremita lo battezza consacrandone l’anima all’unico vero Dio.
L'espressione dell'epigramma “spegnere il fuoco dell'empietà” costituirebbe un rimando alla guarigione dalla lebbra mentre “fuggire gli idoli” significherebbe il rigetto del paganesimo e l'abbandono delle persecuzioni contro i cristiani (cfr. A.Pizzone, Da Melitene a Costantinopoli: S.Polieucto nella politica dinastica di Giuliana Anicia. Alcune osservazioni in margine ad A.P.I 10, nota 95).

La scelta di ornare l'atrio della chiesa con un ciclo musivo (forse quattro pannelli) dedicato a Costantino il grande corrisponde al tentativo di immettere la dinastia teodosiana – a cui apparteneva Giuliana – nel solco politico-religioso, nonché nella discendenza, tracciato dal primo imperatore cristiano, ribadito anche nell'epigramma : Dopo Costantino che ornò così bene la sua Roma, dopo la santa ed aurea luce di Teodosio, dopo una così lunga serie di antenati imperiali, non ha essa (Giuliana) compiuto un'opera sublime, degna della sua stirpe, e in pochi anni? (vv. 42-45).
La scelta di rappresentare il Battesimo di Costantino secondo la versione divulgata dagli Acta Silvestri, alluderebbe invece esplicitamente non tanto alla sconfitta del paganesimo quanto alla vittoria dell'ortodossia cattolica sancita per la prima volta sotto tutela costantiniana al Concilio di Nicea (325). Giuliana avrebbe rivendicato in questo modo il ruolo di primo piano da lei svolto nel favorire la ricomposizione del cosiddetto scisma acaciano celebrata ufficialmente nel marzo del 519 sotto Giustino I (518-527) (1).


Riguardo la paternità dell'epigramma, in base ad alcune analogie stilistiche con altri epigrammi dell'Antologia Palatina relativi alle fondazioni di Giuliana, C.Connor (1999) ha suggerito che possa essere opera di Anicia Giuliana stessa. In base ad alcuni elementi metrici e stilistici che lo accosterebbero ad alcuni epigrammi di Cristodoro raccolti nel secondo libro dell'Antologia, F.Tissoni (2001) propende invece per attribuirlo a quest'ultimo.

Note:

(1) Una articolata illustrazione della versione del battesimo di Costantino riportata dagli Acta Silvestri è rappresentata in un ciclo di affreschi nell'Oratorio di San Silvestro all'interno del complesso dei Santi Quattro Coronati a Roma. Realizzato nel 1247, molto probabilmente da maestranze bizantine, stranamente il ciclo di affreschi viene sfruttato – come nel caso di S. Polieucto – per sostenere una tesi politica (nella fattispecie, la supremazia del papato sull'impero).
















giovedì 24 novembre 2011

Marcantonio Bragadin

Tracce dei Bragadin a Venezia

Armi dei Bragadin

Palazzo Bragadin


Facciata rinascimentale (XV-XVI sec.) di palazzo Bragadin su calle del Cafetier con il busto di Marcantonio Bragadin affiancato dallo stemma di famiglia. Il palazzo fu acquistato dai Biguglia nel 1824.

Palazzo Bragadin Carabba, nel sestiere di Cannaregio, subito dopo la seconda corte del Milion.

 

La facciata su rio de S.Lio presenta lo stemma dei Bragadin. Ristrutturato da Michele Sanmicheli nel 1542, fu acquistato dai Carabba nel 1807. In questo palazzo visse Marcantonio Bragadin insieme alla consorte Elisabetta Morosini ed ai suoi sei figli.

Monumento funebre


Si trova nella chiesa dei SS.Giovanni e Paolo. Nel 1596 vi fu riposta in un'urna marmorea la pelle del Bragadin trafugata dall'Arsenale di Costantinopoli da Girolamo Polidoro.
L'impianto architettonico è attribuito a Vincenzo Scamozzi. Il chiaroscuro raffigurante la scena del martirio a Giuseppe Alabardi o a Cosimo Piazza. Il busto del Bragadin è invece opera di un allievo di Alessandro Vittoria.

Opere ispirate al supplizio di Marcantonio Bragadin

Martirio di San Bartolomeo

Questo affresco, che si trova nella chiesa romana dedicata ai santi Nereo e Achilleo, realizzato dal Pomarancio sul finire del XVI sec. e raffigurante il martirio di S.Bartolomeo, richiama in realtà il più recente episodio di cronaca del supplizio del Bragadin. La figura sulla sinistra, avvolta dal turbante ottomano costituisce un chiaro riferimento.


La punizione di Marsia, 1571-1576

Anche questo dipinto di Tiziano che raffigura la punizione di Marsia, il sileno che fu condannato da Apollo ad essere scorticato vivo per aver osato sfidare il dio nell'arte della musica  - una delle ultime opere dell'artista  rinvenuta nello studio alla sua morte (1576) e per la quale non è mai stato individuato un committente - secondo Freedberg (1986) sarebbe stata ispirata dal supplizio inflitto a Marcantonio Bragadin. La tela (212x207 cm.) è oggi conservata nel Palazzo arcivescovile di Kromeritz (Repubblica ceca)